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La Santa Messa, la Celebrazione, l'Altare: RIPORTIAMO IL CROCEFISSO SULL'ALTARE

Ultimo Aggiornamento: 07/02/2011 17:53
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16/05/2009 19:54
 
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"La liturgia della chiesa nell’epoca della secolarizzazione" di Roberto de Mattei

77 pp., Solfanelli, 7 euro

di Daniele Raineri

L’argomento del pamphlet è di quelli densi: “La liturgia della chiesa nell’epoca della secolarizzazione”.

Sotto c’è un problema che, raccontato in breve, è questo: la chiesa si è lasciata turbare da un’ansia illusoria di rinnovamento e ha modificato la propria liturgia.
Ma il gioco non è valso la candela di cera.

Ha abbandonato l’eterno per incontrare il proprio tempo, ha deviato dalla tradizione per abbracciare la società del progressismo: e dopo, con orrore, che cosa ha scoperto? Che il suo è stato l’abbraccio catastrofico con un’età postmoderna già imputridita all’interno e che all’esterno porta segni sempre più evidenti di fallimento.
Ora rimediare non sarà facile.

La chiesa si è allontanata dalle proprie premesse più salde, si è in parte tramutata in una versione light di se stessa per dimostrarsi non-passatista e ha indebolito il suo messaggio più autentico e attraente.

Lo prova la crisi delle vocazioni religiose con tutta la forza dei fatti: la Riforma del Concilio non l’ha risolta, ma anzi l’ha decisamente aggravata. Per citare Joseph Ratzinger: “Quello che sapevamo solo teoreticamente è diventato per noi esperienza concreta: la chiesa sussiste e cade con la liturgia”.

Nella storia recentissima della chiesa c’è stato quindi un Prima, quando ancora questa crisi poteva essere evitata. Ma a noi tocca vivere nel Dopo: nel tempo presente, quando ormai la crisi deve essere affrontata. Roberto de Mattei – “sono uno storico, un cattolico laico che vive però con partecipazione i problemi della chiesa” – propone allora il ritorno alla tradizione come antidoto all’idea, filtrata all’interno della chiesa, che la secolarizzazione è comunque un processo storico irreversibile, e quindi, poiché irreversibile, anche “vero”.

E avanza un progetto di risacralizzazione della società: dove “l’esperienza di sacro” di cui la società ha disperatamente bisogno si raggiunge attraverso il sacrificio e lo spirito di penitenza.

“Al principio dell’edonismo e dell’autocelebrazione dell’Io che costituisce il nucleo del processo rivoluzionario plurisecolare che aggredisce la nostra società – scrive De Mattei – bisogna contrapporre il principio vissuto del sacrificio”.
Il capitolo iniziale sull’abbandono del latino durante la liturgia, argomento di una delle tre conferenze da cui è tratto questo pamphlet, è il manifesto convincente del Grande equivoco. Credevamo di essere moderni e anche di farvi un favore, abbiamo invece sperperato il nostro tesoro comune.

Il latino non è stato abolito dal Concilio – come si crede grossolanamente – ma non è più usato, anche se una costituzione apostolica del 1962, la Veterum Sapientia, raccomanda il contrario con precise disposizioni.
Eppure il latino era per sua natura la lingua della chiesa, perché possiede tutte le caratteristiche che servono.

E’ lingua universale, che supera i confini delle nazioni.
Si può ribattere che non è più in uso – ma per De Mattei si tratterebbe di un’obiezione povera. Una lingua non muore quando non è parlata, ma quando svanisce dalla cultura e dalla memoria di un popolo. Altrimenti, e per assurdo, dovremmo chiamare lingue morte anche l’ebraico, risorto nel Ventesimo secolo con il sionismo, e l’arabo classico, che oggi è parlato soltanto in alcuni contesti formali.

Il latino è una lingua stabile dal punto di vista lessicale e grammaticale, quindi è anche un vettore solido, capace di sfidare il passare dei secoli e di conservare l’integrità e l’immutabilità della dottrina cattolica. Il latino è infine lingua sacra: la lingua della liturgia tra l’assemblea e Dio.

E non importa afferrarne tutte le parole: la liturgia non è orizzontale, non lega i fedeli tra loro, ma è verticale, è diretta verso Dio. Come dice al linguista Beccaria la vecchietta alzando il dito verso il cielo, l’importante è che capisca lui.

 Il Foglio, 30 aprile 2009 consultabile online
ANCHE QUI.


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Qualche giorno fa leggevo un commento sempre sulla Liturgia "Cuore e motore della Chiesa" che sottolineava le stesse linee guida in questo articolo brillantemente tracciate...

Le riflessioni che leggevo sottolineavano quanto segue che riporto a memoria:

"...è vero abbiamo avuto, come Chiesa, sempre da combattere i falsi maestri, l'eresia ariana sfiancò la Chiesa, tutti avevano abiurato perfino il Papa, si pensava che tutto il mondo dovesse diventare ormai ariano, questa eresia si trascinò per circa 300-400 anni; così l'eresia Protestante in voga anch'essa da 400-500 anni ma non ha vinto, non ha sostituito la Chiesa come credevano i suoi fondatori, ma la zizzania oramai è entrata nella Chiesa e miete le sue vittime.

Ogni qualvolta si va a toccare il Fondamento Cristo e la Sacra Liturgia, non abbiamo "nuove eresie" ma sono i due capisaldi dell'eresia ariana e protestante che ritornano a cicli con nuove idee.
L'unica aggravante di questo periodo che stiamo vivendo è che tali eresie si sono fatte più subdole e sono più mascherate, Satana si è fatto più furbo ed è andato a minare le colonne portanti della Chiesa, convincendo nell'errore non pochi vescovi e sacerdoti proprio come avvenne per l'eresia ariana e per il protestantesimo.

Le colonne portanti della Chiesa:
- Divinità di Gesù Cristo e Capo della Chiesa;
- Liturgia, Eucarestia e i Sacramenti;
non avevano mai subito una infiltrazione devastante come oggi poichè tali eresie si presentano a noi oggi non tanto come proclami dottrinali, ma ancor peggio come uno stato normale del moderno pensiero cattolico attraverso la semplificazione del linguaggio..."


C'è da meditare...[SM=g1740733]



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La prima comunione secondo Alessandro Manzoni
Con lo sgomento e la gioia di essere cenere


    di mons. Inos Biffi

    Di tutte le strofe che Manzoni, in vario tempo, compose "per una prima comunione", si potrebbe affermare quello che Antonio Rosmini diceva riferendosi ai versi per l'offertorio:  "Una meraviglia di poesia e di teologia e di religiosissimo affetto". L'ispirazione lirica, la precisione dottrinale e la ripetuta emozione mistica che le pervadono, rivelano quanto il poeta fosse attratto dal mistero dell'Eucaristia.

    L'impianto dei versi - ottonari o decasillabi o settenari - è molto semplice:  d'altronde, erano stati richiesti da don Giulio Ratti, canonico della parrocchia milanese di San Fedele, perché fossero musicati e cantati dai comunicandi, come infatti avvenne il 10 maggio 1832. Manzoni, poi, al primo gruppo di strofe ne aggiunse un secondo nel 1834 e un terzo nel 1850.

    E, tuttavia, il disegno d'insieme, la sostanza delle singole parole accuratamente scelte e, infine, il tessuto tematico ed emotivo si rivelano di una ricchezza e suggestione straordinarie.

    L'Eucaristia:  una nuova incarnazione e una reiterata discesa di Cristo dal cielo. Con questa visione si aprono i primi versi delle strofe "Prima della Messa":  "Sì, Tu scendi ancor dal cielo; / Sì, Tu vivi ancor tra noi".
    Il pane e il vino non sono che un'apparenza:  "Solo appar, non è, quel velo", e ne è certa la fede, che accoglie le indubitabili parole del Signore:  "Tu l'hai detto; il credo, il so".

Avviene, nella Messa, la transustanziazione, di cui il poeta coglie ed esalta perfettamente l'origine e il senso. Essa è un miracolo, che proviene dall'onnipotenza di Dio e dal suo amore inesausto, ossia - e l'espressione è splendida - dall'amore onnipotente:  "So che tutto puoi, / Che ami ognora i tuoi credenti, / Che s'addicono i portenti / A un amor che tutto può".

È quanto Manzoni afferma riguardo alla grazia dell'immacolata concezione di Maria:  il medesimo "Amor che può tutto" l'ha collocata "più su del perdono".
   
Basterebbe avvertire questo "amor che tutto può" come genesi della "mirabile e singolare" conversione eucaristica, per intendere decentemente il significato del termine transustanziazione, per accorgersi di quanto siano vane le avversioni di teologi e liturgisti contro questo linguaggio "scolastico" e "tridentino".

    Ogni Eucaristia col portentoso mutamento che in essa avviene è il segno che Dio non cessa di amarci.

    Il momento dell'offertorio è compreso da Manzoni come il momento dell'avvicendamento dei doni. In quel rito si presentano a Dio il pane e il vino; o, meglio, Dio si riprende il suo stesso dono:  la sua grandezza, infatti, e la sua santità e bontà hanno tratto dallo "stelo" "la spiga fiorita" e nascosto nel tralcio il tesoro dell'uva.
    Ma quei doni ci sono, con uno scambio mirabile, comunque, restituiti, dopo che l'onnipotente amore li ha trasformati:  "Tu (...) in cambio, qual cambio! ci rendi / Il tuo Corpo, il tuo Sangue, o Signore".

    L'offertorio non è però un'offerta soltanto del pane e del vino:  "Anche i cor che T'offriamo son tuoi" - lo proclamiamo incominciando il prefazio:  "In alto i nostri cuori".

    Certo, non sono cuori innocenti:  il nostro peccato li ha deturpati:  "Ah! il tuo dono fu guasto da noi". E, pure, li rimettiamo ugualmente, così come sono, e quale pegno di misericordia divina, alla profonda bontà che li ha plasmati.

    È un affidamento accompagnato dalla preghiera perché questa stessa bontà, con l'alito creatore dell'inizio, vi infonda una fede capace di oltrepassare le apparenze visibili, una speranza che matura nel possesso dei beni celesti, e un amore che invece non conosce tramonto, ma rimane come eterna comunione con Dio:  "(...) quell'alta Bontà che li fea, / Li riceva quai sono, a mercè; / E vi spiri, col soffio che crea, / Quella fede che passa ogni velo, / Quella speme che more nel cielo, / Quell'amor che s'eterna con Te".

    Le strofe che cantano la consacrazione risaltano per la viva percezione dell'Eucaristia come mistica comunione con Cristo. Di fronte all'umile Vittima immolata e al Sangue purissimo - "Ostia umìl, Sangue innocente" - il credente avverte insieme la presenza e il nascondimento di Dio - che sono il mistero e il "dramma" stesso dell'Eucaristia - e ritrova Gesù nella condizione umana di "Figlio d'Eva" e in quella divina di "eterno Re".

    Egli si rende conto della propria inconsistenza:  è stato tratto dal fango, è nativamente polvere, e, pure, una polvere che irresistibilmente riesce a sentire Dio e si scioglie e si consuma nella adorazione, e sulla quale implora il chinarsi dello sguardo della divina pietà:  "China il guardo, Iddio pietoso, / A una polve che Ti sente, / che si perde innanzi a Te".

    Il testo che segue - "Prima della comunione" - accentua la forza e la profondità impressionante di questi sentimenti di adorazione e di unione con Dio. Un così stretto contatto giunge a infondere come un sacro spavento e un arcano trasporto, mentre sorge il soffio divino, che avvolge tutt'intorno:  "Questo terror divino - scrive il poeta - Questo segreto ardor, / È che mi sei vicino, / È l'aura tua, Signor!".
    "Respirare il soffio della grazia celeste":  è un'espressione di sant'Ambrogio nel suo De Cain et Abel.

    Nella concezione di Manzoni questa vicinanza eucaristica assume la forma del rapporto più esclusivo e unitivo, ossia il rapporto sponsale. Il Signore è lo Sposo dell'anima, che a lui anela:  "Sospir dell'alma mia, / Sposo, Signor".
    Si tratta di una familiarità e intimità che sono in atto già nel sacramento, ma che raggiungeranno il loro vertice nell'abbraccio eterno e nel colloquio personale, a tu per tu:  "(...) che fia / Nel tuo superno amplesso! / Quando di Te Tu stesso / Mi parlerai nel cor!"

    Gli stessi accenti muovono i versi successivi:  ci si avvia alla comunione in un intreccio di confidenza amorosa e di consapevolezza del proprio nulla di fronte alla maestà divina. Il cuore è colmo di gioia indicibile e insieme è carico di trepido sgomento e dell'acuta e rinnovata coscienza del proprio peccato e del proprio essere cenere:  "Con che fidente affetto / Vengo al tuo santo trono, / M'atterro al tuo cospetto, / Mio Giudice e mio Re! / Con che ineffabil gaudio / Tremo dinanzi a Te! / Cenere e colpa io sono".
Possiamo sentire l'eco delle parole:  "Signore, non sono degno che tu venga nel mio petto".

    Ciononostante, l'animo non si dispera, ma si appoggia interamente su Cristo:  ora è lui che, facendo tutt'uno con chi lo ha ricevuto, prega e invoca misericordia, offrendo a Dio i propri meriti, la propria adorazione e il proprio ringraziamento:  "Ma vedi chi T'implora / Chi vuole il tuo perdono, / Chi merita, Chi adora, / Chi rende grazie in me".
    Il poeta mostra di conoscere perfettamente la dottrina cattolica della mediazione di Gesù Cristo, che supplisce e rappresenta l'umanità dinanzi al Padre celeste.

    Ed ecco ritornare, negli ultimi motivi delle strofe, la figura dell'Eucaristia come un'esperienza estatica o mistica:  chi la riceve possiede Dio, vive di lui, quasi si amalgama con lui e con lui respira:  esattamente in questo verbo - "respirare con Dio" - crediamo di scorgere il culmine del sentimento eucaristico di Manzoni.

    Chi ha preso parte alla mensa eucaristica si ritrova in sé da offrire, fuso col proprio amore, lo stesso amore di Dio:  "Sei mio, con Te respiro:  / Vivo di Te, gran Dio! / Confuso a Te col mio / Offro il tuo stesso amor".
    Le strofe terminano con una appassionata invocazione:  "Empi ogni mio desiro; / Parla, ché tutto intende; / dona, ché tutto attende, / Quanto T'alberga un cor".

    Dopo il dono del Corpo e del Sangue di Cristo, ogni parola divina può essere intesa, e ogni grazia può essere aspettata.

    Del Manzoni eucaristico possiamo ricordare anche i più semplici versi "per una prima comunione", composti prima del 1823 su richiesta di Luigi Tosi, suo confessore e guida spirituale, allora canonico di Sant'Ambrogio di Milano:  "Vieni, o Signor, riposati:  / Regna ne' nostri petti! / Sgombra da' nostri affetti / Ciò che Immortal non è. // Sei nostro! Ogni tua visita / Prepari un tuo ritorno, / Fino a quell'aureo giorno / Che ci rapisca in Te".

    È ancora la prospettiva dell'Eucaristia come anticipo e avvio della venuta finale e del congiungimento o dell'estasi definitivo.

    Ora ci spieghiamo perché Rosmini parlasse di "meraviglia di poesia e di teologia e di religiosissimo affetto". Egli si riferiva ai versi sull'offertorio ma, in realtà, abbiamo detto che il giudizio vale per tutte queste strofe. Manzoni ci ha lasciato in esse il succo di un trattato sull'Eucaristia. Se la facilità ritmica dei versi le rendeva adatte al canto dei fanciulli, in realtà l'alto contenuto dei termini trascende di molto la loro incipiente capacità di comprensione. Domanda una prolungata riflessione, che non manca di suscitare stupore e ammirazione.



(©L'Osservatore Romano - 17 Maggio 2009)


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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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