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1°ottobre 2017 Visita Apostolica del Papa a Cesena e Bologna

Ultimo Aggiornamento: 02/10/2017 10:03
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02/10/2017 09:57
 
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INCONTRO CON I SACERDOTI, RELIGIOSI, SEMINARISTI DEL SEMINARIO REGIONALE E DIACONI PERMANENTI
PAROLE DEL SANTO PADRE
Cattedrale di San Pietro (Bologna)
Domenica, 1° ottobre 2017


 

Il Santo Padre risponde a braccio a due domande:

Papa Francesco

Buona sera, buon pomeriggio!

Ringrazio per la vostra presenza: per me è una consolazione stare con i consacrati, con i sacerdoti, con i diaconi, con quelli che portano avanti – in parte, ci sono anche i laici, ma in gran parte – l’apostolato della Chiesa, e con i religiosi perché sono quelli che cercano di darci la testimonianza dell’anti-mondanità. Grazie tante. Ho scelto come metodo, per essere più spontaneo, che voi facciate delle domande e io rispondo. Ho ricevuto tanti progetti di domande, ma sono due quelle che verranno fatte

Sacerdote:

Santo Padre, sono qui a proporre una delle domande, delle tante che sono pervenute da preti, diaconi, consacrati e consacrate. Gesù inviò i suoi apostoli a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi (cfr Lc 10,1). Come può esprimersi, come può crescere questa esigenza evangelica della fraternità nella nostra vita di presbiteri? Grazie.

Papa Francesco:

Il centro della domanda è la fraternità nella vita dei presbiteri. Questa fraternità si esprime nel presbiterio. Andiamo anche oltre. A volte, scherzando tra i religiosi e i sacerdoti diocesani, i diocesani dicono: “Io sono dell’ordine che ha fondato San Pietro” - cioè dell’ordine vero -, “voi, vi ha fondato il santo tale, il beato tale…”. E’ così, no? Ma qual è il centro, qual è proprio il nocciolo della spiritualità della vita del presbitero diocesano? La diocesanità. Noi non possiamo giudicare la vita di un presbitero diocesano senza domandarci come vive la diocesanità. E la diocesanità è una esperienza di appartenenza: tu appartieni a un corpo che è la diocesi. Questo significa che tu non sei un “libero”, come nel calcio, non sei un libero – nel calcio amatoriale c’è il libero –. No, non sei un “libero”. Sei un uomo che appartiene a un corpo, che è la diocesi, alla spiritualità e alla diocesanità di quel corpo; e così è anche il consiglio presbiterale, il corpo presbiterale.
Credo che questo lo dimentichiamo tante volte, perché senza coltivare questo spirito di diocesanità diventiamo troppo “singoli”, troppo soli con il pericolo di diventare anche infecondi o con qualche… - diciamolo delicatamente - nervosismo, un po’ innervositi per non dire nevrotici, e così un po’ “zitelloni”. E’ il prete solo, che non ha quel rapporto con il corpo presbiterale. “Vae soli!”, dicevano i Padri del deserto (cfr Ecclesiaste 4,10 Vulg.), “guai a chi è solo”, perché finirà male. E per questo è importante coltivare, far crescere il senso della diocesanità, che ha anche una dimensione di sinodalità con il vescovo. Quel corpo ha una forza speciale e quel corpo deve andare avanti sempre con la trasparenza. L’impegno della trasparenza, ma anche la virtù della trasparenza. La trasparenza cristiana come la vive Paolo, cioè il coraggio di parlare, di dire tutto. Paolo sempre andava avanti con questo coraggio, usava la parola “parresia”, andare avanti…


Il coraggio di parlare; e anche il coraggio della pazienza, di sopportare, di portare-su, sulle spalle: la hypomenein, la hypomoné. Le due virtù che Paolo usava per fare la descrizione dell’uomo di Chiesa. E questo coraggio di parlare e coraggio di pazienza ci vuole, è necessario per vivere la diocesanità. Il coraggio di parlare. “Ma no, è meglio non parlare…”. Io ricordo, quando ero studente di filosofia, un vecchio gesuita, furbacchione, buono ma un po’ furbacchione, mi consigliò: “Se tu vuoi sopravvivere nella vita religiosa, pensa chiaro, sempre; ma parla sempre oscuro”. E’ un modo di ipocrisia clericale, diciamo così. “No, la penso così, ma c’è il vescovo, o c’è quel vicario, c’è quell’altro… meglio stare zitti… e poi la “cucino” con i miei amici”. Questo è mancanza di libertà. Se un sacerdote non ha libertà di pan-rein, di parresia, non vive bene la diocesanità; non è libero, e per vivere la diocesanità ci vuole libertà. E poi l’altra virtù è sopportare. Sopportare il vescovo, sempre.

Tutti i vescovi abbiamo le nostre [mancanze], tutti; ognuno di noi ha i suoi difetti… Sopportare il vescovo. Sopportare i fratelli: quello non mi piace quello che dice… guarda questo, guarda quello… E’ interessante, quello che non ha la libertà di parlare, il coraggio di parlare davanti a tutti, ha l’atteggiamento “basso” di sparlare di nascosto. Non ha la pazienza di sopportare in silenzio, non ha la pazienza di “portare-su” in silenzio. E noi dobbiamo fare del tutto per avere la virtù di dire le cose in faccia, con prudenza, ma dirle. E’ vero, se io non sono d’accordo col fratello in una riunione, non devo dire “tu sei un disgraziato”, no, ma “io non sono d’accordo perché penso così e così”, senza insultare. Ma dire quello che penso, liberamente. E poi, se c’è qualcuno che mi annoia e viene sempre con le solite storie e rovina forse una riunione… la pazienza, la pazienza di sopportare. In questo ci aiuta tanto pensare a Dio che in Gesù Cristo è entrato in pazienza, cioè ha sopportato tutti noi.

Diocesanità che ha quella virtù del parlare chiaro che ci fa liberi, e anche quell’altra virtù della pazienza.

Ma inoltre c’è il popolo di Dio, che non entra nel collegio presbiterale, ma entra nella Chiesa diocesana. E vivere la diocesanità è anche viverla col popolo di Dio. Il sacerdote deve domandarsi: com’è il mio rapporto col popolo santo di Dio? E lì c’è un brutto difetto, un brutto difetto da combattere: il clericalismo. Cari sacerdoti, noi siamo pastori, pastori di popolo, e non chierici di Stato. Penso a quei tempi, in Francia, al tempo delle corti, a “Monsieur l’abbé”, chierico di Stato; ma senza essere un “Monsieur l’abbé”, ci sono tanti chierici di Stato, che sono funzionari del sacro, ma il rapporto col popolo è – questa è una “figuraccia” – quasi come quello tra il padrone e l’operaio: io sono il chierico e tu sei ignorante. Ma, pensate bene, il nostro clericalismo è molto forte, molto forte; e ci vuole una conversione grande, continua per essere pastori.

Abbiamo finito di leggere – non so se anche nella Liturgia italiana, perché io continuo con il Breviario argentino – il De pastoribus [di sant’Agostino] nell’Ufficio delle Letture, e lì si vede chiaramente che Agostino ci fa vedere com’è un pastore, ma non uno clericale, un pastore di popolo, che non vuol dire un populista, no, pastore di popolo, cioè vicino al popolo perché è stato inviato lì a far crescere il popolo, a insegnare al popolo, a santificare il popolo, ad aiutare il popolo a trovare Gesù Cristo. Invece, il pastore che è troppo clericale assomiglia a quei farisei, a quei dottori della legge, a quei sadducei del tempo di Gesù: soltanto la mia teologia, il mio pensiero, quello che si deve fare, quello che non si deve fare, chiuso lì, e il popolo è là; mai interloquire con la realtà di un popolo.

A me oggi è piaciuto il pranzo…, non tanto perché la lasagna fosse molto buona, ma mi è piaciuto perché c’era il popolo di Dio, anche i più poveri, lì, e i pastori erano lì, in mezzo al popolo di Dio. Il pastore deve avere un rapporto – e questa è sinodalità – un triplice rapporto con il popolo di Dio: stare davanti, per far vedere la strada, diciamo il pastore catechista, il pastore che insegna la strada; in mezzo, per conoscerli: vicinanza, il pastore è vicino, in mezzo al popolo di Dio; e anche dietro, per aiutare quelli che rimangono in ritardo e anche a volte per lasciare al popolo di vedere – perché sa, “annusa” bene popolo –, per vedere quale strada scegliere: le pecorelle hanno il fiuto per sapere dove ci sono i pascoli buoni. Ma non solo dietro, no. Muoversi nelle tre [posizioni]: davanti, in mezzo e dietro. Un bravo pastore deve fare questo movimento.

Riassumo, per non dimenticare. Il rapporto della diocesanità, il rapporto tra noi sacerdoti, il rapporto con il vescovo, con il coraggio di parlare di tutto, il coraggio di sopportare tutto. Il rapporto con il popolo di Dio, senza il quale cado nel clericalismo, uno dei peccati più forti – Agostino, nel De pastoribus, descrive tanto bene il clericalismo, tanto bene –, e nel popolo di Dio questi tre posti: davanti al popolo di Dio, come figura, come catechista, per far vedere dove è la strada; in mezzo, per conoscere, per capire bene come è il popolo; e dietro, per aiutare quelli che rimangono [in fondo] e anche per lasciare un po’ di libertà e vedere come va il “fiuto” del popolo di Dio nello scegliere l’erba buona.

Inoltre, è triste quando un pastore non ha orizzonte di popolo, del popolo di Dio; quando non sa cosa fare… E’ molto triste quando le chiese rimangono chiuse – alcune devono rimanere chiuse –, o quando si vede un cartello lì sulla porta: “dalla tal ora alla tal ora”, poi non c’è nessuno. Confessioni soltanto nel tal giorno da tale ora a tale ora. Ma, non è un ufficio del sindacato! E’ il posto dove si viene ad adorare il Signore. Ma se un fedele vuole adorare il Signore e trova la porta chiusa, dove va a farlo? Pastori con orizzonte di popolo: questo vuol dire [chiedersi]: come faccio io per essere vicino al mio popolo? Alcune volte penso alle chiese che sono sulle strade molto molto popolose, chiuse; e qualche parroco ha fatto l’esperienza di aprirle, e di cercare che fosse sempre a disposizione un confessore, con la accesa luce sul confessionale. E quel confessore non finiva di confessare. La gente vede la porta aperta, entra, vede la luce e va. Sempre la porta aperta, sempre con quel servizio al popolo di Dio.

Tutto questo è la diocesanità.

Poi, io vorrei parlare di due vizi, vizi che ci sono dappertutto – non so, forse a Bologna non ci sono, grazie a Dio, ma dappertutto si vedono, non tutti, alcuni.

Uno è pensare il servizio presbiterale come carriera ecclesiastica. Nella vita dei santi – quelle antiche – si diceva: “E a quell’età sentì la chiamata alla carriera ecclesiastica”. E’ un modo di dire di altri tempi. Ma io non mi riferisco a questo, mi riferisco a un vero atteggiamento “arrampicatore”. Questo è “peste” in un presbiterio. Ci sono due “pesti” forti: questa è una. Gli arrampicatori, che cercano di farsi strada e sempre hanno le unghie sporche, perché vogliono andare su. Un arrampicatore è capace di creare tante discordie nel seno di un corpo presbiterale. Pensa alla carriera: “Adesso finisco in questa parrocchia e mi daranno un’altra più grande…”. E’ interessante: l’arrampicatore, quando finisce in una e il vescovo gliene dà un’altra non tanto “alta”, più “bassa”, si offende. Si offende! “Ma no: a me tocca quella!”. Non ti tocca niente, a te tocca soltanto il servizio. Le cose dobbiamo dirle così, chiaramente. Gli arrampicatori fanno tanto male all’unione comunitaria del presbiterio, tanto male, perché sono in comunità ma fanno così per andare avanti loro.

L’altro vizio frequente è il chiacchiericcio. “Ma quello…” – “Hai visto questo…” – “Si dice di questo…” – “Si dice di questo…”. E la fama del fratello prete viene sporcata, finisce sporcata, la fama si rovina. Distruggere la fama degli altri. Il chiacchiericcio è un vizio, un vizio “di clausura”, diciamo noi. Quando c’è un presbiterio dove ci sono tanti uomini con l’anima chiusa, c’è il chiacchiericcio, sparlare degli altri. “Ti ringrazio, Signore, perché non sono come gli altri, e neppure come quel pubblicano” (cfr Lc 18,11), “grazie a Dio che non sono come quello!”. Questa è la musica del chiacchiericcio, anche del chiacchiericcio clericale. L’arrampicamento e il chiacchiericcio sono due vizi propri del clericalismo.

Come può esprimersi e crescere questa esigenza evangelica di fraternità nella vita dei presbiteri? Vivendo la diocesanità, con il coraggio di parlare chiaro sempre e di sopportare gli altri; con un buon rapporto con il popolo di Dio, sia davanti, per indicare il cammino, sia in mezzo, nella vicinanza delle opere di carità, sia dietro, per guardare come va il popolo e aiutare quelli che sono in ritardo; e fuggendo da ogni forma di clericalismo, perché i due vizi più brutti che ha il clericalismo sono l’arrampicamento e il chiacchiericcio.

Non so se ho risposto alla domanda… Diocesanità, questo è il carisma proprio di un sacerdote diocesano, e diocesanità significa questo che ho detto. Grazie.

  Seconda domanda [di un religioso]:

Santo Padre, una domanda per la vita religiosa, ma credo che non sia solo per la vita religiosa. Lei ci insegna che per essere testimoni di gioia e di speranza come consacrati, occorre fuggire la psicologia della sopravvivenza e metterci con Gesù in mezzo al suo popolo, toccando le piaghe di Gesù nelle piaghe del mondo. Lei ci ha dato tanti stimoli, in questi anni. Ma - ci dica - quali sono i passi più importanti da compiere per metterci decisamente in questa prospettiva? Grazie.

Papa Francesco:

Cadere nella psicologia della sopravvivenza è come “aspettare la carrozza”, la carrozza funebre. Aspettiamo che arrivi la carrozza e porti via il nostro istituto. E’ un pessimismo “spolverato” di speranza, non è da uomini e donne di fede, questo. Nella vita religiosa, “aspettare la carrozza” non è un atteggiamento evangelico: è un atteggiamento di sconfitta. E, mentre aspettiamo la carrozza, ci arrangiamo come possiamo e, per sicurezza, prendiamo dei soldi per essere sicuri. Questa psicologia della sopravvivenza porta a mancanza di povertà. A cercare la sicurezza nei soldi. Si sente a volte: “Nel nostro istituto siamo vecchie – ho sentito da alcune suore, questo – siamo vecchie e non ci sono le vocazioni, ma abbiamo dei beni, per assicurarci la fine”. E questa è la strada più adatta per portarci alla morte. La sicurezza, nella vita consacrata, non la danno le vocazioni, non la dà l’abbondanza di soldi; la sicurezza viene da un’altra parte. Io non vorrei dire cose che uno sa per ufficio, ma dico soltanto le cose che si vedono.

Alcune congregazioni che diminuiscono, diminuiscono e i beni ingrandiscono. Tu vedi quei religiosi o religiose attaccati ai soldi come sicurezza. Questo è il nocciolo della psicologia della sopravvivenza, cioè sopravvivo, sono sicuro, perché ho dei soldi. Il problema non è tanto nella castità o nell’obbedienza, no. E’ nella povertà. Il pesce incomincia a corrompersi dalla testa e la vita consacrata incomincia a corrompersi dalla mancanza di povertà. Ed è davvero così. Sant’Ignazio chiamava la povertà “madre e muro” della vita religiosa; “madre” perché genera la vita religiosa, e “muro” perché la difende da ogni mondanità. La psicologia della sopravvivenza ti porta a vivere mondanamente, con speranze mondane, non a metterti sulla strada della speranza divina, la speranza di Dio. I soldi sono davvero una rovina, per la vita consacrata.
Ma Dio è tanto buono, è tanto buono, perché quando un istituto di vita consacrata incomincia a incassare e incassare, il Signore è tanto buono che gli invia un economo o un’economa cattivo/a che fa crollare tutto, e questa è una grazia! Quando crollano i beni di un istituto religioso, io dico: “Grazie, Signore!”, perché questi incominceranno ad andare sulla via della povertà e della vera speranza nei beni che ti dà il Signore: la vera speranza di fecondità che ti dà la strada del Signore. Per favore, vi dico, sempre, sempre fate un esame di coscienza sulla povertà: la povertà personale, che non è soltanto andare a chiedere il permesso al superiore, alla superiora per fare una cosa, è più profonda, è una cosa più profonda ancora; e anche la povertà dell’istituto, perché lì c’è la [vera] sopravvivenza della vita consacrata, nel senso positivo, cioè lì sta la speranza vera che farà crescere la vita consacrata.

Poi c’è un’altra cosa. Il Signore ci visita tante volte con la scarsità dei mezzi: scarsità dei mezzi, scarsità di vocazioni, scarsità di possibilità… con una vera povertà, non solo la povertà del voto, ma anche la povertà reale. E la mancanza di vocazioni è una povertà ben reale! In queste situazioni è importante parlare con il Signore: perché le cose sono così? cosa succede nel mio istituto? perché le cose finiscono così? perché manca quella fecondità? perché i giovani non si sentono entusiasti, non sentono l’entusiasmo per il mio carisma, per il carisma del mio istituto? perché l’istituto ha perso la capacità di convocare, di chiamare? Fare un vero esame di coscienza sulla realtà, e dire tutta la verità. Questo vale anche per i diocesani, e anche per i laici, ma io lo direi per i religiosi: io vi chiedo, fatemi un favore, vi chiedo di meditare gli ultimi tre numeri della Evangelii nuntiandi, quel documento pastorale post-sinodale che ancora è attuale, non è passato, no!, ha la sua forza, quando il Beato Paolo VI parla dell’“identikit dell’evangelizzatore”, come lo vuole, e lì fare l’esame di coscienza: “io e il mio istituto, facciamo questo?”. O, come dice Paolo VI, è un istituto triste, amareggiato, che non sa cosa fare?… Meditate quei numeri che aiuteranno a fare l’esame di coscienza su questa psicologia della sopravvivenza. Ma il nocciolo del problema cercatelo sempre nella povertà: come vivere la povertà.

Poi, nella domanda c’è: “…e metterci con Gesù in mezzo al suo popolo, toccando le piaghe di Gesù nelle piaghe del mondo”. Questa è un po’ la strada di Filippesi 2,7: la strada di Gesù è quella dell’abbassamento – “si abbassò”, “si annientò” –; abbassarsi con il popolo di Dio, con quelli che soffrono, con quelli che non ti possono dare nulla. Soltanto avrai la forza della preghiera. Ricordo una volta, nella diocesi, quella che avevo prima, all’ospedale le suorine erano anziane, austriache, davvero non avevano vocazioni e con tanto dolore sono dovute tornare in patria. E quell’ospedale è finito senza suore. Ma c’era là un sacerdote coreano, che si è mosso e ha portato suorine dalla Corea. Ne ha portate quattro, e sono arrivate, tutte giovani. Sono arrivate di lunedì e il mercoledì sono scese nei reparti. Quando io sono andato sabato a visitare quell’ospedale, gli ammalati, tutti, dicevano: “Ma che buone le suorine, ma che bene mi hanno fatto!”. Io ho pensato: “Ma queste coreane, di spagnolo sanno lo stesso che io so di coreano; e come gli ammalati possono dire: Che buone le suorine?”. Ma loro, con il sorriso, prendevano loro la mano, li accarezzavano, e con questo sono arrivate al cuore del popolo di Dio, del popolo sofferente, della piaga, della carne sofferente di Gesù.

Quando c’è una vita così, non parlare una lingua e vivere in un Paese dove si parla quella lingua, è una povertà impressionante, è una grande povertà. E queste suore vivevano questa condizione, ma con pace e facevano tanto bene. Nell’abbassamento, toccare la carne sofferente di Gesù e dei poveri: e questa è una psicologia che allontana quella della sopravvivenza; è una psicologia della costruzione del Regno di Dio, perché proprio Matteo 25 ci indica questa strada per il Regno di Dio. La psicologia della sopravvivenza è sempre pessimistica. Non apre degli orizzonti, è chiusa. Ed è orientata verso il cimitero.

Scendere, come Gesù, alla sua carne sofferente, ai più deboli, agli ammalati, a tutti quelli che dice Matteo 25. Questo ha come orizzonte non il cimitero, ha un orizzonte fecondo. Questo è seminare, e la crescita del seme la dà il Signore. Per questo dico queste due cose: la povertà e l’atteggiamento verso la carne dolente di Cristo. Con sincerità. Senza ideologie. Grazie.

Mi dicono che siamo in ritardo e che dobbiamo congedarci. Vi ringrazio tanto della vostra presenza. Vi ringrazio della testimonianza. E ai religiosi vorrei dire una cosa, perché ho parlato di meno ai religiosi che ai diocesani: la vita consacrata è uno schiaffo alla mondanità spirituale! Andate avanti!



VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE FRANCESCO
A CESENA NEL TERZO CENTENARIO DELLA NASCITA DEL PAPA PIO VI E 
BOLOGNA PER LA CONCLUSIONE DEL CONGRESSO EUCARISTICO DIOCESANO

INCONTRO CON GLI STUDENTI E IL MONDO ACCADEMICO

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Piazza San Domenico (Bologna)
Domenica, 1° ottobre 2017

[Multimedia]



 

Cari amici,

sono contento di condividere questo momento con voi e ringrazio cordialmente il Rettore e lo studente per i loro interventi. Non potevo venire a Bologna senza incontrare il mondo universitario. L’Università di Bologna è da quasi mille anni laboratorio di umanesimo: qui il dialogo con le scienze ha inaugurato un’epoca e ha plasmato la città. Per questo, Bologna è chiamata “la dotta”: dotta ma non saccente, proprio grazie all’Università, che l’ha sempre resa aperta, educando cittadini del mondo e ricordando che l’identità a cui si appartiene è quella della casa comune, dell’universitas.

La parola universitas contiene l’idea del tutto e quella della comunità. Ci aiuta a fare memoria delle origini – è tanto prezioso coltivare la memoria! –, di quei gruppi di studenti che cominciarono a radunarsi attorno ai maestri. Due ideali li spinsero, uno “verticale”: non si può vivere davvero senza elevare l’animo alla conoscenza, senza il desiderio di puntare verso l’alto; e l’altro “orizzontale”: la ricerca va fatta insieme, stimolando e condividendo buoni interessi comuni. Ecco il carattere universale, che non ha mai paura di includere. Lo testimoniano seimila stemmi multicolori, ognuno dei quali rappresenta la famiglia di un giovane venuto qui a studiare, non solo da tante città italiane, ma da molti Paesi europei e persino dal Sudamerica! La vostra Alma Mater, e ogni università, è chiamata a ricercare ciò che unisce. L’accoglienza che riservate a studenti provenienti da contesti lontani e difficili è un bel segno: che Bologna, crocevia secolare di incontri, di confronto e relazione, e in tempi recenti culla del progetto Erasmus, possa coltivare sempre questa vocazione!

Tutto qui è iniziato attorno allo studio del diritto, a testimonianza che l’università in Europa ha le radici più profonde nell’umanesimo, cui le istituzioni civili e la Chiesa, nei loro ruoli ben distinti, hanno contribuito. Lo stesso San Domenico rimase ammirato dalla vitalità di Bologna e dal grande numero di studenti che vi accorrevano per studiare il diritto civile e canonico. Bologna col suo Studiumaveva saputo rispondere ai bisogni della nuova società, attirando studenti desiderosi di sapere. San Domenico li incontrò spesso. Secondo una narrazione, fu proprio uno scolaro, colpito dalla sua conoscenza della Sacra Scrittura, a domandargli su quali libri avesse studiato. È nota la risposta di Domenico: «Ho studiato nel libro della carità più che in altri; questo libro infatti insegna ogni cosa».

La ricerca del bene, infatti, è la chiave per riuscire veramente negli studi; l’amore è l’ingrediente che dà sapore ai tesori della conoscenza e, in particolare, ai diritti dell’uomo e dei popoli. Con questo spirito vorrei proporvi tre diritti, che mi sembrano attuali.

1. Diritto alla cultura. Non mi riferisco solo al sacrosanto diritto per tutti di accedere allo studio – in troppe zone del mondo tanti giovani ne sono privi –, ma anche al fatto che, oggi specialmente, diritto alla cultura significa tutelare la sapienza, cioè un sapere umano e umanizzante. Troppo spesso si è condizionati da modelli di vita banali ed effimeri, che spingono a perseguire il successo a basso costo, screditando il sacrificio, inculcando l’idea che lo studio non serve se non dà subito qualcosa di concreto. No, lo studio serve a porsi domande, a non farsi anestetizzare dalla banalità, a cercare senso nella vita. È da reclamare il diritto a non far prevalere le tante sirene che oggi distolgono da questa ricerca. Ulisse, per non cedere al canto delle sirene, che ammaliavano i marinai e li facevano sfracellare contro gli scogli, si legò all’albero della nave e turò gli orecchi dei compagni di viaggio. Invece Orfeo, per contrastare il canto delle sirene, fece qualcos’altro: intonò una melodia più bella, che incantò le sirene. Ecco il vostro grande compito: rispondere ai ritornelli paralizzanti del consumismo culturale con scelte dinamiche e forti, con la ricerca, la conoscenza e la condivisione.

Armonizzando nella vita questa bellezza custodirete la cultura, quella vera. Perché il sapere che si mette al servizio del miglior offerente, che giunge ad alimentare divisioni e a giustificare sopraffazioni, non è cultura. Cultura – lo dice la parola – è ciò che coltiva, che fa crescere l’umano. E davanti a tanto lamento e clamore che ci circonda, oggi non abbiamo bisogno di chi si sfoga strillando, ma di chi promuove buona cultura. Ci servono parole che raggiungano le menti e dispongano i cuori, non urla dirette allo stomaco. Non accontentiamoci di assecondare l’audience; non seguiamo i teatrini dell’indignazione che spesso nascondono grandi egoismi; dedichiamoci con passione all’educazione, cioè a “trarre fuori” il meglio da ciascuno per il bene di tutti. Contro una pseudocultura che riduce l’uomo a scarto, la ricerca a interesse e la scienza a tecnica, affermiamo insieme una cultura a misura d’uomo, una ricerca che riconosce i meriti e premia i sacrifici, una tecnica che non si piega a scopi mercantili, uno sviluppo dove non tutto quello che è comodo è lecito.

2. Diritto alla speranza. Tanti oggi sperimentano solitudine e irrequietezza, avvertono l’aria pesante dell’abbandono. Allora occorre dare spazio a questo diritto alla speranza: è il diritto a non essere invasi quotidianamente dalla retorica della paura e dell’odio. È il diritto a non essere sommersi dalle frasi fatte dei populismi o dal dilagare inquietante e redditizio di false notizie. È il diritto a vedere posto un limite ragionevole alla cronaca nera, perché anche la “cronaca bianca”, spesso taciuta, abbia voce. È il diritto per voi giovani a crescere liberi dalla paura del futuro, a sapere che nella vita esistono realtà belle e durature, per cui vale la pena di mettersi in gioco. È il diritto a credere che l’amore vero non è quello “usa e getta” e che il lavoro non è un miraggio da raggiungere, ma una promessa per ciascuno, che va mantenuta.

Quanto sarebbe bello che le aule delle università fossero cantieri di speranza, officine dove si lavora a un futuro migliore, dove si impara a essere responsabili di sé e del mondo! Sentire la responsabilità per l’avvenire della nostra casa, che è casa comune. A volte prevale il timore. Ma oggi viviamo una crisi che è anche una grande opportunità, una sfida all’intelligenza e alla libertà di ciascuno, una sfida da accogliere per essere artigiani di speranza. E ognuno di voi lo può diventare, per gli altri.

3. Diritto alla pace. Anche questo è un diritto, e un dovere, iscritto nel cuore dell’umanità. Perché «l’unità prevale sul conflitto» (Evangelii gaudium, 226). Qui, alle radici dell’università europea, mi piace ricordare che quest’anno si è celebrato il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, degli inizi dell’Europa unita. Dopo due guerre mondiali e violenze atroci di popoli contro popoli, l’Unione è nata per tutelare il diritto alla pace. Ma oggi molti interessi e non pochi conflitti sembrano far svanire le grandi visioni di pace. Sperimentiamo una fragilità incerta e la fatica di sognare in grande. Ma, per favore, non abbiate paura dell’unità! Le logiche particolari e nazionali non vanifichino i sogni coraggiosi dei fondatori dell’Europa unita. E mi riferisco non solo a quei grandi uomini di cultura e di fede che diedero la vita per il progetto europeo, ma anche ai milioni di persone che persero la vita perché non c’erano unità e pace. Non perdiamo la memoria di questi!

Cent’anni fa si levò il grido di Benedetto XV, che era stato Vescovo di Bologna, il quale definì la guerra «inutile strage» (Lettera ai Capi dei Popoli belligeranti, 1° agosto 1917). Dissociarsi in tutto dalle cosiddette “ragioni della guerra” parve a molti quasi un affronto. Ma la storia insegna che la guerra è sempre e solo un’inutile strage. Aiutiamoci, come afferma la Costituzione Italiana, a “ripudiare la guerra” (cfr Art. 11), a intraprendere vie di nonviolenza e percorsi di giustizia, che favoriscono la pace. Perché di fronte alla pace non possiamo essere indifferenti o neutrali. Il Cardinale Lercaro qui disse: «La Chiesa non può essere neutrale di fronte al male, da qualunque parte esso venga: la sua vita non è la neutralità, ma la profezia» (Omelia, 1° gennaio 1968). Non neutrali, ma schierati per la pace!

Perciò invochiamo lo ius pacis, come diritto di tutti a comporre i conflitti senza violenza. Per questo ripetiamo: mai più la guerra, mai più contro gli altri, mai più senza gli altri! Vengano alla luce gli interessi e le trame, spesso oscuri, di chi fabbrica violenza, alimentando la corsa alle armi e calpestando la pace con gli affari. L’Università è sorta qui per lo studio del diritto, per la ricerca di ciò che difende le persone, regola la vita comune e tutela dalle logiche del più forte, della violenza e dell’arbitrio. È una sfida attuale: affermare i diritti delle persone e dei popoli, dei più deboli, di chi è scartato, e del creato, nostra casa comune.

Non credete a chi vi dice che lottare per questo è inutile e che niente cambierà! Non accontentatevi di piccoli sogni, ma sognate in grande. Voi, giovani, sognate in grande! Sogno anch’io, ma non solo mentre dormo, perché i sogni veri si fanno ad occhi aperti e si portano avanti alla luce del sole. Rinnovo con voi il sogno di «un nuovo umanesimo europeo, cui servono memoria, coraggio, sana e umana utopia»; di un’Europa madre, che «rispetta la vita e offre speranze di vita»; di un’Europa «dove i giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile» (Discorso per il conferimento del Premio Carlo Magno, 6 maggio 2016). Sogno un’Europa “universitaria e madre” che, memore della sua cultura, infonda speranza ai figli e sia strumento di pace per il mondo. Grazie.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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