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Conferenze sugli scritti di Joseph Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 15/01/2018 11:33
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15/01/2018 09:38
 
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La rivelazione di Dio non coincide con la Scrittura, ma è più ampia

da J. Ratzinger, Un tentativo circa il problema del concetto di tradizione, in K. Rahner - J. Ratzinger, Rivelazione e Tradizione, Morcelliana, Brescia, 2006, pp. 36-37

Il fatto che esista la «Tradizione» si fonda innanzitutto sulla non-identità delle due realtà, «Rivelazione» e «Scrittura». Rivelazione infatti indica il complesso di parole e gesta di Dio per l'uomo, cioè una realtà di cui la Scrittura ci informa ma che non è semplicemente la Scrittura stessa.

La rivelazione perciò supera la Scrittura nella stessa misura in cui la realtà trascende la notizia che ce la fa conoscere. Si potrebbe anche dire: la Scrittura è il principio materiale della rivelazione (forse l'unico, forse uno accanto ad altri - è una questione che per il momento può essere lasciata aperta), ma non è la rivelazione stessa.

Di questo i riformatori erano perfettamente consci; fu soltanto nella successiva controversia tra teologia cattolica postridentina e ortodossia protestante che ciò andò in gran parte perduto. Nel nostro secolo furono dei teologi evangelici, come Barth e Brunner, a riscoprire questo fatto, che per la teologia patristica e medioevale costituiva una cosa perfettamente ovvia.

Quanto s'è detto può risultare chiaro se lo consideriamo anche da un altro punto di vista: si potrebbe possedere la Scrittura anche senza avere la rivelazione. La rivelazione infatti diventa realtà soltanto e sempre là dove c'è fede. Il non-credente rimane dietro il velo, di cui parla Paolo nel cap. 3 della 2 Cor. Egli può leggere la Scrittura e conoscere ciò che contiene, può perfino comprendere concettualmente ciò ch'essa intende dire e la coerenza delle sue affermazioni, tuttavia egli non è divenuto partecipe della rivelazione.

C'è piena rivelazione soltanto là dove, oltre alle affermazioni materiali che la testimoniano, è divenuta operante nella forma della fede anche la sua intima realtà. Di conseguenza appartiene, fino a un certo punto, alla rivelazione anche il soggetto ricevente, senza del quale essa non esiste.

Non si può mettere in tasca la rivelazione, come si può portare con sé un libro. Essa è una realtà vivente, che esige l'accoglienza di un uomo vivo come luogo della sua presenza.









Sola Scriptura o Sola Traditio (da Joseph Ratzinger)

«C'è la riscoperta della necessità di una Tradizione, senza la quale la Bibbia è come sospesa in aria, diventa un vecchio libro tra tanti altri. Questa riscoperta è favorita anche dal fatto che i protestanti sono, assieme agli ortodossi, nel Consiglio Ecumenico di Ginevra, l'organismo che raccoglie una grande parte delle Chiese e delle Comunità cristiane. Ora: dire "ortodossia orientale" significa dire "Tradizione"».

«Del resto - aggiunge - questo accanimento sul Sola Scriptura del protestantesimo classico non poteva sopravvivere e oggi è più che mai messo in crisi proprio dall'esegesi "scientifica" che, nata e sviluppatasi in ambito riformato, ha mostrato come i vangeli siano un prodotto della Chiesa primitiva; anzi, come la Scrittura intera non sia che Tradizione. Tanto che, rovesciando il loro motto tradizionale, alcuni studiosi luterani sembrano convergere nell'opinione delle Chiese ortodosse d'Oriente: non, dunque, Sola Scriptura ma Sola Traditio. C'è poi anche, da parte di alcuni teologi protestanti, la riscoperta dell'autorità, di una qualche gerarchia (cioè di un ministero spirituale sacramentale), della realtà dei sacramenti».

Sorride, come soprappensiero: «Sino a quando queste cose le dicevano i cattolici per i protestanti era difficile farle proprie. Dette dalle Chiese d'Oriente sono state accolte e studiate con maggior attenzione, forse perché si diffidava meno di quei cristiani, la cui presenza al Consiglio di Ginevra si rivela dunque provvidenziale».

(da Joseph Ratzinger-Vittorio Messori, Paoline, Milano, 1985, Rapporto sulla fede, p.168)





Inculturazione o inter-culturalità? Cristo, la fede e le culture
dell’allora cardinal Joseph Ratzinger

Riprendiamo sul nostro sito il testo della conferenza tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger in occasione dell’incontro dei vescovi della FABC (Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche), tenutosi ad Hong Kong nei giorni 2-6 marzo 1993. Il testo è stato tradotto da Piero Gheddo e Rodolfo Casadei e pubblicato su ASIA NEWS, n. 141, 1-15 gennaio 1994, con il titolo Cristo, la fede e la sfida delle culture.

Con le sue ultime parole, il Signore risorto manda i suoi Apostoli fino agli ultimi confini della terra: "Andate e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole ... e insegnate ad esse tutto quello che ho insegnato a voi" (Mt 28,19 ss.; At 1,8). Il cristianesimo entra nel mondo conscio di una missione universale. Fin dall’inizio i seguaci di Gesù Cristo sono coscienti del loro dovere di trasmettere la fede a tutti gli uomini. Essi vedevano nella fede un bene che non apparteneva solo a loro, ma che tutti avevano diritto di ricevere. Gli Apostoli sarebbero stati infedeli al loro Maestro, se non avessero portato fino agli estremi confini della terra ciò che avevano ricevuto.

Il punto di partenza dell’universalismo cristiano non è un desiderio di potere, ma la certezza di aver ricevuto la conoscenza che salva e l’amore che redime, che tutti gli uomini hanno diritto di ricevere ed a cui aspirano fin dal profondo del loro essere. La missione non era percepita come un’operazione di conquista per esercitare il potere, ma come la trasmissione obbligatoria di quel bene che era stato dato per tutti e di cui tutti hanno bisogno.

Oggi sono sorti dei dubbi circa l’universalità della fede cristiana. Molti non vedono più la storia della missione mondiale come la storia della diffusione della verità che libera e dell’amore, ma una storia di alienazione e di violenza. Questa nuova consapevolezza chiede a noi cristiani di riconsiderare radicalmente chi siamo e chi non siamo, cosa crediamo e cosa non crediamo, cosa abbiamo da dare agli altri e cosa non abbiamo da dare. Nel quadro di questa conversazione, posso solo tentare di compiere un piccolo passo in una così vasta problematica.

La mia intenzione è di considerare il diritto e la capacità della fede cristiana di comunicare se stessa alle altre culture, di assimilarle e di diffondersi in esse. Essenzialmente, questo include tutti i problemi che riguardano il fondamento dell’esistenza cristiana. Perché credere in qualcosa? Esiste la verità, una verità raggiungibile dall’uomo e che tutti possono conoscere? Oppure siamo destinati, attraverso vari simboli, a scorgere solo alcuni bagliori della verità, che in realtà non ci è mai stata rivelata?Parlare della verità della fede è presunzione o dovere? Anche questi interrogativi non possono essere presi di petto e discussi nella loro integrale profondità. Noi li teniamo presenti nell’impostare la nostra discussione su fede e cultura.

1/ Cultura – Inculturazione – Incontro delle culture

Il nostro primo interrogativo è questo: cos’è la cultura? In quale rapporto sta con la religione e in che modo può essere in contatto con forme religiose che originariamente le erano estranee? Prima di tutto dobbiamo notare che è stata l’Europa moderna ad inventare un concetto di cultura nel quale la cultura appare come un campo distinto o anche in opposizione alla religione. In tutte le culture storicamente conosciute, la religione è l’elemento essenziale della cultura, anzi il nucleo determinante, caratterizzante. È la religione che determina le strutture dei valori e perciò dà ad essi la loro logica interna.

Ma se questo è vero, l’inculturazione della fede cristiana nelle altre culture appare ancor più difficile, poiché non si capisce come una cultura, che vive e respira la religione con cui è profondamente interconnessa, possa essere trapiantata in un’altra religione, senza che ambedue vadano in rovina. Se da una cultura togliete la religione che l’ha generata, la private del suo cuore. Potete metterle un nuovo cuore, il cuore cristiano, ma sembra inevitabile che l’organismo che non è orientato a ricevere questo nuovo cuore, debba alla fine rigettarlo come un corpo estraneo.

Una soluzione positiva è difficile da immaginare. L’operazione può solo aver senso se la fede cristiana e l’altra religione, con la cultura che essa ha originato, non sono in una situazione di radicale differenza e opposizione; se esse sono interiormente aperte l’una all’altra o, per dirla in altro modo, se esse naturalmente tendono ad avvicinarsi e ad unirsi. Perciò l’inculturazione presuppone la potenziale universalità di ogni cultura, che in tutte le culture la stessa natura umana sia al lavoro e che cercare l’unità è la comune verità della condizione umana come si esprime nelle culture. In altre parole, il programma di inculturazione ha senso solo se non si compie nessuna ingiustizia nei confronti di una cultura quando, data l’universale disposizione dell’uomo a cercare la verità, la cultura è aperta e viene sviluppata da una nuova potenza culturale.

Ne consegue che ogni elemento che in una cultura esclude questa apertura e scambio va giudicato come una deficienza di quella cultura, poiché l’esclusione degli altri va contro la natura dell’uomo. Il segno della nobiltà di una cultura è la sua apertura, la sua capacità di dare e di ricevere, che le permetta di essere purificata e di diventare più conforme alla verità e all’uomo.

Vorrei tentare di dare una definizione di cultura: è quella forma comune di espressione delle intuizioni e dei valori che storicamente s’è sviluppata e che caratterizza la vita di una comunità. Esaminiamo ora più da vicino gli elementi di questa definizione per comprendere meglio la possibilità di inter-comunicazione delle culture, secondo quanto indica il termine "inculturazione".

a) Anzitutto, la cultura ha a che fare con la conoscenza e i valori.
È un tentativo di comprendere il mondo e l’esistenza dell’uomo nel mondo, non in un senso puramente teorico, ma orientato agli interessi fondamentali dell’esistenza umana. La comprensione ci dovrebbe indicare come essere uomini, come l’uomo deve prendere il suo posto in questo mondo e come deve vivere per realizzare se stesso nella sua ricerca di successo e di felicità.

Tuttavia, nelle grandi culture, questo problema non è posto ai singoli individui, come se ciascuno debba pensare ad un modello di vita per venire a patti col mondo e con l’esistenza. Il singolo può riuscire solo con gli altri: il problema della retta conoscenza è dunque un problema di adeguata formazione della comunità. D’altra parte, la comunità è la condizione primaria, indispensabile per la realizzazione dell’individuo. Nella cultura noi trattiamo di una comprensione che è conoscenza, da cui nasce la prassi della vita, il modo di vivere; in altre parole, noi stiamo trattando di una conoscenza che comprende l’indispensabile dimensione dei valori o morale.

Possiamo aggiungere qualcosa d’altro che era evidente per tutti nel mondo antico. I problemi dell’uomo e del mondo sempre contengono la questione fondamentale di Dio. Non si può capire il mondo né vivere onestamente, se la domanda su Dio rimane senza risposta. In realtà, andando alla radice delle grandi culture possiamo dire che esse interpretano il mondo per ordinarlo alla divinità.

b) La cultura, in un senso classico, include l’andare oltre le cose visibili per raggiungere le cause reali: così la cultura, nel suo nucleo più profondo, significa un’apertura al divino. A ciò, come già abbiamo visto, è collegata la nozione secondo cui l’individuo trascende se stesso nella cultura e si trova portato in un soggetto sociale più vasto, di cui eredita le intuizioni, dà ad esse continuità e le sviluppa. La cultura è sempre unita ad un soggetto sociale che da un lato assume le esperienze dell’individuo e, dall’altro, aiuta a formarle.

Il soggetto comune conserva e sviluppa le intuizioni che superano le capacità di un individuo; intuizioni che possono essere definite pre-razionali e super-razionali. In questo modo, le culture richiamano la sapienza degli "antenati", che furono più vicini agli dèi; esse richiamano le primordiali tradizioni che hanno carattere di rivelazione, cioè non vengono da un’indagine e decisione umana, ma da un originario contatto con la radice di tutte le cose. In altre parole, le culture indicano una comunicazione da parte della divinità[1].

La crisi di una cultura, di conseguenza, viene quando quella cultura non è più capace di portare avanti l’eredità sopra-razionale, mettendola in relazione in modo convincente con una nuova conoscenza critica. In questo caso, la verità ereditata viene messa in questione; quello che una volta era verità diventa solo abitudine, costume e perde la sua vitalità.

c) Un altro punto importante è questo: le società camminano e le culture hanno a che fare con la storia. Nel suo viaggio attraverso il tempo, la cultura si sviluppa incontrando nuove realtà e con l’emergere di nuove intuizioni.

La cultura non è isolata dal fiume dinamico del tempo, formato da tante correnti culturali che muovono verso l'unità. La storicità di una cultura significa la sua capacità di progredire e questo dipende dalla sua capacità di essere aperta e di trasformarsi attraverso l’incontro.

In realtà, si potrebbe distinguere tra culture cosmico-statiche e culture storiche. Le antiche culture, come si dice, descrivono il mistero del cosmo che è sempre uguale, mentre il mondo culturale giudeo-cristiano concepisce il rapporto con Dio come storia. La storia è dunque fondamentale a questo mondo culturale. La distinzione fra culture statiche e culture dinamiche è corretta, ma non dice tutto, in quanto le culture statiche credono nella morte e nella rinascita, alla condizione umana come cammino. Come cristiani noi diciamo che esse contengono una dinamica messianica, ma questo è un tema su cui ritorneremo in seguito[2].

I nostri piccoli sforzi per chiarificare le categorie di base del concetto di cultura ci aiutano a capire meglio come le culture possono incontrarsi e intercomunicare. Possiamo ora dire che l’attaccamento ad una identità culturale, ad una particolare espressione culturale, è la base per la molteplicità delle culture e le loro rispettive caratteristiche.

D’altra parte possiamo constatare che la storicità di una cultura, il suo movimento attraverso il tempo, comprende il suo essere aperta. Una singola cultura non vive solamente la propria esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo. Piuttosto, necessariamente, incontra sulla sua via altre culture con le loro esperienze tipicamente differenti, e deve confrontarsi con esse.

Così, una cultura approfondisce e raffina le proprie intuizioni e valori, nella misura in cui è aperta o chiusa, internamente vasta o stretta. Questo può portare ad una profonda evoluzione della sua primitiva configurazione culturale e questa trasformazione non può in nessun modo essere definita alienazione o violazione. Una trasformazione ben riuscita è spiegata dall’universalità potenziale di tutte le culture, che diventa concreta in una data cultura attraverso l’assimilazione delle altre e la sua interna trasformazione.

Un tale procedimento può anche risolvere l’alienazione latente dell’uomo dalla verità e da se stesso, che una cultura può albergare. Può significare la Pasqua di salvezza di una cultura: mentre sembra morire, la cultura realmente nasce, ritrovando pienamente se stessa per la prima volta.

Per questo motivo noi non dovremmo più parlare di "inculturazione", madi incontro di culture o "inter-culturalità", se vogliamo forgiare una nuova espressione. Infatti l’inculturazione presume che la fede, liberata dalla cultura, sia trapiantata in un’altra cultura religiosamente indifferente, dove due soggetti, sconosciuti l’uno all’altro, si incontrano e si fondono.

Ma questo modo di concepire l’incontro della fede con le culture è anzitutto artificiale e irrealistico, perché, con l’eccezione della civiltà moderna tecnologica, non esiste una fede senza cultura o una cultura senza fede. È difficile immaginare come due organismi, estranei l’uno all’altro, possano diventare improvvisamente un insieme coerente in un trapianto che arresta lo sviluppo di ambedue. Invece, se è vero che le culture sono potenzialmente universali e aperte l’una all’altra, l’inter-culturalità può portare a una fioritura di nuove forme.

Fino a questo punto abbiamo espresso considerazioni che possono essere definite fenomenologiche, cioè abbiamo notato come le culture agiscono e si sviluppano. Facendo questo, abbiamo ragionato sulla potenziale universalità di tutte le culture, come espressione fondamentale dell’idea che la storia va verso l’unificazione.

Ma allora noi ci chiediamo: perché è così? Perché tutte le culture sono particolari e quindi diverse l’una dall’altra? Perché esse sono, allo stesso tempo, aperte a tutte le altre culture e capaci di reciproco scambio, purificazione, perfezionamento? Non voglio dare una risposta positivista a questi interrogativi, anche se esiste.

A me sembra che proprio nel nostro caso il riferimento alla metafisica non può essere evitato. L’incontro delle culture è possibile perché l’uomo, nonostante tutte i divergenti cammini della sua storia e dei suoi sistemi sociali, rimane un unico ed identico essere. Quest’unico uomo, tuttavia, è segnato in profondità nella sua esistenza dalla verità. La fondamentale apertura di ogni persona all’altra può essere spiegata solo dal fatto misterioso che le nostre anime sono state toccate dalla verità; e questo spiega la sostanziale concordanza che esiste anche fra le culture più lontane l’una dall’altra.

D’altra parte, la diversità che porta all’isolamento è attribuibile alla limitatezza dello spirito umano. Nessuno afferra il tutto. Le miriadi di intuizioni e di forme sono una specie di mosaico che rivela la loro complementarietà e la loro interconnessione. Per essere se stesso, ciascuno ha bisogno dell’altro. L’uomo si avvicina all’unità e alla totalità del suo essere solo nella reciprocità di tutte le grandi realizzazioni culturali.

In realtà dobbiamo riconoscere che questa diagnosi ottimistica non corrisponde alla realtà dei fatti. La potenziale universalità delle culture si scontra sempre di nuovo con ostacoli insormontabili, quando tentiamo di tradurla in un’universalità pratica, poiché non si tratta solo della forza dinamica di ciò che noi abbiamo in comune.

Dobbiamo anche considerare gli elementi di separazione, le barriere e le contraddizioni, l’impossibilità di raggiungere l’altra sponda perché le acque che ci dividono sono troppo profonde e non esistono ponti. Abbiamo parlato dell’unità dell’essere umano, toccato da Dio in modo misterioso attraverso la verità. Ma ci rendiamo anche conto che esiste un fattore negativo nell’esistenza umana, un’alienazione che ostacola la conoscenza e taglia fuori l’uomo, almeno in modo parziale, dalla verità e, perciò, impedisce agli uomini di incontrarsi.

In questo innegabile fattore di alienazione sta la povertà dei nostri sforzi per promuovere l’incontro delle culture. Da questo fatto, mentre possiamo dedurre che è sbagliato accusare tutte le religioni della terra di idolatria, sarebbe anche scorretto considerare tutte le religioni solo in modo positivo. Non dobbiamo dimenticare la critica della religione che non solo Feuerbach e Marx, ma anche grandi teologi come Karl Barth e Bonhoeffer hanno acceso come un fuoco nelle nostre anime.

2/ Fede e cultura

Veniamo alla seconda parte delle nostre considerazioni. Abbiamo discusso l’essenza della cultura e le condizioni che permettono l’incontro delle culture, il loro reciproco influsso che origina la nascita di nuove forme culturali. Dal piano dei princìpi dobbiamo ora scendere a quello dei fatti.

Ma prima riassumiamo i risultati essenziali delle nostre riflessioni e chiediamoci cosa può unire le culture in modo che non siano solo superficialmente appiccicate l’una all’altra, ma il loro incontro diventi occasione per il mutuo arricchimento e perfezionamento. Il mezzo che può unire le culture non può essere altro che la verità partecipata sull’uomo, la quale necessariamente chiama in gioco la verità su Dio e sulla realtà del mondo nel suo complesso.

Una cultura, più è umana e più è grande, più esprimerà la verità che in precedenza ignorava e più sarà capace di assimilare la verità e sarà essa stessa assimilata dalla verità. A questo punto, la speciale comprensione di se stessa della fede cristiana diventa manifesta.

La fede cristiana, se è vigile e onesta, sa benissimo che c’è una buona parte di umano nelle sue espressioni culturali particolari, molto del quale necessita di essere purificato e aperto.

Ma la fede cristiana è anche certa che il suo nucleo fondamentale è la rivelazione della verità stessa e perciò è la redenzione. Poiché la vera povertà dell’uomo è essere all’oscuro della verità, il che falsifica le nostre azioni e ci scatena l’un contro l’altro, appunto perché siamo corrotti, alienati da noi stessi, tagliati fuori dalla radice del nostro essere, che è Dio.

La comunicazione della verità porta alla liberazione dall’alienazione e dalla divisione, ci dà il criterio universale di giudizio, che non fa violenza ad alcuna cultura, anzi conduce ciascuna al suo proprio centro, dato che ogni cultura è in fondo attesa della verità.

Questo non significa uniformità. Proprio l’opposto. Solo quando questo si verifica l’opposizione tra le culture può diventare complementarietà poiché ogni cultura, basata su un comune criterio di giudizio, può ora portare i suoi frutti particolari.

Questo è il grande mandato col quale la fede cristiana venne al mondo; esso sottolinea l’intimo impegno di mandare tutti i popoli alla scuola di Gesù, poiché Egli è la verità in persona e quindi la via dell’umanità. Non è qui il caso di discutere la legittimità del mandato missionario, ma ritorneremo su questo punto. Chiediamoci ora: quali conclusioni possiamo trarre da quanto detto finora riguardo al concreto rapporto della fede cristiana con le culture del mondo?

Primo, possiamo dire che la fede stessa è cultura. Non esiste la nuda fede o la pura religione. In termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi egli è e come deve incominciare ad essere uomo, la fede crea cultura. La fede è essa stessa cultura.

La parola fede non è un’astrazione; è maturata attraverso una lunga storia e rapporti interculturali nei quali essa ha formato un organico sistema di vita, l’interazione dell’uomo con se stesso, i suoi vicini, il mondo e Dio. Questo significa anche che la fede è, in se stessa, una comunità che vive in una cultura, che noi chiamiamo "Popolo di Dio".

Il carattere storico della fede come soggetto può essere forse più chiaramente espresso da questo concetto. Significa questo che la fede si pone come una cultura fra le altre, così che uno debba scegliere se appartenere a questo popolo, come comunità culturale, o ad un altro? No. A questo punto appare evidente ciò che è speciale e proprio di una cultura.

Il soggetto culturale "Popolo di Dio" differisce dalle culture classiche, che sono definite dalla tribù, dal popolo o dai confini di una comune regione, mentre il Popolo di Dio esiste nelle diverse culture le quali, pur diventando cristiane, non cessano di essere culture in modo primario e non relativo.

Il cristiano non cessa di essere francese, tedesco, americano, indiano, ecc. Nel mondo pre-cristiano, anche nelle grandi culture dell’India, Cina e Giappone, l’identità e l’indivisibilità del soggetto culturale rimane. Una doppia appartenenza è impossibile, con l’eccezione del buddhismo, capace di inserirsi in altre culture come una specie di principio interno.

Ma la doppia appartenenza culturale incomincia in modo consistente con la cristianità, così che l’uomo vive oggi in due mondi culturali, la sua cultura storica e quella nuova della fede: ambedue contribuiscono a formare la sua identità. Questa interazione non porterà mai ad una sintesi compiuta, poiché essa include la necessità di continui sforzi verso la riconciliazione e la perfezione.

Sempre di nuovo l’uomo deve imparare la trascendenza verso la totalità e l’universalità che sono proprie non di un popolo specifico, ma precisamente del Popolo di Dio che abbraccia tutti gli uomini. D’altra parte, sempre più quanto è posseduto in comune dev’essere ricevuto nel campo del particolare e vissuto o anche sofferto nella storia concreta.

Da tutto questo deriva qualcosa di molto importante. Si potrebbe pensare che la cultura è un problema della storia di ogni singolo paese (Germania, America, Francia, ecc.), mentre la fede per parte sua è alla ricerca di un’espressione culturale. Le singole culture dovrebbero quindi fornire alla fede un corpo culturale per esprimersi. Di conseguenza, la fede dovrebbe sempre vivere in culture imprestate che rimangono alla fine in qualche modo esterne e corrono il rischio di essere gettate via. Soprattutto, una forma culturale imprestata non potrebbe parlare a chi vive in un’altra cultura. Così l’universalità diventerebbe alla fine fittizia.

Questo modo di pensare è, alla sua radice, manicheo. La cultura è svilita, diventa un guscio intercambiabile, e la fede è ridotta ad uno spirito disincarnato, ultimamente privo di realtà. Una simile visione è tipica della mentalità post-illuministica. La cultura è ridotta ad una pura forma e la religione a mero sentimento inesprimibile o puro pensiero. Si perde la feconda tensione che dovrebbe caratterizzare la coesistenza di due soggetti.

Se la cultura è più di una pura forma o principio estetico, se essa è piuttosto l’ordinamento di valori in una forma storica e vivente e non può prescindere dal problema di Dio, allora noi non possiamo evitare che la Chiesa sia per il fedele il suo proprio soggetto culturale. Questo soggetto culturale: Chiesa, Popolo di Dio, non coincide con alcun altro soggetto culturale storico, anche in tempi di apparente piena cristianizzazione, come si pensa sia stata raggiunta nell’Europa del passato. Piuttosto la Chiesa mantiene, significativamente, la sua forma culturale come una volta, un arco al di sopra di tutte le altre culture.

Se le cose stanno così, quando la fede e la sua cultura incontrano un’altra cultura fino a quel momento ad essa estranea, non si tratta di dissolvere la dualità delle culture a vantaggio di una o dell’altra. Entrare in una cristianità privata del suo carattere umano, al prezzo di perdere la propria eredità culturale, sarebbe un errore allo stesso modo che se la fede abbandonasse la sua propria fisionomia culturale. Veramente la tensione è fruttuosa, poiché essa rinnova la fede e guarisce la cultura.

Sarebbe dunque insensato offrire una sorta di cristianesimo pre-culturale o deculturato, che dovrebbe privare se stesso della sua forza storica e degradarsi ad un vuoto contenitore di idee. Non dobbiamo dimenticare che già nel Nuovo Testamento il cristianesimo è frutto di una storia culturale, storia di accettazione e di rifiuto, di incontro e cambiamento. La storia della fede in Israele, che è stata assunta dal cristianesimo, trovò la sua propria forma nel confronto con le culture egiziana, ittita, sumera, babilonese, persiana e greca. Tutte queste culture erano allo stesso tempo religioni, totalizzanti forme storiche di modi di vivere.

Israele, con sofferenza, le adottò e trasformò nel corso della sua lotta con Dio e con i grandi profeti, in modo da preparare un vaso più puro per la novità della rivelazione dell’unico Dio. Così, queste altre culture raggiunsero la loro definitiva realizzazione. Esse sarebbero scomparse nel lontano passato, se non fossero state purificate ed elevate nella fede della Bibbia, raggiungendo così la loro permanenza.

In verità, la storia della fede in Israele incomincia con la chiamata di Abramo: "Esci dalla tua terra, dalla tua stirpe e dalla casa di tuo padre" (Gen 12, 1): incomincia con una rottura culturale. Questa rottura con la sua storia precedente, questo andare oltre segnerà sempre l’inizio di una nuova epoca nella storia della fede.

Ma questo nuovo inizio si manifesta come un potere risanante e capace di attirare a sé tutto quello che è umano, tutto ciò che viene realmente da Dio. "Quando sarò elevato da terra, attirerò a me tutti gli uomini" (Gv 12, 31): queste parole del Signore risorto si applicano anche qui. La croce è prima di tutto rottura, espulsione, elevazione dalla terra, ma proprio per questo diventa un nuovo centro di attrazione magnetica, che orienta la storia del mondo verso l’alto e raduna gli uomini divisi.

Chiunque entra nella Chiesa deve essere cosciente di entrare in un soggetto culturale con la sua inter-culturalità che s’è sviluppata nella storia con molteplici manifestazioni. Non si può diventare cristiani senza un certo "esodo", una rottura con la precedente vita in tutti i suoi aspetti. La fede non è una via privata a Dio, essa conduce dentro al Popolo di Dio e nella sua storia. Dio ha legato se stesso ad una storia che ora è anche la sua e che noi non possiamo rifiutare. Cristo resta uomo in eterno, egli conserva il suo corpo nell’eternità. Essendo uomo e avendo un corpo, inevitabilmente questo include una storia e una cultura, una particolare storia e cultura, lo vogliamo o no.

Noi non possiamo replicare l’avvenimento dell’incarnazione per accontentare noi stessi, nel senso di rimuovere la carne di Cristo e offrirgliene un’altra. Cristo rimane Se stesso, col Suo vero corpo. Ma Egli ci attira a sé.

Questo significa che, poiché il Popolo di Dio non è una particolare entità culturale, ma invece è stato tratto da tutti i popoli, perciò la sua stessa primaria identità culturale, nata dalla rottura, ha il suo posto. Ma non solo questo. La prima identità è necessaria per permettere all’Incarnazione di Cristo, del Logos, di raggiungere la sua pienezza. La tensione dei molti soggetti nell’unico soggetto appartiene essenzialmente al dramma non ancora completato dell’Incarnazione del Figlio. Questa tensione è il reale e intimo dinamismo della storia, che si sviluppa sotto il segno della Croce, cioè, sempre deve lottare contro le spinte contrarie della chiusura mentale e del rifiuto.

  continua................


 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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