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La Chiesa non può dare la Comunione ai divorziati-risposati perché LI AMA (2)

Ultimo Aggiornamento: 25/02/2018 13:51
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20/04/2017 10:23
 
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Ultima Cena, Duccio di Boninsegna
 

La corretta pastorale di indicare dei traguardi e porre dei limiti non può essere tacciata di rigorismo: è semplicemente fedeltà verso Gesù Cristo e onestà verso l’uomo, evitando di offrirgli una salvezza che non è tale. È anche misericordia, avviando l'uomo con la dottrina e la carità verso la salvezza vera. I limiti della partecipazione per la Chiesa non si basano mai unicamente su norme morali o consuetudini culturali: mettono in gioco e nel profondo l’Eucaristia stessa.

di Padre Riccardo Barile OP



In preparazione del Convegno internazionale di sabato 22 aprile ("Fare chiarezza - A un anno dalla Amoris Laetitia"), pubblichiamo alcuni articoli che affrontano i punti nodali che sono alla base delle opposte interpretazioni che si danno dell'Amoris Laetitia e soprattutto del capitolo VIII (dedicato alle situazione irregolari). Oggi completiamo le riflessioni sull'Eucaristia (qui la prima puntata).

La lavanda dei piedi da parte della Chiesa a tutti gli uomini per accedere all’Eucaristia avviene con il battesimo, con la predicazione della penitenza, con la proposizione della sana dottrina, ecc.: in pratica con una costante e corretta pastorale.

Ma con materna severità anzitutto la Chiesa vieta - ha sempre vietato - di accedere all’Eucaristia in peccato grave o mortale. San Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia ha scritto al riguardo: «Desidero ribadire che vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma con cui il Concilio di Trento ecc.» (n. 36). Sono parole pesanti che costringono la Chiesa di sempre a fare i conti con il Concilio di Trento su questo punto.

Il Concilio di Trento parla più volte dell’Eucaristia in relazione al peccato e con una dottrina molto ricca.

Anzitutto «la santità e la divinità di questo celeste sacramento» esigono di riceverlo con «una grande venerazione e santità» e i fedeli devono «accostarsi rivestiti dell’abito nuziale» (Decreto sul santissimo sacramento dell’Eucaristia dell’11.10.1551, capp. VII-VIII).

Considerando l’Eucaristia come cibo, questa è «l’antidoto con cui essere liberati dalle colpe d’ogni giorno e preservati dai peccati mortali» (Ivi, cap. II). Le colpe di ogni giorno sono le imperfezioni e i peccati lievi, secondo una sentenza di sant’Agostino: «Si adatti alla condotta quella lode che non dimentichi la necessità del perdono (Sic vita laudetur, ut venia postuletur)» (Sermone 19,2).

Considerando la condizione base per accedere all’Eucaristia, si esige un “esame di se stesso” (1Cor 11,28) perché «nessuno consapevole di essere in peccato mortale, per quanto possa ritenersi contrito, si accosti alla santa Eucaristia senza avere premesso la confessione sacramentale» (Ivi, cap. VII). Si condanna che la sola fede sia «preparazione sufficiente» (Ivi, can. 11). Ad oggi il CCC 1385 ribadisce la medesima dottrina.

Considerando l’Eucaristia come sacrificio, in essa «è contenuto e immolato in modo cruento lo stesso Cristo» che si offrì sulla Croce. In questo senso la Messa è il “propiziatorio” dove possiamo trovare grazia (Eb 4,16) e attraverso il quale il Signore «concedendo la grazia e il dono della penitenza, perdona i peccati e le colpe, anche le più gravi (crimina et peccata etiam ingentia dimittit)»(Dottrina e canoni su santissimo sacrificio della Messa del 17.9.1562, cap. II).

Abbiamo sempre iniziato con un “Considerando...” perché le affermazioni vivono nel contesto né è legittimo trasferirle altrove. Così, se è vero che l’Eucaristia rimette tutti i peccati anche gravi, ciò è detto in quanto è relativa al sacrificio di Cristo, mentre se si trasferisce la stessa affermazione alle condizioni per accedervi, si azzera il sacramento della Penitenza e si ammettono tutti alla comunione “così come sono”, mentre al riguardo il Concilio di Trento richiede la purificazione dal peccato grave. E questo trasferimento di contesti oggi talvolta lo si fa, con quali conseguenze ognuno lo può immaginare.

Per quali ragioni la Chiesa prescrive di non accostarsi all’Eucaristia in stato di peccato mortale non confessato?

1. Perché all’Eucaristia si arriva dopo un cammino di conversione.

Dopo l’annunzio del Vangelo, se la risposta è positiva, chi ascolta «si sente chiamato ad abbandonare il peccato» (Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti 10) e ad entrare poi nel catecumenato, un itinerario «che implica un progressivo cambiamento di mentalità e di costume» (Ivi, 18,2). Solo avvenuta questa conversione si sarà ammessi all’Eucaristia. Per cui nel tempo successivo «se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione» (Amoris Laetitia 297) e a maggior ragione non può partecipare all’Eucaristia. Solo per ridere: a seguito di questo testo di Amoris Laetitia certi preti e certi vescovi potrebbero celebrare la Messa?

Nell’antichità (sec. III) La Tradizione apostolica (Ippolito) ai capitoli 15-16 dà suggerimenti per accogliere o meno coloro che si presentano per essere fatti cristiani. I suggerimenti concernono l’esame delle condizioni di vita, dei mestieri più o meno leciti e delle situazioni matrimoniali in particolare: i mariti si accontentino delle mogli e viceversa, chi ha una concubina la sposi regolarmente altrimenti sia rimandato, siano rimandati prostitute e invertiti (meretrix vel homo luxuriosus). È chiaro che a questo punto non si pongono più problemi per l’Eucaristia, in quanto vengono risolti molto prima. È chiaro che è storicamente miope chiedere alla Chiesa di oggi di non mettere dei paletti a certi rapporti uomo/donna (e il resto!) in vista dell’Eucaristia: la Chiesa lo faceva già dal III secolo e forse prima in una società dove, come oggi, culturalmente “queste cose” non apparivano poi così gravi.

2. Perché l’Eucaristia è l’incontro santo con il Dio santo.

La già citata Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003) è il più recente documento completo sull’Eucaristia, in cui san Giovanni Paolo II ne elenca le caratteristiche tenuto conto delle acquisizioni del passato e del presente. L’Eucaristia, con la proclamazione della Parola e sotto forma di convito rituale, «è il sacrificio della Croce che si perpetua dei secoli» e «questo sacrificio è talmente decisivo per la salvezza del genere umano che Cristo l’ha compiuto ed è tornato al Padre soltanto dopo averci lasciato il mezzo per parteciparvi come se vi fossimo stati presenti» (11-12). Con il sacrificio della Croce, l’Eucaristia rende presente «anche il mistero della Risurrezione, in cui il sacrificio trova il suo coronamento» (14). Tutto ciò implica una «specialissima presenza» (15) vera, reale, sostanziale di Cristo, che «attraverso la comunione al suo corpo e al suo sangue, ci comunica anche il suo Spirito» (17). E non bisogna dimenticare che l’Eucaristia, come e più del Padre nostro, ci pone in comunione con il Padre per Cristo e nello Spirito. Veramente l’Eucaristia è il nostro roveto ardente in cui incontriamo il Dio tre volte Santo tra gli angeli e i santi (Es 3,1-6; Is 6,1-7). Come non sentire l’esigenza di purificazione non solo dalle colpe quotidiane, ma prima ancora dal peccato grave?

3. Perché l’Eucaristia postula un retto rapporto tra ciò che essa è e ciò che noi siamo.

Rivolgendosi ai fedeli - la maggioranza analfabeti - sant’Agostino spiegava: «Se voi siete il Corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il vostro mistero, ricevete il vostro mistero. A ciò che siete rispondete: Amen, e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: “Il Corpo di Cristo” e tu rispondi: “Amen”. Sii membro del Corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo Amen» (Sermones 272).

San Tommaso d’Aquino tira le conseguenze implicite del discorso agostiniano: «Chiunque riceve questo sacramento, pone un atto che significa di essere unito a Cristo e alla sue membra (la Chiesa). Ma ciò avviene attraverso la fede viva, che nessuno possiede mentre è in peccato mortale. Dunque è chiaro che chiunque assume questo sacramento mentre è in peccato mortale, provoca una falsità nel sacramento stesso (falsitatem in hoc sacramento committit) e anche un sacrilegio» (III, q 80, a 4).

Due frasi oggi correnti sembrano far saltare tutto in aria. La prima è citata molto spesso: «L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli» (EG 47, citato in AL 351). È vero: nessuno ha diritto all’Eucaristia come premio. Va però notato che il peccatore «intraprende il cammino della penitenza mosso dalla grazia di Dio misericordioso / mosso dallo Spirito Santo» (Rito della Penitenza 5-6) e dunque sotto l’influsso della misericordia di Dio che lo conduce all’Eucaristia: questa penitenza è il “rimedio” e “l’alimento per i deboli”, da accogliere consapevolmente. In questo senso va intesa la frase e non come un lasciapassare.

La seconda frase è di sant’Ambrogio ed è riportata in nota nel passo citato di EG 47: «Devo riceverlo sempre (il pane eucaristico), perché sempre perdoni i miei peccati. Io, che sempre pecco, sempre devo avere la medicina» (De Sacramentis IV,6,28). A questa si potrebbe aggiungere: «Ogni volta che tu bevi (il sangue di Cristo) ricevi la remissione dei peccati e ti inebri dello Spirito» (Ivi, V,3,17). Queste affermazioni fanno saltare il Concilio di Trento e tutto il resto e aprono oggi l’Eucaristia a chiunque? Assolutamente parlando sì; se sono contestualizzate no. Sant’Ambrogio parla dell’Eucaristia in relazione al sacrificio di Cristo e non alle condizioni esatte per riceverla. Tant’è vero che raccomanda la recezione quotidiana del pane eucaristico, ma aggiunge immediatamente: «Vivi in modo tale da poterlo ricevere ogni giorno» (Ivi, V,4,25). E poi sant’Ambrogio sapeva benissimo che, a fronte di un adulterio, bisognava entrare in tempi prolungati di penitenza.

Come sempre, san Tommaso d’Aquino offre una distinzione che permette di ben interpretare questa e altre frasi: mentre «il battesimo e la penitenza sono medicine purgative che vengono date per togliere la febbre del peccato» l’Eucaristia è «una medicina confortativa, che non si deve dare se non a quanti sono già stati liberati dal peccato» (III, q 80, a 4, ad 2um).

Tirando le fila, l’opera di purificazione che la Chiesa deve compiere per avviare a una degna recezione dell’Eucaristia, compreso lo stabilire dei limiti precisi quanto al peccato grave, è abbastanza e in genere ostacolata per il venire meno del senso della santità dell’Eucaristia, della sua qualità di essere il “roveto ardente” che ci avvicina al Dio tre volte santo. Onestamente va precisato che tale venir meno non può addebitarsi all’Eucaristia stessa, ma alla pastorale che si pone in atto, a come si parla dell’Eucaristia, a come la si celebra ecc.

A un livello più concreto, c’è il pericolo di una selezione indebita dei peccati gravi o mortali. No l’Eucaristia agli scafisti, ai mafiosi, ai profanatori ecologici, ai guerrafondai ecc., ma non solleviamo troppi problemi sui rapporti uomo/donna a oltre.

Quest’ultimo “indebolimento” di gravità dipende senz’altro dalla troppa accoglienza del dato culturale odierno che ha tolto molta rilevanza morale al problema. Per contro la Tradizione apostolica testimonia che nell’antichità la Chiesa sapeva andare controcorrente bloccando l’itinerario battesimale/eucaristico a quanti non avevano in animo di risolvere situazioni che pure il comune modo di vivere non riteneva troppo gravi.

La corretta pastorale di indicare dei traguardi e porre dei limiti non può essere tacciata di rigorismo: è semplicemente fedeltà verso Gesù Cristo e onestà verso l’uomo, evitando di offrirgli una salvezza che non è tale. Verso l’uomo è anche misericordia, avviandolo con la dottrina e la carità verso la salvezza vera.

Infine il lavoro di purificazione positiva per avviare all’Eucaristia e l’indicare i limiti della partecipazione, per la Chiesa non si basano mai unicamente su norme morali o consuetudini culturali: mettono in gioco e nel profondo l’Eucaristia stessa. Sì, perché, come annota san Tommaso d’Aquino, «In questo sacramento è contenuto tutto il mistero della nostra salvezza» (III, q 83, a 4) e di conseguenza «l’Eucaristia è il compendio e la somma della nostra fede: “Il nostro modo di pensare è conforme all’Eucaristia, e l’Eucaristia, a sua volta, si accorda con il nostro modo di pensare” (Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses 4,18,5)» (CCC 1327).



che si può AMARE e ci possa amare fra coniugi come “Cristo comanda” si può, non è utopia e non è impossibile, non è una idea MA LA GRAZIA DEL SACRAMENTO.   

Ecco una prova bellissima tratta da La Nuova Bussola Quotidiana: “Che non sono parole lo dicono anche Diego e Marta, 3 figli, che “abbiamo scoperto queste cose dopo 20 anni di matrimonio: ci rispettavamo certo, ma questa unità profonda non la vivevamo”. Marta spiega di quando cercava ovunque la risposta a quella sete che avevo di Amore totale, “ma al primo seminario a cui partecipai, don Renzo disse che la risposta era lì davanti a me da 20 anni, era nel sacramento: cominciammo (come fanno centinaia di famiglie legate a Mistero Grande e sparse per l’Italia) a pregare insieme ogni giorno, a leggere il Vangelo quotidiano, ad aprire casa a chi voleva pregare con noi e tutto cambiò”. 

Bonetti

C'è un sacramento non ancora «trafficato fino in fondo dalla Chiesa», quello nuziale, «che può portare i coniugi ad un livello di amore pari a quello di Cristo sulla Croce: non uno sforzo ma un dono da saper usare. Per cui non c'è matrimonio che possa fallire, anche dopo l'abbandono». Così don Renzo Bonetti catechizza centinaia di famiglie. 

MISTERO GRANDE

Il prete che mostra a centinaia di sposi la verità sul matrimonio

È davvero un “Mistero Grande”, così come si chiama il progetto che riunisce le famiglie che con l’aiuto di don Renzo Bonetti, Presidente della Fondazione Famiglia Dono Grande, hanno compreso la “potenza del sacramento matrimoniale, nella sua missione altissima, che nulla, nemmeno il tradimento coniugale può annullare”, come dice lui. Una potenza e una fonte di grazia “che predico da anni ma che non ho ancora compreso a pieno, tanto è profonda”. Una vocazione ritenuta “per troppo tempo di serie B, come se il matrimonio fosse per chi non ce la fa ad essere vergine”.

Don Renzo, dopo anni di pastorale familiare sul territorio prima e a Roma poi, come Direttore dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia della Conferenza Episcopale Italiana (anni ’90/2000), è tornato da tempo nelle sua terra veneta, dove oggi abita presso la “Domus Familiae” insieme a Diego e Marta che hanno letteralmente lasciato tutto per seguire la chiamata di Dio. La Dumus è frutto della donazione di un’altra famiglia che, comprendendo il dono che è il sacramento del matrimonio, ha voluto ridare ad altri la possibilità di scoprirlo in questa grande struttura che ospita quotidianamente coppie di sposi offrendo loro un cammino di santità tramite una compagnia umana, incontri, convegni e catechesi. Ma come è nato tutto questo?

Don Renzo, nella parrocchia di Bovolone (Ve) all’inizio del suo ministero sacerdotale cominciò profeticamente da subito a “capire che il sacramento nunziale era fondamentale”, perché “è la prima chiesa, che sta alla base della Chiesa e della società”, spiega il sacerdote. Insomma, “come i preti consacrandosi ricevono il dono di trasformare il pane nel Corpo di Cristo, cioè di rendere possibile ancora oggi l’incarnazione e la presenza viva di Dio, gli sposi hanno il potere di incarnare l’amore di Gesù che dà la sua vita per la Chiesa, per il mondo e persino per i nemici”. Come un prete, qualsiasi cosa accada o faccia, continuerà fino alla morte ad avere questo potere, donatogli dallo Spirito il giorno della consacrazione, di trasformare il pane nel corpo di Cristo, anche gli sposi, dovessero anche essere traditi e abbandonati, avranno sempre la capacità, ricevuta il giorno nozze, di amare come Cristo sul Calvario.

È così, senza fronzoli, che don Renzo parla alla Fraternità Sposi per sempre, nata all’interno del progetto Mistero Grande: “Non siamo un gruppo di mutuo aiuto ma siamo fratelli che si sostengono nel vivere la santità attraverso il sacramento del matrimonio”. Ma come, proprio loro che il mondo, e ahimè anche la Chiesa spesso giudica sconfitti, parlando di “fallimento delle nozze”? “Altro che falliti - continua don Renzo - siete chiamati ad essere profeti di cosa sia veramente il matrimonio, qualcosa che il mondo anche cristiano non capisce più, o forse non ha mai capito fino in fondo: non credete a chi vi dipinge come quelli che hanno deciso solo di obbedire alla regola del “non commettere adulterio”, sopportando la situazione eroicamente e a denti stretti. Voi non siete eroi, perché il dono che lo Spirito vi ha fatto il giorno delle nozze, quello di amare come Gesù fino a morire per la salvezza dei peccatori, non è frutto della vostra volontà. Certo voi potete usarlo oppure no. E per usarlo dovete coltivarlo”. Come si fa, il sacerdote lo spiega con una formula forse non facile, ma semplicissima ed accessibile a tutti: “Mettete al muro lo Spirito Santo, invocatelo. Quello Spirito ha reso i cristiani lieti davanti ai leoni e non può fare questo? Può, ma bisogna consumarsi le ginocchia e tirare fuori le corone del Rosario che tenete nei borselli”.

Insomma, invece che una pacca sulla spalla e un “poverini, se volete rifarvi una vita vi capisco”, don Renzo ricorda a questi sposi la missione altissima, il compito, a cui Dio li chiama: “Questo amore deve arrivare a tutti: ripeto avete la capacità di amare come Cristo i vostri coniugi, i figli, ma anche i vicini, persino i vostri nemici. Usatela!”. A vedere questa gente che accoglie ogni persona che incontra come un dono, a percepire l’entusiasmo e la luce degli occhi di alcuni di loro, pieni di dolore e amore insieme per il coniuge che li ha traditi, a guardare la loro disponibilità nel soffrire e nel dare la vita “per avere mia moglie vicina in Paradiso, che la vita non finisce qui”, spiega Marco a pranzo, si capisce che quello che don Renzo dice è vero. È carne, appunto.

Per questo motivo ad un gruppo di giovani sposi (circa un centinaio) venuti da tutta Italia per seguire il cammino “A due a due Dio li mandò”, don Renzo spiega: “Non sciupate la bomba di amore che avete fra le mani, “da quando siete sposati esternamente apparite sempre voi, come dei singoli, ma la vostra natura non è più la stessa: ora siete una sola cosa, in questa unione c’è la grazia del sacramento che la Chiesa deve ancora comprendere e che non ha ancora raggiunto tutti i suoi sbocchi pratici, perché non la si è usata abbastanza”. Perciò, “siete un potenziale congelato!” Un po’ come dei preti che non conoscessero le formule per trasformare il pane nel corpo di Cristo”, dice don Renzo ai presenti, infiammando i cuori di chi non aspetta altro che pastori capaci di comunicare loro l’altezza del compito che hanno e la via per attuarlo. Perché non c’è nulla di più desiderabile per il cuore umano di raggiungere le altezze d’amore a cui aspira. Insomma, don Renzo chiede tutto, spiegando come ottenere il Tutto per cui l’uomo è sempre inquieto: “L’amore di Dio che sta dentro il sacramento nunziale: potete lasciare il capitale in banca ed elemosinare amore altrove, riducendo la fedeltà al non tradire e non demordere, oppure potete usarlo fino in fondo”.

Poi don Renzo ricorda come davvero sia “tutto lì nelle parole che il prete ha pronunciato durante il vostro matrimonio, di cui voi siete i soli ministri ogni giorno: “O Dio…hai voluto adombrare nella comunione di vita degli sposi…per rivelare il disegno del tuo amore". Ecco il fine delle nozze: mostrare l’amore di Dio al suo popolo e al mondo. Pensate che rivoluzione per la vita della società!”. A pranzo don Renzo ripete: “Se mendicate insieme dallo Spirito il Suo amore che vi rende capaci di morire per l’altro, farete centro…diventerete fiamma per infiammare il mondo con l’amore divino”. Che non sono parole lo dicono anche Diego e Marta, 3 figli, che “abbiamo scoperto queste cose dopo 20 anni di matrimonio: ci rispettavamo certo, ma questa unità profonda non la vivevamo”. Marta spiega di quando cercava ovunque la risposta a quella sete che avevo di Amore totale, “ma al primo seminario a cui partecipai, don Renzo disse che la risposta era lì davanti a me da 20 anni, era nel sacramento: cominciammo (come fanno centinaia di famiglie legate a Mistero Grande e sparse per l’Italia) a pregare insieme ogni giorno, a leggere il Vangelo quotidiano, ad aprire casa a chi voleva pregare con noi e tutto cambiò”. Giorgio spiega che ora la comunione fra loro è reale e assicura che “fra noi c’è un prima e c’è un dopo l’incontro che abbiamo fatto con don Renzo e Mistero Grande”.

Infine, Michi e Maia, seduti intorno ad una tavola imbandita per gli amici, ricordano il dolore dell’infertilità: “Quando scoprii che non potevamo avere bambini andai in crisi nera, misi in discussione tutto, la mia femminilità, il mio essere moglie. Avevo la morte dentro”. Poi il dialogo con don Renzo “mi fece vedere ciò che il dolore aveva oscurato, l’amore di mio marito” e successivamente la compagnia di un’altra famiglia di Mistero Grande che non potevano avere bambini, ma che “erano bellissimi, pieni di amore, quindi li seguimmo nel cammino proposto da Mistero Grande”. Cammino grazie a cui Michi comprese che “Dio era reale”, mentre Maia, “ricordando che si sono trasferiti vicino alla Domus dopo diversi traslochi, perché questa è finalmente casa, ha scoperto che esiste una fecondità che va oltre la fertilità”. Il dolore resta, ma il sacramento li rende generatori di amore, ospitalità, servizio. Basta guardare come si rispettano e adorano per capire quanto la bellezza dell’amore vero, sino al sacrificio di sé per l’altro, abbia una capacità attrattiva senza pari.

Insomma, in questo tempo in cui il sacramento del matrimonio viene ridotto a modello da raggiungere moralisticamente, perciò attuabile dai pochi eroi che riescono a fare lo sforzo della fedeltà, le centinaia di famiglie che seguono la via di Mistero Grande dicono che invece ad agire fra loro è lo Spirito di Dio mendicato e Gesù presente in mezzo a loro. Colui che rende la sublimità unitiva dell’amore coniugale una realtà reale, certo e a cui occorre aderire continuamente. Ma vera e resa tale ogni giorno dal sacramento divino che gli sposi sono chiamati ad amministrare.


si legga anche:


- SALVARE UN MATRIMONIO. SI PUO' E SI DEVEdi Riccardo Caniato


 


[Modificato da Caterina63 28/01/2018 08:21]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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