Il problema dei 3 corpi: Attraverso continenti e decadi, cinque amici geniali fanno scoperte sconvolgenti mentre le leggi della scienza si sgretolano ed emerge una minaccia esistenziale. Vieni a parlarne su TopManga.

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e ne scelse Dodici Itinerari sacri dove sono sepolti gli apostoli di Gesù

Ultimo Aggiornamento: 21/12/2016 19:12
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  ne scelse dodici

 




ne scelse dodici



Itinerari sacri: dove sono sepolti gli apostoli di Gesù e alcuni loro amici



di Lorenzo Bianchi

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In lettura



















 
Presentazione

Dove sono sepolti gli apostoli di Gesù e alcuni loro amici: 
San Pietro, San Giovanni, San Giacomo il Maggiore, Sant’Andrea, San Tommaso, San Filippo, San Giacomo il Minore, San Bartolomeo, San Matteo, San Simone, San Giuda Taddeo, San Mattia, San Paolo, San Marco, San Luca, San Timoteo, San Tito e San Barnaba.






San Giacomo il Maggiore

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Giacomo detto il Maggiore, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, che i Vangeli e gli Atti degli Apostoli nominano al secondo posto dopo Pietro, o al terzo, dopo Andrea o Giovanni, è presente ai principali miracoli di Gesù, alla Sua trasfigurazione sul monte Tabor e alla Sua agonia nell’orto del Getsemani, alla vigilia della Passione. Di carattere impetuoso, lui e suo fratello sono chiamati da Gesù stesso con l’appellativo di boanergéw (figli del tuono). Fu il primo degli apostoli a subire il martirio, a Gerusalemme, in una data che deve essere collocata tra il 42 e il 44; la notizia è riferita stringatamente da Luca negli Atti degli Apostoli: «In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa, e fece uccidere di spada Giacomo fratello di Giovanni» (At 12, 1-2).

Questo Erode è Erode Agrippa I, nipote del tetrarca Erode Antipa il Grande e amico di Caligola, dal quale viene inviato con il titolo di re in Palestina, dove governerà dal 41 fino al 44, anno della sua morte. Come aggiunge Clemente Alessandrino (citato da Eusebio di Cesarea, 
Storia ecclesiastica, II, 9, 2-3), Giacomo morì decapitato dopo aver convertito il suo accusatore: «Di questo Giacomo, Clemente, nel settimo libro delle Ipotiposi, cita un particolare degno di nota, così come gli pervenne dalla tradizione dei suoi predecessori, e dice che colui che l’aveva condotto al tribunale rimase tanto commosso a vederlo rendere testimonianza, che confessò d’essere anch’egli cristiano».

Non si hanno notizie dell’attività missionaria di Giacomo dal giorno dell’Ascensione di Gesù a quello del martirio; essa si svolse probabilmente tra Giudea e Samaria, anche se una tradizione parla di un suo viaggio in Spagna, dove in seguito perverranno, secondo ancora un’altra tradizione, i suoi resti mortali. Queste due tradizioni sono del tutto indipendenti tra di loro. 

La tradizione dell’apostolato di Giacomo in Spagna appare per la prima volta nella versione latina del testo bizantino del Breviarium Apostolorum. Questa versione risale al VII secolo ed è stata composta fuori dalla Spagna: la frase sulla predicazione di Giacomo in Spagna è un’aggiunta del traduttore che non compare nel testo greco originale. Da questa versione dipende Isidoro di Siviglia (Sulla nascita e sulla morte dei Padri, 71), ancora nel VII secolo, ma anche il passo contenuto nell’opera di Isidoro è un’interpolazione, forse della fine dell’VIII, e dunque risale a qualcuno che ha rielaborato il suo testo.

Altri testi, anche di ambito spagnolo, dal X secolo al XIII rigettano la tradizione della predicazione di Giacomo in Spagna, che invece prenderà piede nel secolo successivo fino a essere inserita nel Martirologio Romano del 1586 dal cardinale Baronio, ma per essere poi successivamente da lui stesso respinta. 

Diversa e molto più salda è invece la tradizione relativa alla presenza del corpo di Giacomo in Spagna. Nonostante l’esistenza di tante e discordanti tradizioni che assegnano sue reliquie, confondendolo a volte con l’omonimo apostolo Giacomo il Minore, a diversi luoghi in Europa (a Roma ad esempio è custodito un braccio ritenuto di Giacomo nella chiesa di San Crisogono in Trastevere, all’interno dell’altare centrale, dove sono anche le reliquie di parte del cranio e del corpo di san Crisogono), quella spagnola è in assoluto la tradizione prevalente.

Non si sa quando, né a opera di chi, le reliquie dell’apostolo sarebbero giunte in Spagna, all’estremità nord-occidentale della penisola, in Galizia, in un luogo chiamato Compostella. Il nome del luogo, che una etimologia ricorrente legata alla narrazione del ritrovamento vorrebbe far derivare da 
campus stellae, deve invece intendersi probabilmente derivato dall’espressione compostum tellus, cioè necropoli. Secondo la tradizione, il sepolcro contenente le spoglie di Giacomo sarebbe stato scoperto al tempo di Carlo Magno, tra l’812 e l’814, da un anacoreta di nome Pelagio in seguito a una visione luminosa. Il vescovo Teodomiro di Iria Flavia, giunto sul posto e aperto il sepolcro, trovò al suo interno i resti dell’apostolo.

La ricerca storica ha stabilito che la scoperta della tomba e la sua identificazione come quella di Giacomo non deriva dalla suggestione della tradizione della sua supposta predicazione in Spagna; si tratta, come si è detto, di due tradizioni del tutto indipendenti e in alcuni testi che le citano entrambe sono riferite addirittura come antitetiche l’una all’altra. Il primo testo che cita il sepolcro in Galizia è il Martirologio di Floro (808-838), al giorno 25 luglio, ripreso alla lettera da quello di Adone (850-860); al X secolo risalgono i primi testi che raccontano la traslazione del corpo di Giacomo, subito dopo il martirio, da Gerusalemme alla Spagna, mentre la descrizione della scoperta del sepolcro e la sua precisa collocazione cronologica al tempo del vescovo Teodomiro di Iria Flavia e del re Alfonso II il Cattolico o il Casto (dunque, come si è detto, tra l’812 e l’814) la si trova ancora più tardi, in un atto del 1077 e poi in testi di fine XI e inizio XII secolo. 

Presso il sepolcro, che le fonti che abbiamo citato descrivono con un’espressione variamente corrotta ma che è stata interpretata in arcis marmoreis (si alluderebbe dunque a un’arca di marmo), quasi da subito inizia la consuetudine del pellegrinaggio, tuttora saldissima. Su di esso viene costruita una prima chiesetta da Alfonso II, ingrandita e abbellita nell’899 da Alfonso III il Grande, distrutta nel 997 (ma senza che il sepolcro sia toccato) e riedificata dal re Vermudo. Sopra di questa, nel 1075 si inizia la costruzione della grandiosa basilica romanica dedicata a Giacomo, portata a termine nel 1128 e tuttora esistente, con aggiunte fino al secolo XIX. 

Se la tradizione del rinvenimento delle reliquie di Giacomo, e in particolare il più tardo racconto della loro traslazione da Gerusalemme, sono stati oggetto di notevoli critiche relativamente al loro valore storico (per tutti valga il nome dell’abate Louis Duchesne), gli scavi archeologici presso la tomba (1878-1879 e 1946-1959) hanno invece confermato quanto le pur tarde fonti affermano relativamente alla descrizione del sepolcro. Il papa Leone XIII, con la bolla Deus omnipotens del 1° novembre 1884, ha dichiarato solennemente l’autenticità delle reliquie conservate a Santiago di Compostella. 






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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  SANT’ANDREA 
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A
ndrea, fratello di Pietro, è l’apostolo dei Greci. Dopo la Pentecoste, la sua predicazione si svolge a Oriente, nella Scizia, regione fra i fiumi Danubio e Don. Riferisce questa notizia Origene (185-225 circa), riportato da Eusebio di Cesarea (Storia ecclesiastica, III, 1): «Quanto agli apostoli e ai discepoli del Salvatore nostro dispersi per tutta la terra, la tradizione riferisce che Tommaso ebbe in sorte la Partia, Andrea la Scizia e Giovanni, vissuto e morto a Efeso, l’Asia».

Ma in seguito Andrea dovette passare nella provincia di Acaia, dove in particolare si svolse, come dice Girolamo, la sua predicazione, e divenne vescovo di Patrasso. Gli Atti apocrifi di Andrea (databili tra la fine del II secolo e l’inizio del III, ma rimaneggiati da numerosi rifacimenti posteriori, e che Eusebio di Cesarea respinge con decisione come eretici) gli attribuiscono anche, prima della definitiva permanenza in Acaia, la predicazione nell’Epiro e nella Tracia; qui, secondo una tradizione bizantina, sarebbe stato il primo vescovo di Bisanzio, la città che con Costantino si trasformerà nella nuova capitale dell’Impero romano, Costantinopoli. 

La Passione di Andrea, antico racconto degli inizi del VI secolo, narra della morte di Andrea a Patrasso, martire verso l’anno 60 (il martirio in realtà avvenne forse qualche anno più tardi) sotto il proconsole romano Egea, che lo condanna al supplizio della crocifissione. Analogamente al fratello Pietro, Andrea secondo il racconto chiede di essere posto sopra una croce diversa da quella di Gesù: una croce decussata, a forma di “X”, che rimarrà la caratteristica principale nell’iconografia dell’apostolo. Anche in questo caso, come per Pietro, la tradizione mantiene con buona probabilità un reale dato storico: si tratta di una modalità di supplizio non ignota al mondo romano. 

La tradizione antica è unanime nel collocare anche la sepoltura di Andrea a Patrasso. Di là, come sappiamo prima da Girolamo (Gli uomini illustri, III, 7, 6) e poi dal Chronicon Paschale della prima metà del VII secolo, nell’anno 357 il corpo di Andrea venne traslato dall’imperatore Costanzo II a Costantinopoli, insieme a quello dell’evangelista Luca, e collocato nell’Apostoleion, la basilica dedicata agli apostoli, dove nell’anno precedente era stato traslato anche il corpo di Timoteo. Da fonti successive sembra doversi dedurre che non tutto il corpo di Andrea sia giunto a Costantinopoli, ma che quasi tutto il capo sia invece rimasto a Patrasso.

È a questo momento cronologico che si richiama la notizia leggendaria della traslazione di parte delle reliquie di Andrea in Scozia (la nazione che ne ha fatto il proprio patrono e ha adottato la croce del suo martirio come emblema della propria bandiera), a Kilrymont (ora Saint Andrews), a opera di san Regolo, generatasi probabilmente a seguito dell’evangelizzazione iniziata nel 597, su impulso di papa Gregorio Magno, a opera del monaco Agostino (sant’Agostino di Canterbury). Custodite secondo la tradizione nella Cattedrale di Sant’Andrea a Edimburgo, queste reliquie comunque scomparvero a seguito della distruzione dell’interno dell’edificio, operata il 14 giugno 1559 dai protestanti. 

All’inizio del XIII secolo le reliquie di Andrea arrivarono in Italia. Le portò ad Amalfi il cardinale Pietro Capuano, legato pontificio di Innocenzo III a seguito della spedizione della IV Crociata, che, invece di raggiungere la Terra Santa, aveva deviato prima per Zara e poi per Costantinopoli, assalita e saccheggiata nell’aprile del 1204.

Pietro Capuano ritornò in Occidente nel 1206 e depositò temporaneamente le reliquie forse a Conca de’ Marini; fece quindi costruire appositamente (come ci dicono le fonti di metà del XIII secolo – in particolare la 
Translatio Corporis sancti Andree de Constantinopoli in Amalphiam di Matteo de Gariofalo – e come recenti rilevamenti hanno confermato) la cripta della Cattedrale di Amalfi e l’8 maggio 1208 vi depositò con tutti gli onori il corpo di Andrea. Dal nucleo delle reliquie venne probabilmente in questa occasione separata una parte di cranio, che venne ritrovata prima nel 1603, durante lavori di trasformazione della cripta, poi nuovamente nel 1846, quando fu sistemata in un reliquiario tuttora visibile. 

Il capo custodito a Patrasso, invece, correndo nel 1460 il pericolo di finire nelle mani dei Turchi che avanzavano nella conquista dell’Acaia, giunse con una solenne cerimonia nel 1462 a Roma, portato su richiesta di papa Pio II da Tommaso Paleologo tiranno di Morea in fuga, ed è stato custodito in San Pietro (nel pilastro detto di Sant’Andrea) fino al giugno del 1964, quando per volontà di Paolo VI è stato restituito in segno di amicizia verso la Chiesa ortodossa al vescovo metropolita di Patrasso, dove ora riposa presso la chiesa dedicata ad Andrea, eretta sul luogo che la tradizione indica come quello del suo martirio.

Sempre Paolo VI donò, nel 1969, una reliquia di Andrea alla Cattedrale di Santa Maria a Edimburgo, dove è venerata insieme a un’altra donata dall’arcivescovo di Amalfi nel 1879, a seguito del ripristino della gerarchia cattolica in Scozia.



SAN TOMMASO 

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Il nome di Tommaso, in aramaico, significa “gemello”, e stesso significato ha l’appellativo greco, Didimo, con cui l’apostolo viene anche indicato. Era un pescatore, come si deduce dall’episodio della pesca miracolosa nel Vangelo di Giovanni (
Gv 21, 2), che di lui parla anche in varie altre occasioni, e in particolare per il famoso episodio dell’incredulità (Gv 20, 24-29): «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”.

Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato, e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto!”» (così al passato è il verbo e indica chi, come Giovanni, il discepolo prediletto, anche prima di vedere Gesù risorto, dai piccoli indizi del sepolcro inizia a credere, cfr. 
Gv 20, 8). 

Secondo una tradizione che risale almeno a Origene (185-255 circa), Tommaso evangelizzò la regione dei Parti, cioè la Siria e la Persia: «Quanto agli apostoli e ai discepoli del Salvatore nostro dispersi per tutta la terra, la tradizione riferisce che Tommaso ebbe in sorte la Partia […]. Tutto questo è riportato testualmente da Origene nel terzo tomo del Commento alla Genesi» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, III, 1, 1.3). Un’altra tradizione, più tarda, che risale a Gregorio Nazianzeno (329-390 circa), attribuisce a Tommaso l’evangelizzazione dell’India, regione dove avrebbe subito il martirio.

Questa tradizione appare accolta anche dagli apocrifi 
Atti di Tommaso, un testo siriaco della metà del III secolo composto probabilmente a Edessa (l’attuale Urfa, oggi in Turchia), che, depurato dalle aggiunte a carattere gnostico con cui ci è giunto, sembrerebbe mantenere un nucleo di notizie attendibili. Secondo questo testo dunque Tommaso giunse fino all’alto corso del fiume Indo, nell’India occidentale, per trasferirsi poi nell’India meridionale, dove morì martire, ucciso a colpi di spada o di lancia, poco lontano da Calamina.

La tradizione è riportata anche nel Martirologio Romano, al 21 di dicembre. Isidoro di Siviglia verso il 636 pone in questo giorno anche la sua sepoltura nella stessa Calamina, città non altrimenti nota ma che probabilmente deve identificarsi con l’odierna Mylapore, sobborgo di Chennai-Madras, dove il luogo del suo martirio è ancora indicato da una croce con iscrizione in antico persiano del VII secolo. Nella locale comunità cristiana, a lungo separata dall’Occidente fino a quando nel 1517 i portoghesi arrivarono in India, si è sempre conservata viva nei secoli la tradizione della propria origine dalla predicazione di Tommaso.

Quello che la popolazione locale identificava ancora con il suo sepolcro (che fu visitato da Marco Polo nel 1292, e di cui recenti considerazioni archeologiche confermerebbero l’antichità), all’arrivo dei portoghesi era da secoli custodito da una famiglia musulmana. Essi vi edificarono sopra una chiesa, dal XIX secolo sostituita dall’attuale chiesa cattedrale intitolata all’apostolo. 

Da questo sepolcro le reliquie di Tommaso, come affermano gli stessi Atti di Tommaso e poi, verso la fine del IV secolo, il siriano sant’Efrem, erano state trafugate e trasferite a Edessa, probabilmente già dal 230 (la tradizione riporta la data precisa del 3 luglio); e lì sono ricordate sia nel 394 che verso il 415, mentre sappiamo che nel 373 vi era stata edificata e dedicata a san Tommaso una grande chiesa. Il 13 dicembre 1144 Edessa subì l’ultima e definitiva conquista musulmana: ma prima di questo avvenimento le reliquie di Tommaso erano state traslate probabilmente nell’isola di Chios.

È da qui infatti che le vediamo pervenire nella cittadina di Ortona in Abruzzo, insieme alla pietra tombale, secondo il racconto che si legge in una pergamena del 22 settembre 1259, un solenne atto pubblico che raccoglie le testimonianze, rese sotto giuramento, degli ortonesi che asportarono da Chios le reliquie di Tommaso. La data che il documento indica per la traslazione è il 6 settembre 1258; essa avvenne a opera di Leone Acciaiuoli, capitano delle tre galee ort
onesi alleate della flotta di Venezia nello scontro contro quella di Genova al largo di Acri. Da allora le reliquie di Tommaso sono custodite nella Concattedrale a lui intitolata. In epoca moderna esse sono state toccate dal fuoco in occasione dell’incendio dei Turchi in Ortona del 1566; dopo quell’episodio più volte hanno subito risistemazioni nel corso dei secoli.

Nel 1984 ne è stata eseguita una ricognizione scientifica; la perizia antropologica ha evidenziato la presenza di numerose ossa con tracce di combustione (conseguenza dell’episodio del 1566), appartenenti a un individuo di sesso maschile, morto in età tra i 50 e i 70 anni, con uno zigomo fratturato da un colpo di fendente affilato, forse causa della sua morte.

Altre poche ossa appartenevano a un secondo individuo, ma la mancanza di tracce di combustione su di esse ha fatto ritenere che siano state aggiunte alle altre dopo l’incendio del 1566. Più recentemente, l’esame della raffigurazione dell’apostolo e dell’iscrizione presenti sulla lastra tombale ha fatto ragionevolmente ipotizzare (secondo le conclusioni che si leggono in un recente studio di Paola Pasquini) una sua collocazione cronologica nel III secolo, e ritenere possibile, se non probabile, la sua provenienza dalla zona di Edessa. 

Secondo una secolare tradizione, anche a Roma, nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, si conserva una reliquia dell’apostolo Tommaso, una falange del dito indice. Un’altra reliquia di Tommaso, donata dalla chiesa di Ortona, è dal 1953 nella chiesa di San Tommaso apostolo a Chennai-Madras. 


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  SAN FILIPPO 
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Filippo, il quinto nella lista degli apostoli, originario di Betsaida, probabilmente parlava il greco. È lui l’apostolo al quale si rivolge Gesù nel miracolo della prima moltiplicazione dei pani e dei pesci (
Gv 6, 5-13); e questo episodio rimarrà caratteristica iconografica (in alternanza alla croce, che indica la modalità del suo martirio) nelle rappresentazioni artistiche della sua figura. La tradizione letteraria più sicura gli attribuisce l’evangelizzazione della Frigia, mentre il Breviario Romano e alcuni martirologi vi aggiungono anche quella della Scizia e della Lidia.

In Frigia visse gli ultimi anni della sua vita, a Ierapoli, dove ebbe la sepoltura. Ne è testimonianza precisa un passo di Policrate, vescovo di Efeso nella seconda metà del II secolo, che nella lettera al papa Vittore scrive: «Filippo, uno dei dodici apostoli, riposa a Hierapolis con due sue figlie che si serbarono vergini tutta la vita, mentre la terza, vissuta nello Spirito Santo, è sepolta a Efeso» (il passo è riportato da Eusebio, 
Storia ecclesiastica, III, 31, 3).
E a conforto di questa notizia, anche i dati archeologici hanno mostrato in questa città le tracce del suo culto fin dalla prima epoca cristiana: infatti un’iscrizione dell’antica necropoli di Ierapoli accenna a una chiesa dedicata all’apostolo Filippo. La sua morte avvenne per martirio, al tempo dell’imperatore Domiziano (81-96), mediante la stessa pena alla quale era stato condannato, molti anni prima, Pietro, e cioè la crocifissione 
inverso capite (a testa in giù), in età sicuramente molto avanzata, che fonti più tarde fissano a ottantasette anni.

Dal VI secolo appare come data del suo martirio, unitamente all’apostolo Giacomo il Minore, il giorno 1° di maggio: ma si tratta in realtà del giorno della dedicazione della chiesa dei Santi Apostoli a Roma, di cui papa Pelagio I (556-561) avviò la costruzione in occasione della traslazione dei corpi dei due apostoli (o almeno di una significativa parte di essi) da Costantinopoli, presumibilmente nel 560, e che papa Giovanni III (561-574) completò forse con l’aiuto economico del viceré bizantino Narsete. Si deve dedurre dunque una precedente traslazione delle reliquie di Filippo da Ierapoli a Costantinopoli, della quale però nessuna documentazione è rimasta.

La tradizione della presenza di significative reliquie di Filippo a Roma è stata confermata da una ricognizione avvenuta nel 1873. Fino a quella data si conservava nella Basilica dei Santi Apostoli un reliquiario contenente, quasi intatto, il suo piede destro (e un altro reliquiario conteneva il femore di Giacomo il Minore), mentre i corpi dei due apostoli erano venerati sotto l’altare centrale. Nello scavare al di sotto di questo, nel gennaio 1873, venne alla luce un conglomerato di calce e mattoni: demolito questo, apparvero in piano due lastre di marmo frigio, unite esattamente fra di loro, che portavano scolpita a rilievo una croce greca (con i bracci uguali), e sotto di esse, perpendicolarmente sotto l’altare, un loculo, nel quale in particolare era una cassetta con alcune ossa, la maggior parte delle quali nello stato di frammenti o di scaglie, alcuni denti e molta sostanza impastata formata da disfacimento di materiale osseo; e inoltre residui di tessuto che in seguito, analizzati, si rivelarono lana con una preziosa coloritura con porpora.

Le analisi sui reperti vennero compiute a opera di una commissione scientifica della quale erano parte anatomopatologi, fisici, chimici e archeologi (tra gli altri, Angelo Secchi, Giovanni Battista De Rossi e Pietro Ercole Visconti), e ne venne redatta e pubblicata una dettagliata relazione. Si poté constatare che le reliquie appartenevano a due distinti individui adulti di sesso maschile: a uno, di corporatura più gracile, le ossa conservatesi integre (in particolare parti di una scapola, di un femore e del cranio) e anche il piede conservato nel reliquiario e attribuito a Filippo; a un secondo invece, di corporatura più robusta, in particolare un molare (si veda più avanti a proposito di Giacomo il Minore).

Non fu invece possibile distinguere fra i due individui tutto il resto dei frammenti, a causa del loro stato di disfacimento. Il contesto archeologico rimandava senza dubbi al VI secolo, e dunque all’edificio costruito da Pelagio I e Giovanni III; dalla ricognizione venne confermata quindi l’esattezza della notizia relativa alla traslazione del 560. La quantità delle reliquie fa ritenere che parte di esse si sia dispersa nelle traslazioni (che furono almeno due per ciascun apostolo) dall’Oriente a Roma.

Nel 1879, dopo un certo periodo di esposizione alla venerazione dei fedeli, le reliquie rinvenute sotto l’altare furono deposte in un’arca di bronzo all’interno di un sarcofago di marmo collocato nella cripta della chiesa, al di sotto del luogo dove erano state trovate. La reliquia del piede fu invece lasciata al di fuori, all’interno di un reliquiario, attualmente non esposto ai fedeli. 
 


SAN GIACOMO IL MINORE 

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S
ono verosimilmente la stessa persona il Giacomo, fratello dell’apostolo Giuda Taddeo, che i Vangeli e gli Atti elencano tra i dodici apostoli chiamandolo figlio di Alfeo, e il Giacomo che altrove gli stessi Vangeli chiamano “fratello” (cioè cugino, secondo la corretta interpretazione del termine ebraico) del Signore, figlio di Maria, una delle donne presenti ai piedi della croce di Gesù, moglie di Cleofa, “sorella” (cioè cognata) della Madonna.

Cleofa e Alfeo potrebbero essere infatti due nomi della stessa persona, o meglio due forme dello stesso nome aramaico. Il Giacomo “fratello” di Gesù è nominato da Paolo come una delle “colonne” della Chiesa, con Pietro e Giovanni, a Gerusalemme, dove fu vescovo dalla partenza di Pietro per Roma (l’anno 44) fino al martirio avvenuto durante la Pasqua del 62.

La Chiesa d’Oriente distingue tuttora tra l’apostolo e il vescovo di Gerusalemme, sulla base di una tradizione introdotta da scritti pseudoclementini (
Ipotiposi, VI) tra la fine del II e l’inizio del III secolo e seguita in particolare da Eusebio di Cesarea e Giovanni Crisostomo, ma non da altri numerosi Padri greci; mentre per la Chiesa d’Occidente il Concilio di Trento ha affermato l’identità dell’uno con l’altro. 

Il martirio di Giacomo, noto dalla notizia di Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche, XX, 197. 199-203), della fine del I secolo, ci viene descritto nei dettagli da Eusebio di Cesarea, che riferisce per esteso in particolare la precedente narrazione di Egesippo (Memorie, 5). Morto il prefetto di Giudea Festo, e mentre era ancora in viaggio da Roma il suo successore designato Albino, il sommo sacerdote Ananos il Giovane approfittò del momento per convocare il sinedrio e condannare Giacomo alla lapidazione. Siamo nell’anno 62.
Giacomo fu gettato giù dal pinnacolo del Tempio e, poiché non era morto, fu lapidato; e poiché, messosi in ginocchio, pregava per coloro che lo stavano lapidando, «uno di loro, un follatore, preso il legno con cui batteva i panni, colpì sulla testa il Giusto, che morì martire in questo modo. Fu quindi sepolto sul luogo, vicino al Tempio, dove si trova ancora il suo monumento» (Egesippo, in Eusebio, 
Storia ecclesiastica, II, 23, 18).

Il suo cippo sepolcrale, secondo la testimonianza di Girolamo, rimase al suo posto fino al tempo dell’imperatore Adriano (117-138); poi se ne dovettero perdere le tracce, se si ha la notizia dell’invenzione (cioè del ritrovamento), verso la metà del IV secolo, del corpo di Giacomo, insieme a quelli dei martiri Simeone e Zaccaria, a opera di un eremita, Epifanio. Il corpo di Giacomo fu temporaneamente traslato dentro Gerusalemme dal vescovo Cirillo il 1° dicembre 351, poi successivamente fu riportato nella chiesa costruita presso il luogo dell’invenzione; infine si ha notizia di una traslazione – ancora il giorno 1° di dicembre – in un’altra chiesa in Gerusalemme, costruita sotto l’imperatore bizantino Giustino II (565-578) e dedicata a Giacomo.

Ma qui le varie notizie si integrano con difficoltà. Si deve infatti collegare con una traslazione di parte delle reliquie da Gerusalemme (o forse da Costantinopoli?) a Roma, l’avvio della costruzione, al tempo di papa Pelagio I (556-561), di una basilica dedicata agli apostoli Giacomo e Filippo, la cui la festa liturgica da allora in Occidente ricorre il 1° maggio (ora spostata al 3 maggio); basilica che fu completata da papa Giovanni III (561-574), e attualmente è intitolata ai santi XII Apostoli. 

Nel gennaio 1873, come si è detto più sopra a proposito dell’apostolo Filippo, venne fatta, a opera di una commissione scientifica, una ricognizione sotto l’altare della chiesa dei Santi XII Apostoli a Roma. Le reliquie appartenevano a due distinti individui.
Quello di corporatura più robusta, del quale si conservavano solo scaglie e frammenti ossei, anche se in quantità consistente, oltre a un femore presente 
ab immemorabili in Basilica, fu identificato con Giacomo il Minore.
Nel 1879 le reliquie furono deposte in un’arca di bronzo all’interno di un sarcofago di marmo che venne collocato nella cripta della chiesa, al di sotto dell’altare centrale e del luogo dove erano state rinvenute; e lì sono anche oggi. La reliquia del femore fu invece collocata in un reliquiario appositamente fabbricato, attualmente non esposto ai fedeli. 

A Santiago di Compostella si venera la reliquia della testa di Giacomo il Minore; secondo una tradizione la portò in Occidente il vescovo di Braga Mauricio Burdino, dopo averla prelevata verso il 1104 da Gerusalemme durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa. Verso il 1116 Urraca, regina di Castiglia e León, se ne impadronì e la donò alla chiesa di Santiago, dove tuttora è custodita in un busto-reliquiario nella cappella dedicata all’apostolo. Ma un altro cranio attribuito a Giacomo il Minore è noto dal Medioevo ad Ancona, ora custodito nel Museo diocesano annesso alla chiesa cattedrale di San Ciriaco: esaminato a seguito della ricognizione delle reliquie conservate a Roma, risultò con esse compatibile. 





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  SAN BARTOLOMEO 

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Sono davvero scarse le notizie sull’apostolo Bartolomeo. Il suo nome, che è un evidente patronimico (in aramaico 
Bar-Talmai significa “figlio di Talmai”), è presente nei Vangeli sinottici e negli Atti degli Apostoli, mentre nel Vangelo di Giovanni appare Natanaele di Cana in Galilea; sono, secondo un’interpretazione condivisa, due nomi della stessa persona, il nome proprio e il patronimico.

Poco si sa della sua vita; Eusebio di Cesarea, riferendo delle attività di apostolato all’epoca dell’imperatore Commodo (180-192), cita tra gli evangelizzatori dell’Oriente il filosofo Panteno, e dice: «Anche Panteno fu uno di loro, e si dice che andò tra gli indiani, dove trovò, come narra la tradizione, presso alcuni del luogo che avevano imparato a conoscere Cristo, che il Vangelo secondo Matteo aveva preceduto la sua venuta: tra loro, infatti, aveva predicato Bartolomeo, uno degli apostoli, che aveva lasciato agli indiani l’opera di Matteo nella scrittura degli ebrei, ed essa si era conservata fino all’epoca in questione» (
Storia ecclesiastica, V, 10, 3).

Dunque Bartolomeo avrebbe predicato in India, ma gli autori antichi sono incerti se intendere i luoghi della predicazione di Bartolomeo come l’India più occidentale, oppure l’Etiopia o anche l’Arabia Felice. La tradizione più ricorrente lo fa martire, dopo un viaggio missionario in Licaonia, Mesopotamia e Partia, in Armenia, ad Albanopoli. Sulla modalità del martirio non c’è uniformità nelle notizie, tutte comunque risalenti ad autori tardi o medievali; così la Chiesa d’Oriente accetta la pena della crocifissione, mentre in Occidente si seguono due diverse tradizioni: quella della decapitazione (ad esempio nel Martirologio di Rabano Mauro), e quella dello scuoiamento, sostenuta da Isidoro di Siviglia e da Beda, che alla fine prevarrà sull’altra nel tardo Medioevo e si affermerà nell’iconografia.

Secondo fonti orientali (Teodoro Lettore) le reliquie di Bartolomeo sarebbero state traslate a opera dell’imperatore bizantino Anastasio I, nel 507, a Darae in Mesopotamia o forse ad Anastasiopoli in Frigia; ma si ha notizia di una precedente traslazione a Maipherqat (Martyropolis, nella provincia di Mesopotamia, attuale Tikrit in Iraq) nel 410, a opera del vescovo Maruthas. Fonti occidentali (Vittore di Capua) le dicono in Frigia nel 546, poi se ne perdono le tracce, finché nel 580 compaiono in Occidente, nell’isola di Lipari.

La notizia della traslazione è riportata da Gregorio di Tours (538-594), descritta con tratti miracolosi (la cassa di piombo con il corpo di Bartolomeo, gettata in mare dai pagani dalla costa d’Asia, cioè l’attuale costa turca sull’Egeo, avrebbe galleggiato fino a Lipari) che tuttavia potrebbero non inficiarne la sostanziale validità; mentre appare sicuramente leggendaria la tradizione locale isolana, che collocherebbe la traslazione al 13 febbraio 264. Dopo le incursioni arabe che nell’838 devastarono l’isola e profanarono le reliquie, il principe longobardo Sicardo le raccolse e le trasferì a Benevento, in una cappella della chiesa cattedrale; e anche in questo caso il racconto evidenzia tratti miracolosi. 

Nel 999 (anche se comunemente si continua a indicare la data del 983) le reliquie furono traslate a Roma per ordine di Ottone III, che le depose nella chiesa di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, da lui edificata originariamente in memoria dell’amico san Adalberto, vescovo di Praga e martire nel 997. La città di Benevento ha però continuato a sostenere, e ancora sostiene, di possedere le reliquie dell’apostolo (o almeno parte di esse): a Ottone III, infatti, sarebbe stato consegnato un altro corpo, quello di san Paolino da Nola, come afferma la Cronaca di Leone Marsicano (scritta attorno al 1098-1101, cioè cento anni dopo il fatto), sull’obiettività della quale però vi sono dubbi. Dal XII secolo, comunque, si afferma la tradizione romana.

Gli scavi archeologici che nel 2006 a Roma hanno portato alla luce, al di sotto dell’attuale chiesa, strutture dell’originario edificio ottoniano, hanno anche evidenziato la presenza, sotto la zona dell’altare, di una profonda e larga cavità rettangolare delimitata da pareti in laterizi, sicuramente un reliquiario. Quando papa Pasquale II, nel 1113, compì cospicui lavori di restauro nella basilica, testimoniati da un’epigrafe coeva tuttora leggibile sull’architrave del portale, le reliquie dovettero certamente essere spostate dalla loro prima collocazione. Al 1156 ci è nota la prima ricognizione delle reliquie, mentre una loro ulteriore risistemazione avvenne poco più tardi, al tempo di Alessandro III (1159-1181); forse già da allora esse si trovavano nella vasca di porfido rosso che tuttora le contiene (si nomina nelle fonti una “concha porfiretica”).

Tra il 1557 e il 1560 le reliquie furono trasferite a San Pietro, a causa dei danni subiti dalla chiesa dopo una disastrosa inondazione del Tevere. Un’altra ricognizione fu compiuta nel 1574, e ne abbiamo la descrizione. Si ha infine notizia di un ulteriore temporaneo spostamento delle reliquie a Santa Maria in Trastevere dal 20 luglio 1798 al 24 agosto 1800, per preservarle dalle manomissioni delle truppe di occupazione francesi. Molta devozione per le reliquie di Bartolomeo ebbero Pio IX, che nel 1852 restaurò la zona absidale e sostituì l’altare centrale sotto al quale tuttora è la vasca di porfido con le reliquie, e più recentemente Giovanni XXIII. 

Sebbene la ricerca storica sia generalmente orientata a riconoscere l’avvenuta traslazione a opera di Ottone III, reliquie di Bartolomeo continuano a venerarsi allo stesso tempo anche a Benevento, da dove, secondo la tradizione locale, non si sarebbero mai mosse.
Le si indicano in un’urna di porfido sotto l’altare maggiore della rinnovata Basilica di San Bartolomeo, dove furono traslate solennemente da una precedente vicina sistemazione l’8 maggio 1729 da papa Benedetto XIII (Vincenzo Maria Orsini), che da arcivescovo di Benevento nel 1698 ne aveva compiuto la ricognizione canonica.
Una nuova ricognizione è stata compiuta recentemente, il 27 marzo 2001, su disposizione dell’arcivescovo di Benevento monsignor Serafino Sprovieri: si è constatato che l’urna di porfido contiene numerosi piccoli frammenti ossei di uno scheletro divisi in ampolle, nelle quali furono sistemati a seguito della precedente ricognizione della fine del Seicento.
 





SAN MATTEO Apostolo ed evangelista

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Matteo o Levi, come anche viene chiamato nei Vangeli, era un pubblicano, un impiegato (
portitor) esattore delle imposte in Cafarnao. Alla chiamata di Gesù si alza di colpo, lascia tutto e lo segue. Della sua vita si sa pochissimo. Viene citato negli Atti degli Apostoli subito dopo l’Ascensione al cielo di Gesù, e nel momento dell’elezione di Mattia al posto di Giuda Iscariota.

È uno dei quattro evangelisti: la tradizione della Chiesa, a partire da Papia vescovo di Ierapoli in Frigia verso l’anno 130, è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo, ritenuto il più antico, e dagli studiosi datato (a seconda dell’interpretazione di quanto afferma Ireneo relativamente a esso) o tra il 42 e il 44 o tra il 61 e il 67 (e in quest’ultimo caso sarebbe posteriore al Vangelo di Marco, che, se a esso appartiene il famoso frammento 7Q5 di Qumran, risulterebbe scritto prima dell’anno 50).

La testimonianza di Papia ci è riportata da Eusebio di Cesarea: «Matteo raccolse quindi i detti (del Signore) nella lingua degli ebrei, traducendoli ognuno come poteva» (
Storia ecclesiastica, III, 39, 16). Anche quella di Ireneo ci è trasmessa da Eusebio: «Matteo pubblicò tra gli ebrei, nella loro lingua, anche un Vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo predicavano a Roma e vi fondavano la Chiesa» (Storia ecclesiastica, V, 8, 2).

E scrive ancora lo stesso Eusebio: «Di tutti coloro (gli apostoli e i discepoli che frequentarono il Signore), però, solamente Matteo e Giovanni ci hanno lasciato degli appunti, e anche questi si dice che li scrissero per necessità. Matteo infatti, che predicò in un primo tempo agli ebrei, quando dovette andare anche presso altri mise per iscritto nella madre lingua il Vangelo per i fedeli che lasciava, sostituendo così con la scrittura la sua presenza» (
Storia ecclesiastica, III, 24, 5-6).

Dunque, mentre gli altri tre Vangeli sono scritti in greco, quello di Matteo è scritto nella sua lingua materna, quasi sicuramente in aramaico, la lingua che allora si parlava in Palestina. E agli ebrei si rivolge la sua prima predicazione. Non possediamo più la versione originale del Vangelo di Matteo, ma solo la sua traduzione in greco; una tradizione riporta che al tempo dell’imperatore bizantino Zenone (474-491), quando a Cipro fu ritrovata dall’arcivescovo Anthemios la tomba di Barnaba, sul suo petto si trovò anche il Vangelo di Matteo scritto di sua mano, che venne poi donato all’imperatore.

Vari sono i luoghi di predicazione attribuiti a Matteo: Siria, Macedonia, Irlanda; ma la tradizione antica più consistente riporta la notizia della predicazione di Matteo in Etiopia (cioè nella Colchide, sul Ponto Eusino), accolta anche nel Martirologio Romano che indica lì anche il suo martirio, ricordato nel giorno 21 di settembre. Nello stesso giorno invece il Martirologio geronimiano indica il martirio di Matteo in Persia, a Tarrium, città che però altrove viene indicata in Etiopia: dunque non ci sarebbe contraddizione tra le fonti. Secondo le passioni apocrife e la 
Leggenda aurea, il martirio di Matteo sarebbe avvenuto di spada mentre celebrava la messa.

Esiste poi anche un’altra tradizione minore, riportata da Clemente Alessandrino, che parla per Matteo di morte naturale. Se ignota è comunque la data della sua morte, ignota è anche l’occasione in cui il corpo di Matteo venne traslato in Occidente: una tradizione leggendaria pone questo avvenimento verso il 370 a opera di marinai che lo avrebbero portato dalle coste etiopiche a Velia. Di qui, dopo che la cittadina fu conquistata dei Saraceni nel 412, sarebbe stato trasferito e nascosto in Lucania, in una località detta 
ad duo flumina presso Casalvelino.

Il Martirologio Romano ricorda al 6 di maggio l’arrivo del corpo di Matteo a Salerno dalla Lucania: ve lo avrebbe portato, in quel giorno dell’anno 954, il re longobardo Gisulfo I (946-977). Questa tradizione risale al 
Chronicon Salernitanum, redatto da un anonimo cronista nel monastero di San Benedetto a Salerno nel 978, e ad altri due testi medievali che con esso concordano. A Salerno le reliquie, di cui si era persa notizia per più di un secolo, furono nuovamente ritrovate nel 1080 e poste nella cripta della Cattedrale consacrata da papa Gregorio VII, dove tuttora riposano.

La data del 1080 è storicamente attestata dalla lettera che il 18 settembre di quell’anno il Papa scrisse all’arcivescovo di Salerno Alfano, in cui viene menzionato il ritrovamento. Reliquie minori di Matteo sono note anche a Roma. Una, portata a Roma dal futuro papa Vittore III nel 1050 in dono a Cencio Frangipane, era in un reliquiario d’argento (ora vuoto) che fu trovato durante una ricognizione nel maggio 1924 nel pozzetto sotto l’altare della cripta della chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Si ritiene poi che una parte di un braccio di Matteo si trovi in Santa Maria Maggiore, portatavi probabilmente come dono da papa Paolo V (1605-1621). 




SAN SIMONE 

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Le notizie pervenuteci su Simone ci attestano un appellativo, che Vangeli e Atti degli Apostoli riportano in due diverse forme (“cananeo” e “zelota”), entrambe dal significato di “ardente di zelo”. L’errata interpretazione del termine “cananeo” ha fatto sì che la Chiesa orientale lo abbia identificato con Natanaele di Cana, nome invece da riferirsi all’apostolo Bartolomeo.

Alcuni hanno invece voluto attribuire all’appellativo “zelota” un valore indicativo dell’appartenenza alla setta politico-religiosa antiromana degli Zeloti, ma si tratta di un’ipotesi che non riceve alcuna conferma dai testi antichi, sia canonici che apocrifi. Un’interpretazione che già appare nell’antichità, nella Chiesa abissina, lo identifica invece con Simeone figlio di Cleofa, cugino di Gesù e fratello dell’apostolo Giacomo il Minore, al quale succedette nel 62 nella guida della Chiesa di Gerusalemme, fino alla morte che avvenne sotto l’imperatore Traiano.

Così viene descritto il martirio da Egesippo, vissuto nel II secolo e citato da Eusebio di Cesarea (
Storia ecclesiastica, III, 32, 3. 6): «Alcuni di questi eretici accusarono Simeone, figlio di Cleofa, di essere discendente di Davide e cristiano; egli subì così il martirio, all’età di centoventi anni, sotto Traiano Cesare e il consolare Attico. […] il figlio dello zio del Signore, il suddetto Simeone figlio di Cleofa, fu denunciato dagli eretici e giudicato anch’egli per lo stesso motivo, sotto il consolare Attico. Torturato per molti giorni, testimoniò la sua fede in modo tale, che tutti, compreso il consolare, si stupirono di come un uomo di centoventi anni potesse resistere tanto; e fu condannato alla crocifissione». La menzione di Attico, cioè Tiberio Claudio Attico Erode, legato di Giudea dal 100 al 103, pone il martirio di Simeone ai primi anni del regno di Traiano, a Pella in Palestina, come si deduce ancora da Eusebio di Cesarea (Storia ecclesiastica, III, 5, 3). 

È invece evidentemente un’altra persona il Simone che, secondo la tradizione del Breviario Romano, predicò in Egitto e, insieme all’apostolo Giuda Taddeo, in Mesopotamia. I due apostoli figurano insieme anche nella notizia di san Fortunato, vescovo di Poitiers alla fine del VI secolo, che, riprendendo l’apocrifa Passio Simonis et Iudae, indica per entrambi il martirio comune (uccisi a bastonate) verso l’anno 70 a opera di pagani in Persia, nella città di Suanir (probabilmente nella Colchide); e la loro sepoltura sarebbe stata in Babilonia.

Altre tradizioni nominano per il martirio le vicine regioni dell’Armenia e dell’Iberia caucasica; mentre una tarda tradizione orientale (affermata dal monaco Epifane, IX secolo) conosce una tomba di Simone a Nicopsis, nel Caucaso occidentale. Insomma, l’area geografica indicata dalle diverse tradizioni sembra essere comunque abbastanza circoscritta. 

Per quanto riguarda la modalità del martirio, si innesta nella tradizione occidentale (quella cioè che accomuna nel martirio Simone e Giuda Taddeo) l’influsso della medievale Leggenda aurea di Iacopo da Varagine, e a Simone viene attribuito lo stesso martirio subito dal profeta Isaia, così che egli viene spesso rappresentato segato in due. 

Nel Medioevo le reliquie di Simone, sempre unito a Giuda Taddeo, erano venerate nella antica Basilica di San Pietro in Vaticano, nella quale esisteva un altare a loro dedicato. Dal 27 ottobre 1605 sono collocate presso l’altare al centro dell’abside del transetto sinistro della nuova Basilica (tribuna dei Santi Apostoli Simone e Giuda), che nel 1963 è stato dedicato a san Giuseppe patrono della Chiesa universale. 
 


SAN GIUDA TADDEO 

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All’apostolo Giuda detto Taddeo, che significa “magnanimo”, o, secondo alcuni codici, Lebbeo, cioè “coraggioso”, o ancora, come Simone, Zelota, “ardente di zelo”, figlio di Cleofa, fratello di Giacomo e di Simeone (che, come si è visto, una tradizione identificherebbe con l’apostolo Simone) e cugino del Signore, è attribuita l’ultima delle lettere cattoliche nel canone del Nuovo Testamento. Scarsissime sono le notizie sulla sua vita.

Una tradizione gli assegna attività di apostolato in Palestina e nelle regioni vicine; gli scrittori siri affermano il suo martirio ad Arado, presso Beirut. Dalla confusione con Addai, evangelizzatore della Siria mesopotamica discepolo dell’apostolo Tommaso e uno dei settantadue di cui parla in Vangelo di Luca, nasce invece un’altra tradizione che assegna a Giuda Taddeo una morte naturale a Edessa (oggi Urfa, in Turchia), capitale dell’Osroene, regno situato nella Mesopotamia nord-occidentale; confusione la cui origine è forse da ricercarsi nel racconto dai tratti leggendari riportato da Eusebio di Cesarea (Storia ecclesiastica, I, 13), che narra la guarigione del re dell’Osroene Abgar V e il suo accoglimento dell’annuncio della salvezza. 

Ma la tradizione che più si afferma è quella che unisce Giuda Taddeo all’altro apostolo Simone lo Zelota, insieme al quale, secondo il Breviario Romano, predicò in Mesopotamia. La Passio Simonis et Iudae indica per entrambi, come si è già detto, il martirio comune in Persia, nella città di Suanir (probabilmente nella Colchide), verso l’anno 70, a colpi di bastone, e la sepoltura in Babilonia. Si ha notizia della venerazione delle reliquie di Giuda Taddeo a Reims e a Tolosa in Francia; ma nel Medioevo esse si trovano a Roma, insieme a quelle di Simone, nella antica Basilica di San Pietro in Vaticano, nella quale esisteva un altare a loro dedicato. Nella nuova Basilica, dal 27 ottobre 1605 sono collocate presso l’altare al centro dell’abside del transetto sinistro (tribuna dei Santi Apostoli Simone e Giuda), dal 1963 dedicato a san Giuseppe patrono della Chiesa universale. 






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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01/12/2016 21:25
 
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SAN MATTIA 


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Mattia è l’apostolo associato agli undici dopo la Pasqua, in sostituzione di Giuda, che aveva tradito Gesù. Della sua scelta, avvenuta a sorte tra lui e Giuseppe detto Barsabba, soprannominato Giusto, si legge negli Atti degli Apostoli (
At 1, 15-26). Era di origine giudaica e aveva seguito Gesù fin dall’inizio della sua predicazione: probabilmente era uno dei settantadue discepoli di cui si parla nel Vangelo di Luca (Lc 10, 1), come pensa Eusebio di Cesarea: «Si racconta anche che Mattia, che fu aggregato al gruppo degli apostoli al posto di Giuda, e anche il suo compagno che ebbe l’onore di simile candidatura, furono giudicati degni della stessa scelta fra i settanta» (Storia ecclesiastica, I, 12, 3).
 

Della sua vita, a parte l’episodio riportato dagli Atti degli Apostoli, nulla di certo si conosce. Una tradizione, riportata da Clemente Alessandrino che cita Eracleone, lo fa morire di morte naturale; una seconda (Niceforo Callisto) lo dice martire (crocifisso) e sepolto in Etiopia: ma la regione così denominata sarebbe in realtà il Ponto Eusino, dove si sarebbe recato dopo un primo periodo di predicazione in Giudea; una terza invece (Breviario Romano, Martirologio di Floro) ne afferma il martirio, dopo la predicazione in Macedonia e poi in Palestina, proprio in quest’ultima regione in quanto nemico della legge mosaica, lapidato da ebrei e finito da un soldato romano che gli avrebbe tagliato la testa con un colpo di scure, strumento che appare spesso nelle raffigurazioni dell’apostolo, soprattutto nella Chiesa d’Oriente.
 

Una tarda tradizione vuole che il corpo di Mattia sia stato ritrovato nel 325 da Elena, madre di Costantino, a Gerusalemme, e di lì trasportato a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dove fonti medievali e rinascimentali (la Leggenda Aurea di Iacopo da Varagine, e Onofrio Panvinio) lo danno presente nell’urna di porfido sotto l’altare maggiore, insieme alle reliquie di san Girolamo; mentre la testa, separata, era custodita in un reliquiario.

Anche gli 
Annali di Treviri (Trier in Germania) dell’anno 754 (ma la loro redazione è di molto più tarda) conoscono la sepoltura di Mattia a Gerusalemme; e proprio a Treviri un’aggiunta posteriore agli Atti apocrifi di Mattia fa giungere il corpo dell’apostolo direttamente da Gerusalemme. Una terza tradizione cerca di conciliare le prime due, parlando di una traslazione da Gerusalemme a Treviri con tappa a Roma.

A Treviri il corpo di Mattia venne ritrovato nel 1127 durante la ricostruzione della Basilica (ora a lui intitolata) collegata all’adiacente convento benedettino, e lì, nel mezzo della navata centrale, tuttora si mostra il suo sepolcro, nel luogo dove allora fu collocato. Altre reliquie che una tradizione medievale attribuisce all’apostolo sono infine conservate nella Basilica di Santa Giustina a Padova, ma recentissime indagini scientifiche sembrano escludere tale attribuzione.

 

SAN PAOLO 
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Paolo (Saulo), ebreo di Tarso in Cilicia e cittadino romano, chiamato da Gesù tra gli apostoli mentre si sta recando a Damasco per organizzare la persecuzione contro i cristiani, è sepolto a Roma. Nella capitale dell’Impero era giunto nella primavera del 61, prigioniero, per essere sottoposto al giudizio di Nerone al qu
ale si era appellato, in quanto cittadino romano, dopo l’arresto avvenuto a Gerusalemme nel 58, accusato da alcuni giudei di avere oltraggiato la legge di Mosè.

Il viaggio di Paolo è descritto da Luca, che lo accompagnò, negli Atti degli Apostoli (
At 27, 1-44): per nave a Malta, toccando prima le isole di Cipro e di Creta, poi a Siracusa, Reggio, Pozzuoli, quindi lungo la via Appia a Forum Appi (presso Terracina) e alle Tres Tabernae (Pizzo Cardinale, a pochi chilometri dall’attuale Cisterna), località presso le quali gli vennero incontro i cristiani di Roma, per giungere infine nell’Urbe. Qui rimase sotto custodia militaris (cioè libero di abitare in casa propria ma sotto la sorveglianza di un soldato) in attesa del processo, che non avvenne verosimilmente perché i suoi accusatori non si presentarono a Roma. Una tradizione indica come abitazione di Paolo un edificio presso il Tevere, dove ora sorge la chiesa di San Paolo alla Regola (qui le indagini archeologiche hanno finora attestato strutture romane della fine del I secolo d.C.); e si è voluta indicare un’altra successiva dimora dell’apostolo presso la domus di Aquila e Prisca, sull’Aventino, nel luogo dove ora sorge la chiesa dedicata a santa Prisca.

Liberato dalla prigionia, forse Paolo non era più a Roma nel 64, l’anno di inizio della persecuzione neroniana. Vi tornò però subito dopo, di nuovo prigioniero e questa volta trattenuto in carcere, nel 66 o nel 67, anno in cui subì il processo e il martirio per decapitazione. Il passo di papa Clemente, già citato a proposito di Pietro, fa intuire che l’arresto di Paolo e la sua condanna avvennero per denuncia di cristiani; e alcune parole rivolte a Timoteo testimoniano del suo abbandono e della sua solitudine: «Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica» (
2Tm 4, 10); «Solo Luca è con me» (2 Tm 4, 11); «Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro» (2 Tm4, 16). 

Varie tradizioni accomunano Pietro e Paolo nelle circostanze del martirio: dalla loro comune detenzione nel Carcere Mamertino a quella del loro ultimo incontro lungo la via Ostiense, poco fuori di Roma; anche se, come già detto, gli studi più recenti e accettati tendono a collocare in anni differenti il martirio di Pietro e quello di Paolo. È però costante e molto antica la tradizione, risalente al II secolo, che pone il martirio di Paolo nel luogo detto Ad Aquas Salvias, subito fuori dall’abitato cittadino, dove indagini archeologiche della fine del XIX secolo hanno attestato testimonianze risalenti al I secolo, e dove nel V secolo venne edificata la chiesa di San Paolo Ad Tres fontes, attualmente compresa nell’abbazia delle Tre Fontane.

La sua sepoltura avvenne invece in un’area cimiteriale lungo la via Ostiense, in un podere, secondo la tradizione, di proprietà di una certa Lucina (
praedium Lucinae); ci è testimoniata per la prima volta dal passo di Gaio, già citato a proposito di Pietro, che alla fine del II secolo, al tempo del pontificato di papa Zefirino (198-217), dice: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli. Se vorrai recarti sul Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa» (in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, II, 25, 6-7). Giova ancora qui ripetere che, utilizzando la parola greca trópaion, Gaio non vuole alludere primariamente alla struttura architettonica, che dovette senz’altro esserci, ma, in senso proprio, al suo contenuto, cioè al corpo del martire, nel quale si è mostrata la vittoria di Cristo: è questo il “trofeo della vittoria”.

Tracce di parte della necropoli dove fu sepolto Paolo, sviluppatasi dal I secolo a.C. fino a tutto il IV secolo, riportate alla luce e recintate, sono tuttora visibili lungo la via Ostiense, presso l’attuale basilica di San Paolo. Il 
Liber pontificalis, in cui sono raccolte le biografie dei vescovi di Roma fino al tardo Medioevo, ci informa che Costantino edificò sul sepolcro di Paolo una Basilica, che dunque deve datarsi agli anni precedenti al 337, anno della morte di Costantino. Di questa prima costruzione non sono state ritrovate tracce sicure, nonostante alcune ipotesi anche recentemente riproposte a proposito di una piccola abside (che a rigor di logica potrebbe essere pertinente a un qualsiasi mausoleo della necropoli in cui avvenne la sepoltura di Paolo) emersa di fronte all’altare della Basilica durante scavi nel 1850, che testimonierebbe un edificio molto più piccolo dell’attuale e con orientamento opposto.

Verso il 384-386 i tre imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio in un rescritto al 
praefectus UrbiSallustio prescrissero di decorare (ornare), ampliare (amplificare) e innalzare, o meglio far più grande e magnifica (attollere) la chiesa costruita sulla tomba dell’apostolo, in funzione anche della notevole quantità dei pellegrini. Ne risultò una Basilica a cinque navate, di notevole grandezza, con un transetto larghissimo. Questa Basilica rimase grosso modo intatta fino al XIX secolo, quando il rovinoso incendio sviluppatosi il 26 luglio del 1823 la fece in gran parte rovinare, senza peraltro intaccare il luogo del sepolcro di Paolo. Quella che a noi resta, ricostruita nei tre decenni seguenti, è dunque solamente una copia della Basilica del IV secolo.

Il già citato 
Liber pontificalis(la cui redazione risale al VI secolo, ma su fonti che sicuramente si rifanno a tempi ben più antichi) ci informa anche che Costantino aveva fatto chiudere il corpo di Paolo in una cassa di bronzo, contenuta e protetta da un ambiente murato, a similitudine del sepolcro di Pietro. La cassa, sulla quale era posta una grande croce d’oro del peso di 150 libbre, dovrebbe trovarsi (la mancanza di verifiche impone di usare il condizionale) al di sotto del livello del pavimento della Basilica costantiniana, più basso rispetto al livello di quella, successiva, dei tre imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio. Al luogo della sepoltura corrisponde ora, più in alto, l’altare centrale.

La sistemazione della confessione paolina, così come sopra descritta, non fu mai sostanzialmente modificata nel corso dei secoli, se non nel suo intorno, una prima volta all’epoca di papa Leone Magno (440-461), che rialzò il transetto, e una seconda volta quando papa Gregorio Magno (590-604), dopo un ulteriore rialzamento del livello pavimentale, fece scavare una cripta che si sviluppava con un percorso anulare attorno alla tomba dell’apostolo, permettendo l’accesso e la visita dei fedeli. Di questa cripta rimane tuttora una parte, quella di fronte all’altare, mentre la restante parte andò distrutta nel corso di lavori di restauro eseguiti nel XVI secolo, che resero non più direttamente accessibile il luogo dove sono custodite le spoglie mortali di Paolo.

All’attuale livello del presbiterio, al di sotto dell’altare, si trova una lastra marmorea, formata da due pezzi diversi uniti fra loro, che reca incise le parole “PAULO APOSTOLO MART(YRI)” (“a Paolo apostolo e martire”), risalente presumibilmente al V secolo. Sulla lastra tre fori, uno circolare e due rettangolari, introducono a tre pozzetti (
cataractae) comunicanti tra di loro, usati per tutto il Medioevo per ottenere reliquie per contatto mediante l’inserimento di brandea (strisce di stoffa). Il sepolcro paolino è rimasto pressoché intatto fino ai giorni nostri senza che nessuno lo abbia mai toccato. Mentre la Basilica veniva ricostruita, furono eseguiti anche, nel gennaio 1838, scavi nell’area della confessione; non si poté però esaminare a fondo la tomba dell’apostolo, per l’esplicito divieto del papa Gregorio XVI.

Ma l’architetto Virginio Vespignani (colui che curò la riedificazione della basilica nella forma che oggi vediamo) poté osservare da vicino ciò che era rimasto precluso agli occhi di tutti per secoli, ed eseguì degli schizzi a documentazione di quella occasionale ricognizione che però non giunse fino all’apertura della cassa sepolcrale. Lo studio di questa documentazione, unitamente ad alcuni saggi avvenuti ultimamente nella zona dell’altare, ha permesso di evidenziare la quota dei livelli pavimentali più recenti fino a quello della Basilica dei Tre Imperatori. Tra questo e l’altare si è liberata parte del lato lungo di quella che è stata interpretata come una cassa marmorea, sul cui coperchio un foro circolare (ora occluso) è in corrispondenza col foro circolare presente sulla soprastante lastra con l’epigrafe “PAULO APOSTOLO MART(YRI)”.

Non sono state al momento compiute indagini all’interno della supposta cassa. Dato il livello, non si tratta però comunque dell’originaria sepoltura di Paolo, che si trova a un livello sicuramente inferiore (al di sotto dovrebbe trovarsi il livello costantiniano e ancora al di sotto di questo quello corrispondente al trópaion citato da Gaio), ma non si può escludere una traslazione “verticale” del corpo di Paolo in un luogo più elevato alla fine del IV secolo, come avvenne (in epoca diversa) per quello di Pietro. Dal 2006 nella confessione della Basilica ostiense è stato rimosso l’altare moderno dedicato a un san Timoteo martire del IV secolo ed è così visibile parte dell’area sottostante all’altare e alla lastra con l’epigrafe. 

È opportuno anche segnalare qui, come fatto a proposito di Pietro, l’epigrafe di papa Damaso (366-384) presso la Memoria Apostolorum ad catacumbas lungo la via Appia (oggi Basilica di San Sebastiano), che dice: «Chiunque sei che cerchi i nomi congiunti di Pietro e di Paolo, sappi che questi santi hanno qui riposato (habitasse) un tempo. L’Oriente inviò i discepoli – lo affermano volentieri – ed essi, grazie al sangue del martirio e alla eccelsa sequela di Cristo, hanno raggiunto le regioni celesti e il regno dei giusti. Roma ha piuttosto meritato di rivendicarli come suoi cittadini. Questo in vostra lode canta Damaso, o nuovi luminari». Sulla base di questo testo, e della presenza nelle catacombe di numerose iscrizioni di invocazione congiunta a Pietro e Paolo, si è ipotizzata una temporanea traslazione delle reliquie dei due fondatori della Chiesa di Roma in questo luogo nel periodo della persecuzione avviata dall’imperatore Valeriano (258): ma siamo nel campo delle ipotesi di studio. 

Infine, una tradizione medievale vuole che la testa di Paolo e quella di Pietro siano state conservate dall’VIII secolo nel Sancta Sanctorum e poi trasferite da papa Urbano V, il 16 aprile 1369, nei due busti argentei all’interno del ciborio della Basilica lateranense. Una ricognizione venne compiuta il 23 luglio 1823 dal cardinale Antonelli; mentre indagini scientifiche dagli esiti incerti sono state compiute qualche decennio fa, nell’ambito delle ricerche su Pietro. 




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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  SAN MARCO 

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«Noi dobbiamo ora aggiungere a quanto di lui [Papia] abbiamo già citato, una testimonianza che egli riporta a proposito del Vangelo scritto da Marco: “E diceva il presbitero: Marco, interprete di Pietro, scrisse con esattezza le cose che ricordava, ma non in ordine ciò che il Signore aveva detto e fatto. Egli infatti non aveva udito il Signore né lo aveva seguito, ma più tardi, come ho detto, aveva accompagnato Pietro. Egli dava gli insegnamenti secondo i bisogni, ma non come se facesse una raccolta sistematica dei discorsi del Signore.

Cosicché Marco non sbagliò in nulla, avendo scritto alcune cose così come le ricordava. Di una sola cosa, infatti, egli si dava pensiero nei suoi scritti: non tralasciare niente di ciò che aveva udito e non dire niente di falso”» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, III, 39, 14-15). Le parole di Papia di Ierapoli, che visse tra la fine del I e la prima metà del II secolo, si riferiscono alla predicazione di Pietro a Roma e al Vangelo da lui dettato: quel Vangelo di Marco che il famoso 7Q5, il frammento papiraceo in lingua greca scoperto nelle grotte di Qumran, consentirebbe ora di datare a prima dell’anno 50. Della vita di Marco si conosce qualcosa soprattutto grazie ai rapporti che ebbe con Paolo e Pietro.

Alcuni studiosi hanno riconosciuto in lui il giovanetto che nel Getsemani, dopo l’arresto di Gesù, fuggì: «Un giovanetto però lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via nudo» (
Mc 14, 51-52). I Vangeli e gli Atti degli Apostoli lo chiamano talvolta con il nome di Marco, talvolta con quello di Giovanni, talvolta con entrambi. Fu cugino, o meglio nipote, di Barnaba, insieme al quale accompagnò Paolo, verso il 45, nella prima parte del suo primo viaggio missionario che, dopo un soggiorno a Cipro, toccò varie città dell’Asia Minore, ma a un certo punto ritornò indietro. Verso il 51, non voluto da Paolo per un nuovo viaggio missionario, accompagnò Barnaba a Cipro.

Lo si ritrova poi insieme a Pietro, probabilmente a Roma, verso il 60 (
1Pt 5, 13; la lettera di Pietro è scritta da Babilonia, nome che gli esegeti hanno interpretato come indicante Roma, ma esso corrisponde anche a quello di un villaggio presso Alessandria d’Egitto); da quanto si deduce dalle lettere di Paolo, nel 61 Marco è con lui, mentre negli anni successivi, quando Paolo è prigioniero a Roma per la seconda volta, è con Timoteo a Efeso e Paolo chiede che venga a Roma. Una tradizione antica, fin dal II secolo, fa di Marco il fondatore della chiesa di Alessandria d’Egitto; così la riporta Eusebio: «Narrano che Marco, inviato in Egitto, fu il primo a predicarvi il Vangelo che mise poi anche per iscritto, e anche a fondarvi delle Chiese proprio ad Alessandria» (Storia ecclesiastica, II, 16, 1).

E altrove colloca questi avvenimenti nei primi anni dell’imperatore Claudio, verso il 42-43, e la prima successione a Marco nell’episcopato ad Alessandria nel 62: ma queste date non si adattano a quelle che sembrano dedursi dalle lettere di Pietro e di Paolo. Secondo gli Atti apocrifi di Marco, l’evangelista morì martire a Bucoli, un villaggio vicino ad Alessandria, ripetutamente trascinato per le strade dai pagani legato con funi al collo, quindi, da morto, parzialmente bruciato dopo essere stato, forse, decapitato. L’anno del martirio rimane discusso, e viene generalmente indicato nel 68, anche se il 
Chronicon paschalecolloca questo avvenimento durante il regno di Traiano (98-117).

Una tarda tradizione riportata da Paolo Diacono nell’VIII secolo fa di Marco l’evangelizzatore della zona di Aquileia, ma si tratta di una notizia che la critica storica ha dimostrato leggendaria. Il sepolcro di Marco a Bucoli è noto, dall’inizio del V secolo (ma altre fonti retrodaterebbero questa notizia almeno all’inizio del IV secolo), come meta di pellegrinaggi. Verso la metà del V secolo le reliquie di Marco vengono trasferite, sempre ad Alessandria, nella chiesa del Canopo, da dove, il 31 gennaio 828, le avrebbero portate a Venezia i due mercanti veneziani Buono da Malamocco e Rustico da Torcello. La presenza di Marco a Venezia e di una basilica a lui dedicata è testimoniata da un documento dell’829, il testamento di Giustiniano Particiaco, sull’interpretazione del quale si è molto discusso.

Fatto sta che la presenza delle reliquie attribuite a Marco è certa alla fine dell’XI secolo: esse furono viste durante la costruzione della nuova Basilica, che inglobò e ingrandì la precedente, e che, consacrata nel 1094, fu anch’essa intitolata a Marco. Il suo corpo in quell’anno fu deposto solennemente in un’urna marmorea nella cripta. Notizie problematiche si hanno sulla reliquia del capo dell’evangelista: nominato in Egitto nell’836, nel 1010, nel 1088 e verso il 1240, nel 1419 esso sembra essere ancora nella chiesa di San Giorgio ad Alessandria, e Venezia discute se recuperarlo, dubitando però della sua autenticità. Di certo queste notizie sono in contrasto con quanto emerse dalla ricognizione compiuta su iniziativa del patriarca di Venezia Bonsignori il 6 maggio 1811, che rivelò la presenza di un corpo completo del capo. Una successiva ricognizione avvenne sotto il patriarca Monico, nel 1835, quando l’urna marmorea fu posta sotto la mensa dell’altare maggiore nel presbiterio. Infine, un’ultima ricognizione si deve, il 24 novembre 1957, al patriarca Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII. 




SAN LUCA 

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E
usebio di Cesarea definisce Luca «antiocheno d’origine [si tratta di Antiochia di Siria, ora in Turchia, ndr], medico per professione, discepolo degli apostoli» (Storia ecclesiastica, III, 4, 6). La tradizione orientale lo conosce anche come il pittore della Madonna. Lo scrittore del terzo Vangelo e degli Atti degli Apostoli probabilmente era un pagano convertito, non conobbe Gesù e fu discepolo di Paolo, che seguì fino al momento del suo martirio a Roma. Poi le fonti più attendibili (Epifanio, Gregorio Nazianzeno) lo indicano come evangelizzatore di Dalmazia, Gallia, Italia, Macedonia e Acaia.

Morì tra la fine del I secolo e i primi decenni del II, all’età di 84 anni, e fu sepolto in Beozia, a Tebe (è invece probabilmente erronea un’altra tradizione che lo dà per sepolto in Bitinia). Nell’anno 357 l’imperatore Costanzo II trasferì il suo corpo, insieme a quello dell’apostolo Andrea, a Costantinopoli, nuova capitale dell’Impero, dove l’anno precedente era stato traslato da Efeso il corpo di Timoteo, anch’esso discepolo di Paolo. Quando, verso il 527, Giustiniano riedificò l’
Apostoleion (la Basilica dei Santi Apostoli in Costantinopoli), furono viste, ma senza essere aperte, le casse di legno che si era certi contenessero i corpi di Andrea, Luca e Timoteo (Procopio di Cesarea, Sugli edifici, I, 3). Nel 586 Gregorio Magno, all’epoca apocrisario (cioè ambasciatore) del papa Pelagio II, portò a Roma da Costantinopoli come dono dell’imperatore Maurizio Tiberio la testa di san Luca, ora conservata in Vaticano: ma le analisi scientifiche e la datazione al carbonio 14, compiute nel 1999, hanno dimostrato che si tratta di una falsa reliquia, poiché la sua datazione non scende più in giù del V secolo. 

Altre fonti sulle reliquie di Luca si ritrovano, dopo secoli di silenzio, nel pieno Medioevo. Riferisce un testo della fine del XII secolo che il 14 aprile dell’anno 1177, nell’area cimiteriale presso la Basilica di Santa Giustina a Padova, fu rinvenuta la cassa di piombo contenente le reliquie di san Luca evangelista. Una tradizione medievale successiva, che sembra emergere nella seconda metà del XIII secolo, aggiunge che la traslazione dall’Apostoleion di Costantinopoli sarebbe avvenuta a opera del sacerdote Urio per sottrarre le reliquie al pericolo che l’imperatore Giuliano l’Apostata (361-363) le distruggesse. Una tradizione ancora più tarda (inizio XIV secolo) porrebbe invece la traslazione al tempo della persecuzione iconoclasta di Costantino V Copronimo (741-775).

Al XV secolo risale poi una disputa sulla autenticità delle reliquie di san Luca: Padova vinse nel 1463, dopo una ricognizione compiuta da un’apposita commissione, un processo nei confronti della vicina Venezia, che sosteneva di avere le vere reliquie dell’evangelista. Un’apertura della cassa di Padova era già avvenuta prima, nel 1354, quando il capo dello scheletro fu portato dall’imperatore Carlo IV nella Cattedrale di San Vito a Praga, dove tuttora è conservato; e un’altra avvenne nel 1562, quando l’arca in Santa Giustina che dal 1313 conteneva le reliquie fu rimodellata e spostata nel transetto di sinistra della chiesa, dove oggi si trova. 

Se il Martirologio Romano dal 1583 (e fino alla riforma dell’ultimo Concilio) accoglie la notizia della traslazione del corpo di san Luca da Costantinopoli a Padova, la critica moderna ha spesso mostrato scetticismo di fronte a una tradizione così tarda. Sennonché negli anni scorsi la richiesta di una reliquia di Luca da ricollocare a Tebe nel sarcofago che la tradizione orientale considera il luogo della sua prima deposizione, fatta dal locale vescovo ortodosso, è stata motivo di un’accurata indagine compiuta da una commissione scientifica dal 1998 al 2001. È stata dunque riaperta la cassa e riesaminato il contenuto, consistente in uno scheletro privo del capo deposto in una cassa di piombo lunga quasi due metri, forata sul fondo in tre diversi punti.

L’unico segno distintivo antico che appare è un rilievo sull’esterno di uno dei lati corti della cassa, una specie di stella a otto bracci. Cassa e contenuto hanno certamente subito modifiche, per via delle varie ricognizioni, rispetto alle condizioni originarie (ad esempio il coperchio è di epoca rinascimentale), ma questo non ha impedito di ottenere dei dati autentici e valutabili in rapporto alla tradizione antica. Si è dunque potuto stabilire che lo scheletro di Padova appartiene a un uomo anziano, alto circa 163 cm, e che la cassa è quella della sua originaria sepoltura; le analisi del radiocarbonio 14 hanno fornito per le ossa una datazione probabile tra la seconda metà del I secolo d.C. e l’inizio del V, con la massima probabilità tra il II e il IV; è stato confermato che il cranio trasferito nel 1354 a Praga è quello dello scheletro di Padova. Lo studio del Dna ha escluso un’origine greca, mentre l’origine siriana, anche se non l’unica possibile, risulta la maggiormente probabile.

Altre analisi fisiche hanno stabilito con certezza che cassa e reliquie si trovavano a Padova già verso il V-VI secolo, escludendo così ogni ipotesi di traslazione in epoca medievale; e lo studio dei pollini ha indicato come area di provenienza la sola Grecia. In più, lo studio archeologico ha permesso di identificare il segno presente sulla cassa come una combinazione di due croci, con la forma di una stella a otto terminazioni: una figura che è nota anche in ambito giudeo-cristiano (appare già negli ossuari della Palestina del I-II secolo) a significare la nuova vita in Cristo. Dunque, le recenti indagini scientifiche hanno avvalorato la tesi dell’autenticità delle reliquie custodite a Padova, e della loro provenienza dall’Oriente (e in particolare dalla Grecia) in un periodo anteriore al VI secolo. Dal 2000 una costola di Luca è ritornata a Tebe, nel sarcofago che forse accolse la sua prima sepoltura. 




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  SAN TIMOTEO 

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Timoteo, nato nella colonia romana di Listra in Licaonia (Asia Minore) nel quarto decennio del I secolo da padre greco e da madre giudea, Eunice (convertita da Paolo stesso quando giunse a Listra nel suo primo viaggio, insieme a Barnaba, verso il 47-49), è già cristiano quando, verso il 50, Paolo ritorna a Listra e lo prende con sé come il suo più stretto collaboratore. Di lui si parla numerose volte negli Atti degli Apostoli e nelle lettere di Paolo: e nella prima lettera indirizzata da Paolo stesso proprio a Timoteo, questi ci appare a capo della Chiesa di Efeso (
1Tm 1, 2), dove probabilmente, secondo il Martirio di san Timoteo primo patriarca della metropoli di Efeso (opera che appare come di Policrate, vescovo di Efeso nella seconda metà del II secolo, ma è in realtà una composizione più tarda, anche se attendibile), morì martire sotto l’impero di Domiziano (81-96) o forse sotto quello di Nerva (97-98), e dove fu sepolto in un luogo detto Pione. 

La cronaca consolare costantinopolitana (Consularia Constantinopolitana) registra, all’anno 356, la notizia della traslazione delle reliquie di Timoteo: «Sotto il consolato di Costanzo (l’ottavo) e di Giuliano Cesare fecero il loro ingresso a Costantinopoli le reliquie dell’apostolo Timoteo, il primo del mese di giugno». Infatti in quell’anno (non il 1° giugno, ma più probabilmente il 24, come riportano Teodoro il Lettore e altri), su ordine dell’imperatore Costanzo, il suo fiduciario Artemio prelevò da Efeso, dove erano sepolte, le spoglie mortali di Timoteo, per riporle sotto l’altare dell’Apostoleion, la chiesa degli Apostoli a Costantinopoli. A esse si aggiungeranno poco dopo i corpi di Andrea apostolo e Luca evangelista, traslati l’anno successivo. 

La notizia della traslazione delle reliquie di Timoteo da Efeso a Costantinopoli non ha motivi per essere messa in dubbio, anche se sussistono perplessità sull’esattezza della data. A Costantinopoli le ritroviamo ancora nel 536, secondo quanto afferma Procopio di Cesarea: in quell’anno infatti Giustiniano ricostruisce l’Apostoleion, distrutto da un incendio che però non danneggia i corpi di Timoteo, Luca e Andrea, le cui bare di legno vengono viste sotto il pavimento della chiesa (Sugli edifici, I, 4, 21). Ancora lì sono testimoniati nel corso dei secoli successivi, e per ultimo da Nicolao Mesarita, che descrive minuziosamente l’Apostoleion tra il 1199 e il 1203: «Il sacro altare di Cristo, di puro argento fino e splendente, nasconde dentro di sé quale inestimabile tesoro i corpi degli apostoli Luca, Andrea e Timoteo, che per Lui affrontarono la morte».

Il 12 aprile 1204 Costantinopoli viene occupata, messa a ferro e fuoco e saccheggiata dai soldati latini della IV Crociata: e, come riferisce Niceta Coniata, neanche i sepolcri vengono rispettati. Dopo il sacco, le reliquie di Timoteo scompaiono da Costantinopoli e le loro tracce si perdono. È credibile che esse abbiano seguito i crociati di ritorno in Occidente: una notizia ci riferisce che nel 1205, l’anno seguente al sacco, due denti di san Timoteo giungono al monastero di San Giovanni in Vineis di Soissons, nella Francia settentrionale. Il cranio di Timoteo invece appare, quasi quattro secoli più tardi, a Termoli, cittadina il cui porto per tutta l’epoca medievale fu strategico luogo di approdo e di transito verso l’Oriente. Lo nomina una relazione episcopale 
ad limina del 1592, nella chiesa cattedrale dedicata a Maria (dove tuttora si trova), custodito in un reliquiario di XIII-XIV secolo che ne fa sospettare la presenza a Termoli da una data ben più antica. 

Nel 1945 avvenne, del tutto casualmente, la scoperta del resto delle reliquie di Timoteo. Vennero infatti intrapresi dei lavori nella Cattedrale per ricavare una cripta sotto l’altare, e si scoprirono le strutture murarie di una chiesa più antica, dell’XI secolo. Inglobata in esse si trovò una lastra di marmo grezzo, che copriva orizzontalmente un loculo di forma quadrangolare contenente una cassetta di legno. Sulla faccia inferiore della lastra un’iscrizione, intenzionalmente nascosta alla vista ed evidentemente composta per chi avrebbe scoperto il loculo, diceva: «Nel nome di Cristo, amen. Nell’anno del Signore 1239. Qui riposa il corpo del beato Timoteo, discepolo di Paolo apostolo, nascosto dal venerabile Stefano vescovo di Termoli insieme con il capitolo». L’evidenza archeologica indicava senza dubbio che quando il loculo era stato fatto, nel 1239, la chiesa precedente era già stata sostituita dalla nuova. 

La cassetta di legno conteneva ossa umane: il 14 maggio 1945 l’analisi necroscopica attestò che i resti appartenevano allo scheletro quasi completo di un adulto di sesso maschile e di età avanzata. Del cranio era presente solo una parte di mandibola, una di quelle mancanti nella reliquia già nota: si trattava delle ossa dello stesso individuo. 
Da nessuno fu messa in dubbio l’autenticità del reperto, anche se non era facile spiegare il perché del suo arrivo e della sua permanenza a Termoli, e soprattutto il motivo della perdita della memoria della sua presenza. Il cardinale di Milano Alfredo Ildefonso Schuster avanzò la richiesta di trasferire il corpo di Timoteo a Roma, nella Basilica di San Paolo, ma non fu accolta. Papa Pio XII riconobbe l’autenticità delle reliquie di Timoteo con una bolla in data 25 aprile 1947. 

Dopo la ricognizione del 1945, le reliquie (in parte ricomposte) furono deposte in una cassetta di legno che venne collocata all’interno di una statua di vescovo in abiti liturgici, compresi mitra e pastorale, adagiata in una urna di vetro e legno. La lapide fu affissa nella cripta ricavata sotto l’altare, al muro dell’abside di destra, dove è ancora oggi visibile. Nel 1994 e poi nel 2000 si è proceduto a nuove ricognizioni. Le reliquie, in parte consolidate, sistemate in un apposito contenitore sigillato, sono ora nella cripta della Cattedrale, chiuse in un’urna di bronzo posta tra la lapide del 1239 e il luogo dove furono ritrovate. 
Nel frattempo una serie di ricerche ha fatto innanzitutto comprendere, con lo studio della decorazione scultorea e delle fonti epigrafiche, che la Cattedrale venne riedificata proprio in conseguenza dell’arrivo delle reliquie di Timoteo, forse passate in Italia unitamente a quelle di Andrea, che continuarono il loro viaggio fino alla costa tirrenica. Altre indagini scientifiche sono tuttora in corso. 




SAN TITO
 

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Tito, discepolo e collaboratore di Paolo, era un pagano greco, forse nato ad Antiochia, dove conobbe Paolo e fu probabilmente da lui convertito e battezzato. Le notizie su Tito ci provengono soprattutto dalle Lettere di Paolo, che lo ebbe con sé nel suo terzo viaggio missionario (53-58), poi lo inviò a Corinto, infine, recatosi a Creta dopo la sua prigionia a Roma (62-63), lo lasciò nell’isola a continuare la sua opera di evangelizzazione, come leggiamo nella lettera che gli scrisse: «Per questo ti ho lasciato a Creta, perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato» (
Tt 1, 5).

Nella stessa lettera Paolo gli chiede di raggiungerlo a Nicopoli nell’Epiro (
Tt 3, 12), mentre successivamente troviamo Tito in Dalmazia, regione nella quale tuttora il suo culto è molto diffuso. Paolo infatti scrive dalla seconda prigionia romana, nel 66, a Timoteo: «Cerca di venire presto da me, perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia» (2 Tm 4, 9-10). Secondo Eusebio di Cesarea (Storia ecclesiastica
, III, 4, 5), tornato a Creta, Tito ne fu il primo vescovo: «Apprendiamo quindi che Timoteo fu il primo cui toccò l’episcopato della diocesi di Efeso, come Tito, ugualmente per primo, ricevette quello delle Chiese di Creta».

Qui sarebbe morto di morte naturale, in età molto avanzata, dopo aver vissuto in perpetua verginità. Venne sepolto a Gortyna, dove il suo corpo fu conservato nella Cattedrale fino a quando i Saraceni distrussero la città nell’823. Delle reliquie di Tito fu salvato solamente il capo; nel 961, quando il generale bizantino Niceforo Foca riconquistò l’isola, venne edificata a Heraklion (Eraclea) una chiesa intitolata a san Tito, dove da allora la reliquia venne conservata. Nel 1669, per sottrarlo alla profanazione dei turchi, il capo di Tito fu portato dai veneziani nella Basilica di San Marco a Venezia. Il 15 maggio del 1966, dopo una serie di contatti avviati nel 1957, fu solennemente restituito – con l’intento ecumenico di concorrere all’auspicata comunione della Chiesa di Roma con le Chiese d’Oriente – alla Chiesa metropolitana di Heraklion, dove è nuovamente tornato nella Cattedrale di San Tito.
 






[Modificato da Caterina63 01/12/2016 21:44]
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  SAN BARNABA 

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Barnaba è il soprannome di Giuseppe, giudeo levita nato a Cipro. Eusebio di Cesarea e, prima, Clemente Alessandrino ci dicono che fu uno dei settantadue discepoli di Gesù. Fu il garante della conversione di Paolo presso i cristiani di Gerusalemme, che ancora diffidavano di lui. Fu con Paolo nel suo primo viaggio missionario, che da Cipro toccò varie città dell’Asia Minore, accompagnato nella prima parte dell’itinerario dal cugino Giovanni, cioè Marco, il futuro evangelista, che a un certo punto ritornò indietro.

Verso il 51, alla vigilia della partenza per un secondo viaggio missionario per visitare le comunità fondate nel primo, Paolo e Barnaba entrarono in contrasto, perché, mentre Barnaba avrebbe voluto portare con sé anche Marco, Paolo si oppose, vista l’esperienza del viaggio precedente. «Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro» (At 15, 39). Tertulliano attribuisce a Barnaba la Lettera agli Ebrei, ipotesi che ha trovato qualche riscontro negli studi moderni.

Dal momento del suo ritorno a Cipro notizie certe su di lui vengono a mancare, e occorre affidarsi agli
Atti di Barnaba, opera del V secolo, che narrano con toni leggendari il suo apostolato a Cipro e il suo martirio a Salamina (a nord di Famagosta), a opera di giudei siriani, che lo avrebbero lapidato e poi bruciato. Nonostante il contesto della narrazione, gli storici sono propensi a ritenerne fondati i dati essenziali, cioè la predicazione e il martirio. Gli Atti di Barnaba riferiscono ancora che, al tempo dell’imperatore bizantino Zenone (474-491), Barnaba sarebbe apparso nel sonno all’arcivescovo Anthemios indicandogli il luogo dove scavare per ritrovare l’ipogeo che conteneva la sua sepoltura in un sarcofago, cosa che l’arcivescovo fece, ritrovando il corpo di Barnaba che aveva ancora sul petto il Vangelo di Matteo, scritto di sua mano.

La tomba di Barnaba si mostra tuttora a Salamina ed è visitabile: vi si accede dall’interno di un oratorio che vi fu costruito sopra, ora abbandonato, a 150 metri circa dal monastero a lui intitolato. Si tratta di una tomba del periodo romano, scavata nel sottosuolo, di forma irregolare, dentro la quale si trovano due arcosoli e il sarcofago dove un tempo era il corpo del santo. Questo fu trasportato, sempre secondo la tradizione, da Anthemios nel luogo dove tuttora è deposto, cioè nell’abside della navata sud della basilica che l’arcivescovo stesso costruì poco lontano dalla tomba e che dedicò a Barnaba, mentre il Vangelo venne donato all’imperatore Zenone, che concesse l’autocefalia alla Chiesa di Cipro.

Il luogo divenne da allora un’importante meta di pellegrinaggio e attorno alla basilica si sviluppò molto presto un monastero. Attualmente, a causa della situazione politica dell’isola (il monastero ricade nella parte occupata dall’esercito turco), i monaci sono stati allontanati e il complesso è stato trasformato in museo di icone. 

Esiste in Occidente la tradizione di Barnaba primo evangelizzatore dell’Italia settentrionale, in particolare della città di Milano, dove nella chiesa di Santa Maria del Paradiso si mostra ancora (lì trasportata dalla distrutta chiesa di San Dionigi) la pietra forata nella quale egli avrebbe piantato la croce al suo arrivo nell’anno 51. La critica storica ha dimostrato come infondata questa tradizione. Parallelamente, esiste anche una tradizione della presenza a Milano del capo di Barnaba, conservato in un’urna d’argento nella chiesa di San Francesco (l’antica Basilica Naboriana) fino all’anno della sua distruzione, nel 1799, quindi trasportato nella Basilica di Sant’Ambrogio, non più visibile perché murato in un altare insieme alle reliquie dei santi Nabore e Felice. Un cranio attribuito a Barnaba sarebbe anche presso la parrocchiale di Endenna in Val Brembana. 




San GIOVANNI 

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Secondo quanto ci riportano le fonti antiche, Giovanni, il prediletto di Gesù e fratello di Giacomo il Maggiore, fu l’unico degli apostoli che non morì subendo il martirio, ma per morte naturale, in età veneranda. Dopo la resurrezione di Gesù fu il primo, insieme a Pietro, a ricevere da Maria Maddalena l’annuncio del sepolcro vuoto, e fu il primo a giungervi, entrandovi poi dopo Pietro. Dopo l’ascesa al cielo di Gesù, gli Atti degli Apostoli ce lo mostrano accanto a Pietro in occasione della guarigione dello storpio al Tempio di Gerusalemme e poi nel discorso al Sinedrio, dopo il quale fu catturato e poi con Pietro incarcerato.

Sempre insieme a Pietro si reca in Samaria. Nel 53 Giovanni si trova ancora a Gerusalemme: Paolo infatti lo nomina (Gal 2, 9) insieme a Pietro e a Giacomo come una delle «colonne» della Chiesa. Ma verso il 57 Paolo nomina a Gerusalemme solo Giacomo il Minore: dunque Giovanni non c’è più, trasferitosi a Efeso, come concordemente testimoniano le fonti antiche, fra le quali basterà citare, per tutte, Ireneo (Contro le eresie, III, 3, 4): «La Chiesa di Efeso, che Paolo fondò e in cui Giovanni rimase fino all’epoca di Traiano, è testimone veritiera della tradizione degli apostoli». 

La permanenza di Giovanni a Efeso, dove scrive il Vangelo (secondo quanto afferma ancora Ireneo), è interrotta, come le stesse fonti antiche ci dicono, dalla persecuzione subita sotto Domiziano (imperatore dall’81 al 96), probabilmente verso l’anno 95. Si innesta qui la tradizione, riportata anche da molti autori antichi, del suo viaggio a Roma e della sua condanna a morte in una giara di terracotta colma di olio bollente, dalla quale uscì illeso per miracolo. La fonte più antica che ce ne parla è Tertulliano, intorno all’anno 200: «Se poi vai in Italia, trovi Roma, da dove possiamo attingere anche noi l’autorità degli apostoli.

Quanto è felice quella Chiesa, alla quale gli apostoli profusero tutta intera la dottrina insieme con il loro sangue, dove Pietro è configurato al Signore nella passione, dove Paolo è incoronato della stessa morte di Giovanni il Battista, dove l’apostolo Giovanni, immerso senza patirne offesa in olio bollente, è condannato all’esilio in un’isola» (
La prescrizione contro gli eretici, 36). Un’altra testimonianza è quella di Girolamo, che alla fine del IV secolo scrive: «Giovanni terminò la sua propria vita con una morte naturale. Ma se si leggono le storie ecclesiastiche apprendiamo che anch’egli fu messo, a causa della sua testimonianza, in una caldaia d’olio bollente, da cui uscì, quale atleta, per ricevere la corona di Cristo, e subito dopo venne relegato nell’isola di Patmos.

Vedremo allora che non gli mancò il coraggio del martirio e che egli bevve il calice della testimonianza, uguale a quello che bevvero i tre fanciulli nella fornace di fuoco, anche se il persecutore non fece effondere il suo sangue» (
Commento al Vangelo secondo Matteo, 20, 22). Alle antiche fonti cristiane sul martirio di Giovanni a Roma si può ora aggiungere con buona attendibilità (grazie a uno studio di Ilaria Ramelli) anche l’allusione del pagano Giovenale (inizi del II secolo), che, nella IV Satira, critica Domiziano raccontando l’episodio della convocazione del Senato per decidere che fare di un enorme pesce, venuto da lontano e portato all’imperatore, che viene destinato a essere cotto in una profonda padella.

A Roma, sul luogo che la tradizione assegna al martirio, presso Porta Latina, all’interno della cinta delle Mura Aureliane, sorge il Tempietto ottagonale di San Giovanni in Oleo, le cui strutture attuali risalgono al 1509 ma che dovette essere presente (non sappiamo se in questa forma, e se fosse originariamente dedicato al culto pagano di Diana) sicuramente da epoca anteriore alla costruzione della vicina chiesa di San Giovanni a Porta Latina, che risale all’epoca di papa Gelasio I (492-496). 

Eusebio ci dice che da Domiziano Giovanni «venne condannato al confino nell’isola di Patmos a causa della testimonianza resa al Verbo divino» (Storia ecclesiastica, III, 18, 1), e riprende questa notizia dalle parole dello stesso Giovanni nell’Apocalisse, dove l’apostolo dice di se stesso di essere deportato «a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (Ap 1, 9). Lì, in quell’isola delle Sporadi a circa settanta chilometri da Efeso, Giovanni scrive l’Apocalisse. Dopo la morte di Domiziano nel 96, l’apostolo torna a Efeso, come testimonia ancora Eusebio: «In quei tempi Giovanni, il prediletto di Gesù, insieme apostolo ed evangelista, era ancora in vita in Asia, dove, ritornato dall’esilio nell’isola per la morte di Domiziano, dirigeva le Chiese di quella regione» (Storia ecclesiastica, III, 23, 1).

A Efeso Giovanni muore forse nel 104, e lì viene sepolto. Intorno al 190 Policrate, vescovo di Efeso, in una lettera indirizzata a papa Vittore dice: «Anche Giovanni, colui che si abbandonò sul petto del Signore, che fu sacerdote e portò l’insegna, martire [qui forse nel senso di testimone] e maestro, giace a Efeso» (il brano è citato in Eusebio,
Storia ecclesiastica, V, 24, 2). La sua tomba, tuttora visibile, si trova in una camera funeraria sotterranea sulla collina di Ayasuluk, a un chilometro e mezzo dall’antica Efeso. Agli inizi del IV secolo vi fu costruito sopra un martyrion quadrangolare di circa 20 x 19 metri, nominato nell’Itinerario di Egeria; attorno a esso fu costruita, circa un secolo dopo, una chiesa cruciforme, fatta demolire nel VI secolo dall’imperatore Giustiniano che fece erigere al suo posto per i numerosi pellegrini una grandiosa Basilica, intitolata all’apostolo, a tre navate, lunga 110 metri e larga circa la metà.

La tomba di Giovanni venne a trovarsi collocata nella cripta sotto l’altare. Tutta la collina fu recintata da un muro per proteggere il santuario e le dipendenze. Distrutta la Basilica da terremoti e saccheggi, le sue imponenti rovine, oggetto di varie ricerche archeologiche e restauri, sono state recentemente in parte rialzate. 







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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  San PIETRO 

Risultati immagini per san Pietro apostolo

«Nei sotterranei della Basilica Vaticana ci sono i fondamenti della nostra fede. La conclusione finale dei lavori e degli studi risponde un chiarissimo sì: la tomba del Principe degli apostoli è stata ritrovata». Così papa Pio XII diede l’annuncio, a conclusione del Giubileo del 1950, del riconoscimento della sepoltura di Pietro, peraltro attestata da una tradizione antichissima e unanime. Al luogo della sepoltura si fa riferimento per la prima volta nelle parole del presbitero Gaio, negli anni del pontificato di papa Zefirino, tra il 198 e il 217: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli [Pietro e Paolo].

Se vorrai recarti nel Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa [di Roma]» (in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, II, 25, 7). Che cosa è il “trofeo”? Non solamente una struttura, come spesso si è semplificato, ma, in senso proprio, il corpo del martire: è questo, propriamente, il “trofeo della vittoria”.

In quello stesso periodo, il martirio di Pietro è attestato da Tertulliano, che verso il 200 scrive (cfr. 
La prescrizione contro gli eretici, 36) che la preminenza di Roma è legata al fatto che tre apostoli, Pietro, Paolo e Giovanni, vi hanno insegnato e i primi due vi sono morti martiri. Ma ancor prima il martirio è attestato da Clemente Romano, nella prima lettera ai Corinzi (5-6) databile forse al 96: «Prendiamo in considerazione i buoni apostoli: Pietro, che per gelosia ingiusta sopportò non uno né due ma molti affanni, e così, dopo aver reso testimonianza, s’incamminò verso il meritato luogo della gloria. [...] Intorno a questi uomini [Pietro e Paolo] che piamente si comportarono si raccolse una grande moltitudine di eletti, i quali, dopo aver sofferto per gelosia molti oltraggi e tormenti, divennero fra noi bellissimo esempio».

Clemente scrive da Roma e il contesto stesso della lettera si riferisce a fatti accaduti a Roma: a Pietro e Paolo vengono inoltre accomunati i martiri romani «fra noi» della persecuzione neroniana, ai quali si riferisce l’ultima frase riportata. Pietro morì infatti nei giardini di Nerone presso il Vaticano insieme a una grande moltitudine di cristiani, nella persecuzione scatenata dall’imperatore dopo l’incendio che, divampato il 19 luglio del 64, distrusse gran parte di Roma.

Proprio al 64 deve essere riportata, secondo gli studi più recenti e accettati, la data del martirio di Pietro, che invece la tradizione derivante da Girolamo pone al 67 insieme a quello di Paolo (coerentemente con quest’ultima tradizione si sviluppano in antico anche quelle della detenzione dei due apostoli nel Carcere Mamertino, e del loro ultimo incontro, prima del martirio, lungo la via Ostiense poco fuori della città). Il martirio dei primi cristiani di Roma ci è rimasto descritto nelle parole dello storico romano Tacito: «Dunque, per primi furono arrestati coloro che facevano aperta confessione di quella credenza [nella risurrezione di Cristo], poi, su denuncia di questi, ne fu arrestata una gran moltitudine, non tanto con l’accusa di aver provocato l’incendio, quanto per l’odio che avevano contro il genere umano.

E a quanti morivano s’aggiunse lo scherno, sicché, rivestiti di pelli ferine, perivano sbranati dai cani, o appesi alle croci e dati alle fiamme venivano bruciati vivi, al calar del sole, come torce per la notte. Nerone aveva messo a disposizione i suoi giardini per quello spettacolo, e aveva allestito giochi circensi, partecipando mescolato alla folla in vesti di auriga o in piedi sul carro. Perciò, sebbene fossero gente colpevole e meritevole di quegli originali tormenti, si generava un senso di pietà, perché erano sacrificati non per il comune vantaggio, ma alla crudeltà di uno solo» (
Annali, XV, 44, 4-5). 

L’imperatore Costantino, nel secondo decennio del IV secolo, racchiuse la sepoltura di Pietro (una tomba nella nuda terra, scavata presso il circo che segnava il limite settentrionale dei giardini di Nerone) all’interno di un monumento in muratura e successivamente, verso il 320, edificò intorno a questo una basilica. Per fare questo non sfruttò, come sarebbe stato più ovvio e più sicuro per la solidità della nuova costruzione, lo spazio piano tra Gianicolo e Vaticano che era stato occupato dal circo, ma con un grandioso lavoro ingegneristico realizzò una vasta piattaforma artificiale, da un lato tagliando le pendici del colle Vaticano, dall’altro seppellendo e utilizzando come fondamenta le strutture di una necropoli sviluppatasi lungo il lato settentrionale del circo tra I e IV secolo.

Volle infatti che il fulcro della basilica, all’intersezione tra navata centrale e transetto, fosse proprio il monumento che racchiudeva la sepoltura dell’apostolo. Per questo motivo anche l’asse dell’edificio costantiniano non tiene conto, come sarebbe stato più facile, di quello della necropoli e del circo; corre all’incirca nella stessa direzione ma se ne distanzia, sia pur di poco, perché determinato con assoluta esattezza dall’orientamento della memoria petrina. Così da allora il sepolcro dell’apostolo è, oltre che il punto di attrazione, anche l’esatto centro di tutto ciò che nel corso dei secoli gli si è sviluppato attorno, dalle sepolture dei primi fedeli cristiani, alle installazioni per i pellegrini nel primo Medioevo, alle strade, alle mura della 
civitas Leonianaedificate dopo il sacco dei Saraceni dell’846, fino al moderno quartiere di Borgo. Anche la costruzione della nuova Basilica, fondata da papa Giulio II il 18 aprile 1506, pur se ha comportato la demolizione di quella costantiniana e delle sue aggiunte medievali, tuttavia ha rispettato rigorosamente la centralità del sepolcro di Pietro: l’attuale altare maggiore, che risale a papa Clemente VIII (1594), si trova esattamente sopra a quello medievale di papa Callisto II (1123), che a sua volta ingloba il primo altare di papa Gregorio Magno (590 circa), costruito sul monumento costantiniano che custodisce la tomba di Pietro. E il culmine della cupola di Michelangelo si trova esattamente a perpendicolo sopra di essa. 

Tra il 1939 e il 1949, per volontà di Pio XII, fu condotta da quattro studiosi di archeologia, architettura e storia dell’arte – Bruno Maria Apollonj Ghetti, padre Antonio Ferrua sj, Enrico Josi, padre Engelbert Kirschbaum sj –, sotto la direzione di monsignor Ludwig Kaas, segretario della Reverenda Fabbrica di San Pietro, lo scavo archeologico al di sotto dell’altare maggiore della Basilica Vaticana. Fu inizialmente rinvenuto il monumento di Costantino, un parallelepipedo alto circa tre metri, fasciato di marmo pavonazzetto e porfido. Il lato anteriore di questo monumento aveva un’apertura che corrisponde all’attuale Nicchia dei Palli, nelle Grotte Vaticane; quello posteriore, rimesso parzialmente in luce, è tuttora visibile dietro l’altare della Cappella Clementina.

Scavando lungo i lati del monumento costantiniano, al di sotto di esso si giunse a rinvenire la tomba di Pietro. Apparve una piccola edicola formata da una mensa sorretta da due colonnine di marmo, appoggiata a un muro intonacato e dipinto in rosso (il cosiddetto “muro rosso”) in corrispondenza di una nicchia; sul pavimento davanti alla nicchia, al di sotto di un chiusino, una tomba nella nuda terra. L’edicola, databile al II secolo, venne da subito identificata con il “trofeo di Gaio”. Ma la tomba rinvenuta era vuota. 

Pio XII, come sopra riportato, diede l’annuncio del rinvenimento. Dopo un certo periodo di tempo dalla fine degli scavi e dalla loro pubblicazione, ebbe inizio una seconda fase delle indagini. Il monumento costantiniano aveva inglobato anche un’altra struttura accanto all’edicola, un muretto perpendicolare al “muro rosso”. Questo muretto fu denominato “muro g”, cioè muro dei graffiti, poiché presentava sulla parete opposta all’edicola numerosissimi graffiti sovrapposti l’uno all’altro. Dentro il muretto era stato ricavato in antico, sicuramente dopo l’apposizione dei graffiti e prima della definitiva sistemazione del monumento costantiniano, un loculo parallelepipedo foderato di marmo sul fondo e, fino a una certa altezza, sui quattro lati, uno dei quali, quello occidentale, andava a terminare proprio sul “muro rosso”.

Questo loculo era stato già notato durante gli scavi, nel novembre del 1941, prima di arrivare alla sottostante tomba nella terra, ma non ne era stata immediatamente compresa l’importanza. Esso dunque, secondo quanto ricostruito in seguito dall’archeologa Margherita Guarducci, era stato svuotato di gran parte del materiale che conteneva, tanto che il giorno seguente alla scoperta uno degli scavatori, il padre Antonio Ferrua, lo aveva visto vuoto. Certo è che, come si seppe vari anni dopo il completamento e la pubblicazione degli scavi, da lì proveniva un importantissimo documento epigrafico, un piccolissimo frammento delle dimensioni di cm 3,2 x 5,8, di intonaco rosso, cadutovi dall’adiacente “muro rosso”, con inciso sopra il graffito, in greco, “PETR(Oc) ENI”, cioè “Pietro è qui”, come interpretò la Guarducci.

I suoi studi, compiuti tra il 1952 e il 1965, portarono alla decifrazione dei graffiti del “muro g” (quello che conteneva il loculo), che si rivelarono numerosissime invocazioni a Cristo, Maria e Pietro, sovrapposte e combinate insieme. E portarono anche, dopo complesse e articolate ricerche condotte con rigore scientifico, al riconoscimento di quanto era stato contenuto nel loculo, cioè le reliquie di Pietro, lì trasferite, antecedentemente ai lavori di Costantino, dalla sottostante prima tomba scavata nella terra. Rinvenute in una cassetta nei locali delle Grotte Vaticane, dove erano state deposte da chi le aveva anni prima estratte dal loculo, le reliquie, dopo essere state analizzate, risultarono pertinenti a un solo uomo, di corporatura robusta, morto in età avanzata.

Erano incrostate di terra e mostravano di essere state avvolte in un panno di lana colorato di porpora e intessuto d’oro; rappresentavano frammenti di tutte le ossa del corpo a esclusione del sia pur minimo frammento di quelle dei piedi. Particolare, questo, veramente singolare, che non può non richiamare alla mente la circostanza (e gli esiti sul corpo, cioè il distacco dei piedi) della crocifissione 
inverso capite (a testa in giù), attestataci da un’antica tradizione a significare l’umiltà di Pietro. Una circostanza, questa, perfettamente rispondente a quanto storicamente ben noto: l’usanza romana, cioè, di rendere spettacolari, per la soddisfazione del popolo, le esecuzioni capitali dei condannati a morte. Il loro cadavere, privato del diritto di sepoltura, veniva lasciato giacere sul luogo del supplizio. Così avvenne per Pietro, messo a morte confuso fra tanti altri e sepolto nell’umile terra – probabilmente in fretta, nel luogo più vicino in cui fu possibile – quando si poté recuperarne il corpo. 

Le reliquie identificate da Margherita Guarducci come quelle di Pietro furono riconosciute come tali da papa Paolo VI che il 26 giugno 1968, ricollegandosi alle parole pronunciate nel 1950 da papa Pio XII, diede l’annuncio durante l’udienza pubblica nella Basilica Vaticana: «Nuove indagini pazientissime e accuratissime furono in seguito eseguite con risultato che noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di san Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a chi vi ha impiegato attentissimo studio e lunga e grande fatica. Non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche.

Ma da parte nostra ci sembra doveroso, allo stato presente delle conclusioni archeologiche e scientifiche, dare a voi e alla Chiesa questo annuncio felice, obbligati come siamo a onorare le sacre reliquie, suffragate da una seria prova della loro autenticità [...] e nel caso presente tanto più solleciti ed esultanti noi dobbiamo essere, quando abbiamo ragione di ritenere che siano stati rintracciati i pochi, ma sacrosanti, resti mortali del Principe degli apostoli». Fatte ricollocare il giorno successivo all’interno del ripostiglio del “muro g” (a eccezione di nove frammenti richiesti dal Papa e conservati nella sua cappella privata), le reliquie da pochi anni sono state rese nuovamente visibili ai fedeli. 

Relativamente ai luoghi di Pietro a Roma, è opportuno anche segnalare l’epigrafe di papa Damaso (366-384) presso la Memoria Apostolorum lungo la via Appia ad catacumbas (oggi Basilica di San Sebastiano), dove si legge: «Chiunque sei che cerchi i nomi congiunti di Pietro e di Paolo, sappi che questi santi hanno qui riposato (habitasse) un tempo». Sulla base di questo testo, e della presenza nelle catacombe di numerose iscrizioni di invocazione congiunta a Pietro e Paolo, si è ipotizzata una temporanea traslazione delle reliquie dei due fondatori della Chiesa di Roma in questo luogo nel periodo della persecuzione avviata dall’imperatore Valeriano (258): ma siamo nel campo delle ipotesi di studio. 

È anche da ricordare infine che, nell’ambito delle ricerche svolte dalla Guarducci, venne compiuta una ricognizione scientifica sulle reliquie attribuite da una tradizione medievale alla testa di Pietro, presenti dall’VIII secolo nel Sancta Sanctorum e di lì trasferite da papa Urbano V, il 16 aprile 1369, in uno dei due busti all’interno del ciborio della Basilica lateranense, dove attualmente sono. I risultati di questa ricognizione non hanno però in nulla inficiato la validità del riconoscimento delle reliquie di Pietro sotto la Basilica Vaticana. 
 



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02/12/2016 10:10
 
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I simboli dei quattro Evangelisti

Ad ogni Evangelista è associato per simbolo un essere vivente come qui sotto indicato.

Matteo: Uomo

I simboli dei quattro Evangelisti

Marco: Leone

Luca: Bue

Giovanni: Aquila

La bella immagine dei quattro evangelisti

cliccaci sopra per ingrandirla

In realtà c'è un solo Vangelo, ma il lieto annuncio è giunto a noi redatto da quattro evangelisti.

È la Sacra Quadriga, il misterioso cocchio di Dio, condotto - secondo una visione del profeta Ezechiele, ripresa dall'Apocalisse - da quattro "esseri viventi" che avevano sembianza di uomo, di leone, di bove e di aquila. Gli antichi autori cristiani applicarono agli evangelisti le simboliche sembianze della profezia, riconoscendo nel Vangelo il nuovo trono di Dio.

Matteo fu simboleggiato nell'uomo alato (o angelo), perché il suo Vangelo inizia con l'elenco degli uomini antenati di Gesù Messia.

Marco fu simboleggiato nel leone, perché il suo Vangelo comincia con la predicazione di Giovanni Battista nel deserto, dove c'erano anche bestie selvatiche.

Luca fu simboleggiato nel bove, perché il suo Vangelo comincia con la visione di Zaccaria nel tempio, ove si sacrificavano animali come buoi e pecore.

Giovanni fu simboleggiato nell'aquila, l'occhio che fissa il sole, perché il suo Vangelo si apre con la contemplazione di Gesù-Dio: "In principio era il Verbo..." (Gv 1,1).

È facile vedere nelle chiese, sui Lezionari, sui leggii o nelle decorazioni di amboni, pulpiti ed altari, la riproduzione dei quattro animali simboli degli evangelisti: è una tradizione veneranda che vuol sottolineare la fede cristiana nell'unico "Vangelo quadriforme". Nonostante sia opera di quattro autori diversi, autore principale del Vangelo è Gesù stesso, protagonista della storia della salvezza, mandato da Dio Padre a rivelare agli uomini il nuovo messaggio dell'amore.

Le informazioni sopra riprodotte sono tratte dalla pagina I simboli della Sacra Quadriga

Anche nella lunetta della chiesa di San Lorenzo, Cattedrale di Genova, sopra il martirio di San Lorenzo e ai due lati di Cristo benedicente sono rappresentati i simboli dei quattro Evangelisti (clicca sulla fotografia per ingrandirla).

La Cattedrale di San Lorenzo Il portale principale Il dettaglio della lunetta




  si veda qui per I SIMBOLI DEI VANGELI NELL'ARTE CRISTIANA....







[Modificato da Caterina63 02/12/2016 10:38]
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21/12/2016 19:12
 
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Si era all fine del 500, Roma era una città cristiana che custodiva le reliquie di Pietro e Paolo e di centinaia di martiri, e il Papa decise di far arrivare le reliquie di altri due apostoli: Filippo e Giacomo. Papa Pelagio fa costruire una basilica dedicata a tutti gli Apostoli e nell’altare pone le reliquie dei due Apostoli. 

Alla fine del 1800 una prima ricognizione recupera i resti. La scelta è di riporli in una cripta sotto l’altare maggiore che abbia un po’ il sapore delle catacombe e riporti ai primi tempi del cristianesimo. E ora, ancora una volta, le reliquie sono state studiate. Nel restauro della cripta i Frati Francescani che curano la chiesa dei Santi Dodici Apostoli a Roma decidono una ricognizione. Quasi nove mesi di studi ed esami che si sono conclusi ieri, 19 dicembre, con la solenne chiusura della teca di vetro che contiene i resti dei due Apostoli.

Una cerimonia commovente, solenne e ufficiale. A guidarla il vescovo ausiliare di Roma Centro Ruzza, che ha formato con studiosi e insieme al parroco e Fra Marco Tasca, ministro generale dei Minori Conventuali che dal 1400 officiano la basilica.

“ Che forza il gesto di Papa Pelagio di riportare le reliquie degli Apostoli in una città ridotta ad un villaggio di 8 mila persone” dice Padre Aniello Stoia il parroco, spiegando ai fedeli la storia delle reliquie e la scelta della nuova sistemazione.

Sarà un sarcofago paleocristiano ad accogliere la teca in cristallo ed acciaio, sigillata con la ceralacca e che custodisce la pergamena con il rogito che illustra gli studi fatti. Una testimonianza per il futuro. Il parroco ha spiegato che il sarcofago era nel chiostro del Palazzo dei Santi Apostoli e che già un suo predecessore aveva ipotizzato di usare un sarcofago per custodire le reliquie.

La vocazione delle chiese del centro di Roma è proprio quella di custodire la memoria e la tradizione della Chiesa.

I resti sono poca cosa a vederli, due vasi con delle ceneri, dei brandelli di tessuto, alcuni denti, una scapola, un piede. Ci vorranno alcuni mesi per avere un rapporto completo degli studi, ma intanto ieri sera la messa solenne celebrata dall’arcivescovo Girotti è stata la occasione per la gente di Roma di rendere omaggio ai due Apostoli.

La precedente ricognizione sui resti dei due apostoli risaliva al 1879 poi, nei mesi scorsi, i lavori di restauro alla cripta hanno permesso di constatare un elevato livello di umidità che ha consigliato di richiedere una nuova ricognizione canonica per verificare lo stato di conservazione dei resti dei due apostoli di Gesù.

Lo scorso 5 aprile, in forma privata, si era infatti proceduto ad estrarre dal sacello della cripta la doppia urna (di legno e di rame) contenente sei contenitori in vetro con le ceneri di un corpo dissolto, le polveri di un colobion (antica veste liturgica), tessuti polverizzati, cinque denti, una scapola e una tibia, assieme ad altri frammenti ossei.

Tutti gli studi sono stati coordinati dal professor Nazareno Gabrielli in collegamento con lo stato italiano cui appartiene la cura delle chiese storiche.

Tra gli studiosi anche il professor Francesco D’Andria della Università del Salento che sta scavando il santuario in Turchia a Hierpolis dove sarebbe la tomba di Filippo.

Studi che si uniscono tra il luogo del martirio dell’ Apostolo e il luogo della sua glorificazione a Roma.

In maggio alcune di queste reliquie torneranno in Turchia con una visita dei frati che saranno accolti dal Patriarca Bartolomeo.

Ma ci sono anche altri vescovi che per le loro cattedrali dedicate ai due Apostoli hanno chiesto delle reliquie.

“ Che la luce degli Apostoli possa risplendere per tutti i cristiani di Roma” ha ripetuto il parroco salutando i presenti.

La chiusura della ricongnizione è in effetti solo il primo passo di un cammino che riporterà Giacomo il minore e Filippo ad essere evangelizzatori in un Medio Oriente che ora più che mai i cristiani vivono la testimonianza del martirio.


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