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Conferenze sugli scritti di Joseph Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 15/01/2018 11:33
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15/01/2018 10:09
 
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Mi sia concessa soltanto una piccola annotazione: si dice che ora, dopo il chiarimento relativo alla dottrina della giustificazione, l'elaborazione delle questioni ecclesiologiche e delle questioni relative al ministero sia l'ostacolo principale che rimane da superare. Ciò in definitiva è vero, ma devo anche dire che non amo questa terminologia e da un certo punto di vista questa delimitazione del problema, poiché sembra che ora dovremmo dibattere delle istituzioni invece che della Parola di Dio, come se dovessimo porre al centro le nostre istituzioni e fare per esse una guerra. Penso che in questo modo il problema ecclesiologico così come quello del "ministerium" non vengano affrontati correttamente. 

La questione vera è la presenza della Parola nel mondo. La Chiesa primitiva nel II secolo ha preso una triplice decisione: innanzitutto di stabilire il canone, sottolineando in tal modo la sovranità della Parola e spiegando che non solo il Vecchio Testamento è "hài graphài" [le Scritture], ma che il Nuovo Testamento costituisce con esso un'unica Scrittura e in tal modo è per noi il nostro vero sovrano.

Ma al contempo la Chiesa ha formulato la successione apostolica, il ministero episcopale, nella consapevolezza che la Parola e il testimone vanno insieme, che cioè la Parola è viva e presente solo grazie al testimone e, per così dire, da esso riceve la sua interpretazione, e che reciprocamente il testimone è tale solo se testimonia la Parola.

E infine, la Chiesa ha aggiunto come terza cosa la "regula fidei" [la regola della fede] quale chiave interpretativa. Credo che questa vicendevole compenetrazione costituisca oggetto di dissenso fra noi, sebbene siamo uniti su cose fondamentali.

Quindi, quando parliamo di ecclesiologia e di ministero, dovremmo parlare preferibilmente di questo intreccio di Parola, testimone e regola di fede, e considerarlo come questione ecclesiologica e quindi insieme come questione della Parola di Dio, della sua sovranità e della sua umiltà, in quanto il Signore affida la sua Parola ai testimoni e ne concede l'interpretazione, che però deve commisurarsi sempre alla "regula fidei" e alla serietà della Parola. Scusatemi se ho espresso qui un'opinione personale, ma mi sembrava giusto farlo.
(dal discorso tenuto da Benedetto XVI ai rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, nell’arcivescovado di Colonia, il 19 agosto 2005, durante la Giornata Mondiale della Gioventù)

(Vorrei) circoscrivere, partendo da lati differenti, quell’unico punto che... si è mostrato come il centro del problema: la questione dell’Autorità, che è identica a quella della tradizione e non può essere disgiunta da quella circa il rapporto tra Chiesa e Chiesa particolare.

Tra i cristiani è indiscusso che la Sacra Scrittura è la misura fondamentale della fede cristiana, l’autorità centrale attraverso cui Cristo stesso esercita la Sua autorità sulla Chiesa e nella Chiesa. Perciò ogni insegnamento nella Chiesa è ultimamente interpretazione della S.Scrittura, così come questa da parte sua è solo interpretazione della Parola vivente che è Gesù Cristo. Orbene, la cosa ultima non è allora lo scritto, ma la vita, che il Signore ha trasmesso alla Sua Chiesa, e in cui la Scrittura ha vita ed è vita. Il Vaticano II ha formulato questa connessione con parole molto belle: «E’ la stessa tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei Libri sacri, e in essa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse Sacre Lettere; così Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la Sposa del Suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti nella verità tutta intera e in essi fa risiedere la Parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16)» (Dei Verbum II,8). La precedenza della Scrittura come testimonianza e la precedenza della Chiesa come spazio vitale di questa testimonianza stanno perciò in un indissolubile rapporto scambievole, nel quale l’una non sarebbe pensabile senza l’altra. Questa precedenza relativa della Chiesa nei confronti della Scrittura presuppone certamente allo stesso tempo l’esistenza della Chiesa universale come una realtà concreta e capace di agire, poiché solo la Chiesa nel suo insieme può essere in simile maniera spazio vitale della S. Scrittura. Così il problema della determinazione del rapporto tra Chiesa singola e Chiesa universale entra chiaramente a far parte delle questioni fondamentali.

Al contrario, proprio dal punto di vista della fede testimoniata nel Nuovo Testamento e della vita della Chiesa antica, si deve tener per fermo che non ci può essere una verificabilità ulteriore di quanto la Chiesa universale insegna come Chiesa universale; chi potrebbe mai arrogarsi il potere di intraprenderla? Si può approfondire la parola della Chiesa universale; la si può purificare nella sua forma linguistica; la si può sviluppare ulteriormente in avanti guardando verso il centro della fede e tenendo conto di nuove prospettive che si mostrano all’orizzonte, ma non la si può «discutere» nel senso che questo termine comunemente esprime.

La Chiesa antica, infatti, non ha certo riconosciuto l’esercizio del Primato nel senso della teologia romano-cattolica del secondo millennio, conosceva però certamente forme viventi di unità ecclesiale universale che non avevano solo carattere di manifestazione, ma erano costitutive per l’esser chiesa delle Chiese singole. In tal senso ci fu certamente la precedenza della Chiesa universale nei confronti della Chiesa particolare.
Ricordo qui solo tre fenomeni noti: le lettere di comunione, che vincolavano le Chiese tra di loro; la rappresentanza della Collegialità nella consacrazione episcopale, che era sempre collegata col reciproco controllo e riconoscimento del Credo, della Tradizione viva il cui carattere ecclesiale universale veniva chiaramente in luce nella rappresentanza (Darstellung) dei titolari delle grandi sedi: qui non bastava più il riconoscimento dei vicini, qui si doveva dimostrare la comunione delle grandi sedi tra loro, che poi a sua volta garantiva il carattere ecclesiale universale delle sedi singole. Il fatto che Roma come sede di Pietro fosse in modo particolare espressione dell’effettivo ancoramento nella Chiesa universale, non ha qui bisogno di alcuna particolare menzione. In fin dei conti rientra qui ciò che oggi si chiama volentieri la conciliarità della Chiesa, la cui presentazione non di rado appare romanticamente abbreviata. E’ noto infatti che questa conciliarità non ha mai funzionato semplicemente da sé, in virtù della pura e autonoma armonia della molteplicità, come si potrebbe supporre da molte esposizioni correnti. Di fatto, per la convocazione dei Concili c’era bisogno dell’autorità dell’imperatore. Se si toglie la figura dell’imperatore, non si parla più della realtà conciliare della Chiesa antica, ma di una finzione teologica. Un’osservazione più precisa mostra che anche l’assenso di Roma, la sede in cui erano morti Pietro e Paolo, era di importanza essenziale per la piena validità di un concilio, anche se questo fattore si pose in luce meno della posizione dell’imperatore. In ogni caso Vincent Twomey ha mostrato, in una ricerca accuratamente documentata, che già nella polemica attorno a Nicea si formano due opzioni contrapposte: l’eusebiana e quella di Atanasio, cioè la concezione di Chiesa universale nei termini di Chiesa imperiale, e una concezione propriamente teologica in cui non l’imperatore, ma Roma gioca il ruolo decisivo. Ma comunque stiano le cose, la Chiesa regno è sparita, e con essa l’imperatore (Dio sia lodato, possiamo dire). Perciò è inevitabile la domanda su quale entità propriamente teologica può sostituire e assumere la funzione rivestita dall’imperatore, se si vuol parlare sensatamente e concretamente di conciliarità della Chiesa.

Jean Meyendorff ha recentemente affrontato questo insieme di questioni con un realismo e una franchezza che devono essere considerati esemplari per una ricerca proiettata in avanti. Egli mostra come la rinuncia ad organi di unità teologicamente fondati dopo la caduta dell’antica Chiesa imperiale di fatto e con una stringente logica interiore condusse ovunque a Chiese-stato, che non corrispondono affatto al romanticismo della chiesa locale o della comunità con cui si tenta di legittimarle teoricamente. Esse portano con sé piuttosto una interiore particolarizzazione della realtà cristiana e della chiesa che contraddice all’essenza di ciò che dal Nuovo Testamento e dalla Chiesa delle origini è inteso con «Chiesa» (Meyendorff, J., p. 311: «Come si vede, il nazionalismo dell’epoca moderna ha mutato la forma del legittimo regionalismo ecclesiale e ne ha fatto una copertura del separatismo etnico.»). Infatti con la scomparsa della Chiesa universale come realtà che forgia concretamente la chiesa parziale e con il legame ad una realtà politica o etnica come cornice della Chiesa, cambia la costituzione stessa della Chiesa, cambia il valore del ministero episcopale e cambia così la struttura della Chiesa. Non cade via solo una «manifestazione» esteriore, ma una forza animante dall’interno. In questo contesto Meyendorff si pone poi la domanda se in effetti non si debba dare più spazio all’idea di sviluppo della Chiesa e poi dall’idea di sviluppo avvicinarsi al contenuto propriamente teologico del Primato, cui rinvia la legge costante e negativa delle particolarità, subentrata dopo la frantumazione dell’antico Impero, in ogni luogo dove mancava la connessione con la funzione unificante del ministero di Pietro.
Simili riflessioni non devono affatto condurre ad unilaterali conferme del «Romano». Esse rinviano al principio di un ministero dell’unità, ma provocano anche un’autocritica della teologia romano-cattolica, in cui gli sviluppi sbagliati della teologia e prassi del Primato, che indiscutibilmente ci sono stati, vengono messi in luce in maniera così consapevole e franca, allo stesso modo in cui Meyendorff ha presentato gli sviluppi errati di una teologia e prassi che mirano semplicemente alla Chiesa locale. In questo modo potrebbe davvero evidenziarsi e divenire accettabile il nucleo teologico. Il principio di un ministero petrino della Chiesa universale non sopporta a mio avviso alcun indebolimento nel senso di venire sminuito a semplice manifestazione, eliminando così teologicamente la realtà della Chiesa universaleI modi di realizzazione pratica del ministero sono invece mutabili e devono sempre di nuovo essere verificati in base al principio.

Nella questione circa la Chiesa universale e il Primato come suo organo reale non si tratta di un particolare problema romano, cui si può attribuire maggiore o minore significato. In nuce si tratta invece della questione della presenza autorizzata e comunionale della Parola di Dio nella Chiesa, che in base a quanto detto include la questione circa la Chiesa universale e la sua autorità, o circa gli organi di questa autorità. Ancora in altri termini, si tratta della questione di cosa propriamente si debba intendere col termine «Tradizione».

Molto rozzamente si potrebbe si potrebbe forse brevemente dire: nella Chiesa cattolica col principio «Tradizione» non si intende esclusivamente e neppure principalmente un patrimonio di dottrine o testi giuntici dall’antichità, ma una precisa determinazione della relazione tra la parola viva della Chiesa e la parola, canonica, della Bibbia. «Tradizione» significa qui soprattutto che la Chiesa vivente nella struttura della successione apostolica, col ministero petrino come centro, è la dimora in cui la Bibbia viene vissuta e interpretata con autorità. Questa interpretazione costituisce un continuum storico, che pone termini di confronto non più spostabili, ma non diventa mai un passato definitivamente chiuso. Conclusa è la «Rivelazione», ma non è conclusa l’interpretazione vincolante. Contro un’interpretazione ultimamente vincolante non c’è più alcuna possibilità di appello. La tradizione è allora qui essenzialmente caratterizzata dall’elemento «voce vivente», cioè dalla normativa della dottrina della Chiesa universale.

Simili ragionamenti a cui ho preso parte anch’io, sono nel frattempo cresciuti a formare l’opinione secondo cui i Concili e le decisioni dogmatiche del secondo millennio non sono da considerare ecumenici, bensì sviluppi particolari della Chiesa latina, suoi beni propri nel senso di «our two traditions». In questo modo però l’argomento iniziale è trasformato in una tesi del tutto nuova e dalle ampie portate. Infatti una simile concezione significa che di fatto l’esistenza della Chiesa universale viene negata per il secondo millennio, e la Tradizione come grandezza viva, portatrice di verità, viene congelata alla svolta del secondo millennio. Così però resta colpito nel suo nucleo il concetto di Chiesa e quello di Tradizione, giacché in ultima analisi il criterio dell’antichità soppianta la potestà apostolica della Chiesa, la quale allora non ha più voce alcuna nel presente. Del resto, di fronte ad una simile concezione, ci sarebbe anche da chiedersi con quale diritto in una Chiesa particolare, quale è allora la «latina», le coscienze possono venire vincolate da simili affermazioni. Ciò che si presentò sulla scena come verità, sarebbe allora da qualificare come semplice usanza. La pretesa di verità sinora elevata dovrebbe adesso venir qualificata come abuso. ..

L’autentico nucleo di ciò che là s’intende io lo vedo nel fatto che l’unità rappresenta un principio ermeneutico fondamentale di ogni teologia, e che dobbiamo perciò imparare a leggere i documenti della Tradizione in un’ermeneutica dell’unità, la quale permette di vedere realtà nuove e può aprire porte là dove prima si erano visti solo chiavistelli. Una tale ermeneutica dell’unità consisterà nel leggere le singole affermazioni nel contesto dell’intera Tradizione e di una approfondita comprensione della Bibbia.

Le grandi Confessioni della Riforma come anche la comunità anglicana hanno assunto i Simboli della Chiesa antica come parte della loro propria Confessione, e così hanno tenuto fuori dalle dispute la fede trinitaria e cristologia dei Concili della Chiesa antica: accanto alla Sacra Scrittura e insieme con essa è questo il nucleo vero e proprio dell’unità che ci unisce e che dà speranza in una piena riunificazione. Perciò per amore dell’unità ci si deve opporre con tutte le forze a tutti i tentativi di demolire questo centro ecclesiale, e la comune lettura della Bibbia da esso sostenuta, come non più al passo coi tempi. Un biblicismo ora davvero nudo, quale quello sostenuto oggi da molti, non ci ricondurrebbe insieme, ma dissolverebbe ben presto la Bibbia stessa, la quale senza questo centro non è più libro e non è più autorità.
Mentre dunque nei diversi «Credo» l’unità rimase, la frattura fu totale nella forma della liturgia eucaristica. In effetti però era la liturgia eucaristica della Chiesa antica (insieme con la liturgia battesimale), costruita e compresa in modo strutturalmente unitario, nonostante tutte le diversità testuali e rituali, lo spazio vitale in cui il Dogma della Chiesa antica era radicato. L’autorità di Tradizione di questo typus eucaristico non è inferiore all’autorità di Tradizione dei Concili e delle loro Confessioni, anche se essa si è espressa in modo diverso, non per mezzo di decreti conciliari, ma attraverso una ininterrotta celebrazione vitale. Solo artificiosamente le due autorità possono essere divise l’una dall’altra; ma è l’unica forma di fondo in cui si esprimeva la Chiesa antica.

Se al contrario venisse riconosciuta la forma fondamentale della Liturgia della Chiesa antica come bene della Tradizione di uguale solidità dei Simboli conciliari, allora sarebbe data un’ermeneutica dell’unità che renderebbe superflue le dispute. Non è la Liturgia della Chiesa come originaria forma di comprensione dell’eredità biblica a doversi giustificare di fronte alle ricostruzioni storiche; essa è piuttosto la misura proveniente dalla vita che dà un orientamento alla ricerca delle origini. …”.

Per il fatto che la maggior parte delle comunità, che una volta vivevano come Chiesa nazionale o Chiesa di stato, hanno oltrepassato i confini delle nazioni e dei continenti, si è destata una nuova sensibilità per ciò che significa «cattolicità» nel senso più originario del termine. Così pure l’attuazione di una vita comunitaria ecclesiale ha relativizzato concezioni del principio scritturistico e ha fatto rinascere la sensibilità per l’importanza della Tradizione e della potestà d’insegnamento fondata nel sacramento. In entrambi i casi l’incontro con la Chiesa Ortodossa ha trasmesso importanti impulsi. La Chiesa dell’Oriente ha potuto trasmettere alle Comunità della Riforma una figura di cattolicità non sovraccarica del peso della storia occidentale; essa ha potuto viceversa, partendo dalla comune struttura della Chiesa Cattolica d’Occidente, scoprire alcune estremizzazioni e unilateralità e aiutare a distinguere meglio ciò che è propriamente caratterizzante da ciò che è invece particolare.

In realtà c’è più unità nella ricerca appassionata della verità da parte delle comunità separate le quali hanno una volontà decisa di non imporre l’una all’altra nulla che non provenga dal Signore, ma anche di non lasciar cadere nulla di ciò che da Lui ci è stato affidato. Proprio così noi viviamo in tensione gli uni verso gli altri, perché viviamo in tensione verso Cristo. Forse la divisione istituzionale partecipa anche del senso storico-salvifico che Paolo attribuisce alla divisione fra Israele e i Gentili: «rendersi gelosi» reciprocamente per la maggior vicinanza al Signore (Rm 11,11).

Che il Cattolicesimo è divenuto un partito all’interno dell’Anglicanesimo nessuno realisticamente può metterlo in discussione... Ma rimane vero che Gesù non volle fondare un partito cattolico all’interno di una società di dibattiti cosmopolita, bensì una Chiesa cattolica, alla quale Egli ha promesso la pienezza della verità... Una corporazione che riduce i suoi cattolici ad un partito all’interno di un parlamento religioso difficilmente può pretendere di essere denominata un ramo della Chiesa cattolica. Essa è una religione nazionale, governata e strutturata secondo i principi dell’idea di tolleranza, in cui l’Autorità della Rivelazione è subordinata alla democrazia e all’opinione privata.

Nel mio libro Il nuovo popolo di Dio ho potuto, sulla base di dettagliate analisi filologiche, evidenziare la profonda differenza semantica e oggettiva che nel linguaggio e nel pensiero della Chiesa antica separa l’uno dall’altro i cosiddetti Communio e Concilium. Mentre Communio può figurare addirittura come equivalente per Chiesa, accenna alla sua essenza, al suo centro vitale e anche alla sua forma costituzionale, la stessa cosa non si può affatto dire per il concetto di Concilio. Concilio, al contrario di Comunione, di unificazione nel e col Corpo di Cristo, non è l’atto vitale della Chiesa stessa, bensì un determinato e importante evento operativo in essa. Il Concilio ha la sua importanza grande ma limitata e mai può esprimere la vita della Chiesa, ma la Chiesa non serve il Concilio. Nella visuale dei Padri è completamente insensato e impensabile spiegare la Chiesa intera come una specie di Concilio permanente. Il Concilio discute e prende decisioni, ma poi finisce. La Chiesa però non esiste per deliberare sul Vangelo, ma per viverlo. Perciò il Concilio presuppone la costituzione della Chiesa, ma non è esso stesso la costituzione.

Ma è falsa anche l’ultima concezione di Concilio presupposta dallo slogan della «conciliarità». Qui si vuole sostenere in effetti che il Concilio, l’accordo di tutte le chiese locali, è allo stesso tempo anche l’unica forma di espressione della Chiesa universale come Chiesa universale, il suo unico organo costituzionale. Già... ho richiamato l’attenzione sul fatto che non si vede come con queste premesse possa svolgersi un Concilio universale. Le difficoltà incontrate ai nostri giorni dalla Chiesa d’Oriente sulla via ad un Sinodo panortodosso rappresenta una verifica molto concreta di questo problema. Di fatto la Chiesa dei Padri non si è mai considerata come un puro intreccio di chiese particolari con gli stessi diritti. A grandi linee si possono distinguere in essa tre concezioni fondamentali della costituzione della Chiesa universale, che certo solo lentamente si sono formate nella loro forma specifica e poi distinte l’una dall’altra. L’Oriente conosceva due modelli fondamentali: uno era la Pentarchia, nella quale si ampliarono nel quarto secolo i tre Primati del Concilio niceno e nella quale un fondamento petrino-teologico si univa a finalità politico-pratiche: Roma e Antiochia sono sedi di Pietro, Alessandria con la figura di San Marco reclama parimenti per sé una derivazione petrina. Se Gerusalemme originariamente, per l’idea della translatiodella sua missione a Roma, era stata eliminata dal numero delle sedi normative, ora rientra nel loro novero come luogo di origine della fede. Allo stesso tempo la nuova translatio imperii da Roma a Costantinopoli rende possibile alla città imperiale sul Bosforo di entrare nella schiera delle sedi primaziali. Il riferimento ad Andrea diventa allora una specie di variante teologica dell’idea di traslazione e nel pensiero in esso insito della fraterna uguaglianza delle sue città. Comunque stiano le cose, l’antica Chiesa episcopale, sullo sfondo dell’idea petrina e delle sue variazioni storiche, si è concepita come pentarchia, non come generale conciliarità o come «patto d’amore» (come «sobornost»). Il modello misto teologico-politico della pentarchia, che non fu considerato affatto come frutto di semplici casualità storiche o di opportunità politiche, fu poi sostituito sempre più dal modello della Chiesa imperiale, nel quale all’imperatore spettano le funzioni del ministero petrino, egli diviene l’espressione completa della Chiesa universale. Adeguandosi a questa evoluzione nella Chiesa-stato bizantina, la pentarchia viene visibilmente rimodellata nella monarchia del Patriarca ecumenico. Se possiamo considerare questa connessione fra la monarchia dell’imperatore e la monarchia del Patriarca ecumenico come secondo modello, allora l’idea della successione romana di Pietro, niente affatto limitata alla città di Roma e al suo immediato ambito d’influsso, deve infine venir considerata come il terzo modello. Per questo modello l’unico successore di Pietro, il Vescovo di Roma, è il vero organo della Chiesa universale biblicamente fondato, senza che in un primo momento la Pentarchia e la posizione dell’imperatore fossero considerate del tutto inconciliabili con questo modello. La mia riflessione conclusiva è che il modello di «conciliarità» come forma di rappresentazione dell’unità della Chiesa universale dalle e nelle chiese particolari è inadatto e dovrebbe essere abbandonato.

Chi legge attentamente i testi di consenso ecumenici, che diventano sempre più numerosi, ne ricava con sempre maggiore chiarezza l’impressione che il classico Sola Scriptura non venga quasi più impiegato: al suo posto, invece, sembra formarsi un nuovo principio formale, che io a mo’ di tentativo sono portato a descrivere con lo slogan «traditionibus».

Un paio di esempi possono chiarire questa circostanza. In Africa, così ci dice il BEM, ci sono comunità che battezzano solo con l’imposizione delle mani, senza acqua. La conseguenza? Si deve studiare il rapporto di questa prassi con il Battesimo con l’acqua. In alcune «tradizioni» è costume dare ai bambini solo una benedizione per unirli alla Chiesa. Solo allorquando essi stessi possono compiere la confessione di fede vengono anche battezzati. Altre comunità battezzano i bambini, i quali più tardi – quando sono maturi per farlo – aggiungono la propria confessione di fede. Cosa bisogna fare? Guardare ad entrambe le «tradizioni» come in fondo omogenee. Alcune chiese hanno cominciato con l’ordinazione delle donne, le altre la respingono. Cosa ne consegue? La benedizione, che manifestamente è presente nell’ordinazione delle donne, la legittima senz’altro, ma non tutti devono riceverla... Questi esempi dovrebbero bastare per chiarire l’essenza del nuovo principio formale: le «tradizioni» sono da accettare come tali in un primo momento; esse sono la realtà con cui l’Ecumenismo ha a che fare. Compito del dialogo ecumenico è poi quello di cercare in giusta maniera i necessari compromessi tra le tradizioni, senza distruggere l’identità di nessuno, ma rendendo possibile a tutti il reciproco riconoscimento. Questo non è più il principio scritturistico di Lutero o di Calvino; su ciò non è necessario spendere alcuna ulteriore parola. Ma è anche qualcosa di completamente diverso dal principio cattolico (o ortodosso) di «Tradizione». In questo, infatti, si trattava di «tradizioni apostoliche» «di diritto divino», cioè di tradizioni che riposavano sulla Rivelazione, senza come tali essere chiaramente contenute per iscritto nella Scrittura. Pure e semplici «tradizioni umane», la cui esistenza nessuno contesta, potevano esigere rispetto, ma non venire portate a livello di Rivelazione. Ora però nella crisi dell’esegesi l’idea di una vera e propria derivazione da Gesù (istituzione) e quindi di una reale qualità di rivelazione sembra essere divenuta così insicura che quasi non vi si ricorre più. Quel che è sicuro sono appunto le «tradizioni», e non ha più molta rilevanza se esse sono sorte nel primo, nel decimo, nel sedicesimo o nel ventesimo secolo e in quale maniera sono sorte.

Se infatti ci si accordasse completamente nel considerare tutte le Confessioni semplicemente come tradizioni, allora ci si sarebbe completamente allontanati dalla questione circa la verità, e la teologia sarebbe oramai solo una forma di diplomazia, di politica. In questo caso i nostri Padri, nella polemica, erano in realtà molto più vicini: pur in mezzo ad ogni conflittualità essi sapevano tuttavia che potevano essere servitori solo di una Verità che deve essere riconosciuta così grande e così pura, quale da Dio è stata pensata per noi.
(da Problemi e speranze del dialogo anglicano-cattolico, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.71-95)

Nel secolo XIX si era a poco a poco costituito il movimento ecumenico, inizialmente a partire dall'esperienza missionaria delle Chiese protestanti, le quali, incontrando il mondo pagano, avevano trovato un ostacolo fondamentale alla loro testimonianza nella divisione dei cristiani in numerose confessioni e avevano così riconosciuto l'unità della Chiesa come condizione essenziale della missione. In questo senso l'ecumenismo fu all'inizio un fenomeno del protestantesimo, scaturito dall'uscita dal mondo tradizionalmente cristiano.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.58)



1. Le delucidazioni che seguono sottolineano il consenso raggiunto nella Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione (DG) al riguardo di verità fondamentali della giustificazione; risulta pertanto chiaro che le reciproche condanne dei tempi passati non si applicano alla dottrina cattolica e alla dottrina luterana della giustificazione così come tali dottrine sono presentate nella Dichiarazione congiunta.

2. “Insieme confessiamo che soltanto per grazia e nella fede nell'opera salvifica di Cristo, e non in base ai nostri meriti, noi siamo accettati da Dio e riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a compiere le buone opere” (DG 15).

A) “Insieme confessiamo che Dio perdona per grazia il peccato dell’uomo e che, nel contempo, egli lo libera dal potere assoggettante del peccato [...]” (DG 22). La giustificazione è perdono dei peccati e azione che rende giusti, attraverso la quale Dio dona all’uomo “la vita nuova in Cristo” (DG 22). “Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio” (Rm 5,1). Siamo “chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (1 Gv 3,1). Noi siamo in verità ed interiormente rinnovati dall’azione dello Spirito Santo, restando sempre dipendenti dalla sua opera in noi. “Quindi se uno è in Cristo, è una creazione nuova ; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17). In questo senso i giustificati non restano peccatori.
Se però diciamo che siamo senza peccato non siamo nel giusto (cfr. 1 Gv 1, 8-10, cfr. DG 28). “Tutti quanti manchiamo in molte cose” (Gc 3,2). “Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che non vedo” (Sal 19,12). E quando preghiamo, possiamo soltanto dire, come l’esattore, “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13). Ciò è espresso in svariati modi nelle nostre liturgie. Insieme, noi ascoltiamo l’esortazione: “Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri” (Rm 6,12). Ciò ci ricorda il perdurante pericolo che proviene dal potere del peccato e dalla sua azione nei cristiani. In questa misura, luterani e cattolici possono insieme comprendere il cristiano come simul justus et peccator, malgrado i modi diversi che essi hanno di affrontare tale argomento, così come risulta in DG 29-30.

B) Il concetto di “concupiscenza” è adoperato con significati diversi da parte cattolica e da parte luterana. Negli scritti confessionali luterani la concupiscenza è compresa nei termini del desiderio egoistico dell’essere umano che, alla luce della Legge spiritualmente intesa, è considerato come peccato. Secondo il modo di comprendere cattolico, la concupiscenza è una inclinazione che permane negli esseri umani perfino dopo il battesimo, la quale proviene dal peccato e spinge verso il peccato. Malgrado le differenze riscontrabili in questo contesto, si può riconoscere, da una prospettiva luterana, che il desiderio può diventare il varco attraverso il quale il peccato assale. Dato il potere del peccato, l’essere umano nella sua interezza ha la tendenza ad opporsi a Dio. Tale tendenza, secondo la concezione cattolica e luterana, “non corrisponde al disegno originario di Dio sull’umanità” (DG 30). Il peccato ha un carattere personale e, come tale, conduce alla separazione da Dio. Esso è desiderio egoistico dell'uomo vecchio e mancanza di fiducia e di amore nei confronti di Dio.
La realtà di salvezza nel battesimo ed il pericolo che proviene dal potere del peccato possono essere espressi in maniera tale da enfatizzare, da una parte, il perdono dei peccati e il rinnovamento dell'umanità in Cristo per mezzo del battesimo; dall'altra, si può intendere che anche il giustificato “non è svincolato dal dominio che esercita su di lui il peccato e che lo stringe nelle sue spire (cfr. Rm 6, 12-14) né può esimersi dal combattimento di tutta una vita contro l'opposizione a Dio […]” (DG 28).

C) La giustificazione avviene “soltanto per mezzo della grazia” (DG 15 e 16); soltanto per mezzo della fede, la persona è giustificata “indipendentemente dalle opere” (Rm 3,28, cfr. DG 25). “La grazia crea la fede non soltanto quando la fede nasce in una persona, ma per tutto il tempo che la fede dura” (Tommaso d'Aquino, S. Th. II/II 4, 4 ad 3). L'opera della grazia di Dio non esclude l'azione umana: Dio produce tutto, il volere e l'operare, pertanto noi siamo chiamati ad agire (cfr. Fil 2,12 ss). “Immediatamente quando lo Spirito Santo ha iniziato in noi la sua opera di rigenerazione e di rinnovamento, attraverso la Parola e i santi sacramenti, è certo che noi possiamo e dobbiamo collaborare per mezzo della potenza dello Spirito Santo (…)” (Formula di Concordia, FC SD II, 64 s; BSLK 897, 37 s).

D) La grazia quale comunione del giustificato con Dio nella fede, nella speranza e nell'amore, proviene sempre dall'opera salvifica e creatrice di Dio (cfr. DG 27). Nondimeno il giustificato ha la responsabilità di non sprecare questa grazia e di vivere in essa. L'esortazione a compiere le buone opere è l'esortazione a mettere in pratica la fede (cfr. BSLK 197,45). Le buone opere dei giustificati “dovrebbero essere realizzate in modo da confermare la loro chiamata, cioè, affinché essi non disattendano la loro chiamata peccando di nuovo” (Apol. XX, 13, BSLK 316, 18-24; con riferimento a 2 Pt 1,10. Cfr. anche FC SD IV,33; BSLK 948, 9-23). In questo senso, luterani e cattolici possono comprendere insieme ciò che viene affermato circa la “preservazione della grazia” in DG 38 e 39. Certamente “la giustificazione non si fonda né si ottiene in tutto ciò che precede e segue nell'uomo il libero dono della fede” (DG 25).

E) Per mezzo della giustificazione siamo incondizionatamente condotti alla comunione con Dio. Ciò comprende la promessa della vita eterna: «se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua resurrezione» (Rm 6,5, cfr. Gv 3,36, Rm 8,17). Nel giudizio finale, i giustificati saranno giudicati anche in base alle loro opere (cfr. Mt 16,27; 25,31-46; Rm 2,16; 14,12; 1 Cor 3,8; 2 Cor 5,10, ecc.). Noi stiamo di fronte ad un giudizio nel quale la benevola sentenza di Dio approverà ogni cosa nella nostra vita e nella nostra azione che corrisponde alla sua volontà. Nondimeno, ogni cosa nella nostra vita che è sbagliata sarà messa a nudo e non entrerà nella vita eterna. La Formula di Concordia afferma anche: «È volontà ed espresso comandamento di Dio che i credenti debbano compiere buone opere che lo Spirito Santo opera in loro, e Dio si compiace di esse per amore di Cristo e promette di ricompensarli gloriosamente in questa vita e nella vita futura» (FC SD IV,38). Ogni ricompensa è una ricompensa di grazia, della quale non possiamo in alcun modo vantarci.

3. La dottrina della giustificazione è metro o termine di paragone per la fede cristiana. Nessun insegnamento può contraddire tale criterio. In questo senso, la dottrina della giustificazione è un «criterio irrinunciabile che orienta continuamente a Cristo tutta la dottrina e la prassi della Chiesa» (DG 18). In quanto tale, essa ha la sua verità e il suo significato specifico nel contesto d’insieme della fondamentale Confessione di fede trinitaria della Chiesa. Noi [luterani e cattolici] tendiamo «insieme alla meta di confessare in ogni cosa Cristo, il solo nel quale riporre ogni fiducia poiché egli è l’unico Mediatore (1 Tim 2,5s) attraverso il quale Dio nello Spirito Santo fa dono di sé ed effonde i suoi doni che tutto rinnovano” (DG 18).
(Allegato alla Dichiarazione congiunta sulla Dottrina della Giustificazione fra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale del 31 ottobre 1999. Questo testo è in allegato alla Dichiarazione che porta la firma del Pontificio Consiglio dell’Unità dei Cristiani, ma lo leggiamo per la sua rilevanza in merito al nostro tema)

Entrambe le parti (N.d.C. quella cattolica e quella luterana nella Dichiarazione ufficiale comune sulla giustificazione, corredata da un Allegato che ne è parte integrale) hanno sottolineato il fatto che non si ha semplicemente un consenso sulla dottrina della giustificazione come tale, ma su verità fondamentali della dottrina della giustificazione. Quindi ci sono settori dove c’è realmente un’intesa, ma rimangono altri problemi che non sono ancora risolti... Non si tratta delle formule prese in se stesse, ma considerate nel loro contesto, come nel caso di quella simul iustus et peccator. Per Lutero, perseguitato dal timore della condanna eterna, era importante sapere che, anche se era un peccatore, era tuttavia amato da Dio e giustificato. Per lui c’è questa contemporaneità: di essere vero peccatore e di essere totalmente giustificato. E’ una espressione della sua esperienza personale, che poi è stata approfondita anche con riflessioni teologiche. Mentre per la Chiesa cattolica è importante sottolineare che non c’è un dualismo. Se uno non è giusto non è neanche giustificato. La giustificazione, cioè la grazia che ci viene data nel sacramento, rende il peccatore nuova creatura, come dice san Paolo. Ma rimane, come afferma il Concilio di Trento, la concupiscenza, cioè una tendenza al peccato, uno stimolo che porta al peccato, ma che, come tale, non è peccatoQueste sono controversie classiche. Il problema diventa più reale se prendiamo in considerazione la presenza della Chiesa nel processo della giustificazione, la necessità del sacramento della penitenza. Qui si rivelano le vere divergenze.

In questo senso è importante notare che Dio agisce realmente nell’uomo. Lo trasforma, crea qualcosa di nuovo nell’uomo, non dà soltanto un giudizio quasi giuridico, esterno all’uomo. Ciò ha una portata molto più generale. C’è una trasformazione del cosmo e del mondo. Penso ad esempio all’Eucarestia. Noi cattolici diciamo che c’è una transustanziazione, che la materia diventa Cristo. Lutero parla invece di coesistenza: la materia rimane tale e coesiste con Cristo. Noi cattolici crediamo che la grazia è una vera trasformazione dell’uomo e una trasformazione iniziale del mondo e non è... soltanto una copertura aggiunta che non entra realmente nel vivo della realtà umana.

E’ importante questa operazione della grazia. Noi siamo tutti contagiati un po’ dal deismo. Dio rimane un po’ fuori. Mentre la fede cattolica – questa grande fiducia, questa grande gioia che Dio, facendosi uomo, entrando nella carne, unendosi alla carne, continua a operare nel mondo trasformandolo – ha la potenza, la volontà, la radicalità dell’amore, per entrare nel nostro essere e trasformarlo.

Nella Risposta della Chiesa cattolica dello scorso anno stava scritto: “Dovrebbe essere preoccupazione comune di luterani e cattolici trovare un linguaggio capace di rendere la dottrina della giustificazione più comprensibile anche agli uomini del nostro tempo”. Penso che la quasi assenza di questa dottrina è causata da un indebolimento del senso di Dio. Se Dio è preso sul serio, il peccato è una cosa seria. E così era per Lutero. Adesso Dio è abbastanza lontano, il senso di Dio è molto attenuato e perciò anche il senso della grazia è attenuato. Adesso dobbiamo trovare insieme in questo contesto attuale il modo di annunciare Dio, Cristo, di annunciare così la bellezza della grazia. Perché se non c’è senso di Dio, se non c’è senso del peccato, la grazia non dice niente. E mi sembra questo il nuovo compito ecumenico: che insieme possiamo capire e interpretare in un modo accessibile, che tocca il cuore dell’uomo di oggi, cosa vuol dire che il Signore ci ha redenti, ci ha dato la grazia.
(da Il mistero e l’operazione della grazia, intervista di G.Cardinale al card.J.Ratzinger, in 30giorni, 6, giugno 1999, pagg.11-14)


   continua............

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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