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iL MALE MINORE NON ESISTE E SE ESISTE PORTA AL MALE

Ultimo Aggiornamento: 10/01/2017 20:27
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10/01/2017 20:20
 
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Il “male minore” porta Male (8° parte: eutanasia e suicidio assistito)

 

01 Eutanasia

8) MALE MINORE, EUTANASIA e SUICIDIO ASSISTITO

I favorevoli all’eutanasia affermano che essa altro non è che il “male minore” rispetto alla sofferenza di chi si trovi agli ultimi stadi di una malattia incurabile, o di chi ritenga che la propria vita sia diventata un fardello intollerabile a cui porre fine. Meglio quindi una “morte dolce” anticipata (male minore), che una vita sino alla sua fine naturale tribolata e senza dignità (male maggiore).

L’obiettivo in sé benigno e lecito dell’eliminazione del dolore, causato da una malattia terminale (funzione della medicina palliativa), viene così perseguito eliminando non la sofferenza, ma il sofferente. In altre parole, si rimuove il dolore (male maggiore) eliminando anzitempo il malato e si chiama questo omicidio “male minore”.


 

INDICE:

1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?

Male minore e “nuovi diritti” legalizzati

2) Male minore e aborto

3) Male minore e fecondazione extracorporea

4) Male minore e divorzio

5) Male minore e contraccezione artificiale

Male minore e “nuovi diritti” reclamati

6) Male minore e matrimonio gay

7) Male minore e droga libera

8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito

9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico

10) Conclusione

Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi

 

8) MALE MINORE, EUTANASIA e SUICIDIO ASSISTITO

L’eutanasia fa parte della rosa dei “nuovi diritti” di cui la società dovrebbe dotarsi. La sua legalizzazione è perseguita con le solite vecchie tattiche ormai collaudate: è improntata sulla “riduzione del danno”, si fa abbondante uso di politically correct, è presentata come una prassi medica consolidata e perciò da regolarizzare con una legge al fine di prevenire gli abusi (fermare il far west eutanasico).

I favorevoli all’eutanasia affermano che essa altro non è che il “male minore” rispetto alla sofferenza di chi si trovi agli ultimi stadi di una malattia incurabile, o di chi ritenga che la propria vita sia diventata un fardello intollerabile a cui porre fine. Meglio quindi una “morte dolce” anticipata (male minore), che una vita sino alla sua fine naturale tribolata e senza dignità (male maggiore).

Alleviare il dolore di una persona con l’omicidio (eutanasia), o aiutarla a suicidarsi (suicidio assistito), diventano – secondo le migliori interpretazioni politically correct – puri e semplici atti di umanità, scaturenti da sentimenti pietosi e caritatevoli verso il prossimo sofferente. Ecco, per fare un esempio, il parere dello scrittore Renato Pierri, secondo il quale l’eutanasia “è la scelta necessaria del male minore (dal punto di vista del malato)”:

“Vi sono azioni che violano la legge morale ma non la legge civile e azioni che violano la legge civile ma non la legge morale. Tra queste ultime, a mio parere, è da annoverare l’eutanasia, qualora ovviamente risponda solo e unicamente allo scopo disinteressato di fare del bene a colui che invoca disperatamente la morte, non riuscendo ad accettare una vita (già del resto negata dal destino) da lui ritenuta insopportabile. In questo caso l’eutanasia, per quanto possa sembrare strano alle persone religiose, risponde al comandamento dell’amore per il prossimo”.

O il parere del professor Giorgio Macellari, specialista in chirurgia, per il quale l’eutanasia è “un male morale di principio”, ma di fronte ai casi particolari in cui

“la vita residua si spoglia della dignità che ad essa normalmente viene attribuito, quando il dolore e l’angoscia si fanno insostenibili, quando la sfacelo del corpo ha oltrepassato il confine della decenza e del pudore… mi sento costretto ad approvarla. Nel senso che in casi particolari il suo impiego può rappresentare un male morale minore del suo rifiuto: lo scopo primario della medicina non è soltanto lottare per la vita, ma anche evitare di far soffrire. È in quest’ottica dolorosa e angosciante che io guardo all’eutanasia: una parola che emotivamente mi ripugna, ma che razionalmente mi può richiamare un atto di carità”.

L’obiettivo in sé benigno e lecito dell’eliminazione del dolore, causato da una malattia terminale (funzione della medicina palliativa), viene così perseguito eliminando non la sofferenza, ma il sofferente. In altre parole, si rimuove il dolore (male maggiore) eliminando anzitempo il malato e si chiama questo omicidio “male minore”. Come si vede, il “male minore” è diventato l’alibi per sopprimere la vita al suo stadio iniziale e finale, nel primo caso si chiama aborto, nel secondo eutanasia, ma il risultato è sempre lo stesso: una persona viene uccisa e nessuno viene condannato per quel delitto.

Ciò che più stride in affermazioni del tipo di cui sopra, è che siano pronunciate in un tempo in cui la Medicina Palliativa è così progredita e diffusa da permettere di combattere efficacemente il dolore del malato terminale, motivo per cui, se c’è un’epoca in cui la tesi “sì all’eutanasia per non far soffrire il malato terminale” appaia assurda e infondata, quella è sicuramente l’epoca attuale. La terapia del dolore fornisce, infatti, un aiuto decisivo a chi si trova agli ultimi stadi di una malattia, migliorandone notevolmente la qualità della vita. L’esperienza delle reti di assistenza domiciliare e di molti hospice, dimostra che i malati non chiedono di essere uccisi se le loro sofferenze sono alleviate, se non sono lasciati soli e se non percepiscono di essere un peso per gli altri. Il dottore Marco Maltoni, direttore dell’Unità Cure Palliative dell’Ospedale di Forlimpopoli, citando uno studio di Kelly e collaboratori, osserva:

“La valutazione soggettiva del paziente sul significato della propria vita [è] fortemente influenzata dalle modalità di cura”. Tra i motivi di richiesta eutanasica, non figurano in maniera significativa “dolori o sintomi fisici non controllabili, dato che con il più appropriato uso di farmaci ed approcci palliativi la sintomatologia fisica è oggi controllata nella grande maggioranza dei casi”. Il desiderio di anticipare la morte è significativamente maggiore nei pazienti con “percezione di essere un peso per gli altri; bassa coesione familiare; depressione”.

Dietro l’eliminazione della sofferenza fisica attraverso la “dolce morte” del malato, si cela in verità altro, come denuncia il francese Lucien Israel, specialista in neurologia e decenni di esperienza proprio con i malati terminali:

“Altro che autodeterminazione. Per me, l’eutanasia è una richiesta che proviene dalle persone sane che vogliono disfarsi di un malato grave o in fase terminale”.

Il neurologo francese ha ricordato in più di un’occasione che in Francia vive un certo numero di olandesi anziani che si sono trasferiti lì per paura di essere sottoposti all’eutanasia se fossero rimasti nel loro Paese:

“Se questa tendenza continua […] gli anziani dovranno difendersi dai giovani. Ma non solo: dovranno anche difendersi da medici e infermieri. Forse si comporteranno come gli anziani olandesi che, oggi, vengono a cercare protezione in Francia e in Italia. Può darsi che un giorno i nostri anziani saranno costretti a cercare rifugio nel Benin”.

Eutanasia legale, quindi, per eliminare in realtà, non la sofferenza del malato, ma il malato stesso, perché la sua presenza costringe a interrogarsi sul significato dell’esistenza, a fare i conti con il degrado fisico e la fragilità umana. Eutanasia legale per eliminare il familiare che è diventato un peso, colui al quale non si vuole o non si è in grado di prestare cura. Eutanasia legale per togliere di torno colui che, con i suoi acciacchi e le sue infermità, è diventato una persona “inutile”, un “fardello insostenibile” per il sistema sanitario e la collettività.

03 abusiSe si guarda ai pochi Stati del mondo che hanno introdotto l’eutanasia e/o il suicidio assistito, si può osservare come la tanto propagandata “libera scelta” sul proprio fine vita si sia di fatto rivelata una pura illusione, con il “diritto di morire” che si è presto capovolto nel “dovere di morire”; come il “piano inclinato” abbia via via inglobato, tra gli idonei al trapasso “volontario”, categorie sempre più ampie di sofferenti; come gli abusi siano diventati così numerosi che ormai non si contano più, e la cultura della morte sia così tanto dilagata nel sentire comune, da aver portato a un aumento esponenziale, non solo del numero di sofferenti che chiede di morire, ma anche dei suicidi volontari tra chi è ancora giovane e in salute.

In Oregon, i rapporti ufficiali indicano che, in tredici anni, i suicidi assistiti annui sono più che quadruplicati. Dal 1998 al 2011 sono stati 600 circa i pazienti che vi hanno fatto ricorso, ma il loro numero potrebbe essere ben più elevato poiché, a causa dei gravi difetti presenti nella legge e dei molti limiti del sistema di rilevazione “a campione” predisposto, non si è in grado di conoscere con certezza quanti e in quali circostanze i pazienti siano morti.

Le stesse gravi lacune si sono riscontrate nello Stato di Washington dove, nonostante la legalizzazione del suicidio assistito sia recente, essendo la legge entrata in vigore solo nel 2009, il trend in crescita è già evidente: i rapporti del Dipartimento della Salute mostrano che in appena tre anni il numero ufficiale dei suicidi assistiti è già raddoppiato.

Un analogo andamento si è verificato in Olanda con le eutanasie legali: dal 2003 al 2011 le “dolci morti” ufficiali sono lievitate del 103%, passando da 1.815 nel 2003 a 3.695 nel 2011. Lo stesso si è registrato in Belgio, dove i casi di morte on demand sono quintuplicati: erano 259 nel 2002, sono arrivati a 1.432 nel 2012. E in Svizzera, dove i suicidi assistiti in quattordici anni sono cresciuti del 730%, passando dai 43 casi del 1998 ai 356 del 2012.

04 suicidiAll’impennata delle eutanasie e dei suicidi assistiti, verificatasi in tutti i Paesi che hanno legalizzato queste pratiche, è seguito l’aumento dei suicidi nella popolazione generale, come ha osservato la dottoressa Jacqueline Harvey dell’University of North Texas. Harvey ha analizzato la letteratura scientifica degli ultimi vent’anni dei Paesi che hanno introdotto le pratiche eutanasiche, in particolare di Oregon, Washington e Olanda, scoprendo che la legalizzazione del suicidio assistito porta all’aumento, non solo delle richieste legali dei suicidi assistiti, ma anche del numero dei suicidi nella popolazione generale:

“C’è la questione del contagio da suicidio. I suicidi sono quasi come una malattia infettiva. È stato statisticamente dimostrato che dopo la legalizzazione del suicidio assistito in Oregon, il tasso di suicidio degli adolescenti e i suicidi illegali della altre persone sono aumentati”.

Lo stesso è avvenuto nello Stato di Washington dove, benché sia passato solo qualche anno dalla legalizzazione del suicidio assistito, già si può osservare – ha detto Harvey – come la legalizzazione di tali pratiche sia in grado di generare quella che alcuni chiamano “cultura di morte”. Questa “cultura di morte” si è ben radicata anche in Svizzera, dove il suicidio volontario è diventato la prima causa di morte tra i giovani dai 15 ai 24 anni. Il fenomeno appare inarrestabile: ogni anno sono circa 1.400 le persone che si tolgono la vita, il doppio delle morti per incidente stradale. Secondo uno studio pubblicato nel 2005 dall’Ufficio federale della sanità pubblica, in Svizzera 1 persona su 10 si è suicidata o ha tentato almeno una volta il suicidio.

La legalizzazione delle pratiche eutanasiche – come abbiamo già accennato – ha innescato anche il meccanismo del “piano inclinato” che ha portato al progressivo allargamento dei confini legali per usufruire della morte su richiesta.

All’inizio, in Olanda, l’eutanasia era prevista solo per i casi eccezionali di malattia terminale, poi vi è stata inglobata la sofferenza psicologica, successivamente si sono aggiunti i casi di disabilità, quindi è arrivato il Protocollo di Groningen per disciplinare l’eutanasia di neonati e bambini, finché, più di recente, si è iniziato a discutere della possibilità di estendere la “dolce morte” anche alle persone sane ma stanche di vivere o, semplicemente, “sofferenti” di vecchiaia.

Un percorso analogo si è verificato anche in Belgio. Si è partiti con l’eutanasia per i malati incurabili con un’afflizione psicofisica persistente e insopportabile; poi è arrivato il via libera all’eutanasia a una signora 93enne che l’aveva chiesta perché si sentiva molto sofferente a causa degli acciacchi dovuti alla vecchiaia; quindi è stata la volta di due fratelli gemelli sordi dalla nascita, che hanno potuto ottenere l’iniezione letale a causa della grave “sofferenza psicologica” subentrata dopo aver scoperto che presto sarebbero diventati anche ciechi; finché non è arrivata anche in Belgio l’eutanasia per i minori, senza limiti di età, affetti da malattie terminali; mentre è già da un po’ che si discute di estendere il “servizio” anche ai dementi e ai malati di Alzheimer. In sostanza, si è iniziato con l’eutanasia per i casi incurabili e terminali, si è passati all’eutanasia su richiesta per malesseri fisici e psichici associati alla vecchiaia e a forme di disabilità, e si è arrivati al punto in cui l’eutanasia dovrebbe essere concessa anche a chi non la chiede.

Anche in Svizzera si è partiti con il suicidio assistito riservato ai malati terminali e poi è partita la deriva. Per capire quanto ampi siano diventati i confini per usufruire della “buona morte” elvetica basta consultare i dati di Exit DS, l’organizzazione privata di aiuto al suicidio più importante del Paese. Secondo il Rapporto del Consiglio federale del giugno 2011, nel 2009 Exit Ds ha accompagnato al suicidio 217 persone, delle quali: 93 affette da cancro, 47 da polimorbilità, 9 da malattie croniche, 5 da sclerosi laterali amiotrofica, 3 da emorragia cerebrale, 7 da sclerosi a placche, 6 da morbo di Parkinson, 2 da malattie psichiche, 17 da dolori cronici, 2 da un inizio di demenza, 9 da malattie polmonari, 9 da polineuropatie, 3 da tetraplegie, 3 da malattie agli occhi, e 8 da altre patologie.

L’avvocato americano Wesley J. Smith, rappresentante dell’International Task Force (un’organizzazione internazionale che si batte contro l’introduzione di eutanasia e suicidio assistito), ha osservato:

“La cultura della morte è vorace. Una volta che inizia a nutrirsi, non è mai sazia. Le categorie per uccidere alla fine non sono mai abbastanza”.

06 cultura mortePoi ci sono gli abusi[1], e nessun Paese tra quelli che hanno legalizzato le pratiche eutanasiche ne è immune, alla faccia di chi crede che la legalizzazione sia la strada per eliminare ogni genere di far west.

In Olanda, per esempio, il governo ha deciso di introdurre la “dolce morte” proprio con l’intenzione di portare le eutanasie illegali allo scoperto. Vari elementi facevano, infatti, pensare che questa fosse ormai una prassi medica consolidata. Negli anni Settanta i medici dei distretti avevano firmato una lettera aperta indirizzata al Ministro della Giustizia, in cui dichiaravano che l’eutanasia era comunemente praticata. Un sondaggio promosso dallo Stato negli anni Novanta, per determinare la frequenza di suicidio assistito ed eutanasia, che garantiva alla classe medica immunità e anonimato sulle risposte, aveva messo in luce che le morti procurate dai medici erano circa il 9% dei decessi annuali, di cui 2.300 eutanasie su richiesta, 400 suicidi assistiti e 1.040 (una media di circa 3 al giorno) eutanasie praticate all’insaputa o senza il consenso del paziente.

Il governo pensava che l’applicazione di criteri di valutazione uniformi in tutti i casi in cui il medico termina la vita di un paziente, nonché la necessità di soddisfare i requisiti di dovuta diligenza, avrebbero permesso di fermare le eutanasie clandestine ed evitare gli abusi sui malati, cioè che potessero essere uccisi senza il loro consenso, ma così non è stato. La classe medica olandese ha ritenuto che le modalità previste nella nuova legge fossero “troppo confuse”, con il risultato che, dopo la legalizzazione, non solo le segnalazioni dei casi di eutanasia non sono aumentate, ma sono addirittura diminuite. Dopo la legalizzazione si è verificato anche un altro fenomeno: hanno iniziato a salire, anno dopo anno in misura sempre più elevata, le morti dopo “sedazione profonda continua” (o “terminale”) e le morti dopo “alleviamento intensificato dei sintomi”.

Le linee guida emanate dalla Royal Dutch Medical Association, prevedono che la sedazione “terminale” si applichi nelle ultime due settimane di vita del paziente unitamente alla sospensione di idratazione e nutrizione. Una prassi che, tuttavia, non ha niente a che vedere con gli interventi di tipo palliativo, come osserva il neurologo Gian Luigi Gigli:

“[La sedazione terminale] mira, infatti, non a controllare il dolore, ma a far entrare il paziente in un tunnel senza via d’uscita, al termine del quale vi è inevitabilmente la morte. I farmaci sono, infatti, somministrati a dosi tali da abolire la coscienza, mentre vengono abitualmente sospese le altre terapie e sono arrestate l’idratazione e la nutrizione”.

La scelta di sospendere i sostegni vitali, continua Gigli, deve rimanere separata dalla decisione di sedare, e deve essere presa solo se idratazione e nutrizione non sono assimilate o sono dannose per il paziente:

“È chiaro infatti che la sospensione di idratazione e nutrizione comporta inevitabilmente la morte nell’arco di un paio di settimane. Il requisito olandese di ‘terminabilità’ a due settimane costituisce quindi una sorta di profezia che si autorealizza”. Non stupisce pertanto che “in dieci anni la percentuale di olandesi che muoiono a seguito di sedazione continua profonda è passata dal 5,6% del 2001 al 12,3% del 2011. Il tutto senza possibilità di una seconda opinione, come è previsto per l’eutanasia, e spesso senza il consenso del paziente, trattandosi di una ‘normale pratica medica’. Che si tratti invece di eutanasia mascherata lo dimostra il fatto che i maggiori centri europei di cure palliative riferiscono di percentuali di malati sedati che in genere non superano il 5 o il 10 per cento del totale dei pazienti seguiti”.

In pratica, in Olanda, otto anni dopo l’introduzione dell’eutanasia, il numero dei decessi dopo “sedazione terminale” è raddoppiato, interessando nel 2010 ben 16.700 pazienti. E, nello stesso periodo, sono aumentati anche i pazienti morti dopo “alleviamento intensificato dei sintomi”, che sono passati dal 20,1% al 36,4% delle morti totali. In questi secondi casi, osserva Gigli:

“La morte è preceduta da somministrazione di oppiacei e psicofarmaci, invece che da miorilassanti e barbiturici, come avviene per l’eutanasia riconosciuta e per il suicidio assistito. È significativo che in oltre la metà dei casi di ‘morte dopo alleviamento intensificato dei sintomi’, la decisione sia stata presa senza consultare né il paziente né i suoi familiari…

Se gli oppiacei, ad esempio, sono spesso necessari per il controllo del dolore, della sensazione di fame d’aria e della tosse, essi debbono essere mantenuti al minimo necessario, preferendo, per ottenere l’effetto sedativo, ricorrere alle benzodiazepine che a differenza degli oppiacei non accelerano il decesso…

Il forte aumento dei pazienti ‘morti dopo alleviamento intensificato dei sintomi’ e, soprattutto, il raddoppio di quelli morti durante sedazione continua profonda appaiono molto sospetti e non giustificati da reali modificazioni della scena clinica. In altri termini, vi è il sospetto che la percentuale dei casi di eutanasia resti bassa solo perché i medici non chiamano eutanasia la morte affrettata con gli oppiacei e gli psicofarmaci, nella metà dei casi senza neanche discuterne con il paziente e i familiari”.

Come si vede, quindi, anche dopo la legalizzazione dell’eutanasia gli abusi permangono: i medici olandesi continuano a fare come vogliono, i malati continuano a essere uccisi senza essere consultati e i loro familiari continuano a essere tenuti all’oscuro su tale decisione. Per aggirare la “confusa” legge emanata dallo Stato, i dottori non fanno altro che applicare due “normali procedure mediche”, contraddistinte da un lessico politically correct e rassicurante, ma che nei fatti sortiscono lo stesso effetto dell’eutanasia: la morte certa del malato. Non stupisce, allora, se gli olandesi anziani se la diano a gambe emigrando nei Paesi vicini, dove il ricovero in ospedale non li esponga al rischio di ritrovarsi morti stecchiti nel giro di due settimane, dopo essere stati “terminati” anzitempo e contro la propria volontà, con un normalissimo “alleviamento intensificato dei sintomi” o una semplicissima “sedazione continua profonda”.

Anche in Belgio vi sono casi di malati eutanasizzati senza il loro assenso. Uno studio pubblicato nel 2010 sul Canadian Medical Association Journal, ha rilevato che un terzo delle eutanasie (66 su 208) praticate nelle Fiandre tra giugno e novembre 2007 è avvenuto senza il consenso dei pazienti. I medici hanno motivato il fatto di non averlo chiesto perché il paziente era in stato comatoso (70,1%), o affetto da demenza (21,1%), o perché in precedenza aveva già espresso verbalmente la volontà di morire (40,4%), circostanza, quest’ultima, che non può tuttavia considerarsi come valido consenso. Un altro studio, pubblicato sempre nel 2010 sulla medesima rivista scientifica, ha scoperto che un quinto circa di tutte le infermiere belghe aveva praticato l’eutanasia, in palese violazione delle disposizioni di legge, secondo le quali spetta solo al medico di eseguirla; inoltre, tra costoro, ben 120 l’avevano messa in pratica senza che vi fosse il consenso espresso del paziente. Il 5 ottobre 2010, uno studio sul British Medical Journal ha messo in luce anche la violazione dell’obbligo di comunicazione delle eutanasie realizzate, si è infatti visto che, di tutte le “dolci morti” praticate nelle Fiandre, solo il 52,8% era stato notificato alla Commissione Federale di Controllo e Valutazione.

08 human organ transplantMa in Belgio si stanno affacciando scenari ancor più inquietanti dopo che, in un congresso sulla donazione e trapianto di organi, organizzato dall’Accademia Reale di Medicina, i professori Dirk Ysebaert, Dirk Van Raemdonck e Michel Meurisse, hanno suggerito la definizione di linee guida per il prelievo di organi dalle persone morte per eutanasia, in modo da fronteggiare la penuria di organi per il trapianto. L’idea è partita dopo che si è constatato che il 20% dei pazienti belgi ad aver scelto ufficialmente l’eutanasia nel 2008 soffriva di disturbi neuromuscolari, una condizione che rende queste persone ottimi donatori vista l’“alta” qualità dei loro organi. Questa proposta a dir poco agghiacciante ha già superato in Belgio la mera ipotesi teorica, visto che in letteratura scientifica sono già stati menzionati almeno quattro casi di pazienti belgi che hanno subìto l’espianto degli organi dopo la morte per eutanasia. L’avvocato Wesley J. Smith aveva lanciato l’allarme già nel 2010, denunciando il caso di una donna belga affetta da sindrome “locked-in” alla quale sono stati asportati fegato e reni dieci minuti dopo la morte indotta, avvenuta in presenza del marito e certificata da tre medici diversi. Smith ha commentato:

“È un terreno molto pericoloso… quello di avvalorare l’idea che sia meglio essere morti che handicappati e che dei pazienti viventi possano, in sostanza, essere considerati una risorsa naturale da uccidere e sfruttare.

Il prelievo di organi da chi è stato sottoposto a eutanasia, introduce la prospettiva assolutamente realistica per cui persone disperate a causa di una malattia terminale o di una grave disabilità (o, forse, semplicemente disperate) potrebbero aggrapparsi all’idea di essere uccise per consentire il prelievo dei loro organi, come un modo per dare un senso alla loro esistenza”.

In Svizzera i suicidi assistiti sono attuati da diverse organizzazioni private, ma anche in questo Paese, come negli altri che hanno legalizzato queste pratiche, la poca trasparenza e le carenze nell’azione di controllo suscitano non poche perplessità. Da più parti, nel corso degli anni, si è invocata la necessità di regole più chiare e notizie dettagliate circa i suicidi assistiti messi in atto, dei quali non si sa pressoché nulla. Nel 2006 la Commissione nazionale d’etica ha chiesto che le organizzazioni private siano meglio sorvegliate dallo Stato per fare in modo che siano rispettate delle precise esigenze etiche e i pazienti siano protetti dagli abusi. In caso di illecito, infatti, sono proprio le disposizioni di legge a non consentire di agire in maniera adeguata dal punto di vista giuridico.

La Dignitas, per esempio, una delle organizzazioni elvetiche che offre il “servizio” anche agli stranieri, ha suscitato più volte scandalo a causa della sua condotta discutibile, ma non risulta che sia mai andata incontro a una condanna per questo. Nel 2008 ha suscitato molte polemiche la notizia di due casi di pazienti tedeschi assistiti al suicidio all’interno delle loro auto nei pressi di un bosco. Prima di questo episodio, altri pazienti erano stati assistiti clandestinamente in un albergo di Winterthur. Nello stesso anno Dignitas ha dovuto fare i conti con l’indignazione del procuratore generale, che ha invocato la necessità di norme di legge più chiare, dopo che i responsabili hanno consegnano in procura i filmati di alcuni suicidi assistiti praticati con il gas elio. Nel 2010 è arrivato un nuovo scandalo, quando i sommozzatori hanno ripescato dal lago di Zurigo 35 urne funerarie, private della placca di identificazione, ma riconducibili all’organizzazione privata. Qualche anno prima, alcuni dipendenti della clinica erano stati colti in flagrante proprio mentre versavano le ceneri dei pazienti cremati nel lago. Un’ex impiegata della clinica ha dichiarato:

“Il fondatore di Dignitas mi ha sempre detto che si sarebbero dissolte nell’acqua, che erano urne di argilla. La ragione di questo comportamento è economica: perché è molto costoso inviare queste urne all’estero e lui voleva risparmiare”.

Nel 2007, il tribunale penale di Basilea ha condannato Peter Baumann, della Verein Suizidhilfe, un’altra organizzazione privata di aiuto al suicidio, a tre anni di carcere di cui due con la condizionale, per aver aiutato a morire tre malati psichici parzialmente incapaci di discernimento. Una pena assai lieve, se si considerano anche i metodi barbari usati dal dottore per mandare a morte i pazienti: dopo la somministrazione di tranquillanti, Baumann li ha soffocati infilando loro un sacco intorno alla testa.

10 pentobarbitalIl Rapporto del Consiglio federale di giugno 2011 ha indicato vari abusi associati ai suicidi assistiti, come: aiuto al suicidio di persone incapaci di discernimento o in buona salute, fornitura senza prescrizione della sostanza (pentobarbitale sodico) usata per i suicidi, stoccaggio illegale di questa sostanza, attività destinate a trarre profitto dai suicidi assistiti.

Irregolarità e abusi si registrano puntuali anche in America. La legge dell’Oregon prevede che i pazienti depressi o malati di mente possano ricorrere al suicidio assistito solo se non hanno il “giudizio alterato”, tuttavia dai rapporti ufficiali è emerso che solo il 5% dei pazienti è stato sottoposto a valutazione psicologica prima di ricevere la prescrizione per suicidarsi. Poco si sa delle complicazioni che, non di rado, si verificano durante l’assunzione dei farmaci mortali (panico, terrore, comportamenti aggressivi, vomito, spasmi, convulsioni, rantoli, molte ore di straziante agonia prima che arrivi la morte, ecc.) perché la legge dispone che il medico che fa la prescrizione letale non sia tenuto a essere presente quando il paziente l’assume. Il sesto rapporto annuale ha rilevato la presenza di un medico in meno del 30% dei decessi segnalati, ciò significa che quello che accade durante i suicidi assistiti rimane perlopiù sconosciuto e che la maggior parte dei suicidi “assistiti” sono in realtà ben poco assistiti. Queste e molte altre irregolarità sono state riepilogate in una relazione consegnata al Public Health Department da parte dei medici della Physicians for Compassionate Care Education Foundation, i quali alla fine concludono:

“Il velo di segretezza che circonda il suicidio assistito è più pesante che mai. Ogni anno che passa, gli oregoniani sanno sempre meno di ciò che realmente accade nello Stato con i suicidi assistiti”.

La stessa sorte beffarda colpisce i malati dello Stato di Washington. Eileen Geller, presidente della “True Compassion Advocates” ha messo in discussione la precisione del rapporto del Dipartimento della Salute, poiché risulta che vi sono persone di cui non si sa nulla dopo aver ricevuto la prescrizione dei farmaci per uccidersi:

“I dati pubblicati nel rapporto del 2010 sono così scarsi e inattendibili che anche alcuni di coloro che sono d’accordo con questa linea politica hanno delle riserve circa la capacità del Dipartimento della Salute di stabilire se la legge opera in piena sicurezza e ‘volontarietà’ come i suoi fautori hanno assicurato.

Gli elettori di Washington pensavano che avrebbero ottenuto una legge che garantisse loro la scelta. Quello che hanno ricevuto è qualcosa di completamente diverso: una legge che in alcuni casi è diventata una ricetta per l’abuso nei confronti degli anziani e uno strumento di coercizione finanziaria”.

La legge di Washington sul suicidio assistito riesce a essere persino peggiore di quella oregoniana, visto che si spinge fino a costringere i medici a mentire sulla causa di morte dei loro pazienti. Essa dispone infatti che, quando un paziente muore dopo aver assunto i farmaci letali prescrittigli, il medico riporti come causa di morte la malattia terminale di base. Brian Wicks, presidente della “Washington State Medical Association”, ha osservato:

“Se il medico prescrive un’overdose letale, quando quel medico compila il certificato di morte, è tenuto – effettivamente tenuto – a indicare la malattia di base (per esempio cancro ai polmoni) come causa di morte, anche quando il dottore sa bene che il paziente è morto per suicidio a seguito dell’overdose da lui prescritta. Per quanto ne sappia non c’è nessun’altra situazione in medicina in cui il certificato di morte sia deliberatamente falsificato, e in cui questa falsificazione sia obbligatoria per legge”.

Ecco con che cosa ci ritroveremo a fare i conti in Italia, se gli apostoli del “male minore” dovessero riuscire a far legalizzare l’eutanasia: aumento esponenziale del numero delle morti on demand, aumento dei suicidi nella popolazione generale, affermazione della “cultura di morte”, irregolarità, abusi e il far west che continua indisturbato.

12 Adolf Eichmann11 Wim DistelmanDal Belgio ci è giunta la notizia che Wim Distelmans – il “dottor morte” che si occupa di “iniezioni letali” nella sua clinica di Bruxelles – ha organizzato un viaggio-studio ad Auschwitz rivolto ai professionisti della medicina coinvolti nell’eutanasia. Distelmans ha dichiarato di aver scelto il noto campo di sterminio perché lo considera un “luogo di ispirazione” in cui “poter riflettere su questi temi in modo da poter prendere in considerazione e chiarire le confusioni” intorno all’eutanasia. Molti l’hanno bollata come un’iniziativa di cattivo gusto. In realtà, più che una pessima iniziativa, essa sembra piuttosto il sintomo del fatto che, come al tempo delle deportazioni di Eichmann, stiamo ancora vivendo “in un’epoca di crimine legalizzato dallo Stato”.

 

[1] Ho trattato più dettagliatamente questo aspetto nell’articolo: “Rischi e abusi nei Paesi che hanno legalizzato l’eutanasia e/o il suicidio assistito”, Libertà e Persona, 29 settembre 2013.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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