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Dio entrò nel mondo per mezzo di Maria...

Ultimo Aggiornamento: 22/08/2014 21:01
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...in principio erat Verbum et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum ... et Verbum caro factum est et habitavit in nobis
(dalla Vulgata)

E il Verbo si fece carne: uomo. E abitò fra noi!


Il Verbo arrivò ad incarnarsi in un grembo (nel grembo di Maria). Il grembo di Maria è la porta attraverso la quale Cristo entrò nel mondo. “Allora Maria disse all'angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo». Le rispose l'angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio.” (Luca 1:34-35)

Quando nostro Signore entrò nel mondo, lo fece nella maniera più umile. Giunse ad essere un piccolo essere non ancora nato, un embrione....il piccolo Gesù non ancora nato, nuotando mentre si succhiava il pollice nel grembo di una Donna, di una Donna che non era nulla di più di una semplice contadina. Il Demonio tramò contro la sua vita, ma fallì, Giuseppe "Uomo Giusto", la prese sotto la sua protezione e così il grembo di Maria, protesse il corpo ed il sangue di Gesù dagli elementi esterni. Il potente Dio che aveva dato a Maria la sua vita, dipendeva adesso dal suo grembo per sopravvivere! Ella non si sentiva superiore a Dio per questo motivo, poichè era la sua serva, “sono la serva del Signore,” disse Maria, "avvenga di me quello che hai detto". E l'angelo partì da lei."(Luca 1:38).

L'Apocalisse, capitolo 12, ci dice che quando la Incarnazione di nostro Signore fu rivelata a Satana, egli respinse l'idea dell'Incarnazione del Verbo. Satana ne fu disorientato, non pensava neanche lui che Dio l'Onnipotense potesse umiliarsi e nascondersi fino a questo punto! Come, in tutto il creato, l'onnipotente Dio ha potuto umiliarsi fino a diventare un essere umano, la casta più bassa degli esseri spirituali, i cui corpi sono inferiori agli angeli, che sono puro spirito? Come, in tutto il creato, Egli ha deciso di entrare in un corpo di carne ed ossa, per servire invece di governare? Come, in tutto il creato, l'Onnipotente ha potuto permettere a se stesso di rimanere limitato in un bozzolo, nel grembo di carne di una creatura inferiore?

Come può Dio, stando al di sopra della donna, mettersi al servizio della donna, nel momento in cui Gesù, figlio di Maria, la onora come Madre? "Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». E Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora». ." (Gv 2:3). Sì, Maria, il Potente Re ha parlato. Tuttavia, Maria ignora le Sue parole: "La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà»" (Gv 2:5). E Gesù fa il miracolo. Egli obbedì a Sua Madre, da buon figliolo qual'era e da allora abbiamo una potente Avvocata presso il Figlio. Non era la Sua ora, ma Maria intercede per la coppia e Dio cambia la maniera di realizzare il Suo piano. Sì, Signore Gesù, Tua Madre ha parlato, "Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini. " (Lc 2:51-52).

Quando Maria intercede per qualcuno, Gesù ascolta Sua Madre.... e lo considera, anche se il favore che Maria chiede non è nei Suoi piani... Egli lo considera, a causa dell'alto rispetto che ha verso Sua Madre.

Quando lo Spirito Santo ricoprì Maria con la Sua ombra, Ella divenne Sua sposa, ed il Suo grembo diventò un tabernacolo, il tabernacolo dei tabernacoli perchè ospitò Dio nella Sua divinità, anima, carne ed ossa. Il Suo grembo divenne la suprema arca dell'alleanza, perchè contenne la carne di Cristo, il vero Pane del Cielo. "Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo»" (Mc 14:22).

Il Suo grembo divenne il Calice dei Calici, che contenne il sangue di Cristo, in natura nutrito dalla Madre per nove mesi: "Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: «Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza versato per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio»." (Mc 14:23-24)

Gesù non ancora nato è il Re dei Re e Maria è la Madre Regina delle madri regine: “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. ” (Apocalisse 12:1-2) Tuttavia, il ruolo di questa Madre Regina non è di governare al di sopra di Gesù, ma di servirLo.


C'è una triplice relazione fra Maria e Dio.

1) Ella è la figlia perfetta obbediente al Padre.

2) Ella è la sposa perfetta obbediente allo Spirito Santo.

3) Ella è la madre perfetta del Figlio.

Con Gesù, ella ebbe autorità solo quando ricopriva il ruolo di madre. Maria era inferiore a Gesù nelle questioni religiose, però rimaneva al di sopra di Lui nelle questioni familiari. Il Diavolo non poteva accettare una tale rivelazione. Egli non si sarebbe inchinato nè l'avrebbe benedetta secondo la profezia di Maria, dato che Ella era una creatura tanto inferiore. “Allora Maria disse: 'L'anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente e Santo è il suo nome..' ” (Lc 1:46-49)

E per molte generazioni, la Chiesa Cattolica sconfigge il Demonio ripetendo le parole gioiose che vennero pronunciate dinanzi ad Elisabetta, ed in questa preghiera, la Chiesa condivide l'allegria che provarono il piccolo Giovanni Battista non ancora nato e Sua madre: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore».” (Lc 1:41-45)

“Ave Maria, piena di grazia” disse l'Angelo Gabriele a Maria, “il Signore è con Te,” ed aggiunse “Tu sei benedetta fra le donne, e benedetto è il figlio del Tuo grembo, Gesù.” disse Elisabetta: “...benedetto è il figlio del tuo grembo, Gesù.” e “...... benedetto è il frutto del tuo grembo, Gesù.” “...del tuo grembo, Gesù,” “...il frutto del grembo di Maria. “Santa Maria, madre di Dio, prega per noi peccatori.” Nello stesso modo in cui intercedesti per la giovane coppia di sposi di Cana. E, amatissima Maria, prega per noi “Adesso e nell'ora della nostra morte, Amen.

Ecco il senso meraviglioso di una Preghiera A DIO, rivolta attraverso il vissuto di Maria..."L'Ave Maria"

”...Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato.” (Apocalisse 12:3-4).

Era importante che il Demonio distruggesse Gesù per provare a Dio che aveva commesso un errore. In fin dei conti, un Dio non deve mescolarsi con creature inferiori. Solo con i Serafini della casta più alta degli angeli (Com'era Satana prima di essere scacciato dal Cielo). In fin dei conti, il Diavolo sentiva che era “il Figlio di Dio” perchè era lo Spirito più alto di tutti. Solo Dio era più in alto di Lui. Egli perse la ragione a causa del suo orgoglio e della sua gelosia. Dio presenta agli angeli una donna “...vestita di sole...” (Apocalisse 12:1) come Regina del cielo (sotto il dominio di Dio, naturalmente!) “... sul suo capo una corona di dodici stelle...” (Apocalisse 12:1) che sovrasta l'antico simbolo della regalità, la luna. Una Donna che tutto il creato (Gabriele, Elisabetta, e tutte le generazioni) chiamano Beata. E dentro il grembo di questa donna, Dio presenta Gesù non ancora nato “Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro” (Apocalisse 12:5)

E l'Inferno si mette in azione. Gesù dirà a Pietro: Satana ha ottenuto il permesso di passarvi al vaglio! E' Dio che accetta la sfida, per porre fine una volta per tutte all'opera dell'angelo ribelle, lascia sulla terra la Chiesa quale rifugio sicuro per tutto il popolo redento dal Sangue del Suo Unigenito.

La prima cosa che fece il Diavolo dopo questa rivelazione fu di convincere il maggior numero di angeli che Dio stava sbagliando, che il Creatore era impazzito. “...Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra...” (Apocalisse 12:3-4) “Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo.” (Apocalisse 12:7-8)


Il Diavolo odia il grembo di Maria, la porta attraverso cui Dio entrò nell'umanità.

Egli odia il grembo di Maria e tutti i grembi fatti ad immagine e somiglianda del benedetto grembo di Maria. Egli convince molte donne ad abortire per dissacrare questi santi luoghi dove lo Spirito Santo infonde la sua forza creatrice, quando dona la vita.

Allora egli perseguitò la donna ed il suo bambino: “...Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire, per divorare il bambino appena nato.” (Apocalisse 12:3-4). “...Or quando il drago si vide precipitato sulla terra, si avventò contro la donna che aveva partorito il figlio maschio.” (Apocalisse 12:13)

Egli tentò Erode, convincendolo ad uccidere tutti quei bambini, i Santi Innocenti, per distruggere il Messia. Però alla Donna, Dio diede "Or quando il drago si vide precipitato sulla terra, si avventò contro la donna che aveva partorito il figlio maschio." (Apocalisse 12:14) "..., un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo». Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall'Egitto ho chiamato il mio figlio." (Mt 2:13-15)

Possiamo dire, ora più che mai, che siamo stati creati ad immagine e somiglianza di Dio. Noi possiamo esserne più che certi, poichè Cristo divenne uno di noi nello stesso modo in cui noi diventiamo esseri umani, anche se in Lui resta la natura comune del Padre. Un attacco contro un essere umano è un attacco contro l'immagine di Cristo. Dio divenne un bimbo non ancora nato, "Gesù non ancora nato".

Ciò significa che ogni essere non ancora nato è fatto ad immagine e somiglianza di Dio in tutte le sue tappe dello sviluppo. Gli attacchi contro i bambini non ancora nati sono attacchi contro persone create ad immagine e somiglianza di Dio, sono attacchi contro lo stesso Dio, un attacco contro Gesù non ancora nato e contro lo Spirito Santo, il Signore che crea e da la vita.

E dal momento che in ogni grembo materno può celarsi in futuro "alter Cristo" in virtù della vocazione e della consacrazione sacerdotale, il delitto dell'aborto diventa ancor più cruento e che sempre griderà vendetta al cospetto di Dio perchè ha scelto proprio il grembo di una Donna per venire al mondo ed unirsi all'uomo.


Da qui è anche chiaro, INDISCUTIBILE il NO ad ogni forma di Aborto...
nessun compromesso...E' Dio stesso che ci rivela la sacralità della vita mediante la sua Incarnazione nel grembo di una Donna; ogni bambino concepito è il riflesso dell'Incarnazione di Dio....

“...Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: «Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato. Poiché chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande».” (Lc 9:47-48) “Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare.” (Mc 9:42) “...Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso.” (Mc 10:14-15)


                                       

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[Modificato da Caterina63 19/12/2008 20:12]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Terza predica di Avvento in Vaticano

Per una fede libera
da abitudini ipocrisie e interessi


Tutti possiamo partecipare alla maternità di Maria, ascoltando la Parola di Dio e mettendola in pratica, come affermava sant'Ambrogio:  "Ogni anima che crede concepisce e genera il Verbo di Dio". È su questo tema che si è sviluppata la terza predica di Avvento di venerdì 19 dicembre, tenuta da padre Raniero Cantalamessa alla presenza di Benedetto XVI, nella cappella Redemptoris Mater in Vaticano.

Il predicatore della Casa Pontificia ha fatto notare come san Paolo abbia scritto che Cristo è "nato da donna". Se, invece, "avesse detto "nato da Maria", si sarebbe trattato solo di un dettaglio biografico; avendo detto "nato da donna", ha dato alla sua affermazione una portata universale e immensa. È la donna stessa, ogni donna, che è stata elevata, in Maria, a tale incredibile altezza. Maria è qui la donna per antonomasia".

La maternità divina di Maria si realizza su due piani:  su un piano fisico e su un piano spirituale. Naturalmente, padre Cantalamessa ha messo in evidenza come noi non possiamo "imitare Maria nel primo senso, generando di nuovo Cristo, ma possiamo imitarla nel secondo senso, che è quello della fede".

"Nella tradizione, questa verità ha conosciuto due livelli di applicazione complementari tra di loro - ha aggiunto il cappuccino - uno di tipo pastorale e l'altro di tipo spirituale. In un caso, si vede realizzata questa maternità, nella Chiesa presa nel suo insieme, in quanto "sacramento universale di salvezza"; nell'altro, la si vede realizzata in ogni singola persona o anima che crede".
 
Come si diventa, in concreto, "madre di Gesù"? A questo interrogativo, il predicatore ha fatto riferimento alle parole di Cristo nel Vangelo:  "Ascoltando la Parola e mettendola in pratica. Ripensiamo, per capire, a come divenne madre Maria:  concependo Gesù e partorendolo". Proprio riferendosi a questi due aspetti, Padre Cantalamessa ha messo in guardia dal rischio di una "maternità incompleta" a cui possono andare incontro i credenti. C'è insomma la possibilità - così come avviene nella maternità biologica con l'aborto e la fecondazione in vitro - di "concepire Gesù senza partorirlo" o, al contrario, di "partorire Cristo senza averlo concepito".

Al primo rischio va incontro "chi accoglie la Parola, senza metterla in pratica" e "formula propositi di conversione che vengono poi sistematicamente dimenticati e abbandonati a metà strada":  in definitiva, "chi ha la fede, ma non ha le opere". Il secondo, invece, è proprio di "chi fa tante opere, anche buone, ma che non vengono dal cuore, da amore per Dio e da retta intenzione, ma piuttosto dall'abitudine, dall'ipocrisia, dalla ricerca della propria gloria e del proprio interesse, o semplicemente dalla soddisfazione che dà il fare":  cioè, "chi ha le opere ma non ha la fede".

Rifacendosi al pensiero di san Francesco d'Assisi, il predicatore ha detto:  "Noi concepiamo Cristo quando lo amiamo in sincerità di cuore e con rettitudine di coscienza, e lo diamo alla luce quando compiamo opere sante che lo manifestano al mondo". Citando poi san Bonaventura, padre Cantalamessa ha insistito sul fatto che il proposito di vita nuova deve tradursi "in qualcosa di concreto, in un cambiamento, possibilmente anche esterno e visibile, nella nostra vita e nelle nostre abitudini". Se infatti "il proposito non è messo in atto, Gesù è concepito, ma non è partorito". Due gli ostacoli più ardui che il credente incontra su questa strada:  l'incomprensione di quanti lo circondano e lo scoraggiamento che deriva dal ritenere troppo alta e impegnativa la prospettiva di una vita cristiana coerente.



(©L'Osservatore Romano - 20 dicembre 2008)

[SM=g1740750] [SM=g7182]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Maria Santissima Madre di Dio

Il mistero di una madre
che allatta il suo Creatore


di Gianfranco Ravasi

"Era molto importante che Dio donasse al mondo questo segno:  la Vergine che partorisce, la donna senza uomo:  ella, che ha aspettato tutto da Dio e ha dato tutto a Dio, ha ricevuto tutto da lui; così può presentare al mondo il bambino re e salvatore, Dio stesso che viene a cercare il suo popolo". Così Georgette Blacquère, saggista francese, nella sua opera La grâce d'être femme, esaltava la maternità verginale di Maria. E a lei faceva eco un noto teologo suo connazionale, Gustave Martelet, che affermava:  "Se Gesù risultasse dall'amore di Giuseppe e di Maria, per quanto grande e santificato fosse questo amore, il futuro sarebbe stato unicamente umano (...) Gesù sarebbe reso figlio da Dio solo per adozione (...) In nessun modo saremmo davanti al mistero che la Scrittura rivela e la fede confessa:  quello del Figlio effettivo di Dio fatto uomo con l'Incarnazione".

In pratica si cadrebbe in un'eresia già attestata nell'antichità, quella dell'adozionismo:  Cristo sarebbe, sì, nostro fratello, ma con tutti i limiti della nostra realtà, senza la possibilità di trascendere e salvare la nostra condizione. Sarebbe un figlio tra i figli adottivi di Dio, sia pure con un rilievo maggiore.

Sul tema di Maria vergine incinta abbiamo già proposto una precedente riflessione. Ora vorremmo soffermarci su un aspetto apparentemente molto marginale che però ha lasciato una traccia suggestiva nella storia dell'arte e della pietà popolare cristiana:  Maria madre che allatta il suo Bambino. Noi ci fermeremo solo sul versante esegetico-teologico, partendo da una "beatitudine" evangelica che sboccia dall'ammirazione di una donna presente nell'uditorio di Gesù. Racconta l'evangelista Luca:  "Una donna alzò la voce in mezzo alla folla e disse:  Beato il ventre che ti ha partorito e il seno da cui sei stato allattato!" (11, 27).

Luca non usa il termine greco tipico per indicare il latte, gàla, ma ricorre a un verbo squisitamente "femminile", ethèlasas, da thelàzein, "allattare", che è generato da thèlys, "donna, femmina". Il verbo risuona quattro altre volte nel Nuovo Testamento. Fa capolino nell'acclamazione della domenica delle Palme, allorché - sulla base di una citazione del salmo 8, 3 - Gesù stesso accoglie gli "osanna" dei fanciulli, ricordando appunto che "dalla bocca dei bambini e dei lattanti (thelazònton)", Dio si procura la lode più cara (Matteo, 21, 16). Le altre tre presenze del vocabolo sono parallele e identiche nei tre evangelisti sinottici e sono segnate da un fremito apocalittico:  nel giorno del giudizio finale sulla storia, "guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno (thelazoùsais) in quei giorni!" (Matteo, 24, 19; Marco, 13, 17; Luca, 21, 23).

A questo punto vorremmo idealmente ripercorrere a ritroso la storia biblica di una realtà fisiologica divenuta ben presto un emblema e che potrebbe essere esaminata - come per altro è stato fatto - nell'iconografia mariana. Il latte, in ebraico halab (in arabo leben, "bianco"), produce infatti quasi un filo bianco e dolce che percorre molte pagine anticotestamentarie, legate soprattutto al modello sociale nomadico. Non per nulla il segno più affettuoso dell'ospitalità è nel mondo beduino offrire una tazza di latte fresco, come fa Abramo in quel caldo pomeriggio agli ospiti misteriosi che s'affacciano alla sua tenda sotto le querce di Mamre (Genesi, 18, 8). Attorno al latte si svilupperanno anche tradizioni gastronomiche folcloriche, come quella che darà origine indirettamente alla norma kasher che vieta all'ebreo una dieta che mescoli carne e latticini. Nel libro dell'Esodo si legge, infatti, questa prescrizione:  "Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre" (23, 19; il divieto è reiterato in Esodo, 34, 26 e Deuteronomio, 14, 21). Più che a motivi umanitari, come spesso si dice, la proibizione era vincolata al fatto che tale ricetta era in uso presso i cananei, gli indigeni della Terrasanta, nei cui confronti Israele voleva prendere le distanze onde evitare il rischio di sincretismo.

Ma ben presto il latte si trasfigura in simbolo. Incarna, col miele, la rappresentazione della fecondità, della libertà e del benessere, come è attestato da quella celebre formula stereotipata applicata alla terra promessa, "terra ove scorre latte e miele", formula che risuona nell'Antico Testamento almeno una ventina di volte, a partire da Esodo, 3, 8. Il latte è, poi, il segno ovvio del candore:  il capo-tribù Giuda, secondo le parole della benedizione del patriarca Giacobbe, ha "i denti bianchi come latte" (Genesi, 49, 12), così come quelli dell'amato del Cantico dei cantici sono "denti bagnati nel latte" (5, 12), mentre la pelle dei giovani di Gerusalemme è "più candida del latte" (Lamentazioni, 4, 7). Questa caratteristica - in un panorama assolato che produce pelli abbronzate - è un indizio di bellezza e di originalità. Il latte è anche evocazione di dolcezza,  come si dice riguardo alle parole e ai baci della donna del Cantico, che ha "miele e latte sotto la sua bocca" (4, 11) e il suo amato baciandola dichiara di "suggerne il latte" (5, 1).

Il latte diventa, poi, simbolo dell'era messianica quando l'umanità sarà invitata ad accorrere a dissetarsi con acqua, vino e latte "senza spesa", in un dono che ha al centro i prodotti tipici dell'area mediterranea (Isaia, 55, 1). E alla fine, ecco apparire, solenne e matronale, la personificazione di Gerusalemme come "metro-poli", la città-madre che ha il seno turgido e generoso:  "Voi succhierete al suo petto, succhierete deliziandovi all'abbondanza del suo seno" (Isaia, 66, 11). Il latte è, quindi, una componente dell'esistenza che viene assurto a simbolo di benessere, di bellezza, di amore, di speranza e di pienezza. Ed è su questa scia che il latte si affaccia con un suo rivolo anche nel Nuovo Testamento, riproponendosi secondo nuovi profili metaforici.

Abbiamo fatto notare che nel suo grido esclamativo rivolto a Gesù la donna non aveva usato il termine greco gàla, "latte". Questo vocabolo, però, echeggia cinque volte nel Nuovo Testamento e, curiosamente, è solo in un caso che conserva il suo valore di base, realistico e fisiologico. È, infatti, soltanto san Paolo a domandarsi retoricamente:  "Chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge?" (1 Corinzi, 9, 7). Ma in quella stessa lettera indirizzata ai cristiani di Corinto si assiste subito a un trapasso allegorico, sorprendentemente negativo, sulla base di un'applicazione metaforica che era nota anche al filosofo giudaico Filone di Alessandria e a Epitteto. Il latte diventa, dunque, il cibo degli immaturi, di coloro che sono ancora "carnali", incapaci di un alimento più ricco e raffinato, proprio come accade ai Corinzi "neonati" nella fede e imperfetti nella loro vita spirituale:  "Vi ho dato da bere latte - osserva l'Apostolo - non un nutrimento solido perché non ne eravate capaci" (3, 1-2).

Analoga è l'applicazione che ritroviamo in quella grandiosa omelia o trattato teologico che è la Lettera agli Ebrei ove l'autore si rivolge ai suoi interlocutori con queste parole esplicite:  "Siete diventati bisognosi di latte e non di cibo solido:  chi si nutre ancora di latte è ignaro della dottrina della giustizia perché è ancora un bambino. Il nutrimento solido è, infatti, per gli uomini maturi" (5, 12-14). Siamo, quindi, in presenza di un'inversione di tendenza, destinata a trasformare questo cibo in un'immagine di limite, di imperfezione, di "infantilismo". Tuttavia, proprio sulla stessa base simbolica, san Pietro, nella sua prima lettera, ribalterà il significato e, introducendo il tema della nascita battesimale come evento capitale nell'esperienza cristiana, inviterà i neo-battezzati, "come bambini appena nati, a bramare il puro latte spirituale, per crescere con esso verso la salvezza" (2, 2). Le dottrine dei misteri e della gnosi pagana esaltavano il cibo "pneumatico", ossia spirituale, di cui i loro adepti si nutrivano; Pietro, in contrappunto, celebra invece il latte della parola di Cristo e della salvezza che è offerta ai battezzati:  per lui è questo il vero cibo spirituale.

È in questa luce che l'antica arte cristiana catacombale - ad esempio, la cappella di San Pietro nella catacomba romana ad duas lauros, nella ii metà del iii secolo - e quella dei sarcofagi hanno raffigurato Cristo buon pastore che regge tra le mani o depone ai suoi piedi una coppa di latte, destinata al gregge dei fedeli. Ormai il latte si era trasfigurato in un emblema della beatitudine perfetta della vita eterna riservata al cristiano. È a questo punto che ha avvio la successiva tradizione cristiana che, però, abbandonerà la simbologia biblica finora delineata e punterà verso l'immagine centrale della Natività di Cristo, evocata indirettamente dalle parole di quella donna. Si apre, così, un itinerario simbolico e storico che non è nostra intenzione ora percorrere, ma che è già stato perlustrato soprattutto nel suo profilo iconografico.

Certo, una madre che allatta il suo piccolo è un'immagine che appartiene a tutte le culture, soprattutto come simbolo di fecondità. Non per nulla il latte è associato spesso alla luna e alla sua luce "lattiginosa", ma anche alla sua capacità notturna di fertilità. La cosmogonia hindù suppone che la creazione avvenga attraverso la solidificazione - con la zangola cosmica del dio creatore - del mare di latte primordiale. Subentreranno, poi, altre accezioni nella tradizione occidentale:  si pensi solo all'iconografia delle due madri antitetiche, quella buona e giusta che allatta creature sante e quella perversa che allatta serpi velenose. Oppure alle curiose raffigurazioni su cui san Bernardo da Chiaravalle riceve da Maria il latte - come, nella mitologia, Eracle da Era - per evocare un segno di adozione filiale da parte della Madre del Signore e forse anche per succhiare un nutrimento di immortalità.

L'elemento radicale e generativo rimane, comunque, il "latte di Maria", espressione di una "sacralità umanizzata" e di un'umanità santificata. Non bisogna ignorare, infatti, che in particolare nell'arte della miniatura (i Libri d'Ore) non si aveva nessun imbarazzo nel rappresentare Maria in evidente stato di gravidanza:  talora Elisabetta, anch'essa incinta del Battista, non esitava a toccare il ventre di Maria durante la celebre scena della Visitazione, quasi per sentire i movimenti del piccolo Gesù in gestazione, mentre una sorta di fumetto citava le parole del Vangelo di Luca:  "Benedetta tu tra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!" (1, 42). La Chiesa etiopica usa ancor oggi nella liturgia un genere di inni detto malkee (effigie) nel quale si esaltano le parti del corpo di Maria, arrivando a descrivere fino a cinquantadue organi e benedicendo soprattutto il seno che ha allattato e il grembo che ha generato il Signore. 

A Betlemme, a destra di chi ammira il grandioso complesso della Basilica della Natività e gli annessi conventi greco e armeno, si apre una via che in inglese ha un nome significativo, Milk Grotto Road. Essa ha sul suo lato destro una chiesa francescana recentemente riedificata secondo un nuovo progetto disegnato dall'architetto e artista francescano Costantino Ruggeri, scomparso nel giugno 2007. Essa è unita a una grotta in tufo bianco, denominata appunto "la Grotta del latte". Secondo un'antica leggenda la madre di Gesù si sarebbe qui rifugiata durante la ricerca dei bambini betlemiti da parte di Erode e, mentre allattava il piccolo Gesù, qualche goccia del suo latte cadde sulla pietra imbiancandola tutta. La grotta attuale - che all'epoca dei crociati aveva accanto un convento latino che era considerato come fondato da Paola, la discepola di san Girolamo - è stata ed è ancor oggi meta di pellegrinaggi di madri anche musulmane che implorano da Maria l'abbondanza del latte per nutrire i neonati.

Le stesse reliquie del latte di Maria, diffuse in Italia, Francia e Spagna, nascevano probabilmente dalla devozione di pellegrini in Terrasanta che portavano in Europa questa tradizione e forse qualche frammento di quel tufo biancastro. Dal vii secolo si diffuse poi la tradizione che proprio nella grotta del latte fossero stati sepolti i santi Innocenti, assassinati da Erode.
Certo è che il canto alla figura di Maria che allatta il Salvatore, versando latte su quelle labbra che poi riceveranno fiele sulla croce, come esclama Romano il Melode (vi secolo), si diffonderà nei primi secoli cristiani, nella convinzione che quelle "mammelle hanno nutrito col loro latte Dio", come dirà nell'viii secolo Giovanni Damasceno. Clemente Alessandrino nel suo Pedagogo (i, 6) nel ii secolo stabilirà già un parallelo tra la Vergine Madre che allatta Gesù e la Chiesa che allatta e nutre i fedeli con "santo latte" della parola e del corpo di Cristo. E questo filo poetico e spirituale procederà nei secoli patristici con intensità e passione, come testimonia ad esempio un discorso del v secolo di Fausto, vescovo di Riez in Gallia, che vogliamo idealmente porre a suggello di questa nostra breve analisi tematica:  "O Maria, allatta il tuo Creatore! Allatta il pane del cielo, il riscatto del mondo:  offri la mammella a lui che la succhia (...) Il piccolo bambino si nutra con il latte del tuo seno".



(©L'Osservatore Romano - 1 gennaio 2009)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Guarda la stella, invoca Maria

di SERGIO GASPARI


«Vergine Madre,
figlia del tuo Figlio»



Come l’arte, anche la letteratura ha sentito potentemente in ogni epoca storica, il fascino della «Donna unicamente amata fra gli uomini» (G. De Luca), la Vergine Madre di Dio, e l’ha espresso con la sublimità stilistica della poesia. È stato detto, e non senza ragione, che un buon terzo della letteratura italiana è mariana.

Per il tempo di Pasqua abbiamo scelto Dante Alighieri (1265-1321), il più grande poeta dell’Occidente, nonché teologo di notevole spessore. Dante si ispira a san Bernardo di Chiaravalle, il dottore dei dottori mariani. Non a caso Bernardo è suo portavoce presso la Vergine (cf Paradiso, XXXI, 100-102), e poi Dante affida ancora a Bernardo il compito di pronunciare quella mirabile preghiera di lode e di invocazione alla Vergine che apre il canto XXXIII del Paradiso (vv. 1-45), titolata La preghiera di san Bernardo alla Vergine. In questa preghiera il poeta presenta Maria donna gloriosa al centro del fulgore beatificante del Paradiso. E nel tempo di Pasqua, radioso e gioioso, la Chiesa contempla la Madre del Risorto, quale stella sfolgorante attorno a Cristo, sole dell’era nuova che non tramonta.


Il soccorso della Vergine Madre all’uomo pellegrino. La teologia in Dante diventa poesia e la poesia teologia. Già nel ’300, Giovanni Boccaccio nel commento alla Divina Commedia, sosteneva che «la teologia e la poesia quasi una cosa sola si possono dire dove uno sia il soggetto: anzi dico di più, che la teologia niun’altra cosa è che la poesia di Dio [...]. Bene appare non solamente la poesia essere teologia, ma anche la teologia poesia» (in B. Matteucci, Per una teologia delle lettere, I, 1980, 36s.).

Nella storia della poesia italiana e mondiale la Divina Commedia è considerata un capolavoro letterario: in essa l’autore, che accoglie l’eredità spirituale e culturale del Duecento, arricchendola della chiara consapevolezza dei valori umani e terrestri (quasi un preludio del Rinascimento), elabora una visione totalizzante delle realtà cristiane, dove affiora una teologia ricca di tonalità mariana.

Nella Divina Commedia la figura di Maria è vista nel mistero della redenzione. La tesi fondamentale del capolavoro dantesco, che si presta a vari livelli di lettura, da quello descrittivo a quello simbolico, allegorico e metaforico, è l’esaltazione del ruolo di mediazione della Vergine: si va a Dio per Cristo, ma a Cristo per Maria. La prova di questa tesi è costituita dal viaggio di Dante, parabola del pellegrinaggio terreno dell’uomo verso il Cielo. La storia di Dante è la storia dell’uomo: caduta e grazia, peccato e purificazione, pellegrinaggio e storia, sigillati dalla più bella preghiera alla Vergine Madre, che tutto orienta, protegge, anima con la sua presenza attiva di mediatrice. Orbene questo viaggio ultraterreno di Dante verso l’ultima salute, verso il Cielo per la visione di Dio, avviene per Maria e con Maria. Si inizia nell’Inferno, dove ella appare donna di misericordia che invita alla conversione, si snoda attraverso la purificazione del Purgatorio, dove Maria appare donna di virtù da imitare, giunge alla gloria del Paradiso nel segno della Vergine gloriosa. Viaggio fantastico nei tre regni dell’oltretomba che si snoda con la non richiesta presenza soccorritrice di Maria nell’Inferno, con la sua esemplarità purificatrice nel Purgatorio, e si chiude in un cerchio perfetto nel Paradiso con la sollecitata intercessione materna.

Fra tutti i poeti, e non solo italiani, Dante ha intuito, con intelletto di fede, lo splendore della Vergine e lo ha espresso in questi versi. La sua mariologia si rifà a Bernardo, che ha il compito di guidarlo alla visione di Dio. Nel canto XXXI Bernardo si mette a disposizione di Dante: lo invita a guardare Maria, prima di accompagnarlo alla vista della gran luce di Dio. Raggiunto l’empireo, nel canto successivo Bernardo sollecita Dante: «Riguarda omai nella faccia che a Cristo / più si somiglia, ché la sua chiarezza / sola ti può disporre a veder Cristo» (Paradiso, XXXII, 85-87).

Dante obbedisce e vede che nel Paradiso la Vergine Madre è al centro del fulgore beatificante. L’arcangelo Gabriele, nella letizia degli angeli che si riversa su di lei, come all’Annunciazione, la saluta: «Ave, Maria, gratia plena». E tutta la corte celeste si associa al saluto in un crescendo di diffusa beatitudine. Il momento di vedere Dio è giunto; urge il soccorso della Vergine coronata dal volo osannante degli angeli, e Bernardo così prega: «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio».


Paradiso: la gloria della Vergine (da La Divina Commedia, tavola di Nino e Silvio Gregori, Famiglia Cristiana, 1992).

Guida luminosa verso la gran luce di Dio. Questa preghiera, composta di quindici terzine, ed eco fedele della liturgia e della fede ecclesiale, rivela una rara precisione dogmatica. Maria è la «Vergine Madre» del Figlio di Dio, e Regina che nobilita la natura umana decaduta (cf vv. 1-5), colei che fa rifiorire l’Eden del paradiso terrestre. «Nel ventre tuo si raccese l’amore» (v. 7): così è germinato Cristo fiore dell’umanità nuova (vv. 6-9).

Da sempre prevista da Dio Padre «termine fisso d’etterno consiglio» (v. 3) e novella Eva, ella è collaboratrice di Cristo nuovo Adamo. «Quasi aurora consurgens» e foriera del «Sole di giustizia» (Mal 3,20) ella avvera l’oracolo del profeta (Is 7,14). Nell’ordine della grazia, lei è «Figlia del suo Figlio» (v. 1, espressione mutuata dal Concilio Toletano XI, 48, del 685; cf Denzinger 536): così la creatura del Logos è divenuta la Madre del Logos incarnato: «’l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura» (vv. 5-6).

Questa è la grandezza umile della Vergine, «umile e alta più che creatura» (v. 2). Umile perché obbediente a Dio (nel Purgatorio X, 28-45 Dante ha dipinto l’Annunciazione come sublime esempio di umiltà) e grande perché quaggiù è per noi «meridiana face» (v.10): volto visibile della bontà invisibile di Dio.

La Donna gloriosa del cielo («tanto grande e tanto vali»: v. 13) è necessaria per giungere alla visione beatifica di Dio. Mediatrice di grazia, avvocata tenera e pietosa («In te misericordia, in te pietate»: v. 19) che si protende sulla terra e protegge i figli dell’esilio. Pregata da Bernardo e coralmente da tutti i beati («Beatrice con quanti beati»: v. 38), ella ottiene al peccatore di «levarsi più alto verso l’ultima salute» (vv. 26-27).

Se per Bernardo Maria è la scala per salire a Dio, per san Francesco la misteriosa interlocutrice, "termine medio" tra Dio e l’uomo, per Dante, che riprende il pensiero di Bernardo, ella è mediatrice verso il porto della salvezza, fonte di speranza certa: «Giuso, intra ’ mortali, / se’ di speranza fontana vivace» (vv. 11-12) e tenera interceditrice presso il Figlio: chi vuol «grazia e a te non ricorre,/ sua disianza vuol volar sanz’ali» (vv.14-15). Se già nell’Inferno Maria, non invocata, corre in aiuto del poeta, ora «la tua benignità [...] liberamente al dimandar precorre» (vv. 16-18). Dante difatti confessa esplicitamente il suo ricorso costante alla Vergine: «Il nome del bel fior ch’io sempre invoco / e mane e sera» (Paradiso, XXIII), e san Bernardo chiede alla "Donna" per lui «che conservi sani, / dopo tanto veder, li affetti suoi» (vv. 35-36).

Questa splendida preghiera alla Vergine di san Bernardo rafforza l’animo del fuggiasco Dante per "sopportare" la visione diretta di Dio. Dopo il buio e i lamenti dell’Inferno, la penombra e la mestizia del Purgatorio, dopo tanto pellegrinar egli giunge alla visione beata del Paradiso, dove contempla la Regina circondata dai cori angelici e dalle luci della gloria celeste.

Sergio Gaspari, smm


Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.

In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna quantunque
in creatura è di bontate.


Paradiso, canto XXXIII



[SM=g1740734] [SM=g1740750]


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[SM=g1740733] Vi invitiamo a riscoprire o scoprire il Trattato della Vera Devozione a Maria

cristianicattolici.freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd... [SM=g1740722]

e se volete a visitare il sito del Movimento Domenicano del Rosario:
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org

Il testo della canzone è il seguente:

it.gloria.tv/?media=80273

Ave Maria Mia
(di M. Viaggi)

Ave, Ave, Ave Maria, mia

Ave Maria, soltanto, soltanto mia!

- T'arrivi col fumo d'incenso

la forza del mio "ti penso";

metto nelle Tue mani

le mie speranze, il mio domani,

certa che Tu ascolti una preghiera in più.

Ave, Ave, Ave Maria...

- Come petali le note raccogli già,

il vento le porta da qua;

di quanti Figli hai

non ne abbandoni mai.

Fiamma di candela che accendo

che accendo col pensiero a Te

che la mia vita difendi col Tuo Velo.

Ave, Ave, Ave Maria....








[SM=g1740738]


[SM=g1740717] [SM=g1740720] [SM=g1740750] [SM=g1740752]

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L’UMILTA’ DI MARIA (da “LE GLORIE DI MARIA” di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori)




Sant'Agostino dice che per ottenere con più sicurezza e abbondanza il favore dei santi bisogna imitarli, perché vedendo che noi pratichiamo le virtù da loro esercitate, essi sono più portati a pregare per noi. Maria, la regina dei santi e la nostra prima avvocata, dopo aver sottratto un'anima dagli artigli di Lucifero e averla unita a Dio, vuole che quest'anima cerchi d'imitarla, altrimenti non potrà arricchirla delle sue grazie come vorrebbe, vedendola con­traria ai suoi comportamenti.
Perciò la Vergine chiama beati quelli che imitano diligentemente la sua vita: "Ora, figli, ascoltatemi: beati quelli che seguono le mie vie!" (Prov.8,32).
Chi ama, o è simile o cerca di rendersi simile alla persona amata, secondo il celebre proverbio: "L'amore trova o fa uguali". Perciò San Girolamo ci esorta dicendo che se noi amiamo Maria, dobbiamo cercare d'imitarla, perché questo è il maggiore omaggio che possiamo offrirle.
Riccardo di San Lorenzo afferma che sono e possono chiamarsi veri figli di Maria quelli che cercano di imitare la sua vita. Dunque, conclude San Bernardo, il figlio si sforzi di imitare la Madre, se desidera il suo favore; poiché allora, vedendosi onorata come madre, Maria lo tratterà e favorirà come figlio.

In quanto poi alle virtù di questa Madre, anche se i Vangeli non ne riportano molti dettagli, tuttavia, dato che vi si dice che fu piena di grazia, comprendiamo facilmente che Maria ebbe tutte le virtù e tutte in grado eroico. San Tommaso dice: "Ciascuno degli altri santi ha primeggiato in una virtù particolare: uno fu soprattutto casto, un altro fu soprattutto umile, un altro fu soprattutto misericordioso. Ma la beata Vergine ci è stata data come esempio di tutte le virtù". E Sant'Ambrogio afferma: "Così fu Maria, perché la sua vita fosse di esempio a tutti". Perciò il Santo ci lasciò scritto: "Come in un'immagine rifulga in voi la verginità e la vita di Maria, nella quale risplende ogni forma di virtù. Da lei attingete gli esempi di vita... ciò che dovete correggere, ciò che dovete evitare, ciò a cui dovete aderire".

E poiché, come insegnano i santi padri, l'umiltà è il fondamento di tutte le virtù, vediamo in primo luogo quanto fu grande l'umiltà della Madre di Dio.


L'UMILTA’ DI MARIA

"L'umiltà è fondamento e custode delle virtù", dice San Bernardo, e con ragione. Senza umiltà, infatti, non vi può essere alcun'altra virtù in un'anima. Anche se essa possiede tutte le virtù, tutte verranno meno se viene meno l'umiltà. Al contrario, come San Francesco di Sales scrisse alla beata suor Giovanna di Chantal, Dio ama tanto l'umiltà, che subito accorre dove la vede. Questa bella virtù così necessaria era sconosciuta nel mondo, ma il Figlio stesso di Dio venne ad insegnarla sulla terra con il suo esempio e volle che specialmente in essa noi cercassimo d'imitarlo: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore" (Mt.11,29). Come fu la prima e più perfetta discepola di Gesù Cristo in tutte le virtù, così Maria lo fu anche nell'umiltà, per cui meritò di essere esaltata sopra tutte le creature. Fu rivelato a santa Matilde che la prima virtù esercitata dalla Vergine fin dalla fanciullezza fu l'umiltà.

Il primo atto dell'umiltà di cuore è avere un basso concetto di sé. Maria ebbe sempre un così basso concetto di se stessa, come fu ugualmente rivelato a Santa Matilde, che, pur vedendosi arricchita di grazie più degli altri, non si mise mai al di sopra di nessuno.
Spiegando quel passo del Cantico dei Cantici: "Mi hai ferito il cuore, sorella mia sposa... con un solo capello del tuo collo" (Ct.4,9 Vulg.), l'abate Ruperto dice che questo capello del collo della sposa fu appunto l'umile concetto che Maria ebbe di sé, con cui ferì il cuore di Dio; "che cosa c’è infatti più sottile di un capello?". Non già che la santa Vergine si stimasse peccatrice, perché l'umiltà è verità, come dice Santa Teresa, e Maria sapeva di non aver mai offeso Dio. Non che non confessasse di aver ricevuto da Dio maggiori grazie di tutte le altre creature, perché un cuore umile ben riconosce i favori speciali del Signore per umiliarsi ancor più; ma la divina Madre, alla luce più grande che aveva per conoscere l'infinita grandezza e bontà del suo Dio, conosceva meglio la sua piccolezza. Perciò si umiliava più di ogni altro e con la sposa del Cantico dei Cantici diceva: "Non guardate che io sono bruna, perché mi ha abbronzato il sole" (Ct.1,6). San Bernardo commenta: "In confronto al suo splendore, mi trovo nera". Infatti, dice San Bernardino, "la Vergine aveva sempre un rapporto attuale con la divina maestà e con il proprio niente". Come una mendicante, se indossa una ricca veste che le è stata donata, non se ne insuperbisce, ma nel vederla tanto più si umilia davanti al suo donatore perché più si ricorda della sua povertà, così Maria, quanto più si vedeva arricchita, tanto più si umiliava, ricordandosi che tutto era dono di Dio. La Vergine stessa disse alla benedettina Santa Elisabetta: "Sappi che io mi ritenevo la creatura più spregevole e indegna della grazia di Dio". San Bernardino afferma: "Come nessuna creatura, dopo il Figlio di Dio, s'innalzò sulle vette della grazia quanto Maria, così nessuna creatura scese più in basso nell'abisso dell'umiltà".

Inoltre è atto di umiltà nascondere i doni celesti. Maria volle tacere a San Giuseppe la grazia di essere divenuta Madre di Dio, anche se pareva necessario informarlo, per dissipare i sospetti che lo sposo poteva avere sulla sua onestà vedendola incinta, o almeno per liberarlo dal tur­bamento. San Giuseppe infatti, non potendo dubitare della castità di Maria e d'altra parte ignorando il mistero, "decise di rimandarla in segreto" (Mt.1,19); e, se l'angelo non gli avesse rivelato che la sposa aveva concepito per opera dello Spirito Santo, l'avrebbe lasciata.

Inoltre l'umile rifiuta le lodi per sé e le riferisce tutte a Dio. Maria si turbò nel sentirsi lodare dall'angelo Gabriele e quando santa Elisabetta le disse: "Benedetta tu fra le donne... A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me?... Beata colei che ha creduto... " (Lc.1), la Vergine, attribuendo tutte quelle lodi a Dio, rispose con l'umile cantico: "L'anima mia magnifica il Signore". Come se dicesse: Elisabetta, tu lodi me, ma io lodo il Signore a cui solo è dovuto l'onore. Tu ammiri che io venga a te; io ammiro la divina bontà: "il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore". Tu mi lodi perché ho creduto; io lodo il mio Dio che ha voluto esaltare il mio niente: "perché ha guardato l'umiltà della sua serva" (Lc.1,46-48). Maria disse a Santa Brigida: "Perché mi umiliavo tanto e ho meritato tanta grazia, se non perché ho saputo e pensavo di non essere e di non avere niente? Perciò non volli la mia lode, ma soltanto quella del donatore e del creatore". Parlando dell'umiltà di Maria, Sant'Agostino esclama: "O beata umiltà, che donò Dio agli uomini, aprì il paradiso e liberò le anime dagli inferi".

È proprio degli umili il servire, e Maria non esitò ad andare a servire Elisabetta per tre mesi. Dice dunque San Bernardo: "Elisabetta si meravigliava che Maria fosse venuta, ma ancor più si stupisca che sia venuta non per essere servita, ma per servire".

Gli umili se ne stanno in disparte e si scelgono il posto peggiore. Perciò Maria, osserva San Bernardo, quella volta che Gesù stava predicando in una casa (Mt.12), desiderava parlargli ma "non volle interrompere il discorso di suo Figlio con la sua autorità di madre e non entrò nella casa in cui egli parlava". Per la stessa ragione, stando nel cenacolo con gli apostoli, Maria volle mettersi all'ultimo posto. Leggiamo in San Luca: "Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù" (At.1,14). Non che San Luca non conoscesse i meriti della divina Madre, per cui avrebbe dovuto nominarla in primo luogo; ma poiché Maria si era messa all'ultimo posto nel cenacolo, dopo gli apostoli e le altre donne, San Luca menziona tutti i presenti secondo l'ordine in cui stavano collocati. È questo il pensiero di un autore. Dice San Bernardo: "Giustamente l'ultima è diventata la prima perché, pur essendo la prima di tutti, si comportava come se fosse l'ultima".

Infine gli umili amano le manifestazioni di disprezzo. Perciò non si legge che Maria fosse presente in Gerusalemme quando nella Domenica delle palme il Figlio fu ricevuto dal popolo con tanti onori. Invece al momento della morte di Gesù la Vergine non si astenne dal comparire in pubblico sul Calvario, affrontando il disonore di esse­re riconosciuta come madre del condannato, che moriva da infame con una morte infame. Maria disse a santa Brigida: "Che cosa c'è di più spregevole di essere considerata incapace, di avere bisogno di tutto e di credersi la più indegna di tutti? Tale, o figlia, fu la mia umiltà, questa la mia gioia e questa la mia volontà, perché non avevo altro pensiero che di piacere unicamente a mio Figlio".

Alla venerabile suor Paola da Foligno fu dato in un'estasi di comprendere quanto fu grande l'umiltà della Santa Vergine. Parlandone al suo confessore, la religiosa, piena di stupore, diceva: "Ah padre, l'umiltà della Madonna! Nel mondo non vi è neppure un minimo grado di umiltà in confronto a quella di Maria". Una volta, il Signore fece vedere a Santa Brigida due dame, una tutta fasto e vanità. "Questa, le disse, è la superbia. L'altra che vedi, con atteggiamento modesto, rispettosa verso tutti, con il pensiero rivolto unicamente a Dio e che si considera come un niente, è l'umiltà e si chiama Maria". Dio volle in tal modo manifestarci che la sua beata Madre era così umile, che era l'umiltà stessa.

È certo che per la nostra natura corrotta dal peccato non c'è forse, dice San Gregorio Nisseno, nessuna virtù più difficile da praticare che l'umiltà. Ma non c'è altra via: non potremo mai essere veri figli di Maria se non siamo umili. Dice San Bernardo: "Se non puoi imitare la verginità dell'umile, imita l'umiltà della Vergine". Ella aborrisce i superbi, chiama a sé soltanto gli umili: "Chi è fanciullo venga a me" (Prov.9,4). Riccardo di San Lorenzo afferma: "Maria ci protegge sotto il mantello dell'umiltà". La Madre di Dio stessa così parlò a Santa Brigida: "Anche tu, figlia mia, vieni e nasconditi sotto il mio mantello; questo mantello è la mia umiltà". Poi disse che la considerazione della sua umiltà è un buon mantello che riscalda. Ma come il mantello non riscalda se non chi lo porta, non solo con il pensiero, ma anche in opera, così, aggiunse, "la mia umiltà non giova, se non ci si sforza di imitarla. Perciò, figlia mia, rivestiti di questa umiltà". Quanto sono care a Maria le anime umili! San Bernardo scrive: "La Vergine riconosce e ama quelli che la amano ed è vicina a coloro che la invocano, specialmente a quelli che vede conformi a sé nella castità e nell'umiltà". Perciò il santo esorta tutti coloro che amano Maria ad essere umili: "Sforzatevi di emulare questa virtù, se amate Maria". Martino d'Alberto della Compagnia di Gesù per amore della Vergine era solito scopare il convento e raccoglierne le immondizie. Una volta, riferisce il padre Nierembergh, gli apparve la divina Madre e ringraziandolo gli disse: "Quanto mi è cara quest'azione fatta per amor mio!".

Dunque, mia Regina, non potrò mai essere tuo vero figlio se non sono umile. Ma non vedi che i miei peccati dopo avermi reso ingrato verso il mio Signore mi hanno fatto diventare anche superbo? Madre mia, poni tu rimedio alla mia situazione: per i meriti della tua umiltà ottienimi di essere umile, divenendo così figlio tuo. Amen.

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori

vedi: Sant’Alfonso Maria de’ Liguori
         
DISCORSO I. - Dell'Immacolata Concezione di Maria.


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27/07/2013 22:48
 
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[SM=g1740758] Il discorso del Papa ai vescovi brasiliani sulla missione della Chiesa oggi è intessuto di espressioni che recano chiaramente la sua impronta, nei contenuti non meno che nello stile. Anzitutto va sottolineata la lunghezza, del tutto inusuale per Francesco: il testo letto ai presuli di questo immenso Paese (che conta il maggior numero di cattolici e di diocesi al mondo) è una riflessione che parlando al Brasile in realtà allarga gli orizzonti a tutta la Chiesa.

E’ di fatto la prima sistematizzazione della visione della Chiesa di Papa Bergoglio. Il Papa ricorre a due immagini: il rinvenimento miracoloso ormai 300 anni fa dell’immagine mariana venerata ad Aparecida come patrona del Brasile e i discepoli di Emmaus.
Riportiamo qui a seguire i passi riguardanti la storia della Virgen di Aparecida estratti dal DOCUMENTO.....





Aparecida: chiave di lettura per la missione della Chiesa

In Aparecida, Dio ha offerto al Brasile la sua propria Madre. Ma, in Aparecida, Dio ha dato anche una lezione su Se stesso, circa il suo modo di essere e di agire. Una lezione sull’umiltà che appartiene a Dio come tratto essenziale, è nel DNA di Dio. C’è qualcosa di perenne da imparare su Dio e sulla Chiesa in Aparecida; un insegnamento che né la Chiesa in Brasile, né il Brasile stesso devono dimenticare.
All’inizio dell’evento di Aparecida c’è la ricerca dei poveri pescatori. Tanta fame e poche risorse. La gente ha sempre bisogno di pane. Gli uomini partono sempre dei loro bisogni, anche oggi.
Hanno una barca fragile, inadatta; hanno reti scadenti, forse anche danneggiate, insufficienti. Prima c’è la fatica, forse la stanchezza, per la pesca, e tuttavia il risultato è scarso: un fallimento, un insuccesso. Nonostante gli sforzi, le reti sono vuote.

Poi, quando vuole Dio, Egli stesso subentra nel suo Mistero. Le acque sono profonde e tuttavia nascondono sempre la possibilità di Dio; e Lui è arrivato di sorpresa, forse quando non era più atteso. La pazienza di coloro che lo attendono è sempre messa alla prova. E Dio è arrivato in modo nuovo, perché può sempre reinventarsi: un’immagine di fragile argilla, oscurata dalle acque del fiume, anche invecchiata dal tempo. Dio entra sempre nelle vesti della pochezza.
Ecco allora l’immagine dell’Immacolata Concezione. Prima il corpo, poi la testa, poi il ricongiungimento di corpo e testa: unità.
Quello che era spezzato riprende l’unità. Il Brasile coloniale era diviso dal muro vergognoso della schiavitù. La Madonna Aparecida si presenta con il volto negro, prima divisa, poi unita nelle mani dei pescatori.

C’è un insegnamento perenne che Dio vuole offrire. La sua bellezza riflessa nella Madre, concepita senza peccato originale, emerge dall’oscurità del fiume. In Aparecida, sin dall’inizio, Dio dona un messaggio di ricomposizione di ciò che è fratturato, di compattazione di ciò che è diviso. Muri, abissi, distanze presenti anche oggi sono destinati a scomparire. La Chiesa non può trascurare questa lezione: essere strumento di riconciliazione.

I pescatori non disprezzano il mistero incontrato nel fiume, anche se è un mistero che appare incompleto. Non buttano via i pezzi del mistero. Attendono la pienezza. E questa non tarda ad arrivare. C’è qualcosa di saggio che dobbiamo imparare. Ci sono pezzi di un mistero, come tessere di un mosaico, che incontriamo e vediamo. Noi vogliamo vedere troppo in fretta il tutto e Dio invece si fa vedere pian piano. Anche la Chiesa deve imparare questa attesa.

Poi, i pescatori portano a casa il mistero. La gente semplice ha sempre spazio per far albergare il mistero. Forse abbiamo ridotto il nostro parlare del mistero ad una spiegazione razionale; nella gente, invece, il mistero entra dal cuore. Nella casa dei poveri Dio trova sempre posto.
I pescatori “agasalham”: rivestono il mistero della Vergine pescata, come se lei avesse freddo e avesse bisogno di essere riscaldata. Dio chiede di essere messo al riparo nella parte più calda di noi stessi: il cuore. Poi è Dio a sprigionare il calore di cui abbiamo bisogno, ma prima entra con l’astuzia di colui che mendica. I pescatori coprono quel mistero della Vergine con il manto povero della loro fede. Chiamano i vicini per vedere la bellezza trovata; si riuniscono intorno ad essa; raccontano le loro pene in sua presenza e le affidano le loro cause. Consentono così che le intenzioni di Dio si possano attuare: una grazia, poi l’altra; una grazia che apre ad un’altra; una grazia che prepara un’altra. Dio va gradualmente dispiegando l’umiltà misteriosa della sua forza.

C’è da imparare tanto da questo atteggiamento dei pescatori. Una Chiesa che fa spazio al mistero di Dio; una Chiesa che alberga in se stessa tale mistero, in modo che esso possa incantare la gente, attirarla. Solo la bellezza di Dio può attrarre. La via di Dio è l’incanto, il fascino. Dio si fa portare a casa. Egli risveglia nell’uomo il desiderio di custodirlo nella propria vita, nella propria casa, nel proprio cuore. Egli risveglia in noi il desiderio di chiamare i vicini per far conoscere la sua bellezza. La missione nasce proprio da questo fascino divino, da questo stupore dell’incontro. Parliamo di missione, di Chiesa missionaria. Penso ai pescatori che chiamano i loro vicini per vedere il mistero della Vergine. Senza la semplicità del loro atteggiamento, la nostra missione è destinata al fallimento.

La Chiesa ha sempre l’urgente bisogno di non disimparare la lezione di Aparecida, non la può dimenticare. Le reti della Chiesa sono fragili, forse rammendate; la barca della Chiesa non ha la potenza dei grandi transatlantici che varcano gli oceani. E tuttavia Dio vuole manifestarsi proprio attraverso i nostri mezzi, mezzi poveri, perché è sempre Lui che agisce.

Cari Fratelli, il risultato del lavoro pastorale non si appoggia sulla ricchezza delle risorse, ma sulla creatività dell’amore. Servono certamente la tenacia, la fatica, il lavoro, la programmazione, l’organizzazione, ma prima di tutto bisogna sapere che la forza della Chiesa non abita in se stessa, bensì si nasconde nelle acque profonde di Dio, nelle quali essa è chiamata a gettare le reti. Un’altra lezione che la Chiesa deve ricordare sempre è che non può allontanarsi dalla semplicità, altrimenti disimpara il linguaggio del Mistero e non solo resta fuori dalla porta del Mistero, ma non riesce neppure ad entrare in coloro che dalla Chiesa pretendono quello che non possono darsi da sé, cioè Dio stesso. A volte, perdiamo coloro che non ci capiscono perché abbiamo disimparato la semplicità, importando dal di fuori anche una razionalità aliena alla nostra gente. Senza la grammatica della semplicità, la Chiesa si priva delle condizioni che rendono possibile “pescare” Dio nelle acque profonde del suo Mistero.

Un ultimo ricordo: Aparecida è comparsa in un luogo di incrocio. La strada che univa Rio, la capitale, con San Paolo, la provincia intraprendente che stava nascendo, e Minas Gerais, le miniere molto ambite dalle Corti europee: un crocevia del Brasile Coloniale. Dio appare negli incroci. La Chiesa in Brasile non può dimenticare tale vocazione inscritta in sé fin dal suo primo respiro: essere capace di sistole e diastole, di raccogliere e diffondere.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Maria nei Concili di Calcedonia (451) e Costantinopolitano II (553)
Inserito da latheotokos Lunedi 21 Luglio 2014, alle ore 10:36:17

Dallo studio di Luigi Gambero, Maria negli antichi Concili, in Enrico dal Covolo e Aristide Serra (a cura di), Storia della Mariologia. Vol. 1 dal modello biblico al modello letterario, Marianum - Città Nuova, Roma 1998, pp.479-487.



4. Il CONCILIO DI CALCEDONIA (451) 

Nel periodo postefesino si andava bensì costituendo un'adesione crescente intorno alla Formula di riunione, ma d'altra parte perduravano e andavano pure crescendo la difficoltà di conciliare moditanto diversi di intendere l'unione delle due nature nel soggetto Cristo, in un dibattito dottrinale aggravato da un ambiente ecclesiale irrequieto e talvolta tumultuoso, specialmente nel cristianesimo orientale. Una conseguenza di questa situazione è stato lo pseudo-concilio tenutosi ad Efeso nel 449, non riconosciuto dalla Chiesa e passato alla storia con il nome di "latrocinio di Efeso". L'imperatore Marciano, successore di Teodosio II, nel tentativo di superare una situazione piuttosto imbarazzante, decise la convocazione di un altro concilio da tenersi a Calcedonia (l'attuale Kadiköy), sul Mar di Marmara, nella chiesa di S. Eufemia. L'imperatore ottenne l'approvazione del papa Leone Magno, che inviò i suoi legati, e cosi l'8 ottobre 451 i 600 vescovi partecipanti poterono iniziare i loro lavori assembleari43. La questione fondamentale al centro delle discussioni continuava ad essere quella dell'unità della persona del Verbo Incarnato. Forte era la pressione dei seguaci della dottrina del defunto patriarca alessandrino Cirillo, molti dei quali erano monaci e insistevano per una soluzione di carattere apertamente monofisita. Essi infatti seguivano la guida e la dottrina di uno di loro, un certo Eutiche, influente egumeno di un grande monastero costantinopolitano di 300 monaci e divenuto il principale esponente della dottrina monofisita. Si professava convinto seguace di Cirillo; ne aveva sposato le tesi a proposito del Verbo Incarnato, ma le aveva spinte su posizioni radicali, che nella sostanza si opponevano antiteticamente alle tesi della cristologia nestoriana, ma negavano altresì la realtà della natura umana di Cristo dopo l'unione 
ipostatica. Eutiche era dotato di notevole abilità nel difendere e propagandare le sue idee e nell'appellarsi all'autorità del defunto patriarca Cirillo. Il primo provvedimento del concilio fu quello di annullare le decisioni dello pseudo-concilio efesino del 449, a causa della sua illegittima convocazione e delle sue conclusioni cristologiche inficiate da evidenti forme di monofisismo. Questa dottrina pretendeva bensì di opporsi alla cristologia di Nestorio, che tendeva ad affermare nel Verbo Incarnato una distinzione netta delle due nature, tanto da rischiare la tesi eretica della separazione totale tra il Cristo uomo e il Cristo Dio. Ma Eutiche accentuava talmente l'unione della natura umana con quella divina, da sostenere in conclusione la tesi dell'assorbimento totale della prima da parte della seconda. Su questa base, l'Incarnazione non poteva più essere considerata l'unione di due nature, quanto piuttosto la cancellazione di una di esse. Era evidente che la teoria proposta da Eutiche per spiegare il mistero dell'Incarnazione appariva gravemente lesiva della dottrina della salvezza insegnata dalla Chiesa, nonché assolutamente contraria alla tradizione dei santi Padri. Alcuni di questi avevano insegnato che soltanto ciò che è stato asssunto dal Cristo redentore può essere salvato . Se Cristo non avesse assunto una vera natura umana, come potrebbe esservi salvezza per l'uomo? L'Incarnazione sarebbe svuotata della sua finalità ed efficacia soteriologica. Il concilio ha preso in esame la seconda lettera inviata dal papa Leone Magno al patriarca di Costantinopoli Flaviano, nota come Tomus ad Flavianum, e ha deciso di adottare la lettera come documento dogmatico basilare per i suoi lavori. Ma il dibattito sul Tomus non ha praticamente avuto luogo perché, dopo la lettura del testo pontificio, i padri conciliari lo hanno unanimemente approvato per acclamazione. 

4.1. La cristologia del Tomus ad Flavianum45

Praticamente il Tomus riassume la cristologia della Chiesa occidentale, da Tertulliano ad Agostino, e non esita a propendere per una linea espositiva più aperta alla posizione degli Antiocheni. È un testo geniale che può valere quale esempio tipico di chiarezza e di precisione, qualità connaturali al pensiero latino. Dopo aver confutato le tesi monofisite di Eutiche, Leone non fa dichiarazioni dogmatiche nuove, ma con grande vigore e autorevolezza ripropone la cristologia che i santi Padri hanno insegnato e affidato alla viva tradizione della Chiesa. I contenuti dogmatici relativi alla persona del Verbo Incarnato comprendono sia gli errori da condannare che le dichiarazioni concernenti la dottrina della fede. Si ribadisce la condanna di alcune dottrine eretiche ben note: quella dei due soggetti o due figli nel Verbo Incarnato, di marca nestoriana, quelle sulla passibilità del Figlio, sulla mescolanza delle due nature e sulla provenienza celeste della carne di Cristo, tutte di origine apollinarista. Infine viene anatemizzata l'eresia monofisita delle due nature prima dell'unione ipostatica e di una sola natura dopo l'unione. Alla confutazione degli errori fa seguito una magistrale sintesi della dottrina ortodossa su Cristo, che contribuisce a rafforzare ulteriormente il prestigio e l'autorità del Simbolo niceno-costantinopolitano. Inizia con la riaffermazione della realtà e integrità della natura umana del Verbo Incarnato il quale, anche dopo l'unione, mantiene la distinzione delle due nature, unite tuttavia nella sua unica persona, e precisamente in una unionesenza confusione, senza mutazione, senza divisione e senza separazione. Si precisa inoltre che l'unione ipostatica non reca nessun pregiudizio alla differenza delle due nature, le quali mantengono ognuna le sue proprietà, sebbene le due nature siano unite in una sola persona (πρüσωπον) o sussistenza (υπüστασις). Quindi uno solo e identico è il Figlio unigenito, Dio, Verbo, Signore Gesù Cristo46. 

4.2. Riferimento alla Madre di Gesù

Siccome il concilio era tutto impostato sulla confutazione del monofisismo di Eutiche, per il quale la funzione materna di Maria nell'Incarnazione e l'attribuzione a lei del titolo di Theotokos non facevano problema, i padri conciliari nella Definitio fidei non ebbero motivo di insistere più di tanto sulla dottrina che la riguardava. Tuttavia il concilio ha in primo luogo adottato il Tomus del papa Leone Magno come suo documento principale e pertanto ne ha accolto pienamente i contenuti dottrinali, nei quali si fanno dei riferimenti alla Madre del Signore, a motivo del suo rapporto con la persona del Figlio. Vi si legge: «L'eterno Unigenito dell'eterno Padre è nato per opera dello Spirito Santo e della Vergine Maria. Questa nascita temporale non reca nessun pregiudizio alla generazione divina ed eterna e non le aggiunge nulla, ma è totalmente indirizzata all'obiettivo di procurare la salvezza dell'uomo, che era stato tratto in inganno. Cosi (Cristo) ha vinto la morte e ha distrutto il potere del demonio che teneva la morte sotto il suo dominio (cf. Eb 2, 14)»47. Il Tomus aggiunge, a commento di questo passo, due precisazioni che vogliono dare ulteriore chiarezza alla professione della fede. L'intervento dello Spirito Santo nell'Incarnazione ha solo causato ma non cambiato le modalità umane del concepimento e della nascita. Perciò il Verbo Incarnato ha tutte le qualità e le prerogative della natura umana. Si aggiunga che il Verbo ha assunto la natura umana in Maria fin dal primo istante del concepimento e che la sua umanità fu immediatamente e ipostaticamente unita alla divinità cosi da costituire con questa una sola persona. La seconda precisazione riguarda la relazione esistente tra la funzione di Maria, come Madre del Verbo fatto uomo, e la finalità soteriologica del mistero dell'Incarnazione, che è la salvezza del genere umano. Tale finalità era già stata esplicitata nel Simbolo niceno-costantinopolitano48

4.3. La Definitio fidei 

Oltre ad assumere il Tomus ad Flavianum come documento ufficiale e principale del concilio, i padri hanno voluto aggiungere un loro documento, che è una specie di sintesi delle verità di fede. In esso si legge un paio di volte il nome della Vergine; ma il richiamo a lei avviene in modo puramente occasionale. I padri conciliari erano alle prese con certi errori dogmatici che occorreva necessariamente censurare; errori nei quali la Madre del Signore non poteva non essere coinvolta. Un richiamo si trova nel passo in cui viene condannato il rifiuto degli antiocheni di chiamare MariaTheotokos; il secondo riguarda l'errore dei monofisiti i quali, pur accettando il termine Theotokos,mancavano di chiarezza nel descrivere il rapporto della Madre con il Figlio divino, a causa della scarsa considerazione da loro attribuita alla natura umana di Cristo50. Il concilio riesce quindi ad evidenziare un fatto evidente ed importante: un errore contro la verità della Madre ha come conseguenza l'eresia circa la persona del Figlio o viceversa. Nella parte conclusiva e riassuntiva della Definitio, la generazione di Cristo da Maria è messa in parallelo con la generazione eterna del Verbo dal Padre. Ambedue le generazioni offrono un'assoluta garanzia: l'una della perfetta umanità del Figlio della Vergine, l'altra della sua consostanzialità con il Padre e pertanto della sua piena divinità51. Per fare un breve bilancio dell'apporto dogmatico di questo concilio, dobbiamo ammettere che Calcedonia non sembra aver introdotto nella storia della teologia cristiana nuovi sviluppi o chiarimenti in relazione alla funzione della Vergine nei confronti del Verbo Incarnato. Un contributo può essere tuttavia individuato nella decisa affermazione della definitiva unione personale della natura umana di Cristo con la sua divinità. Solo in questo caso anche la condizione e la funzione materna della Theotokos possono essere considerate una realtà definitiva; altrimenti, se fosse vero che l'umanità di Cristo sia stata assorbita dalla divinità e quasi cancellata nel mistero dell'unione ipostatica, come potrebbe il termine Theotokos indicare una realtà tuttora presente nella persona della Vergine? Si tratterebbe di una semplice allusione ad un evento ormai appartenente alla storia passata. 



5. IL CONCILIO COSTANTINOPOLITANO II (553) 

La celebrazione di questo concilio è una dimostrazione eclatante della politica cesaropapista esercitata dalla corte bizantina nei confronti della Chiesa. Su pressione dei vescovi occidentali, specialmente africani, papa Vigilio aveva ritrattato lo Iudicatum dell'11 aprile 548, con il quale aveva condannato i Tre Capitoli, ossia la dottrina cristologica di tre vescovi della Chiesa orientale, Teodoro di Mopsuestia († 428), Teodoreto di Ciro (†466ca) e Ibas di Edessa († dopo 457), teologi di formazione antiochena. L'imperatore Giustiniano, preoccupato di trovare un compromesso con i monofisiti, reagì minacciosamente, cercando di costringere il papa a tornare sulle sue decisioni. In un primo momento Vigilio si oppose alle pretese di Giustiniano, non ritenendo giusto condannare tre vescovi ormai defunti da oltre un secolo e perché in ultima analisi la loro cristologia non sembrava cosi eterodossa come gli ambienti monofisiti volevano far credere. Col tempo tuttavia non seppe resistere alle pressioni di Giustiniano e finì per chiedere egli stesso all'imperatore la convocazione di un concilio al quale demandare la soluzione dell'annoso problema dei Tre Capitoli. Giustiniano accolse il suggerimento, ma costrinse il papa a recarsi a Costantinopoli, nell'intento di esercitare una più forte pressione su di lui. 

5.1. La controversia dei Tre Capitoli 

stato questo dunque il motivo primordiale per la convocazione del concilio. La controversia si trascinava da oltre un secolo intorno alla dottrina dei suddetti tre famosi autori orientali sullo statuto ontologico del Verbo Incarnato; ma l'accusa di eresia nei riguardi della loro cristologia sembrava per lo meno discutibile, per cui papa Vigilio continuava a mostrarsi restio a pronunciare una condanna. Invece il concilio giudicò eretica e pericolosa per la fede la loro posizione teologica in tema di cristologia, specialmente quella di Teodoro di Mopsuestia, ritenuta infetta di nestorianesimo. Su pressione di Giustiniano, che mirava ad una soluzione di compromesso accettabile anche da parte dei monofisiti, papa Vigilio dovette confermare la condanna di Teodoro, Teodoreto e Ibas, condanna gradita ai monofisiti, ma ingiustamente comminata contro i tre vescovi. In realtà tutta questa controversia e le sue soluzioni conciliari non offrivano nessun elemento di novità, per cui la condanna del Costantinopolitano II nei contronti dei Tre Capitoli non poté far altro che colpire la vecchia dottrina di sapore antiocheno dei due soggetti in Cristo, già indirettamente esclusa dalla definizione di Calcedonia. 

5.2. La posizione della Madre di Dio 

La vecchia eresia dei due soggetti in Cristo, esplicitamente o implicitamente, chiamava in causa anche la persona della Madre sua, perché riduceva il suo ruolo a madre di un semplice uomo. Su questo punto il concilio non ha fatto altro che ribadire la definizione di Calcedonia e, per conseguenza, anche la posizione della Vergine Maria veniva a trovarsi nuovamente intesa nel suo significato ortodosso di Theotokos. Infatti nella Sententia adversus Tria Capitula, il documento conciliare vero e proprio ratificato anche da Vigilio l'8 dicembre 554, si incontrano un paio di passi che fanno riferimento a lei. Nel primo passo Maria non viene nominata, ma le verità cristologiche in questione la riguardano direttamente, perché vi si ribadisce l'unicità della persona di Cristo, che è il presupposto fondamentale della sua maternità divina. Il testo, molto esteso e dettagliato, è redatto in uno stile fortemente polemico contro i teologi dei Tre Capitoli: «Anatematizziamo coloro che dicono esservi due figli e due Cristi. Uno infatti, come si è affermato, è il Cristo che noi e voi predichiamo, il Figlio, il Signore, unigenito in quanto uomo»52. Evidentemente neppure i teologi antiocheni avrebbero mai affermato che vi sono due Cristi; ma, secondo gli alessandrini, la loro tendenza a sottolineare forse eccessivamente la distinzione delle due nature, poteva facilitare il rischio di indurre i credenti a cadere in tale gravissimo errore. Nel secondo passo, in cui si condannano i negatori della realtà dell'Incarnazione e in particolare Ibas di Edessa, Maria viene esplicitamente nominata quale prova testimoniale della realtà del mistero del Dio fatto uomo: «Anatematizziamo l'empia lettera che, si dice, Ibas avrebbe scritto a Peri il Persiano, nella quale si nega che il Verbo Dio si sia incarnato e fatto uomo nella santa Madre di Dio e semprevergine Maria»53. Si precisa inoltre che una simile dottrina non farebbe altro che ripristinare l'eresia di Apollinare di Laodicea, il quale avrebbe sostenuto l'origine celeste della carne di Cristo. Si può osservare come i due testi dimostrino il sostegno che la cristologia e la mariologia sono in grado di scambiarsi reciprocamente. Nel primo testo si può vedere come l'unità della persona del Verbo Incarnato stia alla base del carattere divino della maternità della Vergine, mentre nel secondo è la maternità reale di Maria a garantire la verità dell'Incarnazione del Verbo. Segue l'esposizione di 14 anatemi, tre dei quali nominano la Vergine e trattano di lei. Nel secondo si condanna l'errore di chi nega la duplice generazione di Cristo, quella eterna dal Padre e quella temporale dalla Madre, dalla quale ha preso veramente la carne. Può essere che il concilio intendesse bandire il noto vecchio errore secondo il quale Cristo sarebbe soltanto passato attraverso la Madre, senza prendere nulla da lei 54. Il terzo anatema ritorna sulla condanna della teoria dei due figli, ossia del Verbo divino generato dal Padre e del Cristo uomo nato dalla madre55. Il sesto anatema condanna coloro che rifiutavano la dichiarazione efesina su Maria vera ed autentica Theotokos. La condanna è indirizzata direttamente a Teodoro di Mopsuestia, che avrebbe preteso di sostituire il termine con anthropotokos o christotokos56Comunque sull'ortodossia dell'appellativo christotokos si potrebbe anche convenire, perché il termine di per sé non è esclusivo di theotokos, dal momento che indica la persona del Verbo Incarnato, vero Dio e vero uomo. Il Concilio Costantinopolitano II non sembra aver introdotto delle novità nella dottrina e nel dibattito teologico allora in corso. Unica novità può essere considerato il tentativo di Giustiniano di eliminare gli attriti tra le due celebri scuole teologiche che da secoli si avversavano e che erano causa di divisioni e di polemiche nella cristianità.

NOTE
43 
Sugli eventi e i lavori del concilio, cf. ACO 2, 1-6; soprattutto l'opera monumentale di A. GRILLMEIER e H. BACHT, Das Konzil von Chalkedon. Geschichte und Gegenwart, 3 vol., Echter-Verlag, Wurzburg 1951-1954; B. SESBQUÉ, Storia dei dogmi, I, cit., pp. 309-376.

44 Origene aveva già scritto che l'essere umano non sarebbe stato salvato tutto intero se Cristo non avesse assunto l'uomo intero (Dialogo con Eraclide 7, 5-7; SC 67, 70). Ispirandosi ad Origene, Gregorio Nazianzeno fu il primo a formulare l'assioma: «Quello che non viene assunto (da Cristo), non può essere deificato» (Ep. 101, PG 37, 181).
45 Il testo latino di Leone è stato presentato ai padri conciliari in versione greca, la cui edizione critica è stata pubblicata da Schwartz in ACO, l, l, I, pp. 10-20. Cf. G. L. PRESTIGE,The Greek Translation of the Tome of St. Leo, in «Journal of Theological Studies» 31 (1929-1930), pp. 183-184. 
46 COD, p. 80.

47 ACO, 2,2, I, p. 25. 
48 Ibid., pp. 26-27.
49 COD, p. 84. 
50 Ibid., pp. 85 e 86. 
51 lbid., p. 62.
52 Ibid., p. 110.
53 Ibid., p. 113. 
54 Ibid., p. 114. 
55 Ibid. 
56 Ibid., pp. 116-117.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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