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Il Primato di Pietro e la Collegialità dei Vescovi nella Tradizione e nel Concilio Vaticano I

Ultimo Aggiornamento: 29/04/2014 21:32
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03/11/2010 10:13
 
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Nihil innovetur

di Baronio dal blog Messainlatino

È ben noto che le vicende del postconcilio hanno portato ad un pauroso stravolgimento della dottrina cattolica in tutti i suoi dogmi, non escluso quello dell'Infallibilità Pontificia e del Primato Petrino. Anche in questi giorni vi sono state autorevoli prese di posizione, tendenti a rivisitare le modalità di esercizio di questo Primato: non sfugge a nessuno che, una volta che cambi il modo in cui il Primato del Pontefice Romano si esercita, ne cambia anche l'idea astratta, ossia il dogma. Se il Papa è a capo della Chiesa, ma di fatto esercitano il governo delle assemblee in qualche modo da lui svincolate, de facto chi governa non è più il Papa ma queste assemblee [..]

Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha prestato l'occasione perfetta per colpire nel cuore la Religione, non tanto e non solo per l'opera di affievolimento della dottrina cattolica nella sua totalità, quanto per la formulazione della nuova dottrina della collegialità, che introduce un nuovo soggetto democratico nell'esercizio del governo disciplinare e magisteriale della Chiesa. E questa novità ha trovato un alleato nell'ecumenismo e nella conseguente esigenza di compiacere gli acattolici, per i quali il Papato rappresenta un punto dottrinale di disaccordo con Roma, impossibile da risolvere se non con l'abdicazione del Papato stesso o con la sua riformulazione in senso onorifico.

Non è infrequente sentir farneticare chierici e prelati a proposito del Pontefice Romano, indicato come primus inter pares, a tutto vantaggio dei pares, siano essi riuniti in commissioni, consigli, conferenze o altro. È da notare che questa diminutio della potestà sovrana – direi quasi imperiale – del Papa ha trovato il suo corrispondente nel ridimensionamento della potestà dei Vescovi, anch'essi – sub Petro – sovrani della loro Diocesi: di qui il moltiplicarsi di commissioni, consigli ed assemblee anche a livello nazionale e locale: da un lato le Conferenze Episcopali, dall'altro i Consigli Presbiterali. Ed ecco instaurata la democrazia nella Chiesa, che è monarchica per costituzione divina, sia nella persona del Papa a livello universale, sia nella persona del Vescovo a livello locale.

Prerogativa comune a queste assemblee democratiche è, sostanzialmente, la capacità di legiferare e governare senza l'approvazione del Papa o del Vescovo. O in modo tale da rendere quantomeno difficile al Papa e al Vescovo prese di posizione contro di esse. Lo dimostrano i fatti: dove la Santa Sede ha ordinato ad esempio l'uso del latino nella liturgia, le Conferenze Episcopali hanno di fatto sostituito al latino la lingua vernacolare; dove ha chiesto l'uso della veste talare ai chierici, di fatto si è concesso il clergyman; dove si è raccomandata l'amministrazione della Comunione in bocca, si è autorizzata la Comunione in mano. E se un Vescovo osa esercitare la propria autorità nella Diocesi che governa, la Conferenza Episcopale non esita a trovare validi argomenti per dissuaderlo, sino a farlo rimuovere o ad impedirne la legittima carriera se egli non si adegua allo strapotere di un organo che – occorre ribadirlo – non fa parte della struttura gerarchica della Chiesa. È esemplare che Benedetto XVI continui a comunicare i fedeli in bocca e in ginocchio, nell'assoluto disinteresse delle Conferenze Episcopali, che si suppone dovrebbero tradurre in pratica e disciplinare nelle varie nazioni ciò che il Papa esplicitamente dà come esempio da seguirsi. Anche gli ordini espliciti del Pontefice vengono impunemente ignorati: si pensi all'applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, o ad altre non meno importanti disposizioni in materia liturgica contenute negli atti del Magistero papale.

Questa situazione rimane tuttavia imperfetta, perché se nella pratica l'esercizio dell'autorità è nelle mani di organi terzi, nella teoria il Papa rimane l'unico capo della Chiesa Romana. Per questo acquista un significato a dir poco allarmante la proposta del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede di rivedere le modalità di esercizio del Primato Petrino: è davvero difficile credere che mettere in discussione il modo in cui il Papa è Papa possa aver altra finalità, se non quella di concludere un'opera iniziata durante il Concilio, quando gruppi di esperti fecero strame degli atti preparatori di quell'assise, sostituendoli con nuovi schemi di ben altra matrice: i primi erano frutto di un lungo lavoro genuinamente democratico, avendo richiesto la partecipazione dei Vescovi di tutto il mondo; i secondi erano opera della destrezza di pochi anonimi burocrati, appartenenti a gruppi di potere privi di qualsiasi autorità, se non quella ch'essi avevano usurpato, ottenendone quasi a forza il placet di Giovanni XXIII prima e di Paolo VI poi. E che queste affermazioni non siano frutto di congetture, lo si evince dalle innumerevoli testimonianze di chi su entrambi i fronti partecipò al Concilio, non ultimo quell'Annibale Bugnini che nei suoi diari ci ha fornito ampia prova di quanti e quali stratagemmi dovette adottare per perseguire i suoi scopi, coadiuvato da carrieristi senza scrupoli che ancor oggi ci deliziano con la loro grimasse indispettita.

Certamente l'opera congiunta e su diversi fronti si è rivelata vincente: l'abolizione del triregno dallo stemma papale e la rinuncia del Papa al titolo di Patriarca d'Occidente sono chiari segnali di un trend che dovrebbe portare inesorabilmente Benedetto XVI verso una sorta di parziale abdicazione, col pretesto di ammorbidire gli Anglicani e gli Eterodossi d'Oriente, ma in verità con lo scopo ben preciso di consolidare il potere delle assemblee, ovvero di coloro che le manovrano, forti dei loro legami con la stampa e forse anche con quelle lobbies a cui sta tanto a cuore democratizzare la Chiesa. E dove il Papa si dimostri poco incline ad assecondare questi piani, non sarà loro difficile suscitare scandali veri o presunti – pedofilia ieri, IOR domani – di cui, paradossalmente, il mondo chiederà conto al Papa, e che lo terranno occupato, ne indeboliranno l'immagine, e magari ne causeranno anche la prematura scomparsa per i grandi dolori da sopportare.

Benedetto XVI è un fine stratega: chi gli ha mosso guerra si esalta per aver avuto la meglio in battaglie da nulla e non si accorge che, anche con il prossimo Concistoro, si sta preparando una sconfitta tremenda e inesorabile, pacifica come solo la guerra di Cristo contro le porte degli Inferi può esserlo. Dimenticano, i meschini, che stanno giocando col fuoco, perché il Salvatore non ha promesso assistenza alle conferenze, ai consigli, ai dicasteri, alle assemblee, ma al solo Principe degli Apostoli e ai suoi successori.
Nihil innovetur.


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 ricordiamo, proprio per comprendere questa comunione di intenti e di come patisce Cefa, quanto riportato in apertura di questo thread:


.....suggerisco di approfondire l'argomento, munendovi di bel tascabile: "Pietro ama e unisce - la responsabilità DEL PAPA per la Chiesa universale" ..don N.Bux..in questo libro si affronta proprio la questione della collegialità e delle FALSE INTERPRETAZIONI che hanno scalfito (si legge proprio così) lo stesso dialogo Ecumenico rischiando, molte volte di confondere il Primato di Pietro con la Collegialità dei Vescovi...   
 
a pag. 19, per esempio, vi è riportato un disappunto dell'allora card. Ratzinger proprio su queste false interpretazioni.....Ratzinger fa emergere e denuncia I MALINTESI sorti con un altra affermazione al tempo del grande Giubileo del 2000: per una comprensione di COMUNIONE BASTEREBBE ACCOGLIERE LA TRINITà......si dice Ratinger in sostanza, riconoscere la Trinità è importante, ma NON è sufficiente per parlare di COMUNIONE.....  
 
e dice: " Nella misura in cui communio divenne un facile slogan, essa fu appiatita e travisata...." e aggiunge che lo stesso "malinteso" avvenne per il concetto di POPOLO DI DIO e così anche l'Eucarestia cominciò a ridursi alla problematica del rapporto fra chiesa locale e Chiesa Universale, che a sua volta ricadde sempre più nel problema della divisione di competenze fra l'una e l'altra...."  
 
Così Ratinger cercò di citare la Lettera ai Vescovi "Communions notio" del 28.5.1992 la quale insegna espressamente la precedenza ontologica e temporale della Chiesa Universale sulla Chiesa particolare....  
 
Ratzinger nel raccontare quei momenti denuncia con profondo rammarico di come "SI ABBATTE' UNA GRANDINATA DI CRITICHE, DA CUI BEN POCO RIUSCI' A SALVARSI"....  ..in sostanza ci fu un AMMUTINAMENTO DI TUTTI I VESCOVI...nè Giovanni Paolo II nè Ratzinger nulla poterono....   
Ratzinger rispose allora provando il suo testo sulla Scrittura e sulla Patristica e confessò di non riuscire a comprendere le obiezioni che, disse il Prefetto di allora: " potebbero sembrare possibili solo se non si vuole e non si riesce più a vedere la GRANDE CHIESA IDEATA DA DIO CON A CAPO CEFA, per rifugiarsi in una immagine empirica DELLE CHIESE nelle loro relazioni reciproche e nelle loro conflittualità arbitrate più o meno dal collegio dei vescovi, ma questa non è la Chiesa!"  
 
E ancor Ratzinger non mancò così di trarre la seguente e grave conclusione:  
"Questo però significa che la Chiesa come tema teologico VERREBBE CANCELLATA. Se si può vedere la Chiesa ormai solo nella organizzazione umana e nella gestione collegiale, allora in realtà rimane soltanto DESOLAZIONE. Ma allora non è abbandonato solo l'ecclesiologia dei Padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e la stessa concezione di Israele nell'A.T...."  


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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