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I DIECI COMANDAMENTI...ragionati

Ultimo Aggiornamento: 07/02/2016 22:48
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Sesso: Femminile
19/06/2013 11:01
 
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5. «Non uccidere» (Esodo 20, 13)  

 

    Tra i diversi mali da cui la legge divina intende tenerci lontani, il massimo che possiamo recare al prossimo è quello di privarlo della vita. Ciò è espressamente proibito dal quinto comandamento.

    Vi sono state in proposito tre erronee interpretazioni.

    Taluni sostennero che non sia lecito uccidere neppure le bestie. Ma è falso, dato che non vi può essere alcun male nel [retto] uso delle creature che sono soggette al dominio dell'uomo. Rientra nel disegno naturale che le piante siano alimento per gli animali, come taluni di questi serviranno a nutrire gli altri, e tutto ciò che è commestibile è ordinato al sostentamento del genere umano. «Tutto ciò che si muove e che ha vita vi servirà da cibo: io vi do tutto questo, come vi detti l'erba verde» (Gn 9, 3). Anche Aristotele insegna, nel suo trattato di Politica, che la caccia va considerata alla stregua d'una giusta guerra.

    Anche san Paolo ci rassicura: «Mangiate di tutto quello che si vende al mercato, senza preoccuparvi di niente per scrupolo di coscienza, perché 'del Signore è la terra con tutto quello che essa contiene'» (I Cor 10, 25; cf. Sal 23, 1). Quindi il «non uccidere» equivale a non uccidere l'uomo.

     Altri hanno creduto di vedere nel precetto in questione il divieto assoluto di qualsiasi condanna a morte. Sarebbero degli omicidi, secondo costoro, gli stessi giudici secolari che comminassero, a norma di legge, la pena capitale. Li contraddice però Agostino, facendo notare come Dio non può perdere, a motivo del quinto comandamento, i suoi diritti sopra la vita umana. «Son io che posso far morire, e sempre io l'unico capace di ridar la vita» (Dt 32, 39). Di conseguenza è lecito anche a coloro che, per mandato divino, esercitano la giustizia. Agiscono in rappresentanza di Dio, dato che ogni [giusta] legge promana da lui: «È nel mio nome che regnano i re, e i magistrati applicano il diritto» (Prv 8, 15). Così ragiona l'Apostolo: «Vuoi non aver paura dell'autorità? Comportati bene e riceverai la sua approvazione. Se invece agisci male, temi; non per nulla porta la spada; essendo ministra di Dio, deve punire chi opera il male» (Rm 13, 3-4.). Anche a Mosè fu raccomandato [per il bene del popolo eletto]: «Non permettere che viva chi si è rivelato nocivo» (181). Facoltà analoga appartiene ai rappresentanti di Dio, che ne ricevano da lui il mandato. In altri termini, se Dio, autore della legge, non infrange la medesima infliggendo la pena di morte prevista per determinati peccati (182), non pecca chi ne esegue il volere. Senso autentico del precetto è dunque: «Non uccidere (di tua iniziativa)».

     Nel comandamento «non uccidere» altri vollero vederci la proibizione di attentare alla vita altrui: il suicidio così risulterebbe lecito. Citavano il caso di Sansone (cf. Gdc, 16, 28-30), di Catone (183), e di un certo numero di vergini [cristiane] che, come racconta Agostino nel De civitate Dei, si gettarono tra le fiamme [per sfuggire agli aggressori]. Ma è lo stesso dottore della Chiesa che formula un giudizio negativo: «Chi si uccide, uccide una persona umana». Ora, se non è lecito privare alcuno della vita, tranne che per comando divino, neppure può esser consentita l'uccisione di se stessi; a meno che non sia ancora Dio a ordinarlo o [lo consenta] mediante un impulso dello Spirito, come si crede avvenisse a Sansone. Diversamente: non uccidere e non ucciderti.

     Un uomo può divenire omicida in diversi modi. Fisicamente, macchiandosi le mani di sangue (cf. Is I, 15), il che non solo va contro il dovere di amare il prossimo come amiamo noi stessi (e un omicida si priva della grazia che è seme di vita eterna (cf. I Gv 3, 15), ma va contro l'istinto naturale. Difatti «ogni essere vivente è attratto da quelli della sua specie» (Sir 13, 19). Per questo, Dio prescrisse a Mosè di mettere a morte chi avesse percosso un altro, da farlo morire (cf. Es 21,12). L'assassino è più crudele del lupo, del quale si legge che rifiuta di cibarsi della carne di un suo simile (184).

     Anche con la bocca si può dare la morte, ad es. istigando qualcun altro a commettere omicidio, oppure ricorrendo alla provocazione, accusando [ingiustamente] o calunniando. È proprio vero che [spesso] «gli uomini hanno lance e saette al posto di denti, e per lingua una spada acuta» (Sal 56, 5).

    Dando manforte a chi non esita a versare il sangue. Ed equivale a condividere la responsabilità nel crimine (cf. Prv 1, 15) il frequentare uomini malvagi.

    Lo stesso si dica di chi approva l'operato di un [ingiusto] uccisore. «Chi fa cose inique - e fra le altre iniquità c'è l'omicidio - è degno di morte; e non solo chi le fa, ma anche chi le approva» (Rm 1, 32). E bada che tu dai il consenso quando, potendo intervenire, non fai nulla per sventare un delitto. «Libera chi [innocente] è condotto a morte» (Prv 24, 11). Casi analoghi: se ne hai i mezzi ma, per negligenza o avarizia, neghi il tuo soccorso a chi sta nel bisogno. «Dai da mangiare, scrive sant'Ambrogio, a chi muore di fame: se ti rifiuti, hai finito d'ucciderlo ».

    Abbiamo parlato di chi uccide una persona fisicamente. C'è anche chi spegne nell'anima la vita della grazia, col trascinarla nel peccato mortale. Satana «fu omicida dal primo momento» (Gv 8, 44), sospingendo l'uomo appunto verso la colpa grave. C'è pure chi nel medesimo tempo, uccidendo una donna incinta, danneggia il bimbo quanto alla vita fisica, e quanto ai diritti della sua anima (185). Uguale danno fa a se stesso il suicida.

    «Non uccidere». Nel vangelo secondo Matteo, Cristo ci ha lasciato questo ammaestramento: che la nostra giustizia dev'essere superiore a quella ispirata dall'antica legge (cf. Mt 5, 21-22). I cristiani cioè devono osservare con impegno maggiore i precetti evangelici, di quanto i giudei non praticassero le prescrizioni legali. Una fatica più grande meriterà migliore ricompensa, poiché «chi semina poco mieterà poco, mentre chi semina molto, mieterà anche molto» (2 Cor 9, 6). Nella legge [mosaica] erano promesse ricompense temporali e terrene: «Se sarete docili e ubbidirete, avrete in premio i beni del paese» (Is 1, 19); invece nella legge evangelica vengono assicurati beni celesti ed eterni. Quindi la giustizia di un uomo, consistente nell'osservanza della divina volontà, dev'essere più perfetta, in proporzione dei beni superiori [che vi sono connessi].

    Un precetto del vangelo qui viene esaminato a parte. «Voi avete udito che fu detto agli antichi: 'Non uccidere; e chiunque avrà ucciso sarà condannato in giudizio'; ma io vi dico che sarà condannato in giudizio chiunque va in collera con suo fratello» (Mt 5, 21-22), ossia dovrà subire la pena stabilita dalla legge. «Se - ad esempio - uno trama contro il suo prossimo per ucciderlo con inganno, anche dal mio altare lo strapperai a forza, per farlo morire» (186).

    Ognuno di noi deve guardarsi dall'ira, con molta attenzione.

 

    1. Non lasciamoci, innanzi tutto, trasportare troppo facilmente dalla collera. «Ognuno sia pronto ad ascoltare, ma lento a parlare e cauto nell'abbandonarsi all'ira, poiché l'uomo adirato non compie ciò che è giusto dinanzi a Dio» (Gc 1, 19). È un peccato, l'ira, e Dio la punisce.

    A questo punto si impone un problema: qualunque specie d'ira è contraria alla virtù? Gli stoici sostennero che nessuna passione può giungere a dominare il savio, e affermavano anzi che la vera virtù consiste nella imperturbabilità dello spirito. I seguaci di Aristotele (187) invece ritenevano che il sapiente potesse adirarsi, purché in misura contenuta. Tra le due, quest'ultima è l'opinione più prossima al vero.

    Il vangelo infatti ci documenta la presenza di codesto e altri simili moti nell'animo del Cristo (188), in cui allo stato sorgivo si trovava la perfetta sapienza.

    Del resto la stessa ragione ci dice che se tutte le passioni (189) fossero di per sé incompatibili con la virtù, alcune facoltà dell'anima risulterebbero inutili; la loro presenza nell'uomo sarebbe addirittura nociva, non potendosi esprimere sempre in maniera opportuna. Gli appetiti (190) irascibile e concupiscibile avrebbero solo l'apparenza dell'utile.

    Dobbiamo concluderne piuttosto che vi è una sorta d'ira che si può e si deve condannare, e una virtuosa indignazione.

    Vi può essere ira semplicemente a livello del giudizio, senza ripercussioni sensitive: e questa, più che ira vera e propria, è riprovazione critica. Così, diciamo che il Signore si adira nel castigare i cattivi. «Sopporterò le conseguenze dell'ira del Signore, poiché l'ho offeso» (Mic 7, 9).

    Una forma d'ira più strettamente effetto di passione scaturisce dall'appetito sensitivo (191). Essa è, a volte, controllata dalla riflessione come nel caso di uno che si adira nel momento opportuno, in una misura adeguata alle concrete circostanze e per un ragionevole motivo. Si tratta allora di un atto virtuoso, ed equivale allo zelo (192). Il filosofo (Aristotele) scrive infatti che la mansuetudine non è [tanto] l'astensione dall'ira [quanto piuttosto la capacità di temperare i propri interventi] (193).

    Infine c'è una irascibilità che sfugge al dominio della ragione ed è sempre peccato, veniale o mortale, secondo i casi, in rapporto con il movente.

    Può essere peccato grave sia in se stessa, sia per gli elementi che l'accompagnano. L'omicidio è grave di sua natura, in quanto vìola direttamente (194) un comandamento di Dio. Può darsi che talvolta, a un moto che di per sé costituirebbe trasgressione grave della legge, non segua il consenso (metti il caso di un impulso sensuale inducente alla fornicazione, cui però non si aderisca): non vi è gravità di peccato.

    Un ragionamento del genere vale per l'ira che, dovendola definire, è un moto dell'animo teso a vendicare un'offesa subìta. Questa è, sostanzialmente, l'ira. Orbene, se tale impulso è tanto violento da travolgere al tutto la ragione, si avrà peccato mortale; mancando invece il deliberato consenso, la mancanza è leggera. Tanto più se poi la reazione non è neppure esagerata: il consenso non ne aggraverebbe la valutazione morale.

    Le parole: «Chiunque va in collera col suo fratello sarà condannato in giudizio» (Mt 5, 22) vanno intese come riprovazione del proposito di danneggiare qualcuno in grave misura. Potrebbe essere, se c'è consenso, colpa grave. Dio saprà giudicare ogni nostra azione, egli che «chiamerà in giudizio a rispondere su tutto ciò che è occulto, bene o male che sia» (Qo, 12, 14).

    Oltre a ciò, non dobbiamo adirarci con leggerezza considerando il desiderio che ciascuno di noi nutre per la libertà e quindi la ripugnanza a divenire schiavi. Ebbene, un uomo in preda all'ira non è certo padrone di sé. «Il furore è capace di crudeltà e la collera è impetuosa» (Prv 27, 4); o, ancora: «Son pesanti le pietre e la sabbia, ma la furia dello stolto è più insopportabile dell'una e dell'altre» (Prv 27, 3).

 

    2. L'ira va controllata anche per evitare di subire troppo a lungo la sua influenza. «Se vi adirate, non lasciate che l'ira stessa vi trasporti al peccato» (Sal 4, 5). Perciò «non tramonti il sole sul vostro risentimento» (Ef 4, 26). Nel Vangelo, Gesù medesimo ci spiega il perché ci convenga tentare la riconciliazione con il nostro avversario, finché siamo a tempo (cf. Mt 5, 25).

 

    3. Tutt'altro che trascurabile il rischio di scendere a vie di fatto. L'ira comincia con invadere il cuore, fino a mutarsi in odio. Da reazione istintiva, essa si trasforma in uno stato di persistente malanimo. L'apostolo Giovanni ci avverte: «Colui che odia il proprio fratello è un [potenziale] omicida» (I Gv 3, 15); anzi equivale in qualche modo a un dare la morte anche a se stesso, privando l'anima della vita di grazia. Sant'Agostino, nella sua regola cenobitica, ha scritto in proposito: «Fate in modo di non aver mai liti tra voi, o almeno finitele al più presto, perché l'ira non abbia a crescere sino a trasformarsi in odio e, facendo una trave da un semplice fuscello, renda l'anima omicida» (195). E Giacobbe, chiamati i figlioli attorno al giaciglio, maledisse la violenza di Simeone e di Levi, la loro vendetta crudele (cf. Gn 49, 7).

 

    4. Da un risentimento covato nell'intimo possono venire le offese verbali. «Lo stolto manifesta subito la sua collera» (Prv 12, 16), mediante parole ingiuriose o un contegno altezzoso.

    Riguardo a chi insulta il suo prossimo, Gesù ha emesso una severa sentenza: «Chi avrà detto al suo fratello 'racha', sarà condannato nel sinedrio; e chi gli avrà detto 'pazzo', sarà condannato al fuoco della Geenna» (196). Invece «una risposta dolce placa l'ira, proprio come una parola pungente eccita la collera» (Prv 15, 1).

 

    5. Più che mai l'ira va tenuta sotto controllo affinché non ci spinga a forme di rappresaglia fisica. Sempre bisogna stare attenti che nel nostro agire sia salva la giustizia e la misericordia. La collera tende a impedire l'esercizio di entrambe le virtù. Infatti, come insegna san Giacomo, «l'uomo adirato non compie ciò che è giusto dinanzi a Dio» (Gc 1, 20); se anche volessimo, non potremmo giudicare equamente. Rispose bene perciò un certo filosofo al suo offensore: «Ti punirei, se non mi trovassi in preda all'ira». E anche la misericordia è inattuabile finché si è in collera (cf. Prv 27, 4). Non pochi uomini giunsero a divenire omicidi, spinti dal furore (cf. Gn 49, 6).

    Ecco le ragioni per cui Cristo ci insegna ad astenerci non soltanto dall'omicidio, ma dalla stessa ira [che può provocarlo]. Il bravo medico non si limita a estirpare quei mali che vede a fior di pelle, bensì li rimuove dalla radice, onde evitare una ricaduta. In altri termini, il Signore vuole che ci asteniamo da ciò che è incentivo di [sempre più grave] peccato. Dall'ira, quindi, che è il fomite dell'omicidio.

 

6. «Non commettere adulterio» (Esodo 20, 14)

 

    Dopo quella di uccidere, segue la proibizione di adulterare l'unione matrimoniale; ed è logico, dal momento che con le nozze l'uomo e la donna diventano quasi un'unica persona: «Saranno, dice il Signore, una sola carne» (Gn 2, 24). Perciò, dopo l'ingiuria [omicida, o comunque lesiva] contro un individuo non ve n'è altra più atroce di quella che offende la persona che maggiormente gli è congiunta.

    L'adulterio è vietato tanto alla donna, quanto all'uomo. Vediamo prima però la trasgressione da parte della donna, dato che in lei sembra assumere una particolare gravità.

 

    I. Con una relazione extraconiugale, la donna commette tre gravi peccati, come si può rilevare da una pagina del Siracide: «La donna che lascia il marito... prima ha disubbidito alla legge dell'Altissimo, poi ha mancato contro il suo sposo, infine s'è macchiata d'adulterio e [forse] ha avuto prole da un uomo non suo» (Sir 23, 32-34).

    Essa pecca quindi da incredula, nel senso che non ha voluto adeguarsi alla legge di Dio emanata espressamente contro l'adulterio. «Non divida, la creatura, quello che Dio ha congiunto» (Mt 19, 6).

    Trasgredisce all'impegno solenne, da lei concluso di fronte alla Chiesa e per il quale venne invocato Dio quale testimone e garante del vincolo di fedeltà. Facile applicare al caso ciò che segue: «Il Signore è testimone tra te e la donna della tua giovinezza, verso la quale ora ti mostri infedele; eppure ella era la tua compagna e la donna nei confronti della quale ti sei impegnato» (Mt 2, 14).

    Pecca di tradimento, voltando le spalle all'uomo [cui è legata da un sacro rapporto d'amicizia]. Se la donna maritata non si appartiene più ma è del marito (e similmente l'uomo ammogliato divide con la sposa la potestà su se stesso) tanto che san Paolo fa notare come la pratica della astinenza coniugale da parte di uno di essi richieda il consenso dell'altro (cf. 1 Cor 7, 4), per questo la donna adultera non è leale: si consegna illecitamente a un altro, simile a chi muta proprietario di sua iniziativa. «Essa ha abbandonato il marito avuto nella giovinezza, dimenticando il patto giurato al proprio Dio» (Prv 2, 17).

    Pecca infine commettendo un furto, nel caso avesse figli dall'unione illegittima: un furto non certo lieve perché sottrae l'asse ereditario alla legittima prole. In un caso del genere, la donna dovrebbe cercare di affidare a un convento o a un monastero i figli naturali (o sistemarli in qualche altra maniera adatta) (197) sì da escludere una loro compartecipazione alla successione nei beni ereditari.

    Macchiandosi d'adulterio perciò una donna agisce da sacrilega, ed è rea di tradimento e ladra.

 

    2. Quantunque spesso ci si illuda del contrario, i mariti adulteri peccano non meno che le precedenti.

    Infatti, sulla base della Scrittura sopra citata («Neppure lo sposo è padrone assoluto del proprio corpo» (1 Cor 7, 4)) i coniugi si trovano su un piano di parità giuridica: né l'uno, né l'altra può gestire l'uso del matrimonio prescindendo dal consenso della controparte. Per farcelo meglio comprendere, Dio non trasse la donna da un piede o, che so io, dalla testa di Adamo, bensì dal suo fianco (198). Ma solo con l'avvento del Cristo il matrimonio acquistò la pienezza dei valori; fino a quel momento un giudeo poteva prendersi diverse mogli, mentre la donna non godeva di analogo privilegio. Era tollerata perciò una disparità di trattamento.

    L'uomo dovrebbe riuscire più agevolmente a controllarsi, se si considera la tipica passionalità femminile. San Pietro ricorda ai mariti il dovere di trattare con comprensione la sposa, «sapendo che la donna è un essere più debole» (1 Pt 3, 7).

    Quindi, se pretendi dalla tua sposa una fedeltà che tu però non intendi osservare, vai contro l'impegno [che pure ti sei assunto].

    Eppoi, godendo di una maggiore autorità (lui che è una guida per sua moglie, che da lui prenderà chiarimenti in materia di fede) (cf. 1 Cor 14, 34-35), l'uomo deve proporsi a modello. Anche per questo, Dio affidò a un uomo - Mosè - il precetto di cui parliamo.

    Un sacerdote che venga meno al dovere specifico di istruire pecca più che un semplice laico, e il vescovo più del sacerdote. Analogamente, nel compiere l’adulterio pecca [più gravemente] l'uomo, in quanto egli viene a mancare alla parola data e al dovere del buon esempio.

    Dal canto loro le mogli tengano a mente la raccomandazione di Cristo: «Osservate e fate tutto ciò che [di bene] essi vi dicono: ma non agite secondo le opere loro» (Mt 23, 3).

    «Non commettere adulterio». La proibizione, si è detto, riguarda tanto l'uomo, quanto la donna. Ora bisogna aggiungere l'opinione di certuni che, pur dicendo si convinti che l'adulterio costituisca un [grave] peccato, non credono che lo sia anche la fornicazione. Ma li confuta apertamente san Paolo: «Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri» (Eb 13, 4). «Non sapete che gli ingiusti non possiederanno il regno di Dio? Attenti a non illudervi: né fornicatori, né adulteri... saranno eredi del regno di Dio» (1 Cor 6, 9). Dato che nessuno viene escluso dal regno dei cieli, tranne che a causa di gravi violazioni della legge divina, evidentemente anche la fornicazione è da considerarsi tale.

    Magari però tu vuoi dire che di gravità non può parlarsi, come nel caso dell'adulterio, poiché fornicando non si svilisce [necessariamente] il corpo di una donna coniugata. Allora ti rispondo che l'oltraggio riguarda, qui, un corpo ancora più nobile: il corpo [mistico] di Cristo, del quale fai parte tu e il tuo prossimo, o i vostri stessi corpi che furono consacrati dal battesimo. «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? - ci domanda l'apostolo Paolo; e prosegue: «E io potrei prendere le membra di Cristo per farne membra d'una meretrice? Non sia mai!» (I Cor 6, 15). Quindi sbaglia chi dice che la fornicazione non è peccato mortale.

    Ne concludiamo [anzi] che il sesto comandamento intende proibire non solo l'adulterio [e la fornicazione], ma qualunque dissolutezza carnale, fuori dell'unione matrimoniale.

    Altro errore è quello di quanti affermano che i rapporti coniugali non siano mai esenti da colpa. Diversamente Paolo non direbbe: «Il matrimonio sia da tutti tenuto in onore» (Eb 13, 4). L'unione tra gli sposi dunque non soltanto non costituisce in se stessa alcuna violazione morale, ma è altresì meritoria ogni volta che gli sposi si trovino in stato di grazia. Talvolta le loro dimostrazioni d'affetto potranno comportare delle venialità, e qualche altra volta raggiungere la colpa grave (199).

    Se il reciproco effondersi nell'amore si accompagna all'intento di procreare, i coniugi agiscono virtuosamente, ed è atto di giustizia rendere il debito coniugale; allorché, invece, pur non eccedendo i limiti propri del matrimonio, si abbia di mira unicamente la soddisfazione della sensualità, avremo anche un peccato veniale. Superati invece i suddetti limiti (magari sul piano della semplice fantasia), la colpa è grave.

    È bene inoltre conoscere i vari motivi in base ai quali sono vietati l'adulterio e la fornicazione.

 

    1. La vita spirituale ne riceve una ferita profonda. «L'adultero - infatti - è corto di senno: solo chi vuole rovinarsi agisce come lui» (Prv 6, 32). L'espressione della Volgata propter cordis inopiam sottolinea bene l'inaridimento della sensibilità di spirito, nell'uomo carnale.

 

    2. Mette a rischio la stessa vita fisica, poiché stando alla legislazione mosaica, gli adulteri erano passibili della pena capitale (cf. Lv 20,10-12; cf. Dt 22, 22). E anche se attualmente un tale rischio non esiste, la cosa si risolve sempre a danno del colpevole: se infatti il massimo castigo veniva accettato con rassegnazione, otteneva al reo il perdono della colpa; invece, restando qui impunita, essa dovrà essere espiata nella vita ultraterrena.

 

    3. Questo genere di peccati, conduce allo sperpero delle proprie sostanze: l'esempio più convincente l'abbiamo nel figliol prodigo, il quale «scialacquò tutto il suo patrimonio con una vita dissoluta» (Lc 15, 11-13). Anche il Siracide avverte: «Non abbandonarti nelle mani di una cortigiana, se non vuoi rovinare te stesso e le tue fortune» (Sir 9, 6).

 

    4. Umilia i figli nati da una illecita unione. «I figli degli adulteri non giungeranno a maturità e sparirà il seme di un letto illegittimo; eppoi, anche se vivessero a lungo, non godranno di nessuna stima, e la loro vecchiaia sarà senza onore» (Sap 3, 16-17). Anche tra le fila del clero questi sfortunati non troveranno posto, finché sia possibile reclutare chierici privi di demerito (200).

 

    5. La persona coinvolta nell'adulterio, e specialmente la donna, ne esce degradata. «La donna adultera sarà considerata come un rifiuto che si calpesta per la strada» (Sir 9, 10), mentre di un uomo che sia incorso nel medesimo fallo leggiamo nella Scrittura: «[L'adultero] non raccoglierà che battiture e infamia; la sua vergogna non sarà dimenticata» (Prv 6, 33). E san Gregorio [Magno] pone infine in rilievo come, pur costituendo un crimine minore rispetto ai peccati in cui prevale la perversione dell'intelligenza, tuttavia i peccati della carne rivestono un aspetto di particolare ignominia; e la ragione è semplice: essi avviliscono l'uomo al livello della bestia. L'uomo cioè, non avendo compreso a quale onore Dio l'abbia innalzato, si è abbrutito, simile nel modo di vivere agli animali inferiori (cf. Sal 48, 21).

 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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