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Udienza generale del Mercoledì Anno 2022

Ultimo Aggiornamento: 14/12/2022 18:34
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05/01/2022 22:53
 
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UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 5 gennaio 2022

[Multimedia]

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Catechesi su San Giuseppe: 6. San Giuseppe, il padre putativo di Gesù

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi mediteremo su San Giuseppe come padre di Gesù. Gli Evangelisti Matteo e Luca lo presentano come padre putativo di Gesù e non come padre biologico. Matteo lo precisa, evitando la formula “generò”, usata nella genealogia per tutti gli antenati di Gesù; ma lo definisce «sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù detto il Cristo» (1,16). Mentre Luca lo afferma dicendo che era padre di Gesù «come si riteneva» (3,23), cioè appariva come padre.

Per comprendere la paternità putativa o legale di Giuseppe, occorre tener presente che anticamente in Oriente era molto frequente, più di quanto non sia ai nostri giorni, l’istituto dell’adozione. Si pensi al caso comune presso Israele del “levirato” così formulato nel Deuteronomio: «Quando uno dei fratelli morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si sposerà con uno di fuori, con un estraneo. Suo cognato si unirà a lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere di cognato. Il primogenito che ella metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto, perché il nome di questi non si estingua in Israele» (25,5-6). In altre parole, il genitore di questo figlio è il cognato, ma il padre legale resta il defunto, che attribuisce al neonato tutti i diritti ereditari. Lo scopo di questa legge era duplice: assicurare la discendenza al defunto e la conservazione del patrimonio.

Come padre ufficiale di Gesù, Giuseppe esercita il diritto di imporre il nome al figlio, riconoscendolo giuridicamente. Giuridicamente è il padre, ma non generativamente, non l’ha generato.

Anticamente il nome era il compendio dell’identità di una persona. Cambiare il nome significava cambiare sé stessi, come nel caso di Abramo, il cui nome Dio cambia in “Abraham”, che significa “padre di molti”, «perché – dice il Libro della Genesi – sarà padre di una moltitudine di nazioni» (17,5). Così per Giacobbe, che viene chiamato “Israele”, che significa “colui che lotta con Dio”, perché ha lottato con Dio per obbligarlo a dargli la benedizione (cfr Gen 32,29; 35,10).

Ma soprattutto dare il nome a qualcuno o a qualcosa significava affermare la propria autorità su ciò che veniva denominato, come fece Adamo quando conferì un nome a tutti gli animali (cfr Gen 2,19-20).

Giuseppe sa già che per il figlio di Maria c’è un nome preparato da Dio – il nome a Gesù lo dà il vero padre di Gesù, Dio – il nome “Gesù”, che significa “Il Signore salva”, come gli spiega l’Angelo: «Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Questo particolare aspetto della figura di Giuseppe ci permette oggi di fare una riflessione sulla paternità e sulla maternità. E questo credo che sia molto importante: pensare alla paternità, oggi. Perché noi viviamo un’epoca di notoria orfanezza. È curioso: la nostra civiltà è un po’ orfana, e si sente, questa orfanezza. Ci aiuti la figura di San Giuseppe a capire come si risolve il senso di orfanezza che oggi ci fa tanto male.

Non basta mettere al mondo un figlio per dire di esserne anche padri o madri. «Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti» (Lett. ap. Patris corde). Penso in modo particolare a tutti coloro che si aprono ad accogliere la vita attraverso la via dell’adozione, che è un atteggiamento così generoso e bello. Giuseppe ci mostra che questo tipo di legame non è secondario, non è un ripiego. Questo tipo di scelta è tra le forme più alte di amore e di paternità e maternità. Quanti bambini nel mondo aspettano che qualcuno si prenda cura di loro! E quanti coniugi desiderano essere padri e madri ma non riescono per motivi biologici; o, pur avendo già dei figli, vogliono condividere l’affetto familiare con chi ne è rimasto privo. Non bisogna avere paura di scegliere la via dell’adozione, di assumere il “rischio” dell’accoglienza. E oggi, anche, con l’orfanezza, c’è un certo egoismo. L’altro giorno, parlavo sull’inverno demografico che c’è oggi: la gente non vuole avere figli, o soltanto uno e niente di più. E tante coppie non hanno figli perché non vogliono o ne hanno soltanto uno perché non ne vogliono altri, ma hanno due cani, due gatti … Eh sì, cani e gatti occupano il posto dei figli. Sì, fa ridere, capisco, ma è la realtà. E questo rinnegare la paternità e la maternità ci sminuisce, ci toglie umanità. E così la civiltà diviene più vecchia e senza umanità, perché si perde la ricchezza della paternità e della maternità. E soffre la Patria, che non ha figli e – come diceva uno un po’ umoristicamente – “e adesso chi pagherà le tasse per la mia pensione, che non ci sono figli? Chi si farà carico di me?”: rideva, ma è la verità. Io chiedo a San Giuseppe la grazia di svegliare le coscienze e pensare a questo: ad avere figli. La paternità e la maternità sono la pienezza della vita di una persona. Pensate a questo. È vero, c’è la paternità spirituale per chi si consacra a Dio e la maternità spirituale; ma chi vive nel mondo e si sposa, deve pensare ad avere figli, a dare la vita, perché saranno loro che gli chiuderanno gli occhi, che penseranno al suo futuro. E anche, se non potete avere figli, pensate all’adozione. È un rischio, sì: avere un figlio sempre è un rischio, sia naturale sia d’adozione. Ma più rischioso è non averne. Più rischioso è negare la paternità, negare la maternità, sia la reale sia la spirituale. Un uomo e una donna che volontariamente non sviluppano il senso della paternità e della maternità, mancano qualcosa di principale, di importante. Pensate a questo, per favore. Auspico che le istituzioni siano sempre pronte ad aiutare in questo senso dell’adozione, vigilando con serietà ma anche semplificando l’iter necessario perché possa realizzarsi il sogno di tanti piccoli che hanno bisogno di una famiglia, e di tanti sposi che desiderano donarsi nell’amore. Tempo fa ho sentito la testimonianza di una persona, un dottore – importante il suo mestiere – non aveva figli e con la moglie hanno deciso di adottarne uno. E quando è arrivato il momento, ne hanno offerto loro uno e hanno detto: “Ma, non sappiamo come andrà la salute di questo. Forse può avere qualche malattia”. E lui disse – lo aveva visto – disse: “Se lei mi avesse domandato questo prima di entrare, forse avrei detto di no. Ma l’ho visto: me lo porto”. Questa è la voglia di essere padre, di essere madre anche nell’adozione. Non abbiate paura di questo.

Prego perché nessuno si senta privo di un legame di amore paterno. E coloro che sono ammalati di orfanezza vadano avanti senza questo sentimento così brutto. Possa San Giuseppe esercitare la sua protezione e il suo aiuto sugli orfani; e interceda per le coppie che desiderano avere un figlio. Per questo preghiamo insieme:

San Giuseppe,
tu che hai amato Gesù con amore di padre,
sii vicino a tanti bambini che non hanno famiglia
e desiderano un papà e una mamma.
Sostieni i coniugi che non riescono ad avere figli,
aiutali a scoprire, attraverso questa sofferenza, un progetto più grande.
Fa’ che a nessuno manchi una casa, un legame,
una persona che si prenda cura di lui o di lei;
e guarisci l’egoismo di chi si chiude alla vita,
perché spalanchi il cuore all’amore.

SALUTI

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto gli adolescenti della diocesi di Brescia, quelli del Decanato di Castano Primo e quelli della parrocchia Santa Francesca Cabrini di Lodi. Saluto poi gli artisti del Rony Roller Circus, e torno a ringraziare per questa vostra attività: è curioso, dietro quanto hanno fatto, dietro a questa bellezza, ci sono ore e ore e ore di allenamento, di lavoro per fare uno spettacolo così. Grazie. 

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Domani celebreremo la solennità dell’Epifania. Sappiate, come i Magi, cercare con animo aperto Cristo luce del mondo.

A tutti la mia benedizione.







UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 12 gennaio 2022

[Multimedia]

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Catechesi su San Giuseppe: 7. San Giuseppe il falegname

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Gli evangelisti Matteo e Marco definiscono Giuseppe “falegname” o “carpentiere”. Abbiamo ascoltato poco fa che la gente di Nazaret, sentendo Gesù parlare, si chiedeva: «Non è costui il figlio del falegname?» (13,55; cfr Mc 6,3). Gesù praticò il mestiere del padre.

Il termine greco tekton, usato per indicare il lavoro di Giuseppe, è stato tradotto in vari modi. I Padri latini della Chiesa lo hanno reso con “falegname”. Ma teniamo presente che nella Palestina dei tempi di Gesù il legno serviva, oltre che a fabbricare aratri e mobili vari, anche a costruire case, che avevano serramenti di legno e tetti a terrazza fatti di travi connesse tra loro con rami e terra.

Pertanto, “falegname” o “carpentiere” era una qualifica generica, che indicava sia gli artigiani del legno sia gli operai impegnati in attività legate all’edilizia. Un mestiere piuttosto duro, dovendo lavorare materiale pesante, come il legno, la pietra e il ferro. Dal punto di vista economico non assicurava grandi guadagni, come si deduce dal fatto che Maria e Giuseppe, quando presentarono Gesù nel Tempio, offrirono solo una coppia di tortore o di colombi (cfr Lc 2,24), come prescriveva la Legge per i poveri (cfr Lv 12,8).

Dunque, Gesù adolescente ha imparato dal padre questo mestiere. Perciò, quando da adulto cominciò a predicare, i suoi compaesani stupiti si chiedevano: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi?» (Mt 13,54), ed erano scandalizzati di lui (cfr v. 57), perché era il figlio del falegname ma parlava come un dottore della legge, e si scandalizzavano di questo.

Questo dato biografico di Giuseppe e di Gesù mi fa pensare a tutti i lavoratori del mondo, in modo particolare a quelli che fanno lavori usuranti nelle miniere e in certe fabbriche; a coloro che sono sfruttati con il lavoro in nero; alle vittime del lavoro - abbiamo visto che in Italia ultimamente ce ne sono state parecchie -; ai bambini che sono costretti a lavorare e a quelli che frugano nelle discariche per cercare qualcosa di utile da barattare... Mi permetto di ripetere questo che ho detto: i lavoratori nascosti, i lavoratori che fanno lavori usuranti nelle miniere e in certe fabbriche: pensiamo a loro. A coloro che sono sfruttati con il lavoro in nero, a coloro che danno lo stipendio di contrabbando, di nascosto, senza la pensione, senza niente. E se non lavori, tu, non hai alcuna sicurezza. Il lavoro in nero oggi c’è, e tanto. Pensiamo alle vittime del lavoro, degli incidenti sul lavoro; ai bambini che sono costretti a lavorare: questo è terribile! I bambini nell’età del gioco devono giocare, invece sono costretti a lavorare come persone adulte. Pensiamo a quei bambini, poveretti, che frugano nelle discariche per cercare qualcosa di utile da barattare. Tutti questi sono fratelli e sorelle nostri, che si guadagnano la vita così, con lavori che non riconoscono la loro dignità! Pensiamo a questo. E questo succede oggi, nel mondo, questo oggi succede! Ma penso anche a chi è senza lavoro: quanta gente va a bussare alle porte delle fabbriche, delle imprese: “Ma, c’è qualcosa da fare?” – “No, non c’è, non c’è …”. La mancanza di lavoro! E penso anche a quanti si sentono feriti nella loro dignità perché non trovano questo lavoro. Tornano a casa: “Hai trovato qualcosa?” – “No, niente … sono passato dalla Caritas e porto il pane”. Quello che ti dà dignità non è portare il pane a casa. Tu puoi prenderlo dalla Caritas: no, questo non ti dà dignità. Quello che ti dà dignità è guadagnare il pane, e se noi non diamo alla nostra gente, ai nostri uomini e alle nostre donne, la capacità di guadagnare il pane, questa è un’ingiustizia sociale in quel posto, in quella nazione, in quel continente. I governanti devono dare a tutti la possibilità di guadagnare il pane, perché questo guadagno dà loro la dignità. Il lavoro è un’unzione di dignità, e questo è importante. Molti giovani, molti padri e molte madri vivono il dramma di non avere un lavoro che permetta loro di vivere serenamente, vivono alla giornata. E tante volte la ricerca di esso diventa così drammatica da portarli fino al punto di perdere ogni speranza e desiderio di vita. In questi tempi di pandemia tante persone hanno perso il lavoro – lo sappiamo – e alcuni, schiacciati da un peso insopportabile, sono arrivati al punto di togliersi la vita. Vorrei oggi ricordare ognuno di loro e le loro famiglie. Facciamo un istante di silenzio ricordando quegli uomini, quelle donne disperati perché non trovano lavoro.

Non si tiene abbastanza conto del fatto che il lavoro è una componente essenziale nella vita umana, e anche nel cammino di santificazione. Lavorare non solo serve per procurarsi il giusto sostentamento: è anche un luogo in cui esprimiamo noi stessi, ci sentiamo utili, e impariamo la grande lezione della concretezza, che aiuta la vita spirituale a non diventare spiritualismo. Purtroppo però il lavoro è spesso ostaggio dell’ingiustizia sociale e, più che essere un mezzo di umanizzazione, diventa una periferia esistenziale. Tante volte mi domando: con che spirito noi facciamo il nostro lavoro quotidiano? Come affrontiamo la fatica? Vediamo la nostra attività legata solo al nostro destino oppure anche al destino degli altri? Infatti, il lavoro è un modo di esprimere la nostra personalità, che è per sua natura relazionale. Il lavoro è anche un modo per esprimere la nostra creatività: ognuno fa il lavoro a suo modo, con il proprio stile; lo stesso lavoro ma con stile diverso.

È bello pensare che Gesù stesso abbia lavorato e che abbia appreso quest’arte proprio da San Giuseppe. Dobbiamo oggi domandarci che cosa possiamo fare per recuperare il valore del lavoro; e quale contributo, come Chiesa, possiamo dare affinché esso sia riscattato dalla logica del mero profitto e possa essere vissuto come diritto e dovere fondamentale della persona, che esprime e incrementa la sua dignità.

Cari fratelli e sorelle, per tutto questo oggi desidero recitare con voi la preghiera che San Paolo VI elevò a San Giuseppe il 1° maggio del 1969:

O San Giuseppe,
Patrono della Chiesa,
tu che, accanto al Verbo incarnato,
lavorasti ogni giorno per guadagnare il pane,
traendo da Lui la forza di vivere e di faticare;
tu che hai provato l’ansia del domani,
l’amarezza della povertà, la precarietà del lavoro:
tu che irradii oggi, l’esempio della tua figura,
umile davanti agli uomini
ma grandissima davanti a Dio,
proteggi i lavoratori nella loro dura esistenza quotidiana,
difendendoli dallo scoraggiamento,
dalla rivolta negatrice,
come dalle tentazioni dell’edonismo;
e custodisci la pace nel mondo,
quella pace che sola può garantire lo sviluppo dei popoli. Amen.

_________________________________________________

Saluti

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i membri dell’Istituto secolare Orionino. La figura di san Giuseppe, umile falegname di Nazareth, ci orienti verso Cristo, sostenga coloro che operano per il bene e interceda per quanti hanno perso il lavoro o non riescono a trovarlo.

Il mio pensiero va infine in modo speciale agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Domenica scorsa abbiamo celebrato la Festa del Battesimo del Signore, occasione propizia per ripensare al proprio Battesimo nella fede della Chiesa. Riscoprite la grazia che proviene dal Sacramento e sappiatela tradurre negli impegni quotidiani di vita.

A tutti la mia benedizione.



UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 19 gennaio 2022

[Multimedia]

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Catechesi su San Giuseppe: 8. San Giuseppe padre nella tenerezza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei approfondire la figura di San Giuseppe come padre nella tenerezza.

Nella Lettera Apostolica Patris corde (8 dicembre 2020) ho avuto modo di riflettere su questo aspetto della tenerezza, un aspetto della personalità di San Giuseppe. Infatti, anche se i Vangeli non ci danno particolari su come egli abbia esercitato la sua paternità, però possiamo stare certi che il suo essere uomo “giusto” si sia tradotto anche nell’educazione data a Gesù. «Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52): così dice il Vangelo. Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare, tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4)» (Patris corde, 2). È bella questa definizione della Bibbia che fa vedere il rapporto di Dio con il popolo di Israele. E lo stesso rapporto pensiamo che sia stato quello di San Giuseppe con Gesù.

I Vangeli attestano che Gesù ha usato sempre la parola “padre” per parlare di Dio e del suo amore. Molte parabole hanno come protagonista la figura di un padre. [1] Tra le più famose c’è sicuramente quella del Padre misericordioso, raccontata dall’evangelista Luca (cfr Lc 15,11-32). Proprio in questa parabola si sottolinea, oltre all’esperienza del peccato e del perdono, anche il modo in cui il perdono giunge alla persona che ha sbagliato. Il testo dice così: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (v. 20). Il figlio si aspettava una punizione, una giustizia che al massimo gli avrebbe potuto dare il posto di uno dei servi, ma si ritrova avvolto dall’abbraccio del padre. La tenerezza è qualcosa di più grande della logica del mondo. È un modo inaspettato di fare giustizia. Ecco perché non dobbiamo mai dimenticare che Dio non è spaventato dai nostri peccati: mettiamoci questo bene nella testa. Dio non si spaventa dei nostri peccati, è più grande dei nostri peccati: è padre, è amore, è tenero. Non è spaventato dai nostri peccati, dai nostri errori, dalle nostre cadute, ma è spaventato dalla chiusura del nostro cuore – questo sì, lo fa soffrire – è spaventato dalla nostra mancanza di fede nel suo amore. C’è una grande tenerezza nell’esperienza dell’amore di Dio. Ed è bello pensare che il primo a trasmettere a Gesù questa realtà sia stato proprio Giuseppe. Infatti le cose di Dio ci giungono sempre attraverso la mediazione di esperienze umane. Tempo fa – non so se l’ho già raccontato – un gruppo di giovani che fanno teatro, un gruppo di giovani pop, “avanti”, sono stati colpiti da questa parabola del padre misericordioso e hanno deciso di fare un’opera di teatro pop con questo argomento, con questa storia. E l’hanno fatta bene. E tutto l’argomento è, alla fine, che un amico ascolta il figlio che si era allontanato dal padre, che voleva tornare a casa ma aveva paura che il papà lo cacciasse e lo punisse. E l’amico gli dice, in quell’opera pop: “Manda un messaggero e di' che tu vuoi tornare a casa, e se il papà ti riceverà che metta un fazzoletto alla finestra, quella che tu vedrai appena prendi il cammino finale”. Così è stato fatto. E l’opera, con canti e balli, continua fino al momento che il figlio entra nella strada finale e si vede la casa. E quando alza gli occhi, vede la casa piena di fazzolettini bianchi: piena. Non uno, ma tre-quattro per ogni finestra. Così è la misericordia di Dio. Non si spaventa del nostro passato, delle nostre cose brutte: si spaventa soltanto della chiusura. Tutti noi abbiamo conti da risolvere; ma fare i conti con Dio è una cosa bellissima, perché noi incominciamo a parlare e Lui ci abbraccia. La tenerezza!

Allora possiamo domandarci se noi stessi abbiamo fatto esperienza di questa tenerezza, e se a nostra volta ne siamo diventati testimoni. Infatti la tenerezza non è prima di tutto una questione emotiva o sentimentale: è l’esperienza di sentirsi amati e accolti proprio nella nostra povertà e nella nostra miseria, e quindi trasformati dall’amore di Dio.

Dio non fa affidamento solo sui nostri talenti, ma anche sulla nostra debolezza redenta. Questo, ad esempio, fa dire a San Paolo che c’è un progetto anche sulla sua fragilità. Così infatti scrive alla comunità di Corinto: «Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi […]. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2 Cor 12,7-9). Il Signore non ci toglie tutte le debolezze, ma ci aiuta a camminare con le debolezze, prendendoci per mano. Prende per mano le nostre debolezze e si pone vicino a noi. E questo è tenerezza. L’esperienza della tenerezza consiste nel vedere la potenza di Dio passare proprio attraverso ciò che ci rende più fragili; a patto però di convertirci dallo sguardo del Maligno che «ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità», mentre lo Spirito Santo «la porta alla luce con tenerezza» (Patris corde, 2). «È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. […] Guardate come le infermiere, gli infermieri toccano le ferite degli ammalati: con tenerezza, per non ferirli di più. E così il Signore tocca le nostre ferite, con la stessa tenerezza. Per questo è importante incontrare la Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, nella preghiera personale con Dio, facendo un’esperienza di verità e tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità: lui è bugiardo, ma si arrangia per dirci la verità per portarci alla bugia; ma, se lo fa, è per condannarci. Invece il Signore ci dice la verità e ci tende la mano per salvarci. Noi sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, ci perdona» (Patris corde, 2). Dio perdona sempre: mettetevelo, questo, nella testa e nel cuore. Dio perdona sempre. Siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono. Ma lui perdona sempre, anche le cose più brutte.

Ci fa bene allora specchiarci nella paternità di Giuseppe che è uno specchio della paternità di Dio, e domandarci se permettiamo al Signore di amarci con la sua tenerezza, trasformando ognuno di noi in uomini e donne capaci di amare così. Senza questa “rivoluzione della tenerezza” – ci vuole, una rivoluzione della tenerezza! – rischiamo di rimanere imprigionati in una giustizia che non permette di rialzarsi facilmente e che confonde la redenzione con la punizione. Per questo, oggi voglio ricordare in modo particolare i nostri fratelli e le nostre sorelle che sono in carcere. È giusto che chi ha sbagliato paghi per il proprio errore, ma è altrettanto giusto che chi ha sbagliato possa redimersi dal proprio errore. Non possono esserci condanne senza finestre di speranza. Qualsiasi condanna ha sempre una finestra di speranza. Pensiamo ai nostri fratelli e alle nostre sorelle carcerati, e pensiamo alla tenerezza di Dio per loro e preghiamo per loro, perché trovino in quella finestra di speranza una via di uscita verso una vita migliore.

E concludiamo con questa preghiera:

San Giuseppe, padre nella tenerezza,
insegnaci ad accettare di essere amati proprio in ciò che in noi è più debole.
Fa’ che non mettiamo nessun impedimento
tra la nostra povertà e la grandezza dell’amore di Dio.
Suscita in noi il desiderio di accostarci al Sacramento della Riconciliazione,
per essere perdonati e anche resi capaci di amare con tenerezza
i nostri fratelli e le nostre sorelle nella loro povertà.
Sii vicino a coloro che hanno sbagliato e per questo ne pagano il prezzo;
aiutali a trovare, insieme alla giustizia, anche la tenerezza per poter ricominciare.
E insegna loro che il primo modo di ricominciare
è domandare sinceramente perdono, per sentire la carezza del Padre. 

_______________________________

[1] Cfr Mt 15,13; 21,28-30; 22,2; Lc 15,11-32; Gv 5,19-23; 6,32-40; 14,2; 15,1.8.

_________________________________________________

Saluti

Il mio pensiero va alle popolazioni delle Isole di Tonga, colpite nei giorni scorsi dall’eruzione del vulcano sottomarino che ha causato ingenti danni materiali. Sono spiritualmente vicino a tutte le persone provate, implorando da Dio sollievo per la loro sofferenza. Invito tutti a unirsi a me nella preghiera per questi fratelli e sorelle.

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le partecipanti al Capitolo Generale delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria (Istituto Ravasco), le suore della Madre di Dio, venute dalla Romania, gli allievi della scuola Ispettori e Sovrintendenti della Guardia di Finanza dell’Aquila, e i membri della Fondazione “Davida” di Leinì (Torino). Tutti vi esorto ad essere, sull’esempio di San Giuseppe, testimoni della tenerezza e della misericordia del Signore.

Saluto poi i lavoratori della Compagnia aerea AirItaly, ed auspico che la loro situazione lavorativa possa trovare una positiva soluzione, nel rispetto dei diritti di tutti, specialmente delle famiglie.

Il mio pensiero va infine, in modo speciale, agli anziani, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che è iniziata ieri, ci invita a chiedere al Signore con insistenza il dono della piena comunione tra i credenti.

A tutti la mia benedizione.



[Modificato da Caterina63 19/01/2022 17:31]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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