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LA CATASTROFE CHE FU IL LUTERANESIMO

Ultimo Aggiornamento: 09/07/2016 19:53
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11/08/2012 18:53
 
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da Erasmo da Rotterdam, Il pugnale del soldato cristiano, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, p. 26

Dunque, l'uomo è un animale stupefacente, fatto di due, anzi tre parti diversissime tra loro, con un'anima che lo fa simile a un nume e un corpo che lo fa simile a un animale bruto. Il nostro corpo, peraltro, è inferiore sotto tutti i riguardi a quello degli altri animali bruti; quanto all'anima, invece, siamo a tal punto capaci di divinità che ci è possibile sorvolare perfino le menti angeliche e diventare una cosa sola con Dio. Se non ti fosse stato aggiunto un corpo, saresti un dio: se non ci fosse stata inserita quest’anima, saresti una bestia. Queste due nature così diverse tra loro il grande artefice le aveva legate in armoniosa concordia, ma il serpente, nemico della pace, le ha divise in sterile discordia, di modo che ormai non possono né dividersi senza il massimo tormento né vivere insieme senza una continua guerra. Come si suol dire, ciascuno dei due lupi in lotta tiene l'altro per l'orecchio e ad entrambi si adatta l'arguta battuta «Non posso vivere con te, né senza di te».

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam (1516, insieme all’edizione del NT), Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 128-129

Mi dispiace dovere adesso, per prima cosa, rinnovare una vecchia lamentela: vecchia, ma, ahimé!, fin troppo giusta. E non so se sia mai stata più giusta di oggi, quando, mentre i mortali si dedicano con tanta passione ai loro studi, la sola filosofia di Cristo è addirittura derisa da certi cristiani, dalla maggior parte di essi è trascurata, e solo da pochi viene studiata - ma con indifferenza, per non dire con ipocrisia. Eppure, in tutte le altre discipline create dall'ingegno umano non c'è niente di cosi recondito e nascosto che non sia stato esplorato dalla sagacità dell'intelletto, niente di tanto difficile che non sia stato compreso grazie a un lavoro incessante. Perché allora accade che noi, che pure ci chiamiamo tutti col nome che ci viene da Cristo, non ci dedichiamo a quest'unica filosofia con l'animo che essa merita? Platonici, Pitagorici, Accademici, Stoici, Cinici, Peripatetici, Epicurei conoscono profondamente i principi della propria scuola, e li sanno a memoria, e per essi combattono, pronti a morire piuttosto che tradire l'insegnamento del proprio maestro. E noi, perché non dimostriamo una fedeltà anche maggiore al nostro fondatore e maestro Cristo? Chi non troverebbe assurdo che un seguace di Aristotele ignorasse il pensiero di quel filosofo sulle cause dei fulmini, sulla materia elementare, sull'infinito? Eppure, queste sono cose che non rendono felici a saperle, né infelici a ignorarle. E noi, che siamo stati iniziati e avvicinati a Cristo in tanti modi e con tanti sacramenti, non riteniamo disonorevole ignorare una dottrina che garantisce a tutti una felicità certissima? Ma a che serve ingrandire qui polemicamente l'argomento, quando è empio e folle il fatto stesso di paragonare Cristo con Zenone o Aristotele, e la sua dottrina con le loro - per parlare educatamente - formulette?

Attribuiscano pure ai capi della loro setta quello che possono o che vogliono: questo è senza dubbio l'unico maestro venuto dal cielo, il solo che abbia potuto, essendo l'eterna sapienza, insegnare certezze; il solo a impartire insegnamenti salvifici, unico autore dell'umana salvezza; il solo ad essere assolutamente coerente con tutto ciò che ha insegnato; il solo che può mantenere tutto ciò che ha promesso. Se ci arriva qualcosa dai Caldei o dagli Egizi, bramiamo ardentemente di conoscerlo proprio perché viene da un mondo a noi estraneo, e l'arrivare da lontano fa parte del suo valore. Spesso sulle fantasie di un poveruomo, per non dire di un impostore, ci tormentiamo ansiosamente, non solo senza alcun frutto, ma con grande spreco di tempo - per non dir di peggio (sebbene sia già gravissimo non ottenere nessun risultato). Ma come mai una curiosità di questo genere non stuzzica l'animo dei Cristiani, che sanno benissimo che la loro dottrina non viene dall'Egitto o dalla Siria, ma dal cielo stesso? Perché non riflettiamo tutti che è necessario sia uno straordinario, mai visto, genere di filosofia quello per predicarci il quale colui che era Dio si è fatto uomo, colui che era immortale si è fatto mortale, colui che era nel cuore del Padre è sceso in terra? È necessario che sia qualcosa di grande, di nient'affatto comune, qualsiasi cosa sia, ciò che è venuto a insegnarci quel maestro tanto ammirevole, dopo tante scuole di filosofi e tanti insigni profeti. Perché, qui, non conosciamo, analizziamo, discutiamo, con pia curiosità, ogni singola cosa? Soprattutto visto che questo genere di sapienza - tanto esimio da rendere una volta per tutte stolta tutta la sapienza di questo mondo - lo si può attingere, come da limpidissime fonti, da questi pochi libri, con fatica di gran lunga minore di quella che costa attingere da tanti volumi spinosi, da tanto immensi e contraddittori commenti di interpreti la dottrina aristotelica - per non aggiungere con quanto maggior frutto. Qui infatti non è necessario avvicinarsi muniti di tante angoscianti dottrine. Il viatico è semplice e accessibile a chiunque, purché si abbia un animo pio e disponibile, e soprattutto dotato di fede semplice e pura. Perché tu sia docile, otterrai grandi risultati in questa filosofia. E lei che ci fornisce lo spirito maestro, che non si offre tanto volentieri quanto agli animi semplici.

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 130-131

Io dissento infatti totalmente da coloro che non vorrebbero che il popolo leggesse le Sacre Scritture tradotte in volgare, come se Cristo avesse insegnato cose cosi astruse da poter essere capite solo da un gruppetto di teologi, o come se la massima sicurezza della religione cristiana consistesse nell'essere ignorata. Può darsi che sia opportuno tenere nascosti i segreti dei re: ma Cristo vuole che i suoi siano divulgati il più possibile. Vorrei che qualsiasi donnetta leggesse il Vangelo, leggesse le epistole di Paolo. E magari questi scritti fossero tradotti nelle lingue di tutti i popoli, in modo da essere letti e capiti non solo dagli Scoti e dagli Iberni, ma anche dai Turchi e dai Saraceni! Il primo passo sta senza dubbio nell’impararli in un modo qualsiasi. Va bene: molti ne rideranno, ma alcuni ne faranno tesoro. Mi piacerebbe che il contadino ne cantasse dei passi mentre guida l’aratro, e il tessitore mentre guida la spola, e che il viandante ingannasse la noia del viaggio con le storie della Scrittura. Tutte le conversazioni di tutti i cristiani dovrebbero basarsi su di essa. Noi siamo infatti quali sono i nostri discorsi quotidiani. Ciascuno capisca ed esprima ciò che può. Chi resta indietro non invidi chi gli sta avanti, e questi dia una mano a chi gli sta dietro, non lo scoraggi. Perché restringiamo a pochi un'attività che è di tutti? E infatti illogico che, mentre sono allo stesso modo comuni a tutti i cristiani il battesimo (prima professione della filosofia cristiana), poi tutti gli altri sacramenti e infine la promessa dell'immortalità, solo i dogmi siano stati relegati nelle mani di un gruppetto di persone, che oggi si chiamano comunemente teologi o monaci, ma che, pur essendo una parte minima del popolo cristiano, vorrei fossero migliori della fama che hanno. Temo infatti che tra i teologi se ne possano trovare di quelli che si discostano molto dal titolo che hanno, e cioè che discutono di cose terrene e non di cose divine. E che fra i monaci non se ne trovino molti che professino la povertà e il disprezzo del mondo insegnatici da Cristo, invece che la morale del mondo. Per me è un vero teologo colui che sappia insegnare - non con sillogismi contorti ad arte, ma con l'atteggiamento, con l’espressione del volto e degli occhi, con la sua stessa vita - che le ricchezze vanno disprezzate; che il cristiano non deve contare sulle sicurezze di questo mondo, ma deve affidarsi al cielo; che l'ingiuria non va restituita; che bisogna benedire chi ci maledice e fare del bene a chi ci fa del male; che i buoni vanno amati e aiutati tutti come le membra dello stesso corpo, e i cattivi tollerati, se non possono essere corretti; che coloro che vengono spogliati dei loro beni, che vengono scacciati dalle loro proprietà, che piangono, sono beati e non spregevoli; che la morte, non essendo altro che il passaggio all'immortalità, è desiderabile anche per le persone pie. Se qualcuno, ispirato da Cristo, predicasse, inculcasse ed esortasse a cose come queste, sarebbe un vero teologo anche se fosse uno zappatore o un tessitore. E se qualcuno le sostenesse con 1'esempio della sua condotta, questi sarebbe un grande Dottore. Su quale sia l'intelletto degli angeli può forse discutere sottilmente anche un non cristiano, ma persuadere gli uomini che in questo mondo dobbiamo condurre una vita angelica, questo è veramente il compito di un teologo cristiano. E se qualcuno strillasse che queste sono affermazioni volgari e sempliciotte, non avrei altro da rispondere se non che queste volgarità le ha insegnate prima di tutto Cristo, che su di esse hanno insistito gli apostoli e che ce le hanno tramandate schiere di autentici cristiani e di insigni martiri. Questa filosofia, che a loro sembra illetterata, ha sottomesso alle proprie leggi i massimi principi della terra ed un ben noto numero di regni e popoli, cosa che non era riuscita a fare né la forza dei tiranni, né la dottrina dei filosofi. Non voglio certamente oppormi, se coloro che hanno raggiunto la perfezione vogliono discutere nei loro circoli di codesta sapienza per pochi. Ma sarà una consolazione per l'umile volgo dei cristiani sapere che tali sottigliezze gli apostoli, ammesso che ne fossero a conoscenza (e questo non intendo stabilirlo io), certo non le insegnarono.

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, p.134

Perché preferiamo imparare la sapienza di Cristo dagli scritti degli uomini piuttosto che da Cristo stesso? Lui che ha promesso che sarebbe stato con noi sempre, fino alla fine dei secoli, mantiene la promessa soprattutto con questi scritti, nei quali ancora oggi vive, respira, parla, direi quasi più efficacemente di quando viveva con gli uomini. I Giudei vedevano e udivano meno cose di quelle che tu vedi e ascolti negli scritti evangelici, purché tu ci metta occhi e orecchie tali da poterle distinguere.

Insomma, che storia è questa? La lettera di un amico la conserviamo, la baciamo, ce la portiamo dietro, la leggiamo e rileggiamo: e ci sono migliaia di cristiani che, pur essendo dotti, non hanno mai letto in tutta la loro vita i libri evangelici e apostolici. I maomettani custodiscono gelosamente i loro dogmi, i Giudei ancora oggi studiano Mosè nel testo originario. Perché noi non rendiamo lo stesso onore a Cristo? Coloro che seguono San Benedetto conservano, mandano a mente, si imbevono della sua regola, che pure fu scritta da un uomo, e da un uomo quasi ignorante, per gente ignorante. Gli agostiniani sono ferratissimi sulla regola del loro fondatore. I francescani adorano i poveri insegnamenti del loro Francesco, li accolgono incondizionatamente, in qualsiasi posto del mondo si spingano li portano con sé, e non si sentono sicuri se non hanno in seno quel libretto. Perché essi tributano a una regola scritta da un uomo più di quanto i cristiani in generale tributano alla propria regola, che Cristo ha trasmesso a tutti, a cui tutti egualmente si sono legati col battesimo, e che insomma - per quante tu ne voglia aggiungere - è la più sacra di tutte?

5/ La questione teologica al centro. Non le 95 tesi sulle indulgenze, ma le grandi questioni del peccato e della grazia e quella della chiesa e della tradizione

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 57-58

Lutero spedì [le famose 95 Tesi sulle indulgenze] la vigilia della festa di Ognissanti ai vescovi direttamente interessati. Soltanto allorché questi non ebbero risposto affatto o non in maniera soddisfacente, egli volle far recapitare le Tesi – così Lutero sostenne in tutta la sua vita – a persone dotte, dentro e fuori di Wittenberg ( WA 1, 528; WABr 1, 245; WA 51, 540; WA 54, 180; cfr. E. Iserloh, Luther zwischen Reform und Reformation, 41-55; vers. It., Brescia 1970).. Ma non si riesce a conciliare con questi dati, forniti da Lutero, l’affissione delle Tesi sulla chiesa del castello di Wittenberg il 31 ottobre del 1517. Di tale episodio non ci danno notizie né Lutero né alcuna delle molte fonti contemporanee. Solo Melantone, dopo la morte di Lutero – e precisamente nella «Prefazione» al II volume delle opere del riformatore (1546) – parla dell’affissione delle Tesi, prefazione che si rivela inattendibile anche quanto al resto (CR 6, 161 s; H. Boemer, Luthers Romfahrt, Lipsia 1914, 8; H. Volz, Martin Luthers Thesenanschlag, 37).

Prescindendo da molte altre contraddizioni, l’affissione delle Tesi, la vigilia della festa titolare della chiesa del castello, avrebbe avuto il carattere di una scena pubblica, nonostante l’uso della lingua latina, in vista del grande concorso di popolo provocato dalle numerose indulgenze che vi si potevano lucrare. Ma Lutero voleva, come ripetutamente afferma, instaurare un dialogare tra i dotti, a chiarimento della dottrina delle indulgenze, che non era stata ancora ufficialmente definita (WABr 1, 138; 152; WA 1, 311; 528. Cfr. l’intitolazione delle tesi: Quare petit, ut qui non possunt verbis presentes nobiscum disceptare agant id litteris absentes, WA 1, 233.). I colleghi, ai quali Lutero fece recapitare le Tesi dopo il 31 ottobre – ad esempio l’11 novembre del 1517 a Giovanni Lang di Erfurt (WABr 1, 122) – le diffusero. In poche settimane esse ebbero una così rapida e vasta pubblicità, in manoscritti e a stampa, quale nessuno – nemmeno Lutero stesso – avrebbe potuto prevedere (WABr 1, 170; WA 51, 540).

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 10-11

Ci si deve [...] chiedere: questa prassi esteriore aveva per fondamento una sana dottrina teologica e ne era chiarificata e illuminata?

Va qui ricordata, quale sintomo visibile e gravido di conseguenze, l’incertezza teologica. L’area della verità e dell’errore non era tracciata con sufficiente chiarezza. Si supponeva di trovarsi in accordo con la chiesa, mentre da tempo si erano adottate posizioni che contraddicevano al suo insegnamento.
Lutero riteneva di trovarsi ancora nella chiesa quando insultava il papa dandogli dell’anticristo, e Melantone poteva ancora tentare nella Confessio Augustana (1530) di rendere credibile che non esistesse alcun contrasto con la «chiesa romana» nelle rispettive dottrine e che si trattasse soltanto di una opinione diversa quanto ad alcuni abusi. L’insicurezza era particolarmente notevole nei riguardi del concetto di chiesa. A causa dello scisma di occidente – l’ultimo antipapa Felice V, aveva rinunciato appena nel 1449 – non era più molto chiaro se il papato, fondato da Gesù Cristo, fosse essenziale per la chiesa. Incapaci di stabilire chi fosse il papa legittimo, si era spesso cessato di porsi questo problema e ci si era abituati a fare a meno del papa. Diede un forte impulso alla Riforma la circostanza che molti furono dell’opinione che Lutero apportasse soltanto la riforma lungamente maturata, e non si accorsero, o si accorsero soltanto in ritardo, che egli metteva in discussione dottrine essenziali della chiesa.




[SM=g1740771]  continua......

[Modificato da Caterina63 11/08/2012 18:53]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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