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ILLUSTRISSIMI Lettere del Patriarca Albino Luciani Giovanni Paolo I

Ultimo Aggiornamento: 07/11/2017 10:21
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07/11/2017 10:21
 
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Maria Teresa d'Austria

Bella senza tante pazzie 

    
Maestà reale e imperiale! Vi conosco soltanto dai libri. Sovrana tipica del "secolo dei lumi", avete anche Voi governato paternalisticamente: vi chiamavate "madre" di tutte le vostre terre; pare però che vi premesse soprattutto che i figli di queste fossero ubbidienti sudditi dell’imperatrice. Nessuna meraviglia: neppure da una regina si può pretendere che prevenga profeticamente i tempi. Dopotutto, nel mazzo dei sovrani dell’epoca, siete forse quella che fa la figura meno brutta: direttrice dell’orchestra statale, senza la pretesa di suonare tutti gli strumenti! Meglio ancora ve la siete cavata come sposa e come madre. Marito amato e sinceramente pianto dopo la morte (sapendo che Vi aveva tradito con più favorite!). "Casa di vetro" in cui i sudditi potevano guardare i costumi intemerati della loro sovrana. Sedici figli, tra cui famosi Giuseppe II, chiamato dal vicino re di Prussia "re-sacrestano", e l’infelice Maria Antonietta, prima "delfina", poi regina di Francia. E’ a quest’ultima che, con sensibilità di donna e di madre, avete scritto lettere, che ancora restano, sul modo di vestire. A Parigi si sussurra che la "delfina" trascura l’eleganza. Voi lo venite a sapere a Vienna e, pronta, prendete la penna, ammonendo: "Mi dicono che siete vestita male e che le vostre dame non osano farvene osservazione". Divenuta regina, Maria Antonietta eccede nel senso contrario e Vi manda un suo ritratto con, in testa, un monumentale catafalco formato di frutti, di fiori, di piume e di ben dieci metri di stoffa. E voi, a scrivere di nuovo: "Non mi pare debba vestire così la sovrana di una grande nazione. La moda bisogna seguirla, ma non esagerarla. Una graziosa regina non ha bisogno di tutte queste pazzie sulla testa!". Ecco una massima saggia: la bellezza della donna risalta senza bisogno di tante pazzie.

***

Maestà, lo credereste? C’è un mio collega vescovo, che sembra ancora più comprensivo di Voi. San Francesco di Sales è, infatti, pieno di sorridente indulgenza per le intramontabili piccole debolezze umane, che spingono specialmente le donne a cercare e cambiare ornamenti, acconciature e vestiti; si mostra largo, in particolare, per l’eleganza civettuola delle signorine. "Queste, scrive, sentono innato il bisogno di piacere agli altri". E continua: "Ad esse è ben lecito desiderare di piacere a molti, sebbene lo facciano con l’unico intento di accaparrarne uno a mezzo matrimonio". Vescovo com’è, tocca a lui moderare lo zelo della baronessa de Chantal, che fa una guardia troppo austera attorno all’abbigliamento delle figlie e le scrive: "Che vuole? Bisogna bene che le ragazze siano un po’ belline". Occorrendo, però, sa r­primere con dolcezza le piccole (allora erano piccole!) audacie delle ragazze del suo parentado: un giorno che Francesca de Rabutin gli compare avanti un po’ troppo scollata, egli le offre, sorridendo, alcuni spilli! 

Stessa moderazione per la moda degli uomini e delle signore. La signora Charmoisy ha per figliolo un giovanotto, che si trova a disagio, perché tutti i suoi amici "sont beaucoup mieux que lui", sono, cioè, vestiti molto meglio di lui. Ciò non va, scrive il santo, perché "dal momento che viviamo nel mondo, bisogna seguire le leggi del mondo in tutto ciò che non è peccato". La signora Le Blanc de Mions ha, invece, uno scrupolo: potrà, devota qual è, incipriarsi i capelli secondo la moda? "Eh! Dio mio, risponde Francesco, si inciprii pure hardiment (arditamente) la testa: anche i fagiani si lustrano le penne!". Francesco di Sales pensava, scrivendo così, di dare consigli cristianamente sensati, lasciando alla vita devota tutte le rose senza levarne alcuna spina. "Male gliene incolse, Maestà. Il grande Bossuet scrisse di lui che, a quel modo, non faceva che "mettere cuscini sotto i gomiti dei peccatori". Un frate poi parlò addirittura dal pulpito contro l’Introduzione alla vita devota, libro in cui il santo aveva svolto i concetti di cui sopra; alla fine della predica si fece portare con pompa magna una candela accesa, tirò fuori dalla manica il libro e gli diede fuoco, disperdendone le ceneri ai quattro venti.

***

Maestà, sia ben chiaro, io non sono col frate! Sono con Voi e con Francesco di Sales, nella posizione moderata e giusta di chi comprende e incoraggia tutto ciò che è sanamente bello, anche nella moda. Ma sono con Voi anche nel condannare le pazzie. E quante e quali pazzie ai nostri giorni! Nel vestito e in ciò che al vestito per forza si collega: spesa, modo di comportarsi, divertimento! Non parlo della spiaggia e del modo con cui alcuni la frequentano. La Vostra Maria Antonietta portava in testa dieci metri di tela, mentre altri metri abbondanti andavano tra abito e strascico. Adesso, accade il rovescio: ci sono donne che non hanno addosso quasi nulla e girano in questo stato ovunque, pretendendo di entrare in questo stato perfino nelle chiese. Alla Vostra corte Pietro Metastasio, aggirandosi tra cavalieri in parrucca e dame incipriate, compose melodrammi. In uno di essi scrisse: E’ la fede degli amanti come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. E’ il massimo che egli abbia osato scrivere sentimentalmente parlando. Adesso si osa tutto: nel vestire, nel cantare, nello scrivere, nel fotografare, negli spettacoli, nel modo di comportarsi. 

Ai Vostri tempi qui a Venezia diceva la Margherita de I Rusteghi goldoniani: "Mia mare la ne menava a l’opera, se no, a la comedia, e la comprava la so bona chiave de palco, e la spendeva i so boni bezzetti. La procurava de andar dove la saveva che se fava de le comedie bone, da poderghe menar de le fie, e la vegniva con nu, e se divertivimo. Andévimo qualche volta al Ridotto: un pochetin sul Liston, un pochetin in Piazzetta da le stroleghe, dai buratini, e un par de volte ai casoti. Co stévimo po in casa, ghe avévimo sempre la nostra conversazion. Vegniva i parenti, vegniva i amizi, anca qualche zóvene: ma non ghe giera pericolo". Adesso? Qualche figliola di buona famiglia, si assenta giornate intere. Dove va? Col "suo" ragazzo, sola in macchina, sola all’albergo con lui, per le strade del mondo. Capita talvolta questo: si riceve un invito per il ballo e sul biglietto c’è la sigla sbi (senza bagagli ingombranti, ovverossia i genitori!). Capita anche di leggere sui giornali che gli impiegati di certe ditte rallentano notevolmente il ritmo e la qualità della produzione, perché troppo impegnati a "meditare" a lungo sulle sottane o sui calzoncini lillipuziani delle compagne di lavoro.

Oppure si legge che il tale governo, per impedire l’aumento di incidenti stradali, provvede ad ammonire con cartelli gli autisti e non lasciarsi distrarre, mentre guidano, dalle ragazze in minigonna guardate attraverso il parabrezza e il finestrino. 
Maestà, Voi avete scritto la parola giusta: alla donna non occorre molto per piacere agli altri. Si tratta solo di sapere a quali persone si vuol piacere e con quale scopo. Piacere a tutti? Non è male in sé; può esser male voler piacere in quel dato modo. Penso, però, che una donna debba cercare di piacere in primo luogo a genitori, fratelli, sorelle e, soprattutto, al marito, all’uomo che la sceglierà in sposa, e sarà padre dei suoi figli. Ora, tutti costoro vogliono la donna bensì elegante e bella, ma in un quadro di modestia che la renda ancor più bella e moralmente fresca.

* * *

Maestà, scusate se mi sono confidato e sfogato con Voi, che approvate queste idee. Non è, intendiamoci, che manchino pur oggi donne che le apprezzino. Ma ci sono quelle che le ritengono vecchie e superate. Voi sapete, invece, che sono intramontabili e sempre fresche, perché rispecchiano il pensiero di Dio, che ha fatto scrivere da San Paolo: "Le donne siano vestite con decoro, adorne di modestia e di verecondia"!
Luglio 1971




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Nel cuore del mistero 

    
Caro Trilussa, Ho riletto la poesia melanconicamente autobiografica, in cui racconti di esserti sperso, di notte, in mezzo al bosco, e lì incontri una vecchietta cieca, che ti dice: "Se la strada nun la sai, te ciaccompagno io, che la conosco!"Sorpresa tua: " Trovo strano che me possa guidà chi nun ce vede". Ma la vecchietta taglia corto, ti piglia la mano e ti intima: "Cammina." E’ la fede. Sono d’accordo in parte con te: la fede è davvero una buona guida, una cara e saggia vecchietta che dice: metti qui il tuo piede, prendi questo sentiero che sale. Ma ciò succede in un secondo momento, quando la fede ha ormai messo radici come convinzione nella mente e di là pilota e dirige le azioni della vita. Prima, però, la convinzione deve formarsi e piantarsi nella mente. E qui, caro Trilussa, sta oggi la difficoltà, qui il viaggio della fede si rivela non la patetica passeggiata sulla strada del bosco, ma un viaggio a volte difficile, talora drammatico e sempre misterioso. E’ già difficile, intanto, aver fede negli altri, accettando, sulla parola, le loro asserzioni. Lo scolaro sente dire dal professore che la terra dista dal sole 148 milioni di chilometri.

Vorrebbe controllare, ma come? Si fa coraggio e aderisce con un volitivo atto di fiducia: "Il professore è onesto ed informato, fidiamoci!". 
Una madre narra al suo figliolo di anni suoi lontani, di sacrifici sostenuti per proteggerlo, guarirlo e conclude: "Mi credi? E ricorderai quanto ho fatto per amor tuo?". "Come posso non crederti?, risponde il figlio, e farò quanto posso per non essere indegno dell’amore che mi hai portato!". Questo figliolo oltre che fiducia, deve far nascere in sé, per sua madre, anche tenerezza e amore; solo così possono venire uno slancio di dedizione e un impegno di vita. La fede in Dio è qualcosa di simile: è un  filiale, detto a Dio, che racconta a noi qualcosa della propria vita intima:  alle cose narrate e insieme a Colui che le narra. Chi lo pronuncia deve non solo avere fiducia, ma anche tenerezza e amare e sentirsi piccolo figlio, ammettendo: Io non sono il tipo che sa tutto, che dice l’ultima parola su tutto, che verifica tutto. Magari sono abituato ad arrivare alla certezza scientifica con la verifica più rigorosa di laboratorio; qui, invece, devo accontentarmi di una certezza non fisica, non matematica, ma di buon senso o di senso comune. Non solo: affidandomi a Dio, so che devo accettare che Dio possa invadere, dirigere e cambiare la mia vita. 

Nelle "Confessioni", caro Trilussa, Agostino è ben più concitato di te nel descrivere il suo viaggio alla fede. Prima di dire il suo  pieno a Dio, la sua anima rabbrividisce e si torce in conflitti penosi. Di qua c’è Dio che lo invita, di là le antiche abitudini, "le vecchie amiche", che lo "tirano dolcemente per il suo vestito di carne" e gli sussurrano: "Tu ci congedi? pensa che dal momento in cui ti avremo lasciato, quella cosa non ti sarà più permessa e quell’altra neppure, e per sempre!". Dio lo spinge a fare presto e Agostino implora: "Non subito, ancora un momento!". E continua settimane intere nell’indecisione, nel contorcimento interno, finché, aiutato da una spinta potente di Dio, prende il coraggio a due mani e si decide. Come vedi, Trilussa, nel dramma umano della fede, si inserisce un elemento misterioso: l'intervento di Dio. Paolo di Tarso l’ha provato sulla strada di Damasco e lo descrive così: quel giorno, Signore, "mi hai ghermito": "colla tua grazia sono quello che sono". Qui siamo nel cuore del mistero. Cos’è infatti, e come opera questa grazia di Dio? Com’è difficile il dirlo! Supponi, Trilussa, che l’incredulo sia un dormiente; Dio lo sveglia e gli dice: esci dal letto! Supponi che sia un malato; Dio gli mette in mano la medicina e gli dice: prendila! Sta di fatto che chi non crede, d’improvviso, senza che ci abbia pensato, si trova ad un certo momento a riflettere su problemi d’anima e di religione, è potenzialmente disponibile per la fede. Dopo questo intervento, fatto "senza di noi", Dio ne opera altri, ma "con noi", cioè con la nostra libera collaborazione. A svegliarci dormienti, è stato Lui solo; a scendere dal letto, tocca a noi, anche se bisognosi, nello scendere, di altri suoi interventi. La grazia di Dio, infatti, ha la forza, ma non intende forzare; ha una santa violenza, ma adatta a far innamorare del vero, non a violare la libertà.

Può succedere che, svegliato, invitato ad alzarsi e preso per un braccio, uno si volti invece sull’altro fianco, dicendo: "Lasciami dormire!". 
Nel Vangelo si vedono casi del genere. "Vieni e seguimi" dice il Cristo e Levi si alza dal banco e Gli va dietro; un altro, invece, invitato, ri­ponde: "Permettimi che vada prima a seppellire mio padre" e non si fa più vedere. Sono gente, riflette mestamente Cristo, che mette mano all’aratro poi si volta indietro. Si spiega così come, nel credere, c’è tutta una gamma che va da chi non ha mai avuto fede, a chi l’ha in misura insufficiente, ai tiepidi e rachitici nella fede, fino a quelli che hanno una fede fervente ed operosa. Ma si spiega fino ad un certo punto soltanto, caro Trilussa. Perché alcuni di noi non credono? Perché Dio non ci fece la grazia. Ma perché non ci fece la grazia? Perché non corrispondemmo alle Sue ispirazioni. Perché non corrispondemmo? Perché, essendo liberi, abusammo della libertà. Perché abusammo della libertà? Qui è il duro, caro Trilussa, qui rinuncio a capire. Qui, invece che al passato, amo pensare all’avvenire e decido di seguire l’invito di Paolo: "Vi esortiamo a non ricevere invano (in avvenire) la grazia di Dio".

***

Caro Trilussa! Il Manzoni definisce "giocondo prodigio e convito di grazia" il ritorno dell’Innominato alla fede. Se n’intendeva, era "ritornato" anche lui. Si tratta di un convito sempre imbandito e aperto a tutti. Per quanto mi riguarda, io cerco di approfittarne tutti i giorni, rimettendo in piedi oggi la vita di fede buttata giù coi peccati di ieri. Chissà se i cristiani che, come me, si sentono ora buoni, ora peccatori, con me accetteranno di fare i "bravi convitati"? 
Settembre 1971



Mark Twain

Tre sor Giovanni in uno 

    
Caro Mark Twain, Ella è stato uno degli autori preferiti della mia adolescenza.Ho ancora nella mente le spassose Avventure di Tom Sawyer, che sono poi le sue avventure di infanzia, caro Twain. Ho raccontato cento volte qualcuna delle sue battute, ad esempio quella sul valore dei libri. E’ un valore inestimabile, ha Ella risposto ad una ragazzina, che l’aveva interpellata, ma vario. Un libro legato in pelle è eccellente per affilare il rasoio; un libro piccolo, conciso, come lo sanno scrivere i Francesi, serve a meraviglia per la gamba più corta di un tavolino; un libro grosso come un vocabolario è un ottimo proiettile per tirare ai gatti; e finalmente un atlante, coi fogli larghi, ha la carta più adatta per aggiustare i vetri. I miei alunni si eccitavano, quando annunciavo: Adesso ve ne racconto un’altra di Mark Twain. Temo, invece, che i miei diocesani si scandalizzino: "Un vescovo, che cita Mark Twain!". Forse bisognerebbe prima spiegare loro che, come sono vari i libri, così sono vari i vescovi. Alcuni, infatti, rassomigliano ad aquile, che planano con documenti magistrali di alto livello; altri sono usignoli, che cantano le lodi del Signore in modo meraviglioso; altri, invece, sono poveri scriccioli, che, sull’ultima rama dell’albero ecclesiale, squittiscono soltanto, cercando di dire qualche pensiero su temi vastissimi. Io, caro Twain, appartengo all’ultima categoria. Perciò mi faccio coraggio e racconto che una volta tu hai osservato: "L’uomo è più complesso di quel che pare: ogni uomo adulto rinserra in sé non uno, ma tre uomini diversi". "Come mai?", ti fu chiesto. E tu: "Prendete un Sor Giovanni qualunque. In esso c’è il Giovanni Primo, cioè l’uomo che egli crede di essere; c’è il Giovanni Secondo, quello che di lui pensano gli altri; e finalmente il Giovanni Terzo, ciò ch’egli è nella realtà".

***

Quanta verità, Twain, nel tuo scherzo! Ecco, ad esempio, il Giovanni Primo. Quando ci portano la fotografia del gruppo in cui abbiamo posato, qual è la faccetta simpatica, attraente, che andiamo a cercare? Duole il dirlo, ma è la nostra. Perché noi ci vogliamo un bene sconfinato e ci preferiamo agli altri. Volendoci tanto bene, succede che siamo portati a ingrandire i nostri meriti, ad attenuare le nostre colpe, ad usare col prossimo pesi e misure diverse che con noi. Meriti ingranditi? Li descrive il tuo collega Trilussa: "La lumachella de la Vanagloria Ch’era strisciata sopra un obelisco, Guardò la bava e disse: Già capisco Che lascerò un’impronta ne la Storia".Ecco come siamo, caro Twain, perfino un po’ di bava, se nostra e perché nostra, ci fa ringalluzzire e montare la testa! Difetti attenuati? "Bevo un bicchiere qualche rara volta", dice lui. Gli altri assicurano, invece, ch’egli è una specie di spugna, una Gola sempre secca, un autentico devoto di Santa Bibiana, col gomito sempre alzato. Dice lei: "Sono un po’ nervosetta, qualche volta mi impressiono". Grazie, che "impressione"!

La gente asserisce che è grintosa, stizzosa e vendicativa, un carattere impossibile, un’Arpia! 
In Omero gli dèi girano il mondo ravvolti in una nuvola, che li nasconde agli sguardi di tutti; noi abbiamo una nuvola che ci nasconde agli occhi nostri. Francesco di Sales, vescovo come me e umorista come te, scriveva: "Accusiamo il prossimo per cose lievi, e scusiamo noi stessi in cose grandi. Vogliamo vendere a carissimo prezzo, e acquistare invece a buon mercato. Vogliamo che si faccia giustizia in casa degli altri, e che si usi misericordia in casa nostra. Vogliamo che siano prese in buona parte le nostre parole, e facciamo i delicati su quelle altrui. Se qualcuno dei nostri inferiori non ha con noi buone maniere, prendiamo in mala parte qualunque cosa faccia; invece, se qualcuno ci è simpatico lo scusiamo, qualsiasi cosa faccia. I nostri diritti li esigiamo con rigore, e invece vogliamo che gli altri siano discreti nell’esigere i loro... Quel che facciamo per gli altri ci sembra sempre molto, quel che per noi fanno gli altri ci pare nulla".

***

Per Giovanni Primo può bastare, veniamo a Giovanni Secondo. Qui, caro Twain, mi pare che i casi siano due: Giovanni desidera che la gente lo stimi oppure si affligge perché la gente lo ignora e disprezza. Nulla di male in ciò; cerchi solo di non esagerare nell’uno o nell’altro senso. "Guai a voi - ha detto il Signore - che ambite i primi seggi nelle sinagoghe e i salamelecchi nelle piazze...; che tutte le vostre opere le compite per farvi notare". Oggi si direbbe: che date la scalata ai posti e ai titoli a furia di gomitate, di concessioni, di abdicazioni, che smaniate di farvi mettere sui giornali. Ma perché "Guai a voi"? Quando nel 1938 Hitler passò per Firenze, la città fu coperta di croci uncinate e di scritte osannanti. Bargellini disse a Dalla Costa: "Vede, Eminenza? Vede?". "Non abbia paura! - rispose il Cardinale - la sorte è già segnata nel Salmo 37: “Ho veduto l’iniquo imbaldanzire e dilatarsi come albero rigoglioso. Passai di nuovo, e non era più; lo cercai e non si trovò". A volte il "Guai" non segna punizione divina, ma soltanto ridicolo umano. Può capitare come al somaro che si coprì con la pelle di un leone e tutti dicevano: "Che leone!". Uomini e bestie fuggivano. Ma il vento soffiò, la pelle si sollevò e tutti videro l’asino. E allora accorsero infuriati e caricarono la bestia di sacrosante legnate. Lo diceva anche Shaw: "Com’è comica la verità!". E cioè: vien da sorridere, quando si sa quanto poca cosa c’è sotto certi titoli e certe celebrità! E se succede il contrario? Se la gente pensa male, dove c’è il bene? Qui c’è, in aiuto, un’altra parola di Cristo: "E’ venuto Giovanni, che né mangiava, né beveva, e dissero: Ha il demonio addosso. E’ venuto il Figlio dell’Uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco qua un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori". Neppure Cristo è riuscito ad accontentare tutti. Non prendiamocela troppo se non riusciamo noi.

***

Giovanni Terzo faceva il cuoco. Questo non lo racconti tu, Twain, ma Tolstoj. Sulla soglia di cucina erano distesi i cani. Giovanni uccise un vitello e gettò le viscere nel cortile. I cani le presero, le mangiarono e dissero: "E’ un bravo cuoco. Cucina bene". Qualche tempo dopo, Giovanni sbucciava i piselli, mondava le cipolle: le bucce le getto nel cortile. I cani si precipitarono sopra, ma, scostando il muso dall’altra parte, dissero: "Il cuoco s’è guastato, ora non vale più nulla". Giovanni, però, non si commosse affatto per questo giudizio e disse: "E’ il padrone che deve mangiare e apprezzare i miei pranzi, non i cani. Mi basta essere apprezzato dal padrone". Bravo anche Tolstoj. Ma io mi chiedo: Che gusti ha il Signore? Cosa gli piace in noi? Un giorno, mentre predicava, qualcuno gli disse: "Tua madre e i tuoi fratelli stanno di fuori, e chiedono di parlarti".
Egli protese la mano verso i suoi discepoli e rispose: "Ecco qua la madre mia e i fratelli miei. Chiunque, infatti, fa la volontà del Padre mio, che è nei Cieli, quegli mi è fratello, sorella e madre". 
Ecco chi gli piace: chi fa la Sua volontà. Gli piace che lo si preghi, ma gli dispiace forte che le preghiere diventino un pretesto per scansare la fatica delle buone opere. "Perché mi chiamate Signore, Signore, e non fate quello che dico?". Fare quello che dice! Può essere una conclusione moralizzante. Tu, umorista,non l’avresti tirata. La devo tirare io, che sono vescovo e che ai miei fedeli raccomando: Se vi capita di ripensare ai tre Giovanni, ai tre Giacomi, alle tre Francesche che sono in ciascuno di noi, tenete d’occhio specialmente il terzo:quello che piace a Dio! 
Maggio 1971


 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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