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Lettera ai Galati di Don Pedron Lino

Ultimo Aggiornamento: 14/10/2017 14:43
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14/10/2017 13:12
 
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LA LETTERA AI GALATI
(Pedron Lino)

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Indice:

Introduzione

Parte prima: il prescritto

Parte seconda: la lettera

Parte terza: il poscritto

 

 

 

 

INTRODUZIONE

I Galati erano tribù di Celti che abitavano tra il Danubio e l’Adriatico. Una parte di esse, al comando di Brenno, nel 279 a.C. invase la Macedonia e si spinse verso la Grecia. Due tribù di essi riuscirono a passare l’Ellesponto, giunsero in Asia minore e si stanziarono nella regione centrale dell’attuale Turchia.

I Galati conservarono a lungo la loro lingua celtica e le loro usanze nazionali. Anche al tempo di san Girolamo nella regione si parlava il celtico (Prol. II in ep. ad Gal 3).

In quale occasione Paolo ha svolto un’attività missionaria presso i Galati? Gli Atti degli apostoli riferiscono che è passato attraverso la regione galata due volte: in 16,6 e 18, 23. In Gal 4,13 Paolo scrive di aver annunciato il vangelo ai Galati in seguito a una malattia che lo ha fermato da loro per qualche tempo. Questa lettera fu scritta probabilmente verso la fine dell’anno 57 in Macedonia. In tutta la lettera l’apostolo polemizza contro "alcuni" avversari concreti. È presumibile che la scelta dell’indefinito "alcuni" per indicare gli avversari serva a dimostrare da una parte il loro numero esiguo e dall’altra la disistima che Paolo nutre per loro: gente che non merita neppure di essere chiamata per nome. Tuttavia lo scritto non è indirizzato agli avversari, ma alle comunità della Galazia e gli enunciati che riguardano gli avversari sono espressi in forma indiretta e si trovano proprio nelle argomentazioni dell’apostolo. Chi fossero questi avversari non lo sappiamo con precisione perché le indicazioni di Paolo non sono sufficienti a fornire un’idea esatta su di loro. Ma certamente si può dedurre con chiarezza una cosa: in tutta la controversia si è trattato dell’essenza del vangelo; la predicazione degli avversari deve essere stata una replica all’annuncio dell’apostolo, con attacchi non solo al vangelo predicato da Paolo, ma anche alla sua persona. Ma lasciamo la parola a Paolo.

 

PARTE PRIMA

1
IL PRESCRITTO 
(1,1-5)

1Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti, 2e tutti i fratelli che sono con me, alle Chiese della Galazia. 3Grazia a voi e pace da parte di Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, 4che ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso, secondo la volontà di Dio e Padre nostro, 5al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

La lettera di Paolo ai Galati è uno scritto ufficiale dell’apostolo, nel quale prosegue da lontano il suo lavoro apostolico. Questa lettera sostituisce un viaggio di Paolo in Galazia: "Io vorrei essere presente in mezzo a voi" (4, 20). Ciò significa che la lettera sta al posto di Paolo: non è una lettera di circostanza, ma la stessa voce dell’apostolo.

vv. 1-2. Già nel prescritto, in riferimento alla situazione creata in Galazia dai suoi avversari, Paolo sottolinea che egli non ha ricevuto l’incarico apostolico da una comunità o da un uomo in particolare, ma direttamente da Gesù Cristo e da Dio Padre, che ha risuscitato Gesù dai morti. Lo specifico concetto di apostolo sta fin dall’inizio nell’ambito di una spiegazione cristologica ed ecclesiologica: gli apostoli sono gli inviati del Risorto per la Chiesa. Mediante la preposizione dià, per mandato, viene messo in risalto che l’autore dell’incarico apostolico di Paolo è Gesù Cristo e che dietro di lui sta Dio stesso, il Padre. Inoltre in Gal 1,16 e 2,7 risulta che la vocazione di Paolo ad essere apostolo di Gesù aveva come scopo l’annuncio del vangelo ai pagani. L’apostolato, come lo intende Paolo, è dunque fondato nel vangelo che egli ha annunciato ai Galati come "schiavo di Cristo" (1,10-11). Nel v.2 Paolo accomuna a sé, come mittenti della lettera, tutti i fratelli. Non si può precisare se intende i suoi collaboratori o l’intera comunità cristiana presso la quale in quel momento soggiorna. Ciò che gli importa con l’accenno alla totalità dei fratelli è di affermare che tutti i fratelli sono d’accordo con lui e con ciò che scrive alle comunità galate. Tuttavia la lettera non è un comunicato di un corpo collegiale, ma la comunicazione di Paolo che con l’autorità di Gesù Cristo scrive alle "comunità della Galazia".

V. 3. Il saluto è tripartito. Forse è una formula che l’apostolo ha preso dalla tradizione cristiana o addirittura dalla liturgia: in essa traspare qualcosa della liturgia protocristiana. Nella parola chàris, grazia, può esserci ancora un po’ dell’espressione di saluto ("salve"), ma il vocabolo è da tempo diventato specificamente cristiano, specialmente per opera di Paolo. Nei saluti delle lettere apostoliche, chàris indica soprattutto la compiacenza, la benevolenza di Dio, la sua assistenza di grazia. La parola eirène, pace, corrisponde all’ebraico shalòm e indica anzitutto non uno stato d’animo ("una coscienza tranquilla"), ma la condizione di salvezza escatologica preannunciata già dai profeti, che si fonda nel nuovo rapporto di Dio con gli uomini comunicato da Cristo. Nell’antico testamento shalòm significa anzitutto "buona salute". "A poco a poco si è diffusa la convinzione che shalòm non significhi primariamente e principalmente "pace". La bibliografia più recente si è trovata assai spesso d’accordo nel ritenere che il significato fondamentale di shalòm si debba scorgere nella completezza, nell’incolumità o integrità, nell’essere sano e salvo". (H. H. Schmid). Chàris e eirène sono doni del Padre celeste e del Signore Gesù Cristo. Dall’opera salvifica di Gesù risulta la pace escatologica fra cielo e terra, fra giudei e pagani, fra uomo e uomo. Questa pace non è augurata dall’apostolo ai Galati, ma promessa con piena autorizzazione come dono di Dio.

v. 4. Il versetto contiene un patrimonio di formule soteriologiche provenienti dalla Chiesa primitiva. Gesù Cristo è morto per i nostri peccati per liberarci da questo eone malvagio: Cristo è, in assoluto, il grande liberatore escatologico dell’umanità. Il presente "eone malvagio" si estende da Adamo fino alla parusia, con la quale esso deve definitivamente cedere il posto all’"eone futuro", che ha già inizio con Cristo: è il tempo del mondo presente che cederà il posto alla vita del mondo che verrà. Questa redenzione avviene "conformemente alla volontà di Dio Padre nostro": nella teologia paolina ogni evento salvifico viene ricondotto a Dio. La redenzione ci manifesta l’amore di Dio Padre nostro.

v. 5. A un tale Dio è perciò dovuta la gloria negli eoni degli eoni, cioè in eterno. L’"amen" acclamatorio esprime l’origine giudaica della dossologia.

 

PARTE SECONDA

LA LETTERA 
(1,6-6,10)

1
LA SITUAZIONE
(1,6-12)

1.1. 
Il vangelo in pericolo presso i Galati 
(1,6-9)

6Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. 7In realtà, però, non ce n’è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. 8Orbene, se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema! 9L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema!

vv. 6-7. L’attacco immediato sorprende, specialmente se si tiene conto dell’abitudine dell’apostolo di continuare dopo il prescritto con un ringraziamento a Dio, con una preghiera di lode e di domanda per la comunità (Rm 1,8 ss.; 1 Cor 1,3 ss.; 2 Cor 1,3 ss.; Fil 1,3 ss.; Col 1,3 ss.; 1 Ts 1,2 ss.; 2 Ts 1,3 ss.). Questa deviazione dallo schema abituale è dovuta all’urgenza dell’intento che anima l’apostolo e col quale egli vuole al più presto affrontare i suoi avversari. L’apostolo si meraviglia per l’incombente defezione dei Galati a un "altro" vangelo e, specialmente per la rapidità di tale processo: una defezione che avanza e si propaga con la massima rapidità ed è quasi inarrestabile. Così si spiega tutto il tono scongiurante di Paolo, missionario e pastore di anime, che spera ancora di poter arrestare questo processo. I Galati stanno apostatando avventatamente e con leggerezza da Dio che li ha chiamati, per volgersi ad un altro vangelo. Questa frase di Paolo deve fare un effetto strano sui Galati perché certamente non credevano di diventare infedeli a Dio rivolgendosi al giudaismo; anzi, al contrario, credevano di fare una scelta migliore e più giusta, Ma l’apostolo afferma che l’invito di Dio per i Galati era la vocazione al vangelo che Paolo ha loro annunciato. Quindi la "caduta" dei Galati è per Paolo un abbandono del vangelo. Essi si rendono infedeli alla chiamata di Dio. Paolo fa notare che la chiamata dei Galati al vangelo è avvenuta "in grazia" cioè che la loro vocazione è puramente gratuita. Ovviamente già qui con questa accentuazione della libera grazia di Dio si mira a condannare il tentativo di procurarsi la salvezza mediante le "opere della legge".

I Galati sono tentati di passare ad un altro vangelo. Con questa espressione l’apostolo designa il messaggio dei suoi avversari, al quale egli però contesta la qualifica di vangelo. Non esiste un altro vangelo. Paolo rivendica il termine "vangelo" al messaggio di Cristo da lui proclamato, specialmente al "vangelo" libero dalla legge. Solo questa buona novella della salvezza gratuita dell’uomo ad opera del Cristo morto e risorto merita, a giudizio di Paolo, il nome di vangelo.

I Galati, confusi dagli avversari di Paolo, si vedono posti di fronte al dilemma se accettare questo o l’ "altro" vangelo come messaggio di salvezza e stanno per scegliere l’ "altro", considerato l’unico vero. Ma con l’importantissima aggiunta "ma in realtà non c’è un altro vangelo" l’apostolo elimina, senza esitare, ogni possibilità di scelta. Se al di fuori del vangelo di Cristo annunciato da Paolo, non esiste un altro vangelo, come si può qualificare l’azione degli avversari presso i Galati? La prima risposta di Paolo è questa: solo come perturbazione. Qui l’apostolo designa i suoi avversari come "alcuni" e ciò ha un senso quasi dispregiativo: essi sono soltanto "alcuni" mentre Paolo è fiancheggiato da "tutti i fratelli" (1,2) e anche dalle autorità della comunità di Gerusalemme, come egli spiegherà più avanti. I suoi avversari non annunciano un altro vangelo, ma stravolgono l’unico vangelo facendogli dire il contrario. In concreto il vangelo di Cristo è la predicazione di Paolo (1,11; 2,2) sulla giustificazione dell’empio mediante la fede in Cristo, che i Galati in un primo tempo hanno accolto con fede (1,9). Se il falso vangelo degli avversari impone, per la salvezza, la necessità della circoncisione e di altre "opere della legge", il vangelo di Cristo viene perciò stesso privato del suo senso e stravolto nel suo contrario.

v. 8. Il vangelo di Cristo è unicamente quello annunciato da Paolo ai Galati. Non devono accoglierne un altro neppure se fosse Paolo in persona o un angelo del cielo ad annunciarlo. Dietro il forte effetto psicologico di questa affermazione sui lettori, sta il fatto teologico molto più importante: l’apostolo stesso è legato al vangelo da lui annunciato. Il vangelo non può essere cambiato a proprio piacimento, né essere interpretato oggi in un modo e domani in un altro o addirittura sostituito con un "altro" vangelo. Questa sua convinzione è così profonda che l’apostolo può dire: anche se un messaggero del cielo vi annunciasse un altro vangelo, sia maledetto! Paolo è così convinto della verità del suo vangelo, da pronunciare l’anatema anche a carico di un tale messaggero del cielo. Con le parole: "sia maledetto" si chiede a Dio che escluda dalla comunione con lui e condanni i falsificatori del vangelo. Per l’apostolo il vangelo è veramente una cosa intoccabile, sacra. Chi lo profana, incorre nella maledizione di Dio.

v. 9. L’ "adesso" di questo versetto fa pensare che Paolo fin dalla sua seconda visita ai Galati aveva già minacciato la sua maledizione contro i falsificatori del vangelo. Solo che allora era solo una preoccupata previsione, mentre ora è una realtà effettiva. Quindi di fatto Paolo lancia il suo anatema apostolico contro i suoi avversari, che sono penetrati nelle comunità della Galazia. "Lo scopo dell’anatema è di rendere i Galati consapevoli della minaccia alla loro fede "(Bligh).

 

1.2. 
Il vangelo di Paolo come rivelazione di Gesù Cristo 
(1,10-12)

10Infatti, è forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio? Oppure cerco di piacere agli uomini? Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo! 11Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; 12infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.

Nelle righe precedenti l’apostolo ha scartato qualsiasi possibilità di un "altro" vangelo e ha scagliato l’anatema contro ogni falsificatore del vangelo. Ora deve difendersi dalle argomentazioni degli avversari. Egli presenta l’apologia della sua vita e del suo operato, e la presenta in un modo tutto suo, inimitabile.

v. 10. Il tono è ancora eccitato e appassionato; le brevi frasi buttate giù con forza sembrano tronche. L’apostolo chiede: Adesso, di fronte alla maledizione proprio ora di nuovo minacciata, io vi domando: "Persuado (con ciò) uomini o Dio?". Con peìnthein, persuadere, si intende, l’arte di persuadere gli uomini, e precisamente in riferimento alla missione: il poter far proseliti senza tanti sforzi; invece con arèschein, piacere, si esprime un’accondiscendenza pronta al compromesso, tenendo presente soprattutto la debolezza della carne. Forse i due termini sono ricavati da effettivi rimproveri dei suoi avversari, i quali dicono che per Paolo, con tutta la sua predicazione di un vangelo libero dalla legge, l’importante è solo un facile successo: "egli presenterebbe ai pagani solo l’aspetto attraente del vangelo, passando però sotto silenzio la divina serietà della legge" (Oepke); la sua predicazione direbbe soltanto cose che alla gente fanno piacere e si adatterebbe ai desideri dei suoi ascoltatori. Naturalmente Paolo è convinto di predicare per piacere a Dio.

Probabilmente Paolo ricorda che effettivamente c’è stato un tempo in cui egli cercò di piacere agli uomini: prima della sua conversione; allora egli cercava di piacere alle autorità giudaiche di Gerusalemme. Ma se ora facesse ancora così, come i suoi avversari gli rimproverano, egli non sarebbe servo di Cristo. Anche in seguito, a partire da 1,13, l’apostolo argomenta in base alla sua biografia.

vv. 11-12. Essere servo di Cristo significa obbedire a Cristo ed adempiere al suo mandato. Per Paolo tale obbedienza verso Cristo si manifesta anzitutto nell’annuncio del vangelo. Se le accuse dei suoi avversari fossero vere, egli non sarebbe servo di Cristo. L’apostolo quindi si vede costretto a confutare le accuse, parlando diffusamente della storia del suo vangelo. I suoi contestatori affermano che il suo vangelo era "di tipo umano" e che egli l’avrebbe ricevuto da "un uomo" e non direttamente da Cristo come gli apostoli. Egli afferma di aver ricevuto il vangelo "mediante una rivelazione di Gesù Cristo" ossia per mezzo di un’immediata rivelazione divina. Nella disputa con i suoi avversari Paolo parla del suo vangelo ("il vangelo da me annunciato") ossia di quel messaggio specificamente paolino riguardante la giustificazione dell’uomo "senza le opere della legge" mediante la fede nel Cristo crocefisso e risorto; dunque della sua interpretazione della prima professione di fede da lui accettata: "morto per i nostri peccati" (1 Cor 15,3) quindi di ciò che in Gal 2,5 .14 chiama "la verità del vangelo". Questo vangelo, sostiene Paolo, egli l’ha ricevuto mediante una "rivelazione di Gesù Cristo". Questa frase si contrappone chiaramente alla frase "il vangelo non l’ho ricevuto da un uomo né mi è stato insegnato".

Cosa significa apokàlupsis, rivelazione, e come si deve interpretare il genitivo "di Gesù Cristo"? Prendiamo in considerazione i vv. 15-16: "Ma quando a Colui che mi ha scelto fin dal seno di mia madre e mi ha chiamato per la sua grazia si compiacque di rivelare in me il Figlio suo...". Chi agisce in questo fatto è Dio, il dono della sua rivelazione è "suo Figlio", il ricevitore della rivelazione è Paolo. Da persecutore fanatico, diventò infatti abile proclamatore del vangelo. La parola apokàlupsis indica il disvelamento escatologico di un fatto finora nascosto, cioè che Gesù Cristo è il Figlio di Dio e che questo è il contenuto essenziale del vangelo che Paolo deve annunciare. Da ciò si può dedurre la risposta alla domanda, come vada interpretato il genitivo "di Gesù Cristo": il contenuto della rivelazione era Gesù Cristo. Dunque ciò che l’apostolo vuol dire nel v.12 è questo: il vangelo da me annunciato non risale a una comunicazione umana, ma è "di origine divina... e quindi è realmente l’unico, l’incomparabile, insuperabile vangelo, oltre il quale non ce n’è, e nemmeno cene può essere, un altro" (Blank). Ma dove e quando ebbe luogo questa apokàlupsis? Gal 1,16 fa capire in modo chiarissimo che con la rivelazione del Figlio di Dio concessa all’apostolo si vuole indicare l’evento di Damasco. Tale rivelazione portò l’apostolo a conoscenza del vangelo e della sua verità. Appunto per questo egli può dire che ha ricevuto il suo vangelo "tramite una rivelazione di Gesù Cristo" e non per mezzo di una tradizione o istruzione umana o ecclesiastica. Il vangelo di Paolo non è di seconda mano! Ma poiché i suoi avversari obiettavano a Paolo di non essere uno dei ricevitori primari del vangelo e di non essere quindi un’autorità competente in materia di vangelo, l’apostolo si sente costretto ad esporre di seguito la biografia del suo vangelo, che è inscindibile dalla sua autobiografia. Così nella continuazione egli procede biograficamente.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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