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Come nasce la Città dello Stato Vaticano?

Ultimo Aggiornamento: 24/03/2011 19:34
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03/12/2009 22:25
 
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Nuovi studi su un problema vecchio



di Gianpaolo Romanato

Una felice iniziativa dell'Archivio storico del Senato e un'intelligente, amplissima ricerca di Roberto Pertici sono riusciti a conseguire il non facile risultato di fornirci un libro nuovo su un problema vecchio. Vecchio addirittura più dell'Italia unita, se è vero che la Questione romana iniziò con l'allocuzione di Pio IX del 29 aprile 1848, quella del non possumus alla guerra federale all'Austria.
Su questo tema, sul quale si sono cimentati nell'arco di un secolo e mezzo i migliori uomini di cultura italiani, si sono svolti in Parlamento dibattiti memorabili per respiro storico, acume giuridico, tensione morale, sicuramente tra i più alti di tutta la nostra storia parlamentare.

Il filo conduttore dello studio di Pertici sono appunto questi interventi, sintetizzati nel volume e riportati per intero nel cd allegato al libro: dal discorso al Senato di Croce del 1929, l'unico discorso di opposizione ai Patti del Laterano, con il celebre inciso sul primato della coscienza rispetto al potere, a quello di Mussolini, con la ben nota invettiva sugli "imboscati della storia", riferita appunto al filosofo napoletano.

E il dibattito che si svolse alla Costituente, quando si arrivò a discutere quello che sarebbe diventato l'articolo 7, non fu da meno. Vanno ricordati almeno gli interventi di Calamandrei e Orlando, che smontarono con logica stringente tutta la costruzione giuridica che aveva presieduto alla formulazione dell'articolo; quello di Giuseppe Dossetti, che rimontò quella formulazione con argomentazioni non meno severe e conseguenti; e poi i due grandi discorsi di De Gasperi e Togliatti, che scavalcarono il livello del diritto, posero il problema dei rapporti Stato-Chiesa sul piano loro proprio, quello politico, e dimostrarono che la politica, su un tema tanto arduo, era assolutamente sovrana, portatrice di diritti che venivano prima del diritto.
Ciò che in fondo era già avvenuto nel 1871, quando furono varate le Guarentigie, un'acrobazia dal punto di vista strettamente formale, ma anche un monumento di saggezza, secondo la ben nota definizione crociana.

Questa meticolosa ricerca di Pertici è molto chiara nell'indicazione del problema che rese sempre ardua la Questione romana, prima e dopo i Patti lateranensi. Lo scoglio non era la rivendicazione del potere temporale, una rivendicazione che perdette ogni importanza con il tramonto del pontificato di Leone XIII, scomparso nel 1903. Lo scoglio era dato dall'autocomprensione che la Santa Sede ebbe sempre di se stessa come "ordinamento giuridico originario", per usare il linguaggio tecnico di Dossetti, o come soggetto internazionale sovrano, per dirla più chiaramente, oppure, per usare un'espressione più immediata e più direttamente percepibile, di essere uno Stato fra Stati. L'autore ci ricorda che Pio xi accettò di ridurre al minimo la pretesa territoriale, accontentandosi di un territorio in miniatura, simbolico, soltanto quando ebbe la garanzia del riconoscimento della statualità.

Questa autocomprensione della Chiesa romana non era basata, quindi, sull'idea del potere temporale ma sulla storia e la funzione dell'istituzione ecclesiastica, sulla natura del diritto canonico, sul consenso internazionale che l'aveva sempre accompagnata. Un consenso che - lo dimostrò a suo tempo un giurista insospettabile come Federico Cammeo, un israelita che poi sarà vittima delle leggi razziali - non venne meno neppure dopo il 20 settembre, dal momento che numerosi Stati mantennero la loro rappresentanza diplomatica presso la Santa Sede anche nel periodo compreso fra il 1870 e il 1929, cioè nel sessantennio in cui la sede pontificia aveva perduto il requisito principale della statualità, cioè il territorio.

Non a caso Pio X, cioè il Pontefice che lasciò cadere ogni nostalgia per il potere temporale, eletto nel 1903, varò il progetto del Codex Iuris Canonici, entrato poi in vigore nel 1917. Solo un'istituzione pienamente cosciente della propria personalità sovrana, della propria autonomia giuridica, starei per dire della propria forza politica e morale, poteva dotarsi di un codice di leggi del tutto analogo a quello degli Stati postrivoluzionari proprio negli anni in cui la sua statualità, dal punto di vista formale, era diventata incerta e problematica.

Ciò che importava era dunque la statualità come forma politica, non come dimensione territoriale di potere. Tale esigenza divenne urgente e indilazionabile quando fu eletto al papato Achille Ratti, nel 1922, che prenderà il nome di Pio XI. Erano passati tre anni dalla fine della guerra e si stava rivelando tutta la fragilità dei trattati di pace sottoscritti a Parigi, soprattutto nell'est europeo dove il crollo dei tre imperi - asburgico, tedesco e zarista - aveva scavato un baratro territoriale e politico di cui per molte ragioni stiamo ancora scontando le conseguenze. Nell'area immensa che andava dal Mar Baltico al Mar Nero si tentò di far nascere l'embrione di una nuova Europa, con la costituzione di molti nuovi Paesi (Finlandia, Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Austria, Jugoslavia), nessuno dei quali era mai esistito prima con i confini stabiliti allora, e con il rifacimento territoriale della Romania, che raddoppiò il proprio territorio.

Ma il dopoguerra stava dimostrando che gli equilibri geopolitici non si costruiscono a tavolino, creando, componendo o scomponendo entità statuali ipotetiche. E infatti la Santa Sede guardò con particolare attenzione a questa nuova Europa, dalle fondamenta incerte e precarie, nella quale si intrecciavano il cattolicesimo (di rito latino e orientale), l'ortodossia e le Chiese riformate, preoccupata dalla nascita di due problemi nuovi e imprevisti: il nazionalismo politico fondato su basi confessionali e la tendenza emergente nei nuovi regimi a impadronirsi della tradizione asburgica della Chiesa di Stato.

Perché ricordo tutto questo? Perché Achille Ratti trascorse tre anni nella polveriera orientale, proprio alla vigilia dell'elezione papale, e li trascorse in quello che era verosimilmente l'occhio del ciclone della nuova Europa postbellica, cioè in Polonia, un Paese stretto fra l'aggressione della Russia bolscevica, la precarietà dei nuovi confini e i plebisciti per le regioni contese. In Polonia Ratti fu visitatore e poi nunzio apostolico dal 1918 al 1921. Tre anni drammatici, durante i quali rischiò addirittura l'espulsione dal Paese, perché accusato dai tedeschi di essere filopolacco e dai polacchi di essere filotedesco.

Quando fu eletto Papa, pochi mesi dopo il suo rientro in Italia, era perciò fermamente convinto che proprio la condizione di fragilità diplomatica e politica in cui si trovava la Santa Sede, già ampiamente emersa negli anni tragici della guerra, rendesse problematico il rapporto della Chiesa con il nuovo ordinamento politico del continente, che oltre tutto stava dovunque scivolando verso regimi autoritari. La politica concordataria, che ritenne l'unica idonea a fronteggiare la situazione, avrebbe avuto successo - tanto nei confronti dei Governi quanto nei confronti degli episcopati nazionali, tutt'altro che ben disposti verso l'autorità romana - solo se la Santa Sede fosse stata garantita da una condizione di piena autonomia che, riconoscendone il ruolo e il rango sul piano internazionale, la legittimasse come interlocutore alla pari con i vari Governi.

Per conseguire questo obiettivo era assolutamente indispensabile recuperare una qualche forma di sovranità territoriale, sia pure minima, sia pure simbolica, ma tale da reinsediare il papato nel consesso delle nazioni come soggetto di diritto internazionale autonomo e pienamente sovrano. Di qui il suo irrigidimento in tutta la lunga, sfibrante trattativa che precedette la sottoscrizione dei patti, sottoscrizione che divenne possibile - come ci dice Pertici - soltanto quando Mussolini accettò la dizione "Stato della Città del Vaticano", dizione che compare per la prima volta nella bozza del 31 gennaio 1929, undici giorni prima della sottoscrizione definitiva.
Anche in questo decisivo frangente, dunque, per comprendere le ragioni vaticane è buona norma tener conto del contesto internazionale più che di quello italiano.

Un'istituzione che deve tutelare i propri legittimi interessi nei cinque continenti va considerata in un'ottica globale e non secondo angolature parziali. Per questo motivo sono d'accordo con l'autore quando afferma che i Patti lateranensi non dimostrano l'affinità innata della Chiesa con il fascismo, come sostiene una diffusa storiografia, ma soltanto la fedeltà della Chiesa a se stessa e alla sua natura, la sua capacità, di approfittare di ogni occasione e di ogni interlocutore per conseguire il risultato voluto.

Per venire poi al periodo costituente, la rigidezza con cui la Santa Sede difese l'idea della costituzionalizzazione dei Patti del 1929, in taluni casi imponendo la propria strategia ai parlamentari democristiani, derivava dalla stessa preoccupazione: cioè dal timore che nelle incertezze del dopoguerra si potesse rimettere in discussione il risultato conseguito allora.

Un'ultima considerazione. Ciò che stupisce, in questa secolare vicenda, è la capacità della Chiesa di rinascere quasi dalle sue ceneri. Pochi, dopo il disastro del 1870, che interruppe addirittura un concilio, sarebbero stati disposti a scommettere su un luminoso futuro della Santa Sede. E invece, già durante la prima guerra mondiale troviamo un papato capace di parlare alle nazioni con il linguaggio del futuro: penso alla Nota alle potenze belligeranti di Benedetto XV dell'agosto 1917. Mentre nel secondo dopoguerra assistiamo addirittura a una stagione di trionfo ecclesiastico senza precedenti, una stagione durante la quale - come scrive Pertici in una pagina da leggere, mi sembra in filigrana - "l'elemento confessionale ebbe una visibilità quale non aveva mai avuta nella precedente storia italiana". Una visibilità, aggiungo io, sicuramente eccessiva.

E infatti, a chi sapesse guardare lontano era chiaro che quella che trionfava in Italia negli anni Cinquanta era l'istituzione più che la convinzione di fede, già prossima, quest'ultima, a indebolirsi sotto i colpi dell'avanzante secolarizzazione.

In questa lunga storia, nella quale pure non mancarono asprezze, risentimenti ed eccessi, da una parte e dall'altra, non venne mai meno, però, la volontà di giungere ad accordi capaci di accontentare, sul filo della politica prima ancora che del diritto, l'uno e l'altro dei contendenti. Non venne meno dopo il 20 settembre quando si vararono le Guarentigie, non venne meno nel 1929 quando si produssero i Patti del Laterano, non venne meno alla Costituente quando i due grandi partiti popolari, il cattolico e il comunista, si accordarono per la formulazione dell'articolo 7, non venne meno negli anni del centro-sinistra e in quelli successivi, quando si stava producendo la grande trasformazione della società italiana e si giunse al completo rifacimento delle norme concordatarie, completate dalle intese con le altre confessioni religiose.

Risolvere il problema della convivenza di due poteri indipendenti in una medesima città - l'unica città al mondo che è sede di due Stati, di due Governi, dove ciascun Paese è presente con due distinte rappresentanze diplomatiche - non è stato facile nel passato e non lo sarà, verosimilmente, neppure nel futuro. Ma il metodo del dialogo, su cui insiste il presidente del Senato nell'introduzione al libro, come ha risolto le difficoltà nel passato, così potrà risolverle anche nel futuro.



(©L'Osservatore Romano - 4 dicembre 2009)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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