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Le Tombe degli Apostoli a partire da san Pietro, in Vaticano....

Ultimo Aggiornamento: 30/06/2017 21:27
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26/11/2008 23:36
 
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Il Cristianesimo si diffuse già dal I secolo d.C., in pieno Impero Romano, e i Cristiani vennero a contatto con molte culture e di queste assorbirono gli usi e i costumi più significativi. Dal momento che i cimiteri Cristiani dal III secolo d.C. in poi presentano sepolture IPOGEE , cioè tombe scavate in gallerie sottoterra, ci si è sempre chiesti da dove i Cristiani avessero appreso questo modo di sepoltura. Si fa riferimento per questo ai Giudei, che praticavano l’inumazione, posavano i cadaveri nelle rocce o scavavano loculi nelle pareti. Usavano archelitiche tombe a terra e infine ipogei a galleria. Gli esempi di scavi ipogeici a galleria presso gli ebrei non sono però anteriori alle catacombe romane. Si pensa perciò che l’uso di ipogei a galleria con loculi sia da attribuirsi proprio ai Romani e sia stato successivamente sviluppato dai classici.

Testimonianza di ciò, è il SEPOLCRETO PRECRISTIANO di Anzio risalente al IV- III secolo a. C., dove c’è un ipogeo formato da tre corridoi alti e ristretti.

Ndei secoli, sono state attestate tre fasi di cimiteri Cristiani:
I FASE: EPOCA APOSTOLICA
Le tombe cristiane erano poste vicino a quelle pagane, sulle quali veniva praticato un piccolo segno di riconoscimento;
II FASE:
I più poveri tra i morti Cristiani, ebbero una degna sepoltura SUBDIALE accanto a quella dei pagani;



Nel corso del III secolo: si passa dalla sepoltura subdiale a quella sottoterra, cioè alle Catacombe.

Le Catacombe ( da kata kumbhn = presso la cavità) inizialmente, designarono la depressione tra San Callisto e la tomba di Cecilia Metella sull’Appia antica (San Sebastiano); in seguito, e più precisamente nel III secolo, designarono il cimitero cristiano perché l’esigenza di radunare i propri morti, e il desiderio di praticare il proprio culto li portò alla formazione di cimiteri riservati, precedentemente invece i Cristiani avevano sepolture SUBDIALI.
Per la costruzione di cimiteri propri, i Cristiani dovettero ottenere dei terreni, che per la maggior parte, furono donati da persone aristocratiche come Domitilla; altri invece li acquistarono. Il tufo, caratteristico veniva usato per strutture architettoniche perché il tufo granulare unito alla calce spenta formava malta per costruzione.
In seguito agli scavi di tufo, si formavano grossi corridoi che venivano abbandonati, e dei quali si impossessarono i Cristiani per utilizzarli come ipogei.

A testimoniare il fatto che la realizzazione degli ipogei era casuale, si può notare la diversa dimensione degli stessi, che variava a seconda del tipo di tufo utilizzato. Infatti, nella campagna romana, ci sono ampi strati di tufo e argilla. I Romani, nel tufo granulare, aprivano gallerie sotterranee, dopo averle rinforzate per prevenire crolli, per condutture d’acqua, per depositi e per cimiteri. Piuttosto strette erano invece quelli nei luoghi di tufo solido.



SAN PIETRO

Le fonti essenziali della storia di Simone, a cui Gesù darà il nome di Pietro, sono i Vangeli e gli Atti degli Apostoli.
Di lui sappiamo che nacque in Galilea circa venti secoli fa, era un pescatore a cui Gesù affida la missione di fondatore della Sua Chiesa. In qualche anno la sua reputazione e la sua influenza si estesero tra i popoli del Mediterraneo, per raggiungere poi attraverso i secoli tutti i continenti.

Di Pietro ci sono giunte solo due lettere. La prima è indirizzata alle comunità cristiane disperse nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia, e il saluto finale di Pietro è rivolto insieme alla “comunità che è stata eletta e dimora in Babilonia” e a “Marco mio figlio”. (Babilonia, simbolo di immoralità nella Bibbia è certamente Roma e “l’eletta che dimora in Babilonia” designa la comunità cristiana che vi si trova. Marco invece è il discepolo di Pietro).

Della presenza di Pietro a Roma ci parla anche la Lettera di Clemente databile al ‘95, sotto Domiziano, che attesta il suo insegnamento a Roma. Con certezza di lui conosciamo solo la morte; su questo punto la tradizione della Chiesa è costante, situando il suo martirio al momento delle persecuzioni neroniane. La tradizione dice che fu ucciso nel ‘67 nel Circo di Nerone. Questo circo in origine era privato, in quanto faceva parte delle proprietà imperiali ed era un luogo destinato innanzitutto alle distrazioni ippiche dell’imperatore. Il giorno in cui iniziò la persecuzione contro i cristiani fu aperto a tutti poiché Nerone offriva questa “festa” al popolo di Roma. Alcuni cristiani si erano uniti a questa folla e sarebbe quindi inverosimile pensare che nessuno vedendo Pietro crocifisso, si fosse preoccupato delle sue spoglie.

Per la tradizione della Chiesa, non c’è dubbio che la tomba di San Pietro si trovi là sotto la cupola, sotto il baldacchino del Bernini, e la prova di questa tesi è stata considerata per secoli, da molti, la lettera del sacerdote Gaio contro il montanista Proclo, riportata da Eusebio di Cesarea, nella quale afferma:
“Io posso additarvi i trofei degli apostoli. Se tu andrai al Vaticano e alla via Ostiense, troverai i trofei di coloro che questa chiesa fondarono”.

Dunque la chiesa di Roma era più importante, perché c’erano i trofei degli apostoli, rispetto a quella IERAPOLI dove erano sepolti Filippo e le sue figlie, della cui superiorità si vantava Proclo.



GLI SCAVI

Saxa loquuntur: “Le pietre parlano”.
Furono queste le parole di Pio XII quando nel 1942 annunciò per la prima volta gli scavi vaticani.

Dagli scavi condotti è stata rilevata una necropoli intesa come “città dei morti”, importante cimitero pagano.

Infatti per la costruzione della Basilica Vaticana l’imperatore Costantino dovette autorizzare la copertura della necropoli e spogliare le famiglie dei mausolei che appartenevano loro.
La necropoli che si sviluppò nel corso del II-III d.C., probabilmente lungo la via Cornelia, si svolgeva su un percorso da est a ovest. Il colle vaticano era tagliato al centro dal Tevere che con la sua piena rendeva poco abitabili i piedi del colle e i pendii erano utilizzati invece per le coltivazioni e le sepolture. Percorrendo la strada da est a ovest si poteva osservare sulla sinistra il circo di Nerone e a destra i mausolei.

Questi erano decorati con stucchi, pitture e mosaici poiché originariamente appartenevano alle famiglie aristocratiche pagane; in seguito poi divennero cristiani, o perché comprati da questi ultimi, o perché appartenevano a famiglie pagane convertitesi al cristianesimo. Tutti questi mausolei formavano un complesso architettonico, che si addossava intorno ad un’area definita dagli archeologi CAMPO P. Dunque questo spazio insieme al contiguo campo Q, costituiscono indiscutibilmente delle aree per l’inumazione. Il campo P accoglie oggi la tomba di Pietro, una parte del muro rosso che integrava il Trofeo di Gaio, in compenso il muro G che molto probabilmente conteneva le reliquie di San Pietro.
Il muro rosso chiamato così per il suo originario colore, oggi è piuttosto pallido e sbiadito.

Per la destinazione iniziale, il muro rosso è semplicemente un muro di sostegno che delimita un passaggio in pendenza il CLIVUS, nel luogo in cui non c’era un mausoleo per fiancheggiarlo.
Nonostante ciò rivela particolarità molto curiose: innanzitutto sottoterra dove, a un certo punto, la muratura si innalza al di sopra di qualche cosa che rispetta. Infatti non corre dritta, ma mostra una interruzione, una specie di nicchia che tende ad aggirare un angolo per non sovrastarlo. Questa nicchia è chiamata n1. Su di essa, ad un livello superiore si eleva una seconda nicchia n2, sempre nel Muro Rosso, meno irregolare della precedente.



La “NICCHIA N2” ,si trovava proprio al di sopra del livello del suolo.
Un’altra nicchia, n3, si trovava più in alto, separata dalla n2 da una placca di travertino orizzontale della quale restano le inserzioni nel MURO ROSSO che era sostenuta da due colonnette, pure poggianti su una base di travertino, e sormontata in alto da un’edicola.

Le tombe che hanno preceduto il MURO ROSSO, si inseriscono in un sistema ortogonale leggermente diverso nel quale rientrano i due muretti sovrapposti m1 e m2, che delimitano a sud la nicchia n1.
Molto probabilmente questa è la risistemazione di una tomba anteriore che altera la struttura del MURO ROSSO, ma che quest’ultimo conserva, proprio con l’interruzione n1, di cui abbiamo parlato.
Questa struttura è chiamata TROFEO DI GAIO, poiché si riconosce in essa il trofeo dell’apostolo Pietro additato da Gaio a Proclo.
Il TROFEO DI GAIO, ricopre uno spazio anticamente svuotato e invaso, poi, dal terreno circostante.

C’erano molte ossa disperse mischiate alla terra, sia sotto il muro rosso, nel fondo della nicchia n1, che in altre parti del Campo P.
L’esplorazione del Campo P dunque, ha svelato un certo numero di sepolture. Tra i sepolcri più antichi, tre risalgono a prima della metà del II sec; furono indicati da tre lettere greche: g, q, h. Il sepolcro g è il più profondo e si trova a sud degli altri, dove il livello del suolo era più basso: è una tomba di un fanciullo. Ad ovest il MURO ROSSO passa al di sopra di essa.

Il sepolcro h si trova a meno di un metro davanti al muro rosso di fronte alle nicchie che lo invadono; passando sotto h a ovest , e nella stessa direzione del sepolcro g, il sepolcro q è un inumazione in piena regola, sormontato dalla pietra tombale che sosteneva le colonnette del trofeo di Gaio.

Questi tre sepolcri, come i muretti m1 e m2 , si iscrivono nel sistema ortogonale anteriore al MURO ROSSO e lasciano uno spazio vuoto davanti ad esso. E questo spazio è appunto il luogo privilegiato a partire dal quale sono state concepite le sistemazioni successive che portarono alla basilica che conosciamo oggi.
Appoggiate alle fondazioni del MURO ROSSO e in parte sopra le tombe q e i (iota), troviamo quelle di un altro muro: il Muro G.
Si tratta di un muro tozzo, elevato in un secondo tempo, perpendicolarmente al, MURO ROSSO.

Su questo intonaco, ci sono numerosissimi graffiti di visitatori che vi hanno inciso sopra i loro nomi accompagnati spesso da esclamazioni.
È molto probabile che l’interno del muro G , sia stato scavato e sistemato per contenere le reliquie di San Pietro, all’epoca in cui si costruiva la prima sontuosa basilica.

Per quanto riguarda le ossa umane provenienti dalla sistemazione interna del muro G, da studi condotti dal Professor Correnti si è potuto capire che queste appartengono ad un solo individuo, di esse però, nessuna è integra, se si eccettuano la rotula sinistra, due ossa del polso sinistro e due falangi basali delle dita della mano sinistra.

Il sesso, quasi certamente, è maschile, di età “senile”, tra i sessanta e i settanta anni, di corporatura chiaramente robusta. Però oltre alle ossa dell’uomo, vi erano unite ossa di animali anche se in piccola quantità e alcune ossa che presentavano sulla superficie esterna piccole zone colorate.
Tutte queste osservazioni ci fanno presumere che l’individuo, in origine, fu inumato e che le aree colorate non fossero altro che i colori delle stoffe in cui il cadavere fu avvolto.
Comunque le ossa dei piedi mancano totalmente, il che potrebbe significare che la tomba è stata tagliata prima di essere sostituita, forse da una tomba posteriore.

Proprio perché il muro G fu rispettosamente conservato e incorporato nella memoria costantiniana, sembra difficile mettere in dubbio l’interesse dei resti che vi furono ritrovati. Nessun elemento al contrario ha invalidato la logica appartenenza allo scheletro di San Pietro.

Gli storici hanno formulato varie ipotesi sulla base di alcune testimonianze:

- nel III sec. il culto è attestato “ad catacumbas”;
- nel IV sec. è testimonianza l’Iscrizione Damasiana di San Sebastiano che dice: “Tu devi sapere che qui prima hanno abitato i santi, tu che cerchi i nomi di Pietro e Paolo;
- nella metà del III sec. troviamo i graffiti della Triclia, sala dei banchetti funebri della memoria apostolica di Pietro e Paolo, “ad catacumbas”;
- nel IV sec. la Depositio Martyrum, il martirologio della chiesa romana che dice “Petri in Catacumbas e Pauli in Ostiense”.
- nel IV sec. c’è anche il calendario di San Girolamo (347-419) che attesta: “Petri in Vaticano, Pauli in via Ostiense, utriusque in catacumbas Tusco et Basso consulibus”. La celebrazione di Paolo ha sempre luogo nell’ostiense, quella di Pietro invece in catacumbas nel primo, nel secondo in Vaticano. Sempre nel IV sec troviamo anche l’editto di Milano (313) e la costruzione della basilica ad opera del papa Silvestro in Vaticano;
- nel V sec. abbiamo il Liber Pontificalis, la cui prima redazione si ha nel 530 circa. In questo si
- possono trovare notizie interessanti nella vita di San Anacleto, Papa dal 78 all’88: “edificò e decorò la memoria del beato Pietro” e di Papa Cornelio (251-252) “fece trasportare le reliquie da ad catacumbas in Vaticano” .
- Gregorio Magno (540-604) parla invece di reliquie portate prima ad catacumbas, subito dopo (64 - 68) in Vaticano.

Da queste testimonianze sono nate così due ipotesi principali. In base alla prima nel 258 la tomba è stata spostata dal Vaticano ad catacumbas. Questa, però, non è molto attendibile perché secondo Papa Damaso (IV sec.) le spoglie di Pietro erano prima alle catacombe, mentre invece il Liber Pontificalis parla di un ritorno al Vaticano tra il 251-253. In base alla seconda, invece, le tombe prima del 200 sarebbero state traslate dalle catacombe al Vaticano.

Ma in questo modo, non si spiegherebbe il culto attestato nelle catacombe nel III e IV secolo. Partendo da queste due ipotesi si sono fornite così tante soluzioni, che questo problema sembrerebbe irrisolto. Infatti a S. Sebastiano è stato attestato il culto degli apostoli Pietro e Paolo da molte iscrizioni ritrovate sulle mura di una triclia , sala in cui nel corso del III sec si praticava il “refrigerium” . Si pensò che nel 258 , sotto la persecuzione di Valeriano, i corpi di S. Pietro e S. Paolo furono portati sulla via Appia.

Si cercarono allora le reliquie degli apostoli o meglio, i luoghi dove potevano essere state contenute sotto la triclia . Si trovarono , però, solo mausolei messi fuori uso verso la metà del III sec. Le famiglie che li avevano utilizzati erano state prima pagane poi cristiane.

Successivamente si trovò un piccolo monumento a nicchie che fu identificato come una “mensa martyrium” , dove si celebrava il culto.

Altre ipotesi furono formulate :

I: S. Pietro fu sepolto originariamente AD CATACUMBAS e poi trasportato in VATICANO;
II: AD CATACUMBAS non c’era la tomba ma l’abitazione. I luoghi che potevano essere adibiti ad abitazione sono posteriori al II sec;
III : le sue spoglie non erano mai state traslate AD CATACUMBAS, ma qui ci fu solo il culto. Ma non si spiega che solo per il culto fu seppellita una necropoli ancora in uso. Infatti, questo poteva essere sempre officiato nel cimitero di Callisto;
IV: il culto era esercitato da eretici che non potevano essere ammessi al Vaticano. Ma è inverosimile che siano stati seppelliti in una zona eretica i martiri Sebastiano ed Eutichio e le reliquie di altri martiri. Inoltre anche altri elementi contraddicono questa ipotesi: più credibile è che nel 258 le reliquie furono traslate AD CATACUMBAS e poi riportate in Vaticano. Questo può essere spiegato con il fatto che nel 258, ci fu la persecuzione di Valeriano e le ossa furono portati via dal Vaticano e riportate qui, subito dopo, nel 260-62, quando il figlio di Valeriano, Galieno, mise fine alla persecuzione. Per non rimaneggiare le tombe furono collocate nel muro G.

Secondo altri furono rimesse al posto e sistemate nel muro G nel momento della costruzione della basilica.
Nella necropoli sottostante la basilica di San Pietro, sono stati ritrovati i graffiti presentati come una rete inestricabile di segni. Questi furono materia di studio di molti epigrafisti, tra questi la Prof.ssa Margherita Guarducci, che forse ha dato interpretazioni discutibili, ma senza dubbio le più suggestive, che rappresentano una pietra miliare per la lettura dei graffiti del muro G.

Alcuni graffiti sono presenti anche nel MURO ROSSO, e sono più antichi di quelli del muro G; sono importanti perché qui si riconosce il nome di Pietro. Di più complessi se ne trovano sul muro G in quanto si pensava che la vicinanza al santo desse la certezza di poter guadagnare la speranza della vita eterna.

Il momento più importante per questi graffiti è tra il III e il IV secolo . Il tipo di linguaggio è CRITTOGRAFICO molto sviluppato a Roma, dove si pensa sia nato. È una scrittura di carattere sacro, simbolico, che aveva lo scopo di celare ad occhi profani , pensieri intimi del fedele. Una caratteristica del linguaggio crittografico è la POLISEMIA. La simbologia era pittorica e alfabetica.
Il disegno mistico per eccellenza era il pesce, perché in greco si dice icquV che è l’acrostico di IesuV, CrisoV, Qeou, Uios, Swthr.

Per la simbologia pittorica abbiamo:

L’agnello ,simbolo di Gesù, agnello immolato per la salvezza dell’umanità.
Il circolo , simbolo di eternità.
L’orante che rappresenta l’anima del defunto che prega, mentre la colomba è l’anima che è volata o deve volare, questa spesso, porta un ramoscello d’ulivo simbolo della pace.
Il vaso e la botte sono simboli della pratica del rito del refrigerium , libagioni che risollevavano l’anima e la conducevano alla vita eterna.
Il banchetto è l’agape, cioè un banchetto mistico davanti alla tomba del defunto .
Il faro e la lucerna sono simboli della luce divina che guida il navigante (l’anima).
La bilancia , simbolo del giudizio di Dio.
La zappa, l’ascia e il martello sono gli strumenti per costruire la croce e ricordano il martirio di Cristo.
La lepre, il cavallo e l’uccello rappresentano il volo dell’anima in cielo, in quanto animali veloci.
L’ancora , simbolo della salvezza, salvezza della croce, cioè salvezza in Cristo.
L’uva , un simbolo pagano e indica il vino dell’eucarestia.
Per quanto riguarda la simbologia alfabetica abbiamo invece:
a e w indicano rispettivamente l’inizio e la fine della vita , infatti compaiono già nell’Apocalisse di Giovanni e in Isaia.
CO indica la corona delle anime pie.
La D è deus e cioè Dio.
La E è il simbolo dell’Eden , che viene spesso rappresentata con ramificazioni dalle stanghette della lettera stessa , che richiamano i rami del giardino .
La F indica il Figlio.
La I, Iesus = Gesù.
Il C, Cristos=Cristo.
La M, Maria.
La L, la luce e quindi Cristo.
Il K,da kejalh=capo, inteso come principio.
La N, nikh ossia vittoria.
La O latina che riprende l’w greca=fine.
La P è la pace (pax), ( per la Guarducci, è Pietro).
La Q, quiete.
La RE è la resurrezione.
La S è la salute.
La U è ugeia.
La V è la vita.
La W è il segno augurale di vita.

Nel muro G, i simboli sono intrecciati perché si vuole dare un ulteriore significato mistico.

Nella descrizione che segue le immagini purtroppo non sono visibili....

Nella figura 6, il graffito dice: “ Simplicio vivite in pace”. Il simbolo è l’unione di Pace (P) e Cristo (C) e vuole comunicare proprio il desiderio di vivere nella pace eterna con Cristo.

Nella figura 6.1 è messo in evidenza lo U di ugieia, cioè di salute.


Nella 6. 2 è evidenziato un duplice simbolo costituito dalla V di vita e la M di Maria.


Nel 6.3 il segno w un augurio di vita.


Nel 6.4 vediamo che accanto alla X, che è simbolo di croce e vita, c’è una A che indica Cristo come l’inizio, cioè l’alfa.



Su un altro graffito troviamo il nome di Mania.
Nel 5.1 è evidenziata la lettera M unita alla O per mezzo di una A.
La M indica il nome di Maria, la madre di Gesù, che è A-O cioè alfa e omega, l’inizio e la fine.




Nel 5.2 è evidenziata accanto alla A una piccola preposizione IN ad indicare l’augurio di una vita in Cristo (A).


Nel 5.4 sono raggruppati i simboli che maggiormente si riferiscono a Cristo a,w,v.


Nel 5.5 la A di Cristo si carica del simbolo trinitario, le tre A indicano infatti la Trinità.


Altri graffiti sono stati ritrovati anche sul Muro Rosso.
Abbiamo infatti:
- la figura 1 , conservata nel Museo delle Terme che è cristiana.
- l’orante, che assume una posizione centrale, è il simbolo dell’anima che vola e, portando il ramoscello d’ulivo, offre all’orante la possibilità di raggiungere la pace eterna.
- l’ultimo simbolo significa “pace in Cristo”, ed è un monogramma Costantiniano.

La figura 2, conservata nel Museo Lateranense, fa parte del cimitero di Ottavilla (S.Pancrazio).


In essa compare il nome della defunta Agapis, e quindi è lei la destinataria del messaggio.

Analizzando singolarmente i simboli si nota una simbologia ricorrente e sempre uguale: l’ancora e la croce .
La croce è la croce di Gesù, l’ancora è la speranza di salvezza alla fine della vita, in Dio .
L’w, indica la fine e quindi la morte.
L’a indica l’inizio, quindi la vita dopo la morte, mentre la A (maiuscola) indica la trinità.
Come nella figura n°1 ritroviamo il monogramma di Cristo ; in questa epigrafe però, oltre alla solita interpretazione, la Guarducci ne dà un’altra: il segno c è sempre Cristo, mentre il segno r può essere considerato anche come l’iniziale del nome Pietro. Quindi significherebbe: Pietro in Cristo e non pace in Cristo.
Il messaggio che si vuole comunicare è il seguente:
AGAPIS PASSI ATTRAVERSO CRISTO SALUTE, DALLA MORTE ALLA VITA.

La figura n°3 è di ignota provenienza ed oggi è conservata al Museo Lateranense .


In questa epigrafe troviamo il nome Maniana, collegata a quella di Pace.
Interessante è notare come tra la A e la C di pace c’è una corona di alloro che è simbolo di vittoria della vita sulla morte.
Segue la E che secondo la Guarducci simboleggia l’Eden.
Un esplicito richiamo al giardino dell’Eden, sono le ramificazioni che partono dalle punte della lettera E.
Con il collegamento tra E e O (che è il giardino)si vuole indicare il GODIMENTO ETERNO (morte-Eden).
L’epigrafe è quindi da leggere.
MINIANA ABBIA LA PACE, E IN CRISTO TROVI LA VITTORIA SULLA MORTE, QUINDI LA PACE PER L’ETERNITA’.

[Modificato da Caterina63 29/06/2011 00:00]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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26/11/2008 23:38
 
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Pellegrini alla tomba di Pietro. Come nell'antica Roma

Dieci metri sotto la basilica vaticana è possibile ripercorrere la stessa strada che conduceva alla sepoltura dell'apostolo, tra file di tombe romane uscite intatte dagli scavi. L'ultimo restauro è di pochi giorni fa. Una meraviglia di arte, di storia, di fede

di Sandro Magister



ROMA, 3 giugno 2008 – Immaginiamo che sia notte, come nella foto qui sopra. Stiamo percorrendo una stradina affiancata da tombe romane del II e III secolo dopo Cristo. Siamo sulle prime pendici del Colle Vaticano. A poca distanza c'è l'imponente obelisco che sorgeva al centro dello stadio di Caligola e Nerone. Lì fu martirizzato l'apostolo Pietro. E lungo questa stradina sorge il "trofeo" che segna il luogo in cui fu sepolto.

Proprio così. L'unica cosa inesatta è che non è notte. E quel cielo buio è il pavimento della basilica di San Pietro, sotto la quale stiamo camminando.

Quando nel IV secolo l'imperatore Costantino costruì la basilica, volle che il piano dell'abside poggiasse proprio sopra la tomba dell'apostolo. E per portare allo stesso livello anche la navata coprì di terra tutte le tombe che da quella di Pietro si susseguivano in leggera discesa in direzione del fiume Tevere. Nel Cinquecento, al posto della basilica costantiniana e a un livello più alto fu costruita una nuova basilica più grande, l'attuale. In ogni caso, per sedici secoli nessuno scavò sotto il pavimento della basilica.

Fu Pio XII, nel 1939, a dare il via all'esplorazione archeologica. E in pochi anni furono riportate alla luce non solo la tomba di Pietro, sotto l'altare maggiore della basilica, ma anche altre 22 tombe allineate lungo l'antica stradina, per un tratto di circa 70 metri, una decina di metri al di sotto della navata centrale della chiesa.

Nel 1998 le autorità vaticane ordinarono il restauro e la valorizzazione della necropoli scavata sotto la basilica di San Pietro.

L'ultima delle tombe restaurate è stata inaugurata pochi giorni fa, mercoledì 28 maggio. È la più grande e sontuosa tra quelle tornate alla luce. Fu edificata poco dopo la metà del II secolo, quando l'imperatore era Marco Aurelio, da un'importante famiglia romana, quella dei Valerii. Oltre alle statue di membri della famiglia, di filosofi e di divinità, spiccano la testa leggiadra di una fanciulla e quella in stucco dorato di un bambino col caratteristico ciuffo di Iside.

Le 22 tombe della necropoli sono quasi tutte pagane, con tracce di culti orientali. L'unica interamente cristiana è quella dei Iulii. Nella sua volta risplende un meraviglioso mosaico che raffigura Cristo come Sole ed Apollo, mentre ascende al cielo su una quadriga di cavalli bianchi, reggendo il globo terrestre nella mano sinistra. Alle pareti, si distinguono le immagini del Buon Pastore, di Giona inghiottito dal mostro marino e di un pescatore che getta tra le onde l'amo al quale un pesce abbocca mentre un altro fugge, simbolo delle anime che possono accogliere o rifiutare la salvezza.

Ciò che più impressiona, di questo sepolcreto, è che esso è quasi intatto. È com'era poco prima che Costantino lo interrasse. Percorrendolo, si ricalcano i passi degli antichi cittadini di Roma, ma anche di quei pellegrini che si recavano a pregare alla tomba dell'apostolo Pietro. La preistoria della basilica di San Pietro è nei mattoni, nei marmi, nelle statue, nelle scritte, nelle decorazioni di questa antica strada tra le tombe, fino al luogo della sepoltura del pescatore di Galilea divenuto apostolo di Cristo e morto martire nella capitale del più grande impero del mondo.

Risalito in superficie, nella basilica e nella piazza, il pellegrino vedrà che questo percorso dall'antica Roma al cristianesimo prosegue unitario. Il nuovo impero è quello del perdono di Gesù a tutti gli uomini, mediato dalla Chiesa. Dalla sommità della facciata della basilica di San Pietro, come da una tribuna, il Salvatore e i santi guardano l'ovale del nuovo circo disegnato dal colonnato del Bernini, con al centro lo stesso obelisco presso cui l'apostolo fu crocifisso. Circo aperto "urbi et orbi", alla città e al mondo intero.

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Il restauro della tomba dei Valerii è stato curato dalla Fabbrica di San Pietro e in particolare dal direttore dei lavori di conservazione della necropoli, Pietro Zander.

È durato dieci mesi ed è stato eseguito da Adele Cecchini e Franco Adamo, grandi specialisti in restauri di opere antiche, in Italia, in Egitto, a Gerusalemme.

Le spese sono state sostenute dalla Fondazione Pro Musica e Arte Sacra fondata e presieduta da Hans-Albert Courtial, la stessa che organizza ogni autunno, a Roma, splendidi concerti di musica sacra nelle basiliche papali, con i Wiener Philarmoniker come ospiti fissi:

> Pro Musica e Arte Sacra

Grazie ai contributi suoi e di altri benefattori, la Fondazione ha consentito negli ultimi anni il restauro di importanti opere d'arte presenti nelle basiliche romane. Ultimato quello della tomba dei Valerii, gli interventi in corso riguardano il ciborio marmoreo dell'altare maggiore della basilica di San Paolo fuori le Mura, il coro ligneo della basilica di San Giovanni in Laterano e l'organo della chiesa di Sant'Ignazio di Loyola.

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La più affascinante guida illustrata alla necropoli sotto la basilica vaticana è la seguente:

Pietro Zander, "La Necropoli sotto la Basilica di San Pietro in Vaticano", Fabbrica di San Pietro ed Elio de Rosa editore, Roma, 2007, pp. 136.

Le visite guidate agli scavi si effettuano ogni giorno dalle ore 9 alle 18, ad esclusione della domenica e dei giorni festivi in Vaticano.

Per la particolare collocazione del sito nei sotterranei della basilica e per le sue ridotte dimensioni è consentito l’accesso agli scavi solo a un limitato numero di persone di età superiore ai quindici anni.

L’autorizzazione alla visita va richiesta alla Fabbrica di San Pietro per fax (+39.0669873017) o per e-mail (scavi@fsp.va), indicando il numero delle persone, la lingua, le date disponibili e un recapito per la risposta.

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Tutti gli articoli di www.chiesa.it su questi temi:

> Focus su ARTE E MUSICA


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La Pontificia Commissione di Arte Sacra annuncia la scoperta nella catacomba di San Gennaro a Napoli di un'immagine dell'apostolo risalente al VI secolo
Sotto il segno
della "I"


di FABRIZIO BISCONTI

Mentre alcuni restauratori stavano provvedendo al monitoraggio delle decorazioni pittoriche del monumentale complesso catacombale napoletano di San Gennaro a Capodimonte, i responsabili preposti alla tutela delle catacombe cristiane d'Italia per la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra hanno avvistato una nuova figura presso un arcosolio situato in un'area della catacomba superiore. La tomba era già nota da tempo e se ne conosceva anche la decorazione ad affresco, che comportava la rappresentazione della defunta Cerula, come ricorda l'iscrizione dipinta, in atteggiamento di orante tra due codici aperti sulle cui pagine sono ricordati i nomi dei quattro evangelisti.

Ebbene, a sinistra dell'arcosolio, all'interno di una larga nicchia, è spuntata, con grande stupore degli addetti ai lavori, la possente immagine di Paolo, che acclama solennemente, con la mano destra levata, verso l'immagine della defunta. L'Apostolo delle genti mostra le caratteristiche fisionomiche tipiche e intense del filosofo, con incipiente calvizie, capelli e barba ricciuta assai scura, grandi occhi dallo sguardo languido e spirituale, collo lungo, incarnato rosato. Il vestiario comprende la tunica intima bianca e il pallio dorato, sul cui lembo spicca la gammadia "I", forse per alludere alla lettera iniziale di Iesus e, dunque, per dichiarare l'aderenza del pensiero paolino alla concezione cristologica.

Purtroppo, la parte corrispondente destra è andata perduta, ma i rari resti di affresco suggeriscono che qui doveva svilupparsi, in maniera speculare, una nicchia con figura di Pietro. Il restauro ha rivelato che l'affresco scoperto era parte di una megalografia, che interessava l'intera parete, organizzata in grandi riquadri definiti da larghe fasce color ocra; in basso, si sviluppa uno zoccolo in opus sectile, costituito da lastre geometriche di finto marmo; in alto si staglia una lunga tabula securiclata a fondo rosso anepigrafe. Nell'intradosso dell'arcosolio è riaffiorato un fitto serto di lauro, campito di staurogrammi e lettere apocalittiche.

L'importante scoperta ribadisce lo sfruttamento di quest'area della catacomba, riservata all'aristocrazia partenopea tra il V e il VI secolo. Queste nobili famiglie hanno fatto rappresentare i defunti, ricordando i loro nomi (Teotecnus, Hilaritas, Nonnosa, Proculus, Cominia, Nicatiola, Marta e Alexander) che definiscono le figure in gruppo, in busto, in atteggiamento orante, al cospetto di Gennaro, del Cristo e dei principi degli apostoli.

A questo ultimo riguardo, dobbiamo ricordare che, nell'area, altre volte le loro effigi in busto o a figura intera assurgono al ruolo di vere e proprie icone e, in un caso, accolgono le corone del martirio dai martiri Stefano e Gennaro. Proprio in questo frangente cronologico, ossia agli esordi del VI secolo, i principi degli apostoli divengono i veri protettori dei defunti che suggeriscono ed indicano, con il significativo gesto della parola che, nella civiltà bizantina, assurgerà all'atteggiamento liturgico della benedizione, la via della salvezza.

La defunta Cerula, alla luce dei recenti restauri, mostra con maggiore chiarezza l'abbigliamento composito, che è costituito da una candida tunica intima manicata, da una sopravveste scura e da un velo che copre il capo e il busto in tessuto chiaro stampato o ricamato da teorie di putti danzanti di colore purpureo.

Specialmente questo ultimo singolare indumento ci accompagna verso le manifestazioni orientali o copte, dimostrando un elevato potenziale economico, ma anche un'estrazione esotica, forse orientale o forse africana, in piena coerenza con la formazione multietnica della società napoletana del tempo, dove erano state inserite anche componenti di gruppi cristiani sfuggiti alla persecuzione vandalo-ariana e provenienti dall'Africa, al seguito del primate cartaginese Quodvultdeus sepolto proprio nella cripta dei vescovi del complesso catacombale di San Gennaro.

La vecchia Cerula, caratterizzata dall'acconciatura cerulea, ottenuta con l'uso della cenere per attenuare la canizie, ma anche dal sottile volto esangue, incorniciato dallo staurogramma apocalittico e dai volumina dei vangeli dai sigilli sciolti, sembra dimostrare la sua assoluta aderenza alla Scrittura e al segno vittorioso del Cristo, tanto che, come Bitalia, rappresentata in un arcosolio vicino, si pensa rivestisse il ruolo di diaconessa o di catecheta. A mio modo di vedere, invece, l'immagine della defunta in preghiera, introdotta dai principi degli apostoli in un paradiso essenziale, ma solenne, indicato dalle esedre che alludono a una struttura absidale e, dunque, alla Mater ecclesiae, vuole solo rappresentare la foto ricordo di una nobildonna sicura di poter accedere in un luogo beato, accolta da Pietro e da Paolo.

Quest'ultima immagine che, per peculiarità stilistiche, ricorda i coevi monumenti iconografici, specialmente musivi e ravennati, ovvero il battistero degli Ortodossi e degli Ariani, l'oratorio di Sant'Andrea, la basilica di San Vitale e il mausoleo di Galla Placidia, ma anche romani, come il celebre catino absidale della basilica dei Santi Cosma e Damiano, rappresenta l'ultima di una serie di scoperte "paoline", che ho avuto modo di effettuare nelle catacombe romane.

A cominciare dagli anni Novanta, infatti, ho avuto modo di scoprire un rilievo della metà del IV secolo con Cristo e san Paolo a San Callisto; un affresco della seconda metà dello stesso secolo con l'abbraccio tra Pietro e Paolo nel complesso di San Sebastiano; un clipeo con la prima icona dell'apostolo delle genti, insieme a Pietro, Giovanni e Andrea nelle catacombe di Santa Tecla. Quest'ultima scoperta nella catacomba di San Gennaro ricorda che, con il trascorrere del tempo, l'immagine di Paolo appare, sempre più spesso, unita a quella di Pietro codificando quella concordia apostolorum che fu lanciata al tempo di Papa Damaso (366-384) e che diviene un manifesto politico religioso di una Chiesa unita nel nome di Pietro, il rude e irruente pescatore, e di Paolo, il raffinato filosofo, che converte le genti.



(©L'Osservatore Romano 29 giugno 2011)


[Modificato da Caterina63 29/06/2011 00:02]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Nuove scoperte sui capolavori di Gian Lorenzo Bernini in Vaticano

Ritrovato il primo contratto
per il baldacchino di San Pietro


Accertato anche un intervento dell'artista sulla cancellata della Confessione

Il numero 148 del "Bollettino d'Arte" del ministero della Pubblica Istruzione italiano pubblicherà integralmente i risultati di due scoperte d'archivio che vengono qui sintetizzati in anteprima per il nostro giornale dalla studiosa che ha svolto a termine la ricerca.

di Maria Antonia Nocco
Università di Roma Tre

Il ritrovamento di un ricco carnet di documenti inediti ha riportato in luce nella Basilica Vaticana un intervento ignorato di Gian Lorenzo Bernini per la cancellata della Confessione e in particolar modo ha reso pubblico l'originario contratto notificato all'artista dalla Reverenda Fabbrica di San Pietro per la commissione delle quattro colonne spiraliformi del baldacchino realizzato tra il 1624 e il 1633, durante il pontificato di Urbano VIII Barberini, a coronamento della tomba dei santi Apostoli nel suggestivo invaso della crociera vaticana.

Nel contratto o "instrumento" allegato a un mandato di pagamento e da datare all'agosto del 1625 - vale a dire 14 mesi dopo l'avvio effettivo dei lavori - si affida in forma ufficiale la commissione per "l'opera delle Colonne a ornamento sopra l'altare di detti SS. Apostoli nella Basilica del Vaticano et [viene] eletto sop.a di questo il Sign.r Cav.r Gio. Lorenzo Bernini fiorentino egregio scultore Soprintendente". Il suddetto "instrumento" che precede in ordine di tempo l'altro contratto del 1628 già noto agli studiosi, per la copertura superiore del baldacchino con le triplici volute a dorso di delfino, rappresenta un tassello fondamentale nella ricostruzione storica e artistica dell'imponente macchina bronzea. Esso viene a colmare una cesura temporale nelle indagini documentaristiche che già alcuni specialisti, tra cui Irving Lavin (1968), Franco Borsi (1980) e William Chandler Kirwin (1981), avevano messo in evidenza lamentando di fatto l'assenza, pur tra le numerosissime fonti e reperti iconografici del baldacchino, di un accordo formale tra le due parti relativo alla prima fase dell'intervento berniniano, ossia tra il 1624 e il 1627, come peraltro è ampiamente attestato nel regesto del 1931 di Oskar Pollak e in gran parte della storiografia berniniana seguente.

Il nuovo contratto approfondisce inoltre il modus operandi di Bernini qui, per la prima ma non ultima volta nella sua estesa e operosa carriera, sperimentato su ampia scala e attesta i numerosi impedimenti e gli ostacoli che l'artista dovette affrontare non soltanto nella esecuzione materiale di quella "smisurata" compagine ma anche nella elaborazione tecnica di un'opera che non aveva precedenti. Come testimonia un passo dell'"instrumento" dove a proposito del salario da stabilire per i numerosi collaboratori (Giacomo Laurenziani, Orazio Albrizzi, Gregorio de' Rossi, Francesco Beltramelli e Ambrogio Lucenti) e per la manodopera si ricordano le difficoltà e i timori che Bernini dovette affrontare per non poter "così alla prima discernere la spesa et merende [il vitto] a detti Artefici essendo l'opera per novità e grandezza di gran magistero".

La stessa indecisione riguardò altresì la prestazione di Bernini; se all'inizio dei lavori si attribuisce all'artista un compenso di cento scudi al mese (dal 1624 al 1627) successivamente si passerà a 250 scudi mensili per un ammontare di circa 34.000 scudi, una cifra esorbitante per l'epoca. A questi si aggiungeranno poi alla fine delle attività, nel 1633, 10.000 scudi donati da Urbano VIII enormemente compiaciuto per quell'opera tanto sospirata che aveva voluto "quanto prima e quanto meglio sia possibile" e che desiderava "fusse di materia soda, durabile, nobbile, ricca e magnifica come richiedeva un ornamento di un altare sì qualificato". Senza contare i prestigiosi benefici che furono accordati a Bernini - che già dal 1623-1624 deteneva le cariche di commissario e revisore dei condotti delle fontane di piazza Navona, soprintendente dei bottini dell'Acqua Felice e "maestro" delle fonderie pontificie e, dal 1629, quella di architetto della Reverenda Fabbrica di San Pietro - e alla sua famiglia:  mentre il figlio Domenico divenne "benefiziato" per la basilica di San Pietro, i fratelli dell'artista Vincenzo e Luigi furono nominati rispettivamente "canonico" di San Giovanni in Laterano e direttore della Fabbrica di San Pietro.
 
E pensare che appena vent'anni prima un altro illustre artista, Annibale Carracci, aveva percepito dal cardinale Odoardo Farnese la modesta somma di 500 scudi per la ricca decorazione della Galleria Farnese che assieme al baldacchino dei santi Apostoli rappresenta un modello insuperabile per la produzione artistica non solo del XVII secolo ma di tutti i tempi.

Altro aspetto che le carte d'archivio mettono in evidenza è l'esclusivo rapporto che si stabilisce tra il giovane Gian Lorenzo, all'epoca ventiseienne, e Urbano VIII. Il Pontefice-committente nutriva difatti nei confronti del suo artista prediletto sentimenti di profonda considerazione e di estrema fiducia che si rivelano nella completa libertà d'azione concessagli per rispondere alle particolari esigenze dell'opera e degli esecutori. Come suggerisce un altro passo in cui il Papa intima ai cardinali della Congregazione della Fabbrica di San Pietro di accordare a Bernini "tutto il fatto, speso ordinato et eseguito sino al p.nte giorno"; ossia le richieste, avanzate dall'artista, in relazione ai materiali reclamati, alla retribuzione e alle vettovaglie per sé e per i collaboratori e all'approvazione per i lavori già compiuti in queste fasi preliminari riguardanti, appunto, le quattro colonne del Baldacchino.

Più intricata appare l'interpretazione dell'altro "folio" inedito qui presentato; un "mandato" di pagamento datato 7 maggio 1633 in cui l'anonimo redattore riferisce di "un ornamento ai due sportelli d'Argento (...) fatti di piastra di Basso Rilievo" e realizzati su commissione di Gian Lorenzo Bernini "per servizzio della Confessione" dei santi Apostoli nella Basilica Vaticana. Bernini fu certamente l'ideatore e il supervisore di questa operazione mentre l'argentiere Francesco Spagna, intestatario del documento, fu l'esecutore materiale della fusione dei manufatti.

La Confessione dei santi Apostoli è il sito collocato sotto il piano di calpestio del Baldacchino in corrispondenza delle Grotte vaticane. Qui al centro della parete ovest, fiancheggiata dalle due nicchie con le statue bronzee di san Pietro e di san Paolo (realizzate da Ambrogio Buonvicino) e dalle quattro colonne di alabastro cotognino, emerge la spendida cancellata posta a custodia della nicchia dei sacri Palli, ovvero gli ornamenti simbolo di autorità e giurisdizione indossati sopra le vesti pontificali. Essa si presenta come una porta a doppio battente - allo stesso modo dei due sportelli citati dal documento - traforata e in bronzo dorato; nella parte superiore è sormontata da una "ferrata" rettangolare realizzata da Nicolas Cordier e decorata con arabeschi e cherubini che delimitano tre clipei con i busti di Cristo, di san Pietro e di san Paolo.

Le difficoltà sorgono dall'impossibilità di identificare esattamente l'ornamento menzionato nel mandato inedito del 1633 con l'attuale cancellata della Confessione al quale esso fa chiaramente riferimento. In particolare, i due sportelli d'argento citati dalle carte non corrispondono a quelli correnti che sono al contrario in bronzo dorato, come già noto (Pinelli, 2000) e come si è potuto confermare in seguito a diversi sopralluoghi. In essi mi sono avvalsa dell'esperienza del professor Vittorio Casale e della competenza tecnica del restauratore e maestro argentiere dottor Claudio Franchi che ha effettuato un saggio di restauro sulla cornice più esterna della cancellata e su una testa di cherubino che assieme ad altre sette e unitamente a fiori e foglie d'acanto adornano i due battenti inferiori con le due scene di martirio di san Pietro e di san Paolo. L'indagine ravvicinata ha confermato le prime impressioni di carattere prevalentemente stilistico che sembrano restituire parte dell'opera all'ambito berniniano:  verosimilmente l'esuberante cornice esterna decorata con palmette alternate a guizzanti delfini contrapposti e forse anche le otto aggraziate testoline di cherubino che guarniscono l'altra cornice interna con candelabre e ovoli e le due teste alate di angeli "ridenti" che fanno capolino tra le quattro colonne di alabastro cotognino.

L'impressione che ne deriva è che Bernini non realizzò un'opera ex novo ma intervenne su una struttura già esistente, probabilmente quella stessa fatta realizzare da Paolo v tra il 1615 e il 1617, per ripristinarla in modo più ricercato e prezioso. Una vera e propria operazione di restyling voluta da Urbano viii, impegnato nel rinnovamento di tutta quell'area della crociera vaticana, compresa la Confessione dei santi Apostoli, in forme imponenti e maestose.

Da quasi quattro secoli questa preziosa cancellata è là, nel cuore nevralgico della basilica più importante della cristianità; ciò nonostante, la sua particolarità - che rivela in modo evidente i tratti inconfondibili dell'idioma berniniano - è passata inosservata alla copiosa e sistematica storiografia berniniana che pur occasionalmente ne aveva compreso il valore eccezionale. A determinare e giustificare, in parte, questa disattenzione, ha concorso indubbiamente sia la specificità e la venerabilità del luogo in cui l'opera è collocata che la disposizione poco felice dei due sportelli:  presentandosi con le due ante spalancate, per facilitare la visione della nicchia retrostante con l'urna contenente i sacri corredi, essi rendono effettivamente più complicate le consuete indagini critiche. La Confessione vaticana è, di fatto, un sacrario nel santuario generalmente inaccessibile a studiosi, specialisti del settore e men che meno a pellegrini e visitatori della basilica.

Se il mandato di pagamento non corrisponde alla cancellata di bronzo dorato è comunque prezioso poiché ha indirizzato la nostra attenzione verso una testimonianza inequivocabile:  durante gli interventi per la crociera vaticana, Bernini ebbe anche l'incarico di "risistemare" una parte della Confessione dei santi Apostoli.

In attesa di un restauro integrale che aiuti a chiarire sia le modalità di costruzione sia i differenti assetti decorativi e al tempo stesso definisca con maggiore precisione i ruoli e le responsabilità.



(©L'Osservatore Romano - 9 gennaio 2010)

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ATTENZIONE: STUPENDA VISITA VIRTUALE NECROPOLI SOTTO S.PIETRO



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Sciami d'api per la gloria del Papa

di Sandro Barbagallo

Fin dal 1606, a Roma, Pietro Bernini insegna a Gian Lorenzo, il figlio adolescente, il proprio mestiere di scultore. L'esperienza nella bottega del padre e l'accanito studio della statuaria antica, attuato attraverso il disegno delle opere dei più grandi maestri del passato, sono quindi alla base della formazione artistica del giovane.
Bernini era nato a Napoli il 7 dicembre del 1598 da madre napoletana e padre fiorentino, ed ebbe molteplici attività nel campo artistico. Fu infatti pittore, scultore, architetto, scenografo, autore di testi teatrali per i quali inventò quelli che oggi si chiamerebbero "effetti speciali".

Durante gli anni della sua giovinezza Roma era un colossale cantiere in cui l'ampliamento della basilica di San Pietro, per opera del Maderno, diventò rapidamente il palcoscenico di gran parte della sua attività. Bernini lungo l'arco di 50 anni riuscirà infatti a concludere tutti i suoi interventi nella Grande Fabbrica.
Nel 1623 il cardinale Maffeo Barberini, eletto Papa con il nome di Urbano viii, concedendo udienza all'artista, già noto e stimato, pare che così lo salutasse: "È una gran fortuna la vostra vedere Papa Maffeo Barberini, ma assai più è la nostra che il cavalier Bernino viva nel nostro pontificato".

Per lo Stato della Chiesa è un momento di grave crisi. Urbano viii l'affronta con l'appoggio incondizionato delle arti, usando il mecenatismo come arma politica. Infatti servirsi dell'amico artista Bernini permetterà al Papa di dimostrare la potenza sia sua, che della Chiesa. In quest'ottica venne commissionata la prima importante opera per la Basilica: il baldacchino.

Ergendosi maestoso a segnare il luogo più sacro, il sepolcro di Pietro e l'altare papale, il primo grande capolavoro dell'artista venne realizzato in sostituzione di un modesto baldacchino ligneo ordinato da Paolo v. L'opera appare elegante ed eterea nonostante i suoi 29 metri di altezza.

Sintesi delle strutture architettonico-simboliche dei cibori medievali e archetipo di ogni forma barocca, per portarlo al termine Urbano viii non badò a spese. La somma pagata per la sua realizzazione fu considerata all'epoca esorbitante, anche perché si dovettero usare 100.000 libbre di bronzo provenienti dalle travature interne del portico del Pantheon e le coperture dei costoloni della stessa cupola vaticana. La cosa fece talmente scandalo che sulla statua del Pasquino apparve la scritta: Quod non fecerunt barbari, Barberini fecerunt. Scritta appesa puntualmente il giorno dell'inaugurazione del Baldacchino: il 29 giugno 1633.
Bernini, per le slanciate colonne a spirale del baldacchino, montate sopra piedistalli di marmo, trasse ispirazione da quelle vitinee che ornavano la pergula dell'altare maggiore della basilica costantiniana.

Per i lavori di fusione, effettuati in una fonderia costruita ad hoc vicino alla caserma delle Guardie Svizzere, l'artista utilizzò il processo detto "a cera persa", ribattezzato in questa occasione "metodo della lucertola persa". Sulla base delle colonne l'artista vi ha infatti fuso due lucertole vere per dimostrare che si sarebbero incenerite al passaggio del metallo incandescente, lasciando la loro forma. Come infatti è avvenuto.

Nell'immaginare questa "macchina barocca" l'artista mise in atto un programma iconografico ben preciso. Le colonne, leggermente rastremate alla sommità, presentano alla base profonde scanalature a spirale che tendono a un'ascensione mistica. Mentre tra le fronde degli svettanti rami di alloro danzano putti e volano sciami di api.
Elemento araldico di Papa Urbano VIII, si trovano già api scolpite nel marmo negli stemmi che ornano i piedistalli. Molte altre, in bronzo, oltre che lungo le colonne, sono poi annidate sulla trabeazione o aggrappate ai gioiosi festoni dell'imponente drappo. Simbolo di operosità, tenacia ed eloquenza, come emblema della Chiesa le api barberiniane diventano dispensatrici del Verbo perché nell'antichità erano considerate messaggere divine. Mentre la lucertola, che personifica l'anima che cerca la luce (Cristo), per rimanervi in estasi contemplativa, fissa il sole rappresentato nel pulvino e nei capitelli delle colonne.

La ricca e articolata composizione architettonica è coronata da archi intrecciati con triplici volute a dorso di delfino con sopra il globo e la croce.

Ma Gian Lorenzo Bernini non lasciava niente al caso. La realizzazione del baldacchino rappresenta infatti l'esaltazione della continuità tra il Divino, l'apostolo Pietro e il Pontefice regnante. Una sorta di linea immaginaria collega infatti in perfetta perpendicolarità il Padre Eterno rappresentato al centro della cupola, con la tomba di san Pietro. In mezzo stanno la Croce sopra il baldacchino, la sottostante colomba dello Spirito Santo e l'altare papale.
Urbano viii fu talmente soddisfatto dell'opera commissionata al suo amato Bernini che non solo lo gratificò con un premio supplementare, ma gli affidò ulteriori e importanti commissioni.


(©L'Osservatore Romano - 9 gennaio 2010)


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L'altare nei ricordi di Gilbert K. Chesterton

Bastoncini di liquirizia
o alberi tropicali?


Da un articolo del nostro direttore sugli anni santi di Pio XI (in Storia dei giubilei, iv, a cura di F. Margiotta Broglio e G. Fossi, Firenze, Giunti, 2000, pp. 118-133) pubblichiamo stralci con una lunga citazione, relativa al giubileo straordinario del 1929, tratta da The Resurrection of Rome di G. K. Chesterton nella traduzione (1950) di Iride Ballini.

La lettura dei decreti per la beatificazione dei martiri inglesi, avvenuta il 14 dicembre, e la successiva cerimonia in San Pietro ebbero un testimone d'eccezione, Gilbert Keith Chesterton, da sette anni divenuto cattolico, che trasse dall'avvenimento uno dei quadri più suggestivi della sua apologia di Roma pubblicata nel 1930 con il titolo trasparente The Resurrection of Rome. La lunga e affascinante descrizione prende le mosse da alcune battute sullo smarrimento di un ombrello dopo un'udienza durante la quale lo scrittore inglese incontrò il Papa:  "Poi qualcuno molto addentro nell'ambiente annunciò con serietà che il papa l'avrebbe certo regalato ai negri. "In questo momento, disse con enfasi l'informatore, un piccolo negro passeggia al sole con il vostro ombrello".

E sotto questa scherzosa iperbole scopersi per la prima volta con chiarezza una qualità che si deve aggiungere a quelle di maggiore evidenza in Pio xi; la si definisce "il suo entusiasmo per le missioni", ma è fatta in realtà di un fortissimo antagonismo nei riguardi del disprezzo in cui vengono tenute le razze indigene, e di una immensa fede nella fratellanza di tutte le tribù alla luce della fede. (...) La seconda volta vidi il papa meno da vicino ma lo ascoltai più a lungo e fu quando vennero letti e sottoposti alla sua approvazione definitiva i documenti relativi alle beatificazioni. Ascoltai l'ordinata lettura della lunga lista degli eroi inglesi che resistettero alla dispotica distruzione della religione nazionale, e ascoltai un gran numero di nomi inglesi (pronunciati con accento perfettamente italiano) che assomigliavano a quelli di Smith e di Higgins. Poi parlò il papa, e più che un discorso fu una conversazione non senza movimenti di vivacità prettamente italiana se si fa il paragone con l'andamento abituale di una conversazione inglese.

Ciò che più profondamente mi commosse nella mia qualità di inglese lontano dalla patria fu che egli parlasse in lode dell'Inghilterra con particolare calore e vivacità di immagine (...) Pure molta importanza diede al fatto che gli ultimi a dare la suprema testimonianza in Inghilterra furono uomini di ogni classe e condizione sociale, ricchi e poveri, i più grandi nobili e gli ultimi lavoratori dei campi (...) E finalmente lo vidi per l'ultima volta (...) quando venne a proclamare le beatificazioni innanzi a una gigantesca assemblea chiudendo poi la cerimonia con la benedizione dall'altare maggiore. (...) La chiesa storica che abbraccia tutta l'esistenza contiene una parte che non è soltanto storica, ma anche preistorica, contiene quelle cose terribili che sono la prima rivelazione, la caduta e il diluvio. Io vidi tutto questo nelle più barbariche volute del barocco e in San Pietro nel baldacchino che avevo un tempo odiato come opera di pasticceria negra fatta con bastoncini di liquirizia intrecciati.

Ma quando, come dirò in seguito, una voce attraversò come un gran vento il tempio che sta al centro del mondo, sentii all'improvviso che quelle spirali oscure erano vertiginose come alberi tropicali presi nel ribollire d'un ciclone, quando qualcosa di indicibile scuote il cuore tenebroso dell'Africa (...) Come portato dal vento mi giunse qualcosa che era come un mormorio e che pure dal tono riconoscevo per delle grida. Era il saluto al papa della gente all'altra estremità della chiesa (...) Con questo suono tutta la costruzione parve ancora espandersi e spalancarsi verso l'eternità sino a che compresi che queste caverne dorate e dipinte sono vaste quanto le profondità dei cieli. (...)

Qualunque sia il significato di questo spettacolo esso passò come una visione e se non vi fosse altro da dire su quel significato ci si potrebbe trovar d'accordo nel dire che passò come un sogno. Voglio ancora, con il maggior rispetto, ripetere che nessuno all'infuori di uno sciocco presenterebbe a prova della sua fede queste figure e queste ombre; ma una volta che la fede abbia soddisfatto la ragione sarebbe davvero strano che queste cose non venissero al suo seguito sulle ali di tutte le fantasie. Vediamo che il mondo esteriore non disdegna affatto di venire ispirato dal cerimoniale, esso non si limita che a creare altre cerimonie che non sono ispiratrici quanto queste. Si parla di antiritualisti, ma gli antiritualisti non esistono.

Agli uomini viene soltanto concesso di degradare il rito trasformandolo in etichetta. E quando da quel luogo uscimmo nel mondo esteriore pieno di avvisi pubblicitari, di giornali, di livree e di vesti alla moda non ci si potrà troppo biasimare se pensiamo che là dentro il mondo era tanto più vasto del mondo esterno".


(©L'Osservatore Romano - 9 gennaio 2010)
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Si torna a dibattere su una questione che è da tempo risolta

Pietro a Roma è scolpito nella roccia

di CARLO CARLETTI

"L'Osservatore Romano" pubblicato l'11 e il 13 febbraio 1872, nella rubrica "Cronaca cittadina" portava un esauriente e dettagliato resoconto della "Disputa tra sacerdoti cattolici e ministri evangelici", indotta dal "rumore" provocato in città dalla conferenza tenuta il primo febbraio dal ministro evangelico Francesco Sciarelli su un tema per eccellenza sensibile e decisamente provocatorio nella sua enunciazione: "Sull'impossibilità storica del viaggio di s. Pietro a Roma e del suo episcopato". Il pubblico confronto, animato da tre sacerdoti cattolici e da altrettanti pastori evangelici, si svolse nel salone della Accademia Tiberina al Palazzo dei Sabini di fronte "a duecentocinquanta invitati tra cattolici e acattolici, i quali sedevano distinti gli uni a destra, gli altri a sinistra del banco della presidenza".

L'assunto, da parte protestante, era quello classico del silenzio degli scritti neotestamentari - e in particolare degli Atti degli Apostoli - sulla presenza di Pietro a Roma, al quale si contrapponeva energicamente la posizione dei cattolici, che difendevano naturalmente la tradizione quale si era andata consolidando già dall'ultimo decennio del I secolo con le epistole di Clemente romano e di Ignazio di Antiochia ai Romani. Al termine di un serrato e - nella forma - rispettoso confronto ciascuna delle due parti rimase sulle proprie posizioni.

I nodi della contesa, che erano emersi nel dibattito del 1872, rimasero quelli centrali anche nella ricerca storico-letteraria-filologica, nel cui ambito tuttavia la polemica confessionale - salvo qualche eccezione - rimase sostanzialmente marginale. In questa atmosfera di confronto e non di scontro - non casualmente - si andò affermando già alla fine del XIX secolo una communis opinio positiva circa la presenza di Pietro a Roma, che si può sintetizzare nelle parole di Adolf von Harnack, teologo protestante e indiscusso maestro di storia della Chiesa antica: "(la negazione del soggiorno romano di Pietro) è un errore oggi chiaro come il sole per ogni studioso che non si accechi volutamente (...) il martirio romano di Pietro è stato contestato in base a pregiudizi tendenziosi prima protestanti e poi critici" (Die Chronologie der altchristlichen Christentums bis Irenaeus, I, Leipzig, 1897, p. 244).
Nella direzione tracciata da Harnack si inseriscono le ricerche del suo allievo e successore nella cattedra universitaria di Berlino Hans Lietzmann, che nella classica monografia Petrus und Paulus in Rom (Berlin, 1927, 2ª edizione), ampliò l'ambito della documentazione utilizzando anche le fonti archeologiche e liturgiche. Ma la discussione non si fermò e anzi fu proprio il libro di Lietzmann che suscitò forti reazioni critiche, sempre in ambito protestante, soprattutto da Karl Heussi, che emise la sentenza - dal suo punto di vista - definitiva: "Pietro non ha mai messo piede nella città di Roma".

La ricerca sulla questione petrina e, congiuntamente quella relativa al soggiorno e alla morte di san Paolo a Roma, registrò una forte ripresa di interesse nel corso degli anni Sessanta-Settanta in seguito alle indagini archeologiche sotto la confessio vaticana. Gli esiti di queste ricerche - che imporrebbero un supplemento di indagine - catalizzarono l'attenzione degli studiosi, non soltanto per l'oggettivo valore intrinseco dei dati emersi ma anche per la vivacità intellettuale e talvolta per la vis polemica che caratterizzò il dibattito tra i due grandi protagonisti del dibattito: gli epigrafisti Margherita Guarducci e il gesuita Antonio Ferrua. Dopo questa stagione di studi, approfondimenti, discussioni talvolta anche polemiche, in cui si cimentarono un gran numero di archeologi, storici ed epigrafisti, sembrava che la "tematica petrina" si fosse ormai inaridita nelle certezze e nelle incertezze che nel tempo si erano andate consolidando.

È apparso perciò quasi sorprendente, nell'ultimo quinquennio, il sensibile risveglio di interesse per l'insieme delle testimonianze - soprattutto letterarie - connesse alla presenza e alla morte di Pietro e Paolo a Roma, rilette e indagate, però, non più soltanto alla luce delle indagini filologica, storico-letteraria e archeologica, ma anche nell'ottica di quelle metodologie di indagine storica, che proiettano - come elemento dialettico con l'alterità di un passato lontano - specifici "modelli" storiografici come "luoghi della memoria" (Erinnerungsräume), "memoria culturale" (kulturelle Gedächtnisse), "memoria condivisa" (living memory). Concetti maturati nell'ambito delle ricerche di antropologia culturale e psicologia sociale, che hanno indubbiamente consentito di svelare e valorizzare risvolti e dinamiche non immediatamente percepibili alla luce dei metodi tradizionali, senza peraltro sconvolgere gli assi portanti del già noto.

Un brillante esempio dell'uso oculato e bilanciato della integrazione di diversi metodi interpretativi è nel recente libro di Timothy Barnes (Early Christian Hagiography and Roman History, Tübingen, Mohr Siebeck, 2010. pagine XX+437, euro 29). Tra gli aspetti rilevanti ripresi e ridiscussi emerge quello relativo alla condanna a morte di Pietro a Roma in occasione degli spettacoli voluti da Nerone subito dopo l'incendio di Roma dell'anno 64, nel corso dei quali - secondo la dettagliata descrizione di Tacito (Annales 15, 44) - una grande quantità (multitudo ingens) di cristiani furono condotti al supplizio "con le spalle ricoperte di pelli ferine perché fossero dilaniati dai cani". Al macabro dettaglio riferito da Tacito, si riferirebbe l'autore del quarto Vangelo (21, 15), quando riporta le parole rivolte da Gesù a Pietro nel contesto dell'apparizione sul lago di Tiberiade: "ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste".

L'espressione "un altro ti cingerà la veste" (cioè ti vestirà) è una voluta allusione - secondo Barnes - al tacitiano ut ferarum tergis contecti laniatur canum. In questa prospettiva si inserisce coerentemente anche il celebre passo della Prima Lettera ai Corinzi di Clemente romano (5, 1 - 6, 1), nel quale si ricordano - anche qui con linguaggio figurato - "le grandi e giuste colonne", cioè Pietro "che sopportò non una o due, ma molte sofferenze, e così avendo reso testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo", e Paolo che "avendo reso testimonianza davanti alle autorità lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo".
Più diretto è il linguaggio usato da Ignazio di Antiochia, all'inizio del II secolo, quando, avviandosi alla esecuzione capitale nel circo di Roma, si rivolge ai confratelli di Roma (Epistola ai Romani, 4, 3) ricordando espressamente i due apostoli: "Io non vi impartisco ordini come Pietro e Paolo. Quelli (erano) apostoli, io solo un condannato".

Il parallelismo tra le tre testimonianze sul piano dei contenuti e della forma espressiva, indica che questi messaggi, seppure espressi con linguaggio traslato, si riferissero a eventi reali ben noti, già sedimentati nella living memory della comunità. Gli autori di questi scritti - come recentemente chiarito da Markus Bokhmuehl ("Scottish Journal of Theology", 60, 2007, pp. 1-23) ed Elena Zocca ("Studi e Materiali di Storia delle Religioni", 75, 2009, pp. 227-249) - comunicavano, seppure con linguaggio, almeno per noi, ambiguo, "con interlocutori che, condividendo la stessa memoria, erano a conoscenza dei fatti" e quindi potevano riconoscere agevolmente Pietro e Paolo dietro "figure" come "le colonne", "i lottatori del recente passato", "i nobili esempi della nostra generazione".

Considerata nel suo insieme, questa documentazione - sottolinea Barnes - si propone come presupposto necessitante della nascita di un "luogo della memoria", vale a dire - in riferimento a Pietro - della realizzazione nel corso dell'ultimo ventennio del II secolo di un dispositivo commemorativo nel luogo in cui si riconosceva la memoria funeraria dell'Apostolo: il celeberrimo "trofeo" di Gaio, che assume per la comunità romana valore di "segno" identitario e che, infatti, proprio il presbitero Gaio - dunque un componente organico della gerarchia romana - "esibisce" polemicamente al suo interlocutore - il montanista Proco - che rivendicava per la sua Chiesa di Gerapoli le memorie funerarie del martire Filippo e delle figlie.

Ma a distanza di circa un secolo - tra il 240 e il 260 - i nomina Petri Paulique, per dirla con Damaso, trovano un nuovo e inedito "luogo della memoria", che questa volta congiunge visibilmente i due apostoli. È la memoria Apostolorum in catacumbas al III miglio della via Appia, nella quale la comunità localizza un luogo "simbolo", che traduce visibilmente l'acquisita consapevolezza di una identità collettiva nel segno della coppia apostolica.
Questo l'esito - del tutto condivisibile - del denso e innovativo saggio di Steffen Diefenbach, Römische Erinnerungsräume. Heiligenmemoria und kollektive Identitäten im Rom des 3. bis 5. Jahrhunderts n. Chr. Millenium (Berlin, 2007).

Del tutto controcorrente rispetto alle linee interpretative dei contributi ora ricordati si pone il volume, anch'esso recentissimo, di Otto Zwierlein (Petrus in Rom: die literarischen Zeugnisse, Berlin - New York, 2009). L'indagine - apertamente non condivisa da Timothy Barnes - si muove lungo una traiettoria decisamente e, si direbbe, pregiudizialmente negazionista. Nella sostanza non presenta novità, ma ripropone in veste rinnovata gli argomenti già ampiamente trattati soprattutto da Karl Heussi (Die römische Petrustradition in kritischer Sicht, Tübingen, 1955) e peraltro già sensibilmente ridimensionati dalla stessa critica protestante, a cominciare da Lietzmann e successivamente da Oscar Cullmann.

Zwierlein svaluta completamente il valore documentario delle più antiche testimonianze disponibili, posticipa - per semplificare il suo percorso - alla metà e alla fine del II secolo l'epistola di Clemente e quella di Ignazio di Antiochia e conclude perentoriamente che non esiste alcuna fonte affidabile letteraria né archeologica, che possa sostenere il soggiorno e la morte di Pietro a Roma.

L'intera "storia romana" di Pietro altro non sarebbe che una costruzione "ideologica" funzionale alla legittimazione della "pretesa" primazia della Chiesa di Roma. È netta l'impressione nell'impianto complessivo di questo libro e nel tono talvolta provocatoriamente compiaciuto di alcune affermazioni, che la strategia di Zwierlein sia stata quella di delegittimare, di minare alle fondamenta una storia articolata e complessa, come peraltro indica la "accorta" selezione della storiografia del passato e, soprattutto, l'Ausblick finale (lo "sguardo panoramico"), che ha tutti i caratteri di un manifesto ideologico.

Per avvicinare - forse più utilmente - il livello di penetrazione della tradizione "petrina" negli atteggiamenti e nelle reazioni della comunità, è forse utile uno sguardo alla più antica documentazione epigrafica funeraria romana, che costituisce un indicatore primario per individuare un aspetto centrale nei "costumi" di un qualsiasi gruppo sociale: la natura e le trasformazioni intervenute nel tempo nella scelta dei nomi individuali. Di questo fenomeno parla espressamente un passo di Dionigi vescovo di Alessandria (morto nel 258) tramandato da Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica, VII, 25, 14): "Credo che ci furono molti che ebbero il nome dell'apostolo Giovanni, i quali per venerazione verso di lui, per ammirazione e zelo e desiderio di essere come lui prediletti dal Signore, se ne appropriarono anche il nome; non altrimenti che anche il nome di Paolo e quello di Pietro sono frequenti nei figli dei fedeli".

La testimonianza di Dionigi è confermata dalla più antica documentazione epigrafica di Roma tra la fine del II e l'inizio del III secolo. Nell'Arenario della catacomba di Priscilla - e siamo alle origini dei cimiteri dei cristiani - per la prima volta è documentato un uso già diffuso dei nomi degli apostoli, e soprattutto di quello di Pietro, sia in latino sia in greco (Inscriptiones Christianae Urbis Romae, IX, 25005, 25420, 25421, 25422, 26125, 25619, 26129, 26130), ovvero simultaneamente nelle due lingue in riferimento a un medesimo individuo: Petros - Petrus (Inscr. Christ., IX, 26128). In queste testimonianze è netta la preferenza per il nome del pescatore di Cafarnao, ma parallelamente emerge l'uso congiunto dei due nomi apostolici come antroponimo individuale: e così un bambino sepolto in una minuscola sepoltura a loculo reca il nome Paulus Petrus (Inscr. Christ., IX, 25411).
Ma l'aspetto più sorprendente è che i due nomi apostolici già nel corso del II secolo penetrarono nella onomastica dei pagani.

Eloquente è il titolo funerario posto sul sarcofago di una bambina morta a nove anni, alla quale dedicano la sepoltura i genitori (Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, 34263): la piccola defunta era registrata all'anagrafe come Clodia Plautia, ma nell'ambito familiare veniva chiamata con due soprannomi (supernomina), il vezzeggiativo Lillus e i nomi congiunti dei due apostoli: Petro Lilluti Paulo. Allo stesso modo un'iscrizione della metà del II secolo ricorda la deposizione di un bambino morto e sepolto a Ostia nato in una famiglia pagana come espressamente dichiarato dalle dediche agli dei Mani (dis Manibus): il padre dedicante si chiamava M(arcus) Anneus Paulus, il figlio - ricordato come filius carissimus - M(arcus) Anneus Paulus Petrus (Corpus Inscriptionum Latinarum, XIV, 566).

La conclusione che si impone è ovvia: la fama, la visibilità, il prestigio dei due apostoli a Roma doveva essere penetrato in profondità se - come indica la documentazione epigrafica - arrivò a sedimentarsi anche nell'onomastica dei gentili. In questa direzione la progressiva e trasversale diffusione dei nomi apostolici costituisce un tracciante di indubbia rilevanza storica.



(©L'Osservatore Romano 29 giugno 2011)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Le catene di San Pietro e l'unione tra Oriente ed Occidente

La festa dei Santi Pietro e Paolo, patroni di Roma, ci propone come lettura la pericope della prigionia e liberazione miracolosa del principe degli Apostoli.
Mentre Pietro dunque era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. In quella notte, quando Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro, piantonato da due soldati e legato con due catene, stava dormendo, mentre davanti alle porte le sentinelle custodivano il carcere.
Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: «Àlzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. L’angelo gli disse: «Mettiti la cintura e légati i sandali». E così fece. L’angelo disse: «Metti il mantello e seguimi!». Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva invece di avere una visione.

Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si allontanò da lui.

Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva». (At 12)

Le catene che tennero prigioniero il primo Papa della Chiesa furono, secondo la tradizione, conservate dai cristiani di Gerusalemme. Secoli dopo esse furono donate dal Patriarca della città, Giovenale, all'imperatrice Elia Eudocia, pellegrina in Terra Santa dalla sede imperiale di Costantinopoli, dove risiedeva. La figlia di costei, Licinia Eudossia, moglie dell'imperatore Valentiniano III, ricevute le catene dalla madre, si affrettò a donarle a Leone Magno. Il Santo Padre le accostò alle catene utilizzate per la prigionia di San Pietro nel Carcere Mamertino dell'Urbe. Appena si toccarono le due catene si fusero per divenire una soltanto. A ricordo e celebrazione perpetua del miracolo, nel 442 d.C s'iniziarono i lavori per la costruzione della Basilica detta di San pietro in vincoli (in latino vincula=catene) che poggia su una presistente domus ecclesiae del III secolo.
I due "vincula" di Pietro, fusi ormai in un'unica inestricabile catena, sono tuttora conservati e visibili sotto l'altare della Basilica.

E' interessante il valore simbolico che possiamo notare nell'unione delle catene d'Oriente (Gerusalemme-Costantinopoli) e d'Occidente (Roma). Il giorno dei patroni di Roma (29 giugno) segna un momento ecumenico importante: la delegazione orientale visita il Papa e con lui partecipa alle celebrazioni liturgiche. La storia ci insegna che l'unione non avviene tra i fasti e i successi, ma tra le catene. Proprio ora, in questi tempi, le chiese divise d'Oriente e d'Occidente si stanno avvicinando - e voglia il cielo che messe a contatto diventino una!-.
Ma questi tempi, sono tempi di catene, di persecuzioni. Persecuzioni in Oriente (si pensi alle ristrettezze e torture inflitte ai cristiani in Medio Oriente, ai martiri della Turchia e degli altri paesi a maggioranza islamica), e adesso si vanno svelando anche le persecuzioni in Occidente (attacchi mediatici ben congegnati, vilipendi giustizialisti, veri e propri abusi di preti e vescovi indegni in combutta con poteri laici deviati). La storia ci insegna che solo quando Pietro è in catene si vede l'agire di Dio: perchè non paia che sono gli uomini a vincere, ma si colga la mano del Signore nell'opera.
Chissà che le sofferenze del tempo presente, alcune ahimè ben meritate, non portino come frutto l'unione delle Chiese, martoriate e avversate dal mondo, che potrà credere - però- solo quando vedrà l'unità tra i cristiani.

Testo preso da: Le catene di San Pietro e l'unione tra Oriente ed Occidente http://www.cantualeantonianum.com/2010/06/le-catene-di-san-pietro-e-lunione-tra.html#ixzz1nJDIvPrS

http://www.cantualeantonianum.com


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25/08/2012 15:02
 
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[SM=g1740733] L'Evangelista San Luca riposa a Padova
(anche se san Luca non fu parte del gruppo dei Dodici detti Apostoli, chiamati direttamente da Gesù, riteniamo giusto unire qui la sua collocazione tombale essendo Egli stato diretto confidente della Beata Vergine Maria la quale gli narrò i fatti dell'Annunciazione, e diretto confidente cronista degli Apostoli, ed essendo, pertanto, Evangelista.....)


Nella Basilica di Santa Giustina è conservato lo scheletro dell’autore del terzo Vangelo e degli Atti degli apostoli. Il cranio, invece, fu prelevato da Carlo IV e portato a Praga, dove è ancora oggi. Nuovi studi scientifici hanno confermato l’antica tradizione


di Stefania Falasca


Luca, l’autore del terzo Vangelo, il cronista degli Atti degli apostoli, abita qui, a Padova. Da oltre un millennio in Santa Giustina, Basilica del monastero benedettino di Padova, sono custoditi i resti del suo corpo.
Ne segnala la presenza un’antica tradizione attestata da documenti storici. Le reliquie sono custodite nel transetto sinistro della Basilica in un’arca marmorea costruita nel 1313. Anche se la memoria della presenza del suo corpo in questa chiesa è andata perdendosi nel tempo, quello che la tradizione antica ha tramandato sembra ora ricevere una conferma scientifica.


Il 17 settembre scorso per la prima volta, dopo quasi cinque secoli, l’arca contenente le reliquie è stata aperta per avviare una ricognizione scientifica. L’importante decisione è stata presa dal vescovo di Padova, Antonio Mattiazzo, il quale ha nominato una commissione composta da quattordici esperti per analizzare in modo completo le reliquie, gli oggetti e i documenti che le accompagnano. Sono dunque le autentiche spoglie dell’evangelista Luca quelle che si trovano a Padova? I primi risultati sono sorprendenti.

Le analisi, condotte dalla commissione presieduta dall’anatomopatologo padovano Vito Terribile Wiel Marin, hanno rilevato la buona conservazione di uno scheletro quasi completo, appartenente ad un uomo di circa duemila anni fa, morto in età avanzata. E non solo. La novità più importante riguarda il cranio, che, come attestano i documenti, nel 1354 era stato prelevato dall’urna e portato da Carlo IV a Praga. Il cranio, riportato a Padova e sottoposto ad attenti esami, appartiene inconfutabilmente alle spoglie rinvenute nella ricognizione in quanto si articola perfettamente con la prima vertebra cervicale di questo scheletro. Gli esperti hanno inoltre avallato anche l’ipotesi che l’antichissima cassa di piombo rinvenuta nell’arca marmorea e contenente i resti sia la stessa nella quale venne deposta originariamente la salma. Le ricerche sono solo agli inizi.

Questi sono solo alcuni dei risultati raggiunti in due mesi di studi e osservazioni; ma se le indagini interdisciplinari, che si protrarranno per altri due anni, confermeranno l’ipotesi che lo scheletro conservato a Padova è effettivamente dell’evangelista Luca, si tratterà di una scoperta davvero straordinaria: quello di san Luca sarà l’unico corpo dei quattro evangelisti conservato integro.

Salvato dagli iconoclasti

Le ricerche storiche hanno tuttavia già permesso una prima ricostruzione di come le reliquie attribuite a san Luca siano giunte in Italia proprio a Padova.
È noto, dal cosiddetto Prologo antimarcionita, un testo risalente alla fine del II secolo, che Luca morì in tarda età in Beozia e che la sua tomba vuota, un sarcofago marmoreo dei primi secoli del cristianesimo, era venerata a Tebe, capitale della Beozia in Grecia. Da questo luogo, come attesta una tradizione confermata dalla testimonianza di san Girolamo, l’urna, contenente le sue reliquie, fu traslata, all’epoca dell’imperatore Costanzo (IV secolo), a Costantinopoli e posta nella Basilica che sarà poi chiamata dei Santi Apostoli, per la presenza in essa anche delle spoglie dell’apostolo Andrea e di Mattia, il “tredicesimo” degli apostoli. Da Costantinopoli, secondo un’antica tradizione, venne poi portata a Padova.
Gli storici tuttavia divergono su come e quando le reliquie dell’evangelista Luca giunsero a Padova. Alcuni sostengono che le spoglie arrivarono dall’Oriente dopo il sacco di Costantinopoli del 1204, portate dai crociati.
Tuttavia le recenti indagini avallano un’altra ipotesi. Claudio Bellinati, direttore dell’Archivio storico di Padova e membro della commissione scientifica incaricata della ricognizione, spiega che la presenza delle reliquie di san Luca nell’abbazia benedettina è registrata già nell’anno 1177, quando, come attestano i documenti, la cassa di piombo contenente le reliquie di san Luca venne rinvenuta nel cimitero di Santa Giustina (dove furono nascosti durante le incursioni barbariche tutti i corpi che si conservavano nella Basilica) e trasportata all’interno della chiesa. Dunque i resti dell’evangelista erano già presenti a Padova prima della conquista di Costantinopoli e forse prima ancora del 1177, anno del loro rinvenimento nel cimitero attiguo alla chiesa. «Ritengo molto probabile» afferma Bellinati «che le reliquie di Luca siano venute a noi nell’VIII secolo, durante il periodo delle lotte iconoclaste (741-770).

La tradizione infatti ci informa che un sacerdote di nome Urio, custode della Basilica dei Santi Apostoli a Costantinopoli, volle salvare dalla furia degli iconoclasti le preziose reliquie che si conservavano nella Basilica e portò con sé a Padova sia i resti di san Luca che i resti di san Mattia, insieme ad una immagine lignea della Madonna, detta Madonna costantinopolitana (tuttora presenti nella Basilica di Santa Giustina). Dovrebbero pertanto essere esaminate anche le reliquie di Mattia e l’immagine lignea» aggiunge Bellinati «per verificare quanto ci tramanda la tradizione». Tuttavia non è ancora chiaro perché queste reliquie furono portate proprio a Padova e non, ad esempio, a Venezia.


L’imperatore Carlo IV

Quello che invece è indiscutibilmente certo è che il 9 novembre 1354 l’arca marmorea contenente le reliquie di san Luca, fatta costruire nel 1313 dall’abate Gualpierino Mussato, venne aperta per prelevare il capo. L’imperatore Carlo IV, infatti, volle portare con sé a Praga questa preziosa reliquia di san Luca e in questa occasione venne perciò operata una vera ricognizione dei resti contenuti nel sepolcro. È la prima identificazione documentata di cui si ha notizia. «Ma non è detto» spiega ancora Bellinati «che questa sia stata la prima ricognizione.
Sicuramente ce sono state delle altre precedenti. È probabile, ad esempio, che ce ne sia stata una proprio nel periodo delle lotte iconoclaste, prima che la cassa di piombo venisse portata a Padova, per accertarsi del contenuto. Nella cassa poi, durante la nostra ricognizione, sono state rinvenute anche delle monete, alcune delle quali antichissime, una risalente addirittura all’anno 299 d.C., epoca dell’imperatore Massimiano. Dunque altre volte la cassa dovrebbe essere stata aperta».

Una seconda ricognizione documentata fu fatta nel 1463 a causa di un processo (i cui atti sono contenuti nel quinto volume dell’Archivio Sartori, una trascrizione dei documenti esistenti nell’Archivio di Stato di Padova) per stabilire se il vero san Luca fosse quello sepolto a Santa Giustina a Padova o un omonimo, la cui tomba era venerata a Venezia. Nel processo, dopo lunghe e faticose sedute, con ampia documentazione e molte testimonianze, si veniva a concludere che il vero san Luca era a Padova, in quanto venne verificato che lo scheletro del Luca veneziano apparteneva ad un giovane di vent’anni, morto da appena due secoli.

L’ultima apertura prima di quella attuale, avvenne nel 1562, data che si desume dalle pergamene ritrovate nella cassa di piombo. Nel 1562 l’identificazione venne operata in occasione della traslazione delle spoglie di san Luca dall’antica cappella omonima al nuovo transetto sinistro della Basilica, dove oggi si trova. La cassa di piombo probabilmente venne aperta per esporre le sacre reliquie alla venerazione dei fedeli, cosa che può essere accaduta anche nelle precedenti aperture. Si sa inoltre che nell’antica cappella di provenienza, la lastra tombale in marmo serviva da mensa d’altare e che la cappella era stata abbellita dal celebre polittico di Andrea Mantegna e da affreschi con scene che rievocavano il tradizionale racconto dell’arrivo del corpo di san Luca a Santa Giustina.

Ora l’insieme di tutti questi dati forniti dai documenti e dalla tradizione saranno riconsiderati, chiariti e approfonditi alla luce delle prove e degli indizi scientifici delle nuove indagini interdisciplinari. «Con il contributo dei moderni strumenti scientifici» afferma Claudio Bellinati «sapremo finalmente stabilire l’autenticità delle reliquie di san Luca e sapremo storicamente ricostruire quanto un’antichissima tradizione ci ha indicato».


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   Le biscie e le reliquie: il corpo di San Luca a Padova

 
 



Un interessante articolo del 17 giugno 2001 delinea ancora efficacemente i risultati delle ricerche effettuate sulle reliquie di San Luca nella Basilica di Santa Giustina a Padova. La ricognizione attuata in occasione del Giubileo del 2000 si aggiunge alle incredibili vicende delle spoglie dell'Evangelista, che si vogliono portate a Padova, con altre importanti reliquie, dal prete Urio custode della Basilica dei Santi Apostoli di Costantinopoli. 
Riproponiamo l'artico con qualche immagine dell'apertura dell'arca e della ricognizione, avvenuta il 17 settembre 1998.

di Massimo Stampani per il Corriere della Sera 
È realmente lo scheletro di san Luca evangelista quello sepolto della grande basilica di S. Giustina a Padova, la nona al mondo per dimensioni. La commissione per la ricognizione dei resti del santo, istituita dal vescovo della città, ha concluso i suoi lavori [giugno 2001 nrd] e pochi giorni fa la bara di piombo è stata ricollocata nell'arca marmorea dell' altare a lui dedicato. Tra le tante reliquie assai dubbie, per non dire clamorosamente false, ecco finalmente uno studio che dà per elevatissima la probabilità di essere nel vero, frutto di un meticoloso lavoro d'équipe, coordinato da Vito Terribile Viel, titolare della cattedra di anatomia patologica dell' Università di Padova. Sebbene non si tratti di un santo «qualunque», bensì di uno dei quattro evangelisti, è poco noto che san Luca sia sepolto nella città veneta, dove «il Santo» per antonomasia, sant'Antonio, accentra l' attenzione dei fedeli. Le fonti storiche riferiscono che san Luca evangelista morì anziano (tra i 74 e gli 84 anni) in Bitinia (antica regione situata tra la costa meridionale del Mar Nero e il Mar di Marmara) ed è possibile collocarlo nella terza generazione, dopo quella di Cristo e degli Apostoli, con una data di morte intorno al 130 d.C. «Lo studio ha appurato che si tratta dello scheletro di un uomo ottantenne - spiega Terribile - di corporatura media, alto 1,65 m. Le datazioni con il metodo del radiocarbonio, eseguite sia a Oxford sia a Tucson in Arizona, concordano nell'attribuire le ossa al periodo in cui morì il santo». 


 

Il Dna (lo studio è stato condotto da Barbujani, genetista dell' Università di Ferrara) è 2,5 volte più probabile che sia quello di un siriano (etnia di san Luca) piuttosto che di un greco. I resti dell' evangelista sono ancor oggi conservati in una bara di piombo di 300 kg che venne trafugata dalla basilica degli Apostoli di Costantinopoli e portata a Padova per salvarla dalle persecuzioni dell' imperatore Giuliano l' Apostata (che voleva la distruzione delle reliquie per restaurare il paganesimo) nel IV secolo. E questa data viene confermata dal ritrovamento di centinaia di piccole costole all'interno del sarcofago. In un primo tempo si pensava fossero di topi ma un' analisi più approfondita ha documentato che appartengono a una trentina di bisce. Entrarono nella bara a Padova e morirono soffocate in seguito a un' alluvione che interessò il cimitero romano paleocristiano di S. Giustina. Si tratta di serpenti «nostrani», non presenti in Oriente, che il radiocarbonio ha datato al 400-450 d.C. retrodatando di circa quattro secoli l' arrivo di Luca a Padova, che una precedente ipotesi aveva invece collocato nell'800 d.C. Un' ulteriore conferma della ben più antica origine della reliquia è un simbolo giudaico cristiano in uso dal primo secolo, sulla bara, nel quale compaiono tra l' altro otto braccia incrociate, come risulta da uno studio condotto all'UniversitàLa Sapienza di Roma.


 
 
Patrizio Giulini, botanico dell' Università di Padova, ha determinato anche numerosi reperti di piante e di legno presenti nel sarcofago. Ma c'è un' ulteriore importante tessera che accredita l' attribuzione di quelle ossa. Dallo scheletro manca il cranio che l' imperatore Carlo IV offrì in dono alla cattedrale di Praga dove è conservato fin dalla metà del XIV secolo. In occasione di questa ricognizione il decano dei canonici di Praga lo ha portato a Padova. Ebbene, l' attacco del cranio con la prima vertebra coincide perfettamente dando un' ulteriore conferma che si può trattare realmente dell' evangelista. Altre 20 prove con crani diversi hanno dato esito negativo. E in questo modo è stato anche autenticata la reliquia della capitale ceca. Per di più dall'usura dei pochi denti ritrovati si capisce che san Luca digrignava i denti, confermando quanto riferiscono le fonti storiche. 







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  Il primo Vaticano




Una delle innumerevoli conferme della credibilità storica dei Vangeli. La casa di Pietro, a Cafarnao, prima abitazione del Principe degli Apostoli. È il primo Vaticano.



 Si trova sulle righe del lago di Genesaret (o di Galilea, o di Tiberiade) una delle innumerevoli con-ferme della credibilità storica dei Vangeli. 
Parliamo della casa di Pietro, il Principe degli Apostoli, che è stata localizzata dal francescano Virgilio Corbo - una vera autorità in materia di archeologia cristiana - una trentina d'anni orsono nel villaggio di Cafarnao, dove Pietro abitava e Cristo era ospitato nella sua casa. 

L'annuncio del ritrovamento fu dato da papa Paolo VI il 29 giugno 1968. Quando il Pontefice si era recato, quattro anni prima, pellegrino in Terra Santa, giunto a Cafarnao, qualcuno, mostrandogli il luogo dove si riteneva avesse abitato Pietro, gli aveva indicato argutamente che quello era il primo Vaticano. 

I dubbi sono ormai fugati. E il merito va ai padri francescani, archeologi di prima linea. Esplorando i resti di un antico santuario bizantino del V secolo a due passi dal lago, sotto l'impianto ottagonale della chiesa, fu ritrovata la "domus ecclesiae", l'in confondi bile casachiesa che per prima al mondo fu dedicata a san Pietro, nel luogo stesso in cui l'Apostolo visse e fece coabitare il Maestro per almeno un anno della sua vita pubblica. 

Il santuario bizantino aveva ricoperto il locale dove si riunivano i giudeo-cristiani, i primi cristiani della Palestina, ebrei praticanti che riconoscevano in Gesù il Figlio di Dio e in Pietro il suo testimone più autorevole e il capo dei suoi seguaci. 

Proprio quel locale, fatto unico in tutto il villaggio, aveva il pavimento intonacato in battuto di calce, tipo di decorazione ritenuta ai tempi più preziosa del mosaico, segno della particolare venerazione cui fu fatto oggetto quel luogo. Ma poi, sulle pareti, graffiti antichissimi in aramaico, siriaco, greco e latino, identificati chiaramente come invocazioni a Cristo stesso e al Principe degli Apostoli. 

E poi oggetti, resti di lucerne, una lampada erodiana, una pentola, tutti datati ai tempi della Chiesa primitiva. 

Gli scavi archeologici hanno in sostanza confermato quanto le testimonianze dei pellegrini dei primi secoli ci hanno tramandato. Una di loro, Egeria, che si recò in Terra Santa quando era ancora vivo sant'Ambrogio, lasciò un preziosissimo diario nel quale descriveva i luoghi visitati; e tra questi, la "casa dell' Apostolo Pietro". 

Soltanto un secolo dopo, un altro importantissimo "giornale di viaggio", scritto da un anonimo piacentino, descriveva la basilica costruita sulla casa di san Pietro. Si trattava del santuario bizantino, di forma ottagonale, scavato poi da padre Corbo. Alla sua morte, il benemerito frate-archeologo, che dissotterrò con le sue mani la "domus ecclesiae" di Cafarnao, è stato sepolto tra le rovine di quell' ambiente a cui aveva ridato luce. 

Dunque, il racconto dei vangeli, e specialmente quello di Marco, vero segretario del Principe degli Apostoli, il primo umile "segretario di Stato", trova un' altra conferma storica. 

Vi sono persino i resti di un'imponente sinagoga del V secolo, costruita sulla base della precedente, certo meno grandiosa, ma frequentata da Gesù, che vi pronunciò il discorso sul pane di vita che troviamo nel sesto capitolo di Giovanni.

Dunque non sono favole quelle che riguardano san Pietro, il villaggio dove abitava, i miracoli che vi compì il Maestro.

Una conferma della credibilità storica dei vangeli, della attendibilità di questi racconti degna di considerazione. La fede cattolica poggia su un fatto, storicamente documentabile, che può negare solo chi rinuncia a ragionare. 

 


BIBLIOGRAFIA


STANISLAO LOFFREDA

Cafarnao
Ed. Studio Biblico rancescano, Gerusalemme.


PIA COMPAGNONI
Il Paeser dello splendore
IPL, Milano.


GALBIATI, ACQUISTAPACE e ALTRI [a cura di]
Guida alla terra Santa.

IL TIMONE n. 1 – Anno I - Maggio/Giugno 1999 - pag. 9





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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La verità della tomba di San Pietro 


intervento di Margherita Guarducci, al Centro Culturale di Milano, 1990 


Pubblicato da Centro Studi Federici
che lo ha ripreso da La liturgia della Domenica




Gli scavi per il ritrovamento della tomba di San Pietro


Che cosa dice da secoli la tradizione della Chiesa? Dice che Pietro, il pescatore di Galilea, quello che Cristo stesso considerava «protos», il primo dei suoi discepoli, il principe degli Apostoli fino ad allora, venne a Roma a predicare la buona novella; che a Roma morì martire sotto Nerone nel 64, nel Circo Vaticano, fu sepolto a breve distanza dal luogo del suo martirio, e sulla sua tomba, all’inizio del IV secolo, l’imperatore Costantino fece costruire la grande basilica vaticana.


Questa tradizione secolare della Chiesa cominciò, a un certo momento, a suscitare dissensi da parte degli avversari della Chiesa, e i dissensi giunsero al punto che qualcuno si credette in obbligo di dire, contro ogni verità storica, che Pietro non era mai venuto a Roma, tanto per poter negare la presenza della tomba di Pietro in Vaticano; che è di suprema importanza, in quanto dire tomba di San Pietro a Roma, in Vaticano, significa in un certo senso dire primato della Chiesa di Roma.

Bisognò arrivare a Pio XII, uomo di altissimo ingegno, di grande cultura, di grandissima umanità e dotato di uno spirito veramente lungimirante. Appena eletto Papa, nel 1939, volle aprire alla scienza i sotterranei della basilica vaticana e cercare una risposta alla secolare domanda.
Gli scavi cominciarono e durarono fino al 1949. Furono scavi anormali, in cui molto si distrusse e furono commesse cose quasi inaudite.

Altari come «matrioske»


Trovarono una necropoli, un antico e vasto cimitero, che andava da est a ovest ed era parallelo al Circo di Nerone, quello stesso circo in cui Pietro aveva subìto il martirio. Questa vasta necropoli era stata riempita di terra. Perché Costantino, o chi per lui (il papa Silvestro fu il grande consigliere di Costantino), voleva fare il piano su cui la prima basilica in onore di Pietro doveva essere fondata.


Cosa si trovò sotto l’altare papale? Una successione di monumenti e di altari: uno sotto l’altro, uno dentro l’altro. Ciò significava che quel luogo, il luogo della confessione, era stato da tempo, da secoli oggetto del culto di Pietro. Sotto l’altare papale, che è l’altare attuale, di Clemente VIII (1594), se ne trovò un altro precedente, di Callisto I (1123); dentro l’altare di Callisto II si trovò l’altare di Gregorio Magno (590-604); l’altare di Gregorio Magno, a sua volta, poggiava sopra il monumento che Costantino ancora prima di costruire la basilica, aveva fatto erigere sul luogo della tomba di Pietro, e questo monumento costantiniano può essere datato fra il 321 e il 326. 

Questo monumento di Costantino comprendeva un monumento più antico, che risaliva al II secolo, il primo monumento di Pietro. Poi che cosa fu incluso? Ci fu incluso una parte di un piccolo edificio che si trovava addossato a un certo muro rosso che faceva da sfondo al primo monumento di Pietro. 
In questo piccolo edificio, c’era un muro coperto di graffiti, di antiche iscrizioni (naturalmente anteriori al monumento di Costantino, perché furono incluse dentro il monumento di Costantino), coperte di epigrafi che indicavano col loro affollamento l’immensa devozione dei fedeli. Poi, oltre questo, si vide che il primo monumento di san Pietro aveva nel pavimento un chiusino, il quale indicava la presenza di un’antica tomba in terra, sulla quale tutti questi monumenti si erano sovrapposti. Sotto questo chiusino, purtroppo, non c’era nulla. Si trovò la terra sconvolta e vuota.

Radiomessaggio “rivoluzionario”


Questo era lo stato delle cose quando si chiusero gli scavi del 1940-49. Pio XII nel radiomessaggio del Natale 1950 dette notizia al mondo degli avvenuti scavi e disse che la tomba di Pietro era stata ritrovata.

Cominciai a occuparmi degli scavi di San Pietro, a scavi terminati e a relazione già pubblicata, nel 1952.
Uno degli scavatori aveva pubblicato, seppure inesattamente, un certo graffito che sarebbe stato trovato proprio sul luogo dove c’era il muro coperto di graffiti del quale ho parlato. 
Avevo già avuto occasione di conoscere un certo graffito, dove avevo intuito la lettura «Petrus eni» («eni» nel senso di «enesti»: Pietro è dentro). Fu allora che chiesi a Pio XII di visitare gli scavi, ma nessuno poteva accedervi. Pio XII mi concesse il permesso. Allora cominciai a cercare il graffito, questo «Petrus eni», e non c’era, perché uno degli scavatori l’aveva portato a casa sua.


Entrata nel 1952, ho lavorato fino al 1965, sono stati anni di intensissimo lavoro. Cominciai a studiare il muro dei graffiti, che era stato incluso nel monumento costantiniano. Ora, questo muro era una selva selvaggia, e io disperavo veramente di levarne le gambe - come si suol dire - però, con pazienza, mi misi e cercai di decifrare. Durò mesi la mia decifrazione, fu una delle decifrazioni più difficili che mi occorse di fare. Poi, a un certo momento, afferrai il bandolo della matassa e riuscii a capire. 

Lì si era usata una crittografia mistica, cioè si giocava, in un certo senso, sulle lettere dell’alfabeto. Lì c’era a esuberanza il nome di Pietro, espresso con le lettere P, PE, PET, e unito di solito col nome di Cristo, col simbolo di Cristo, con la sigla di Cristo e col nome di Maria, e soprattutto dominavano, su questo muro, le acclamazioni alla vittoria di Cristo, Pietro e Maria. Poi c’era il ricordo della Trinità, il ricordo di Cristo seconda persona della Trinità, e via di seguito. Insomma, tutta la teologia del tempo era lì, squadernata su questo muro.

A colpi di cartoccia


Poi fu la volta delle ossa di Pietro. In un primo momento ero lontana mille miglia dall’idea che avrei potuto un giorno mettere le mani sulle ossa di Pietro.
 Però, mentre ancora stavo decifrando i graffiti (ancora nel 1953), cominciai ad avere in mano le ossa di Pietro. 
Le ossa di Pietro stavano nella tomba in terra sotto il chiusino, come la tradizione della Chiesa aveva sempre dichiarato. Poi, quando Costantino volle fare il monumento in onore dell’Apostolo, le ossa furono prelevate dalla terra e ravvolte in un prezioso drappo di porpora e d’oro e deposte in questo loculo, e poi questo loculo chiuso per sempre.


Era avvenuto che, durante gli scavi, gli scavatori, volendo indagare in questo luogo che la tradizione indicava come il luogo della sepoltura di Pietro, andavano un pò per le spicce. A colpi di cartoccia (la cartoccia è quello strumento per piantare i pali nel terreno duro) sfondarono l’altare di Callisto II per arrivare il più presto possibile al luogo stesso. 

E che cosa avvenne? Sotto i forti colpi della cartoccia cadde, dall’interno del muro, una quantità di calcinacci, dall’interno e dall’esterno, voglio dire dall’antico muro coperto di intonaco rosso, e tutti si riversarono in questo loculo, sopra le disgraziate ossa che erano state deposte da Costantino nel loculo del monumento. Così si presentò come un ammasso di detriti, non si riconobbero le ossa.


In quel momento era capo della Fabbrica di San Pietro un uomo intelligente, molto pio, molto sensibile al non lasciare allo scoperto le ossa di chiunque, cristiani o pagani che fossero. Monsignor Ksas (uomo di fiducia di Pio XII) notò che fra questi detriti del loculo c’erano delle ossa. Fece buttar via i detriti, raccogliere le ossa dentro una cassetta e la mise in un ripostiglio delle grotte vaticane, dove rimasero ignorate per dieci anni.
 C’erano delle ossa con fili d’oro e pezzetti minuscoli di tessuto color porpora.


Un antropologo di mia fiducia, il professor Correnti, prese in esame il gruppo di ossa della cassetta, e mi disse: “Mah, è una cosa strana, perché gli altri gruppi che mi hanno fatto esaminare erano tutti di diversi individui, questo è di uno solo”. Domandai: “Di che sesso?”. Disse: “Maschile”. “Età?”. “Senile”. “Corporatura?”. “Robusta”.

Non per «puro caso»


Nel ‘64 gli esami erano compiuti. Nel ‘65 uscì il mio libro «Le reliquie di san Pietro sotto la confessione della basilica vaticana», e lì cominciò a scatenarsi la tempesta, perché alcuni, anzi molti, erano felici del risultato; altri no.

Dopo la mia messa a punto che uscì nel ‘67, Paolo VI si trovò obbligato ad annunciare che le ossa di Pietro erano state ritrovate.


Noi sappiamo che Cristo fondò la sua Chiesa sulla roccia di Pietro e le promise la vittoria sulle forze del male. Ora, mi sembra che non sia un puro caso che le ossa del principe degli apostoli, di Pietro, si siano - per miracolosa eccezione - conservate e che siano, per l’appunto, dentro la basilica vaticana, cioè al centro di quella chiesa che - per definizione - è universale. 
Loro sanno che «catholicos» vuol dire, in greco, universale.




Fraternamente CaterinaLD

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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