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Quando e come un Papa favorisce l'eresia... (2)

Ultimo Aggiornamento: 10/04/2018 01:10
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18/01/2017 18:45
 
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Il dolore innocente e la risposta cristiana. Che c’è

Nell’udienza generale di mercoledì 4 gennaio, la prima del 2017, papa Francesco è tornato sulla questione del dolore innocente. Ne aveva già parlato nel dicembre scorso, durante il discorso rivolto alla comunità dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù, e di nuovo, come in quella occasione, rispetto al testo scritto ha voluto fare un’integrazione a braccio.

Il 15 dicembre 2015, improvvisando, Francesco disse: «Perché i bambini soffrono? Non c’è risposta. Soltanto guardare il Crocifisso, lasciare che sia Lui a darci la risposta».

E continuò con un  dialogo immaginario: «Tu potrai dirmi: “Ma lei, Padre, non ha studiato teologia?”». «Sì!». «E  ha letto libri su questo?». « Sì! E la risposta non c’è! Guarda il Crocifisso: soffre e piange, e questa è la nostra vita. Io non voglio vendere ricette che non servono, questa è la realtà: il pianto, il dolore come Gesù in croce. Piangere con lui, con lei, soltanto questo. Perché soffrono i bambini? Una delle domande aperte della nostra esistenza: non sappiamo. Dio è ingiusto? Eh sì! È stato ingiusto con  suo Figlio, lo ha mandato in croce! Eh, se seguiamo questa logica, dobbiamo dire questo? Ma è la nostra esistenza umana, è la nostra carne che soffre in quel bambino. E quando si soffre non si parla: si piange e si prega, in silenzio».

Molto simili le espressioni usate il 4 gennaio 2017, quando, dopo aver spiegato che «il Figlio di Dio è entrato nel dolore degli uomini», il papa di nuovo ha sentito il bisogno di un’integrazione a braccio. La seguente: «Quando qualcuno si rivolge a me e mi fa domande difficili, per esempio: “Mi dica, padre: perché soffrono i bambini?”, davvero io non so cosa rispondere. Soltanto dico: “Guarda il Crocifisso: Dio ci ha dato il suo Figlio, Lui ha sofferto, e forse lì troverai una risposta”. Ma risposte di qua non ci sono. Soltanto guardando l’amore di Dio che dà suo Figlio, che offre la sua vita per noi, può indicare qualche strada di consolazione. E per questo diciamo che il Figlio di Dio è entrato nel dolore degli uomini; ha condiviso ed ha accolto la morte; la sua Parola è definitivamente parola di consolazione, perché nasce dal pianto».

Forse qualcuno ricorderà che a proposito del primo discorso, quello del 15 dicembre 2016, fece scalpore la frase sul «Dio ingiusto». Un’eresia, anzi una bestemmia, commentò qualcuno. In realtà, rileggendo l’integrazione pronunciata dal papa a braccio e nel suo italiano sempre un po’ immaginifico, ci si rende conto che Francesco ha sostenuto che Dio sarebbe «ingiusto» solo se seguiamo «questa logica», ovvero, sembra di capire, la logica terrena, esclusivamente umana. Se invece guardiamo al Crocifisso, non è così.

Ma il punto su cui vorrei puntare l’attenzione è un altro. Sia il 15 dicembre sia il 4 gennaio Francesco ribadisce con decisione che di fronte al dolore innocente «la risposta non c’è». Nel primo discorso lo dice chiaramente: «Non c’è risposta», «La risposta non c’è». E nel secondo aggiunge: «Davvero io non so cosa rispondere». In entrambi i discorsi il papa lascia intendere che uno può anche aver studiato teologia, può essere anche papa, ma una risposta non è possibile. L’unica cosa che si può fare è contemplare il Crocifisso.

Ora la domanda è: siamo sicuri che sia proprio così? È plausibile sostenere che per un credente la risposta non c’è? E il papa, in quanto papa, può dire «davvero io non so che cosa rispondere»?

In realtà, dottrina e tradizione ci dicono che, per un credente, la risposta c’è. Dio non ha creato il male e la sofferenza, che sono conseguenze del peccato. Ecco la risposta, sconvolgente per la mentalità secolarizzata, ma inequivocabile per la Chiesa: il peccato. Un peccato al quale Dio, però, non ci abbandona come a una condanna inevitabile. Il Padre, infatti, manda suo Figlio ad assumere su di sé tutti i peccati, per sconfiggere la morte. Un’altra risposta sconvolgente, anzi scandalosa, per la mentalità secolarizzata. Ma altrettanto inequivocabile.

I due misteri, quello del male e del dolore innescato dal peccato, e quello della redenzione permessa dal sacrificio del Figlio di Dio, sono strettamente connessi.  Come spiegò Giovanni Paolo II in un’udienza generale del 1986 (10 dicembre) «il mistero del male e del peccato, il “mysterium iniquitatis”, non può essere compreso senza riferimento al mistero della redenzione, al “mysterium paschale” di Gesù Cristo».  E nella «Salvifici doloris», la lettera apostolica dedicata proprio al senso cristiano della sofferenza, Giovanni Paolo II scrive: «La sofferenza deve servire alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene nel soggetto, che può riconoscere la misericordia divina in questa chiamata alla penitenza. La penitenza ha come scopo di superare il male, che sotto diverse forme è latente nell’uomo, e di consolidare il bene sia in lui stesso, sia nei rapporti con gli altri e, soprattutto, con Dio».

Dunque le risposte ci sono, e la Chiesa, anche di recente, le ha formulate con chiarezza. Certo, se non si fa riferimento al peccato, diventa impossibile cogliere il significato della sofferenza come richiamo alla conversione.

Il peccato, fin da quello di Adamo: ecco la risposta. Un peccato, il primigenio, che è stato di disobbedienza: l’uomo, la creatura, che pretende di fare la sua volontà e non quella del Creatore.

Si tratta di una verità che la Chiesa ha costantemente ribadito, come leggiamo nella «Gaudium et spes»: «Costituito da Dio   . . . l’uomo fin dagli inizi della storia abusò della libertà sua, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio».

Ma l’uomo, Adamo, non ha fatto tutto da solo. È stato tentato da qualcuno. E da chi? Dal Maligno. Un’altra risposta inequivocabile. Perché, come si legge nel Libro della Sapienza (Sap 2, 24): «. . . la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono».

Le risposte ci sono, sono chiare. La Chiesa le possiede e le insegna da sempre.

Lungo i secoli, il problema del dolore innocente ha interpellato schiere di filosofi, teologi, scrittori, pensatori. La questione è quella alla quale gli atei fanno ricorso più volentieri per giustificare il loro non credere in Dio: se Dio c’è, ed è buono, come può permettere la sofferenza, sommamente ingiusta, dell’innocente?

Ecco, chi è senza risposte è appunto l’ateo. Ma il credente la risposta ce l’ha. Ed è una risposta che apre a infinite riflessioni. A partire da questa: il peccato fa irruzione nel mondo a opera di un solo uomo, Adamo, ma si riverbera sull’umanità intera. Allo stesso modo, il riscatto, la redenzione, è operata da un solo uomo, Gesù Cristo, ma va a beneficio di tutti. Non ce n’è abbastanza per interrogarci, in quanto credenti, sullo spessore della nostra responsabilità individuale nell’eterna battaglia tra la luce e le tenebre, tra il bene e il male?

Sì, la Chiesa ha le risposte, e il suo insegnamento sorregge l’opera dei santi.

Il beato don Carlo Gnocchi, il prete che dedicò la vita ai bambini disabili, nel suo libro «Pedagogia del dolore innocente» dice che attraverso il dolore dei bimbi «si ha in mano la chiave per comprendere ogni dolore umano e consolare la pena di ogni uomo percosso ed umiliato dal dolore». Risposta alla luce della fede.

In questi casi penso sempre a quei genitori che hanno avuto figli gravemente disabili o hanno fatto l’esperienza della perdita di un figlio. Ne ho conosciuti alcuni che, dopo un primo momento di ribellione totale a Dio («perché mi hai fatto questo?»), hanno poi trovato la risposta proprio in Gesù. Ricordo in particolare una mamma che mi ha detto: «Per lungo tempo non ho capito, ma ora so che l’esperienza della malattia di mio figlio aveva ed ha un significato. Ho scoperto la solidarietà di altre persone, mi si sono aperti gli occhi su ciò che conta davvero, ho percepito la bontà disinteressata. Mio figlio non ha sofferto invano. La sua sofferenza ci ha toccato nel cuore e ci ha migliorati».

Certo, approdare alla risposta non è facile. Ma la risposta c’è. Ha un nome e un volto.

Sostenere che una risposta non c’è non è forse in aperta contraddizione con la fede di quanti, e sono tanti, l’hanno trovata proprio nel valore redentivo del dolore innocente unito alla passione di Cristo e nella partecipazione al mistero della Redenzione?

Mi scrive un amico prete: «Grazie alla Croce di Cristo, il dolore innocente non è un enigma senza risposte, ma un mistero in cui entrare con fede e speranza, alla luce della Pasqua. Il Signore non ha lasciato senza risposta lo scandalo di Pietro di fronte alla croce né la tristezza dei discepoli di Emmaus, ma spiegò loro  quello che in tutte le Scritture si riferiva a Lui e disse: ”Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24, 26). Del resto Paolo, maestro di Luca, era convinto che la sofferenza, accolta nella fede, compie ciò che manca in noi dei patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa (Col 1,24)».

Dunque le risposte, alla luce della fede, ci sono. Difficili, difficilissime da accogliere per la ragione umana, ma ci sono. E, se ci sono, non andrebbero forse formulate dal pastore in modo che il gregge le possa meditare, accogliere e vivere? Il compito del pastore è quello di dire «non ho risposte» o è quello di confermare i fratelli nella fede?

Forse Francesco ha voluto dire: non ci sono risposte razionali, non ci sono risposte sul piano della sola ragione umana. Il problema è che lui ha detto: «Io non ho risposte» e «io non voglio vendere ricette che non servono» . Cioè: io prete, io padre gesuita, io vescovo e papa, non ho risposte.

Non solo. Ha anche detto che la Parola di Dio, in proposito, «può indicare qualche strada di consolazione». Ma, di nuovo, siamo sicuri che sia così? «Qualche strada di consolazione» non suona, per lo meno, riduttivo? La Parola di Dio non è forse Parola di Verità e di Vita? Gesù, con il suo sacrificio, non sconfigge forse la morte? E non siamo qui nel cuore stesso del mistero cristiano? La fede pasquale può essere ridotta a «qualche strada di consolazione»?

Ripeto: è probabile che Francesco abbia soltanto voluto mettersi dalla parte del senso comune, magari pensando di avvicinare, così, i lontani. Ma quanto è compatibile questo argomentare con il dovere di confermare i fratelli nella fede?

Il 29 maggio 1994, in un Angelus domenicale dai toni quasi mistici, san Giovanni Paolo II, reduce dal ricovero di un mese al Policlinico Gemelli per la frattura di un femore, parlò della sua sofferenza come di «un dono necessario», legato al mese mariano, e precisò: «Il Papa doveva trovarsi al Policlinico Gemelli, doveva essere assente da questa finestra per quattro settimane, quattro domeniche, doveva soffrire: come ha dovuto soffrire tredici anni fa, così anche quest’anno».

Il riferimento a tredici anni prima è ovviamente all’attentato del 13 maggio 1981. Poi papa Wojtyla spiega: «Ho meditato, ho ripensato di nuovo a tutto questo durante la mia degenza in ospedale. E ho trovato di nuovo accanto a me la grande figura del cardinale Wyszynski, primate della Polonia (del quale ricorreva ieri il tredicesimo anniversario della morte). Egli, all’inizio del mio pontificato, mi ha detto: “Se il Signore ti ha chiamato, tu devi introdurre la Chiesa nel terzo millennio”. Lui stesso ha introdotto la Chiesa in Polonia nel secondo millennio cristiano. Così mi disse il cardinale Wyszynski. E ho capito che devo introdurre la Chiesa di Cristo in questo terzo millennio con la preghiera, con diverse iniziative, ma ho visto che non basta: bisognava introdurla con la sofferenza, con l’attentato di tredici anni fa e con questo nuovo sacrificio. Perché adesso, perché in questo anno, perché in questo Anno della famiglia? Appunto perché la famiglia è minacciata, la famiglia è aggredita. Deve essere aggredito il Papa, deve soffrire il Papa, perché ogni famiglia e il mondo vedano che c’è un Vangelo, direi, superiore: il Vangelo della sofferenza, con cui si deve preparare il futuro, il terzo millennio delle famiglie, di ogni famiglia e di tutte le famiglie. Volevo aggiungere queste riflessioni nel mio primo incontro con voi, carissimi romani e pellegrini, alla fine di questo mese mariano, perché questo dono della sofferenza lo devo, e ne rendo grazie, alla Vergine Santissima. Capisco che era importante avere questo argomento davanti ai potenti del mondo. Di nuovo devo incontrare questi potenti del mondo e devo parlare. Con quali argomenti? Mi rimane questo argomento della sofferenza».

C’è da restare senza fiato davanti a questo papa che, meditando sul mistero del dolore, non solo trova la risposta nel «Vangelo superiore», ma addirittura ringrazia la Vergine per il dono della sofferenza e proclama che per lui diventerà argomento privilegiato nel confronto che dovrà sostenere con i potenti della terra (la cui logica, evidentemente, è ben diversa da quella evangelica) per difendere la famiglia.

Le risposte, dunque, alla luce della fede, ci sono. E che risposte!

Aldo Maria Valli





Quella lettera del Papa al cardinale Burke
di Riccardo Cascioli
02-02-2017

Il Papa con il card. Burke

Si tratta della lettera inviata dopo il colloquio personale che il cardinale Burke aveva avuto il 10 novembre con papa Francesco, a cui aveva spiegato la delicata situazione dell’Ordine riguardo alla posizione di Albrecht Boeselager, di cui raccontiamo nell’altro articolo. Questa lettera, resa nota anche a tutti i membri del Consiglio sovrano dell’Ordine, è stata fin qui usata come capo d’accusa (gravissimo) contro lo stesso cardinale Burke. 

Il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, è infatti intervenuto dopo la destituzione di Boeselager per contestare al cardinale patrono di aver millantato il sostegno di papa Francesco al siluramento di Boeselager. Questa è stata anche la base per il successivo intervento di segreteria di Stato e Papa che hanno portato alla richiesta di dimissioni al Gran Maestro Matthew Festing e al commissariamento dell’Ordine. Burke in realtà ha sempre negato di essere stato l’ispiratore del siluramento o di avere usato in modo fraudolento le parole del Papa, ma la lettera in realtà ha toni ben meno concilianti di quelli pretesi dal cardinale Parolin.

Il Papa, dopo aver richiamato il cardinale Burke alla vigilanza «in esecuzione del suo compito di “promuovere gli interessi spirituali dell’Ordine e dei suoi membri ed i rapporti fra la Santa Sede e l’Ordine” (Carta Costituzionale, art. 4 par. 4)», afferma anzitutto che «si dovrà evitare che nell’Ordine si introducano manifestazioni di spirito mondano, come pure appartenenze ad associazioni, movimenti e organizzazioni contrari alla fede cattolica o di stampo relativista». Il riferimento è alla presunta infiltrazione della massoneria tra i Cavalieri di Malta che il Papa, in colloqui privati, ha evocato più volte. «Qualora ciò dovesse verificarsi – prosegue papa Francesco – si inviteranno i Cavalieri che eventualmente fossero membri di tali associazioni, movimenti ed organizzazioni a ritirare la loro adesione, essendo essa incompatibile con la fede cattolica e l’appartenenza all’Ordine».

Il secondo capitolo riguarda il problema della diffusione dei contraccettivi nei paesi poveri: «Andrà inoltre particolarmente curato – si legge nella lettera – che nelle iniziative e opere assistenziali dell’Ordine non vengano impiegati e diffusi metodi e mezzi contrari alla legge morale. Se in passato è sorto qualche problema in questo ambito, mi auguro che possa essere completamente risolto. Mi dispiacerebbe sinceramente, infatti, se alcuni alti Ufficiali – come Lei stesso mi ha riferito – pur sapendo di queste prassi, concernenti soprattutto la distribuzione di contraccettivi di qualsiasi tipo, non siano finora intervenuti per porvi fine».

Chiaro dunque l’obiettivo posto dal Papa. Ma come affrontare i responsabili dello scandalo? «Non dubito però – scrive papa Francesco – che, seguendo il principio paolino di “operare la verità nella carità” (Ef 4, 15), si riuscirà a entrare in dialogo con loro ed ottenere le necessarie rettifiche».

Un’indicazione chiara anche qui, ma soprattutto un auspicio. Cosa succede infatti se i responsabili non intendono risolvere il problema? Come abbiamo spiegato nell’articolo principale, infatti, non si tratta di un piccolo problema isolato ma di pratiche svolte almeno fino a tempi recentissimi e soprattutto condivise ideologicamente da responsabili come Boeselager che fino al 2014 è stato il diretto responsabile di questi progetti. Da tutte le ricostruzioni della vicenda appare chiaro che c’è stato il tentativo del Gran Maestro di richiamare Boeselager alle sue responsabilità, cosa che è stata rifiutata, spingendo allora il Gran Maestro alla destituzione di Boeselager e il Consiglio sovrano a eleggere il suo successore come Gran Cancelliere.

Come poi sono andate le cose è storia recente, ma leggendo le chiare indicazioni di papa Francesco, non ci si può non stupire che il risultato finale sia che il responsabile oggettivo dei progetti condannati dal Papa sia oggi stato riabilitato e risulti il vincitore mentre coloro che hanno cercato di seguire le indicazioni del Papa sono stati silurati, umiliati e sottoposti alla gogna mediatica.

La lettera conferma anche che tra il Papa e il suo segretario di Stato emergono posizioni diverse sul caso Ordine di Malta, con un cardinale Parolin decisissimo a sostenere Boeselager e il commissariamento vero e proprio dell’Ordine. Un fatto che desta qualche curiosità, aumentata da un altro dettaglio finora non comunicato. La Santa Sede ha infatti deciso l’annullamento e l’invalidità di tutti gli atti del Gran Maestro e del Consiglio Sovrano dal 6 dicembre scorso. In questo modo viene resa nulla la destituzione di Boeselager ma anche – e sta qui il dettaglio – la nomina di una commissione d’inchiesta interna voluta dal Gran Maestro per indagare sul misterioso lascito di 120 milioni, depositati in Svizzera, di cui tanto si è parlato nelle scorse settimane e di cui il Gran Maestro era sostanzialmente all’oscuro. Informato (e interessato) pare invece lo fosse Boeselager. Ora questa commissione d’inchiesta non ci sarà più.

   


[Modificato da Caterina63 04/02/2017 21:31]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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