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La prima volta dei Laici in Convegno per chiedere chiarezza al Pontefice

Ultimo Aggiornamento: 05/05/2017 15:06
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23/04/2017 21:35
 
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IL CASO - per comprendere la confusione che regna
 

Dieci giorni fa Vatican Insider pubblicava un’intervista al teologo domenicano Giovanni Cavalcoli e la stessa intervista è stata ripresentata, con altri elementi, su Avvenire alla vigilia della conclusione del Sinodo. I due testi contengono affermazioni abbastanza forti destinate a far discutere anche dopo il Sinodo.

di padre Riccardo Barile OP
del 29.10.2015

Dieci giorni fa (19.10.2015) Vatican Insider, il sito di informazione religiosa a cura di Andrea Tornielli pubblicava un’intervista al teologo domenicano nonché docente emerito padre Giovanni Cavalcoli e la stessa intervista è stata ripresentata - con tagli ma anche con elementi nuovi - su Avvenire di sabato 24 ottobre alla vigilia della conclusione del Sinodo. I due testi contengono affermazioni abbastanza forti - di aperture, di metodo, di valutazione - che potrebbero essere esaminate alla luce del recentissimo documento sinodale. Preferisco invece valutare alcuni contenuti che sono un modo di impostare le questioni, destinato a durare nel dopo Sinodo.

1) «Per un cattolico è assolutamente impensabile che un Sinodo sotto la presidenza del Papa possa compiere un attentato alla sostanza di qualunque sacramento» (nel nostro caso del Matrimonio e dell’Eucaristia concedendo la comunione ai divorziati risposati). No, è pensabile perché il Sinodo non è infallibile: deve solo dare consigli al Papa. D’altra parte ci furono oscillazioni dottrinali nei papi Liberio († 366), Onorio I († 638), Giovanni XXII († 1334), peraltro rientrate presto attraverso il successivo Magistero della Chiesa, che è la «casa di Dio, colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15). Certo, il presupposto è che ciò capiti rarissimamente - di fatto con il Sinodo non è capitato! -, ma non è “assolutamente impensabile”.

2). «La disciplina dei sacramenti è un potere legislativo che Cristo ha affidato alla Chiesa» per cui «il concedere o non concedere la comunione entra nel potere della pastorale della Chiesa e nelle norme della liturgia». Dunque se «la Chiesa non può mutare la legge divina che istituisce e regola la sostanza dei sacramenti, può mutare le leggi da lei emanate», nel nostro caso «l’attuale regolamento sui divorziati risposati». Naturalmente bisognerà spiegare a tanti poveretti e poverette che per secoli e con sacrificio e sino a oggi hanno obbedito a queste norme, che si è trattato solo di determinazioni transitorie, le quali ora cambiano. Cioè bisognerà prenderli in giro. Ma per fortuna non è così. Infatti, se è vero che vi sono nei sacramenti determinazioni di consuetudine ecclesiastica di per sé modificabili, il Magistero soprattutto recente ha legato la norma della non comunione ai divorziati alla “sostanza” del sacramento. 

Seguendo il n. 84 della Familiaris consortio (22.11.1981) di Giovanni Paolo II, l’esortazione postsinodale Sacramentum caritatis (22.2.2007) ha confermato che la prassi di non ammettere alla comunione i conviventi e i divorziati risposati praticanti una attiva vita sessuale è «fondata sulla Sacra Scrittura (cf Mc 10,2.12)» e motivata dal fatto che «il vincolo coniugale è intrinsecamente connesso all’unità eucaristica tra Cristo sposo e la Chiesa sposa (cf Ef 5,31-32)», per cui la condizione dei divorziati risposati contraddice oggettivamente «quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata ed attuata nel’Eucaristia» (nn. 27, 29). Dunque, dato il fondamento nella Scrittura e data la motivazione simbolica determinante, come si fa a parlare di una legge solo ecclesiastica e liturgica modificabile? E poi, se si trattasse solo di una legge ecclesiastica, perché fermarsi ai divorziati risposati? Perché non ammettere all’Eucaristia ortodossi e protestanti? Sarebbe un bel modo di accelerare l’ecumenismo, tanto che, avendo raggiunto il suo traguardo, non avrebbe più ragione di essere, a meno che... a loro volta siano gli ortodossi a non ammettere alla comunione questa razza di cattolici!

3) «Non esistono “condizioni peccaminose”, perché il peccato è un atto, non è una condizione, né è uno stato permanente». Certo il peccato è un atto e non si prolunga indefinitamente nel tempo - per fortuna! -; esiste però un «comportamento esterno gravemente, manifestamente e “stabilmente” contrario alla norma morale» di fronte al quale la Chiesa «non può non sentirsi chiamata in causa» interdicendo la partecipazione ai sacramenti (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia /17.4.2003/, n. 37; cf anche Can. 915). Così è per le persone delle quali si parla, ovviamente senza con ciò escluderle dalla partecipazione alla vita della Chiesa, anzi. Ma il nostro teologo sembra ignorare questa dimensione.

4) Un’annotazione sulla coscienza raschia però il fondo del barile: «Spesso mi vengono a trovare persone divorziate e risposate. La richiesta è sempre la stessa: perché non posso fare la comunione? Allora io invito questi fedeli a guardarsi dentro, a verificare la serenità della propria coscienza. Se in buona fede avvertono di essere in pace con se stesse, con le persone a cui vogliono bene e con Dio, dico loro di stare tranquille: hanno raggiunto, anche senza sacramenti, lo stato di grazia. Questo è un mistero bellissimo». Certo che, avendo il nostro teologo spiegato che «il problema dei divorziati risposati è che l’adulterio, con l’aggravante del concubinato, è peccato mortale», con premesse del genere non è tanto facile sentirsi la coscienza tranquilla...

Qui comunque casca l’asino, perché il Concilio di Trento, nel Decreto sulla giustificazione (13.1.1547), al capitolo IX scrive che: «Come nessun uomo religioso deve dubitare della misericordia di Dio, dei meriti di Cristo, del valore e dell’efficacia dei sacramenti, così ciascuno, riflettendo su se stesso, sulla propria debolezza e disordine, ha motivo di temere e paventare del suo stato di grazia (de sua gratia formidare et timere potest); infatti nessuno può sapere con certezza di fede, libera da ogni possibilità di errore, di avere ottenuto la grazia di Dio (cum nullus scire valeat ... se gratiam Dei esse consecutum)» (D 1534). 

Dunque, la valutazione di essere in grazia sarà una prudente e saggia probabilità che non può essere affidata alla sola riflessione della coscienza così come è descritto sopra. Perché se è vero che «il giudizio sullo stato di grazia ... spetta soltanto all’interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza» (Ecclesia de Eucharistia, n. 37), vige il dovere non solo di consultare la propria coscienza, ma di formarla. Giovanni Paolo II nella Veritatis splendor (6.8.1993) legge nelle parole di Gesù sull’occhio lucerna del corpo «un invito a formare la coscienza, a renderla oggetto di continua conversione alla verità e al bene ... Un grande aiuto per la formazione della coscienza i cristiani l’hanno nella Chiesa e nel suo Magistero ... la libertà della coscienza non è mai libertà “dalla” verità ... il Magistero non porta alla coscienza cristiana verità ad essa estranee, bensì manifesta le verità che dovrebbe già possedere sviluppandole a partire dall’atto originario della fede» (n. 64).

Se poi un prete incontra dei divorziati risposati che gli pongono delle domande, non può accontentarsi di rispondere: «Guardatevi dentro. La vostra coscienza è a posto? Allora siete a posto anche di fronte a Dio!». Un prete - un teologo emerito! - deve illuminare la coscienza e senza il timore di “entrare in camera da letto”. Nel Nuovo Testamento il Battista ha rimproverato Erode per ragioni matrimoniali (Mt 14,3-12; Mc 6,17-19; Lc 3,19-20); Gesù è intervenuto su matrimonio, divorzio e continenza (Mt 5,32; 19,1-12; Mc 10,1-12; Lc 16,18); gli scritti apostolici sono intervenuti su incesto (1Cor 5,1ss.), santità del matrimonio (Eb 3,4), relazioni anche intime tra i coniugi e morale domestica (1Cor 7,1-16; Ef 5,21-33; Fil 3,18-21; 1Pt 3,1-7), condizione delle vergini (1Cor 7,25ss.) e delle vedove (1Tm 5,11-14), proponendo non solo la parola autorevole del Signore, ma «un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia» o un «mio parere» perché «credo infatti di avere anch’io lo Spirito di Dio» (1Cor 7,25.40). Dopo aver ricevuto simili parole attualizzate all’oggi, la coscienza di conviventi “irregolari” non potrà sentirsi tranquilla e “in grazia”: piuttosto comincerà a sentirsi “nella verità”.

Le proposte del teologo intervistato sembrano strade poco percorribili. Alla fine però, se possono sembrare normali evoluzioni e svolte del suo pensiero, è meno comprensibile come mai affermazioni del genere abbiano trovato ospitalità generosa e acritica su Avvenire. Non si può pensare a una distrazione, perché durante il Sinodo ciò che un giornale come Avvenire pubblica in argomento non può che essere attentamente vagliato. Bisogna dunque pensare a uno stile e a una scelta di parte abbastanza determinata, comportante disinvolte revisioni di un Magistero non solo antico, ma recente. Presupponendo poi una normale dose di prudenza (umana) per cui in genere non si rischia a vuoto, bisogna concludere che per ora chi opera tali scelte ha le spalle coperte. E a questo punto, sulle coperture e su quelli che ti aspettano per “farti fuori” quando qualcosa cambierà, viene in mente il consiglio dell’Imitazione di Cristo: «Non fare gran caso se uno è per te o contro di te, ma preoccupati piuttosto che Dio sia con te in tutto quel che fai» (II,2,1). Vero. Ma qui Dio da che parte sta?

   


SINODO
 

C’è una metodologia pastorale che si caratterizza dal partire dal positivo anche nelle situazioni più difficili per arrivare a trovare anche «nelle famiglie patchwork esempi di generosità sorprendente».
Di questa metodologia sono interpreti il cardinale Christoph Schönborn e una parte dei Padri del Sinodo. Nella sua ambiguità, tale metodo vuole fondare teologicamente e pastoralmente un approccio che eviti di affrontare ciò che non va, l’irregolarità, il peccato.


di padre Riccardo Barile OP 

del 23.10.2015

Nelle coppie irregolari etero e anche in quelle omo ci sono tanti atti buoni perché nessuno nella vita - per fortuna! - pecca al 100%. Da qui si sta facendo strada in modo trasversale una metodologia pastorale o nuovo approccio, che si caratterizza dal partire dal positivo: «dal desiderio profondo inscritto nel cuore di ognuno ... vedere quello che c’è di positivo nelle situazioni più difficili ... spesso nelle famiglie patchwork si trovano esempi di generosità sorprendente ... i veri cristiani sanno guardare e discernere in una coppia, in un’unione di fatto, dei conviventi, gli elementi di vero eroismo, di vera carità, di vero dono reciproco, anche se dobbiamo dire: non è ancora una piena realtà del sacramento». Chi fa altrimenti corre il rischio di parlare «con una lingua fatta di concetti vacui», mentre invece «bisogna staccarsi dai nostri libri per andare in mezzo alla folla e lasciarsi toccare dalla vita delle persone».

Il cardinale Christoph Schönborn in una recente intervista a Civiltà Cattolica (Quaderno 3966 del 26.09.2015) - le citazioni precedenti sono sue - ha anche formulato il principio teologico ecclesiale del metodo positivo: come secondo la Lumen Gentium 8 «l’unica Chiesa di Gesù Cristo sussiste nella Chiesa cattolica» sussistendo però al di fuori dei suoi confini visibili elementi di verità e di santificazione, così, analogamente, il vero matrimonio sussiste nel sacramento della Chiesa, ma al di fuori di esso ci sono «elementi del matrimonio che sono segnali di attesa, elementi positivi». Il presente intervento non è una polemica verso il cardinale Schönborn - che nell’intervista in più passi è dottrinalmente ineccepibile, moralmente esigente e pastoralmente equilibrato, tranne che nella ipotesi di riservare a un confessore/direttore spirituale il giudizio sull’ammissione ai sacramenti in casi limite (suppongo di coppie che praticano una vita sessuale, altrimenti il problema non si porrebbe) -, ma l’intervista è citata perché esprime una tendenza trasversale con molta chiarezza e anche con una gradevole dose di pathos.

A questo punto è opportuno passare a una minima digressione sulla comunicazione. In uno scritto o discorso articolato è, infatti, abbastanza evidente che: esiste una verità delle singole proposizioni e una dell’insieme e non è detto che coincidano; esiste una verità del testo e una verità della recezione, che talvolta non coincidono; esiste una verità teorica che giustifica il dire certe cose e un’opportunità pastorale che sconsiglia di divulgarle (chi scrive è un domenicano e non dovrebbe mai sostenere l’ultima contrapposizione - dire, ma non in pubblico -, che è alquanto gesuitica, ma siccome oggi i gesuiti vanno di moda...). Ecco, leggendo la motivata giustificazione del metodo positivo, mentre le singole frasi sono accettabili, l’insieme genera un sottile disagio di trovarsi fuori strada, per non parlare poi di come il discorso potrebbe essere recepito.

Il “partire dal positivo” è senz’altro un metodo valido, ma, senza la dichiarazione esplicita del peccato dal quale ritrarsi - per lo meno il “peccato oggettivo” come è formulato nella “dottrina” -, il metodo unicamente positivo rischia di non arrivare mai a indurre alla conversione, cioè rischia di fallire; inoltre oggi si basa su due discorsi equivocamente proposti come novità mentre non lo sono. Quali sono le novità che non sono tali? La prima è l’esigenza di accogliere coppie irregolari etero e, a un diverso livello, omo. Gli ultimi decenni del recente Magistero sono talmente zeppi di affermazioni in tal senso che dispensano dalla documentazione, se non per concludere che questa, oggi come oggi, non è una via nuova. Più intrigante il secondo equivoco, e cioè che nelle persone di cui sopra ci sono dei valori e degli atti positivi: affermazione contestualizzata nel gioioso stupore di aver finalmente scoperto qualcosa che da anni - da secoli? - ci era vicino e non abbiamo visto... Ahimè, non è vero che non l’abbiamo visto! Da sempre la rivelazione, la sana ragione, la Chiesa, la teologia ecc. hanno insegnato che il male assoluto non esiste perché il male è privazione del bene e dunque sussiste in qualcosa di bene (San Tommaso I-II, q 43, a 1.3; D 3251) e così neppure i demoni hanno una “inclinazione naturale” verso qualche male e dunque non sono “naturalmente” cattivi (I-II, q 63, a 4). Passando dai demoni agli uomini, il Magistero ha dichiarato errata la proposizione giansenistica di Baio († 1589) secondo il quale «tutte le opere degli infedeli sono peccati e le virtù dei filosofi sono vizi» (D 1925). A questo punto figurarsi se - da sempre - non si è pensato che anche chi vive in situazioni irregolari compie alcuni atti buoni e non solo in relazione a Dio e agli altri, ma anche a “l’altro” o a “l’altra”!

Ma la questione non è questa, bensì quella di un tipo di vincolo relazionale che cristianamente non è ammesso ed è peccato. Ed è per questo che sino a poco tempo fa si è parlato di irregolari, di conversione, di astensione dai rapporti sessuali quando la convivenza non può essere prudentemente sciolta ecc.: non perché si fosse tanto antievangelici da non praticare l’accoglienza o tanto giansenisti da non ammettere atti buoni in queste persone! Ci si potrebbe allora domandare come mai si fanno questi discorsi inutili. Una prima risposta è: perché si vuol dire altro. Dunque, invece di scomodare l’accoglienza e la presenza di molti atti buoni nelle coppie irregolari, sarebbe più onesto dichiarare: «Io sono (noi siamo) per l’ammissione alla comunione delle coppie irregolari, omo comprese, purché vivano con una certa stabilità con lo stesso partner... un rito sacramentale delle nozze omo no, le seconde nozze perdurante il primo vincolo restano un cantiere aperto, per tutti poi gli irregolari una benedizione all’inizio della nuova convivenza non farebbe male, anzi». Questo sarebbe un parlare chiaro e onesto.

Una seconda risposta sembra scontata: si vuole fondare teologicamente e pastoralmente un approccio che eviti di affrontare ciò che non va, l’irregolarità, il peccato. E qui, in altri campi, la situazione diventerebbe comica. Sarebbe come se uno, affetto da un cancro alla prostata, andasse da un urologo e questi gli proponesse: «Lasciamo stare il cancro. In realtà lei digerisce quasi bene: cerchiamo di partire dal positivo ottimizzando la sua digestione con qualche farmaco». Chi andrebbe una seconda volta da un simile dottore? Eppure tante proposte pastorali, tanti articoli di riviste pastorali, qualche teologo... Dicevamo che il metodo unicamente positivo rischia di non arrivare mai a indurre alla conversione, cioè rischia di fallire. Ovvio che il traguardo della conversione suppone che la situazione attuale si configuri come un “peccato oggettivo” dal quale uscire. Per cui partire dal positivo è vero e opportunamente pastorale solo se è accompagnato dalla manifestazione del negativo, della irregolarità, del peccato ecc., sempre fatta salva la buona fede o una soggettività che fa fatica a discernere la propria situazione di fronte a Dio.

Una cosa, infatti, è l’itinerario di Paolo: «dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,13-14); un’altra cosa invece sono inviti che presuppongono sì un itinerario, ma di conversione: «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,3.5), «non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio» (Gv 5,14), «va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11), «tornate indietro dal vostro cammino perverso e dalle vostre opere malvagie» (Zc 1,4). Nel primo caso c’è un procedere in linea retta, nel secondo caso un cambio di direzione. Ora, non far emergere la dottrina sul male di certe relazioni affettive e vitali, pone tutti e senza distinzione - cristiani ferventi, convivenze etero irregolari, convivenze omo - nella situazione di san Paolo proteso verso il meglio e già in una situazione buona senza richiedere ad alcuno un cambiamento di rotta. E questo è pastoralmente deviante. Per non parlare poi della ingiustizia e della umiliazione che si infligge a quanti con sforzo si stanno adeguando alla legge di Dio e che devono sempre tacere perché a ogni loro parola scatta l’accusa di moralisti, ipocriti, ingiustamente divisori della Chiesa e dell’umanità in buoni e cattivi ecc.

Ma perché ci sia un cambiamento di rotta occorre aiutare a capire che qualcosa non è a posto con Dio/Cristo/Chiesa a livello di “peccato” e non solo a livello dei buoni rapporti umani con il coniuge precedente o con l’attuale. È vero, ciò crea una certa tensione, ma è benefica perché richiama alla conversione e mantiene nella verità. San Gregorio Magno spiega che «il rimprovero è una chiave. Apre,  infatti, la coscienza a vedere la colpa, che spesso è ignorata anche da quello che l’ha commessa» (LdO, Uff. lett., II lett. Domenica XXVII ord.), nel nostro caso apre anche alla prospettiva di un nuovo traguardo, di una nuova bellezza, di una nuova pace. Poiché il fondo dell’imbuto si concretizza ecclesialmente e personalmente il più delle volte nel colloquio con un presbitero nel sacramento della Penitenza o fuori di esso, c’è da domandarsi se un prete così procedendo non risulti crudele, disumano, incapace in ogni caso di comprendere e di consolare ecc. No, perché la valorizzazione del positivo rimane: ci mancherebbe!

Ma anche nel portare alla luce il peccato, il disordine, la brutta bestia dello intrinsece malum (per il commento a questa espressione si rilegga l’intervista citata), il presbitero resta umano se sa coniugare la preoccupazione di mantenere il “odore delle pecore” (l’espressione è di papa Francesco) restando però «modello del gregge» (1Pt 5,3) (l’espressione è dello Spirito Santo e dunque ha una marcia in più), cioè la fraternità e la paternità. La fraternità ammettendo la difficoltà per tutti e anche per lui di vivere casti e di aver in ogni caso trovato Gesù Cristo che sostiene la fragilità; la paternità dettando le regole e ricostituendo un mondo ordinato nel quale reinserirsi, ma insieme manifestando l’amore del Padre che segue tutti e ognuno con la sua provvidenza in vista della salvezza e solo per questo. A meno che uno sia pregiudizialmente maldisposto, questo amore, che passa attraverso la pazienza dell’ascolto e la preghiera, si percepisce e risulta una preziosa consolazione anche umana.




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si legga anche: - IL CARDINALE MARX? PARLA COME LUTERO
di A. Pellicciari


Il problema dell’accesso dei divorziati risposati alla comunione è davvero così difficile da risolvere? Un gruppo di porporati di lingua tedesca suggerisce la quadratura del cerchio: si tratta di consentire a quanti si trovano nella spinosa situazione di voler fare la comunione pur senza averne diritto, di decidere cosa fare a livello personale, a livello di “foro interno”, con l’aiuto, va da sé, di un padre spirituale.

Portata alle estreme conseguenze la soluzione suggerita dal gruppo tedesco opta per un deciso ricorso al relativismo: non c’è una verità assoluta perché le cose cambiano col variare delle situazioni e ciascuno può valutare in coscienza la cosa migliore da fare. Padre di questa posizione è un altro tedesco, un tedesco famoso: Martin Lutero.

Mutatis mutandis anche Lutero si trova a dover prendere posizione su un caso spinoso: è lecito al langravio Filippo d’Assia, luterano della prima ora, definito dal “profeta della Germania” il “nuovo Arminio”, diventare bigamo? Vizioso e lussurioso, Filippo scrive a Lutero per ottenere il suo consenso alla celebrazione in pubblico di seconde nozze - cui la prima moglie acconsente - con la diciassettenne damigella di corte Margherita di Saale. Il caso non è di facile soluzione perché, se Lutero rifiuta, il suo braccio destro può passare armi e bagagli nelle fila del cattolico imperatore Carlo V. Vista la delicatezza del momento Lutero e Melantone rispondono immediatamente, il giorno dopo aver ricevuto la lettera: in pubblico non si può celebrare nessun matrimonio perché lo scandalo sarebbe troppo grande; se però il langravio insiste, gli si può concedere una dispensa perché il “matrimonio supplementare” non ha nulla contro la legge di Dio e può essere determinato da una “necessità di coscienza”: “l’uomo può col consiglio del suo pastore, prendersi ancora un’altra donna”.

 
 


 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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