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Paolo VI nel suo specifico Magistero

Ultimo Aggiornamento: 14/10/2017 23:59
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PAOLO VI
Per chi si fosse fermato al 1054.....ricordiamo che con Palo VI vennero tolte le rispettive scomuniche con la Chiesa in Oriente rappresentata dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli...
L'ultima omelia di Paolo VI proprio sul primato petrino:
OMELIA DI PAOLO VI

Solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo
Giovedì, 29 giugno 1978


Venerati Fratelli e Figli carissimi,

Le immagini dei Santi Apostoli Pietro e Paolo occupano, oggi più che mai, il nostro spirito durante la celebrazione di questo rito. Non solo perché ci sono riportate, come di consueto, dal volgere dell’anno liturgico, ma anche per il particolare significato che riveste per noi questo xv anniversario della nostra elezione al Sommo Pontificato, quando, dopo il compimento dell’80° genetliaco, il corso naturale della nostra vita volge al tramonto.

Pietro e Paolo: «le grandi e giuste colonne» (S. CLEMENTE ROMANI, I, 5, 2) della Chiesa romana e della Chiesa universale! I testi della Liturgia della parola, or ora ascoltati, ce li presentano sotto un aspetto che suscita in noi profonda impressione : ecco Pietro, che rinnova nei secoli la grande confessione di Cesarea di Filippo; ecco Paolo, che dalla cattività romana lascia a Timoteo il testamento più alto della sua missione. Guardando a loro, noi gettiamo uno sguardo complessivo su quello che è stato il periodo durante il quale il Signore ci ha affidato la sua Chiesa; e, benché ci consideriamo l’ultimo e indegno successore di Pietro, ci sentiamo a questa soglia estrema confortati e sorretti dalla coscienza di aver instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matth. 16, 16); anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2 Tim. 4, 7).

I. TUTELA DELLA FEDE

Il nostro ufficio è quello stesso di Pietro, al quale Cristo ha affidato il mandato di confermare i fratelli (Cfr. Luc. 22, 32): è l’ufficio di servire la verità della fede, e questa verità offrire a quanti la cercano, secondo una stupenda espressione di San Pier Crisologo: «Beatus Petrus, qui in propria sede et vivit et praesidet, praestat quaerentibus fidei veritatem» (S. PETRI CEIRYSOLOGI Ep. ad Etrtichen, inter Ep. S. Leonis Magni XXV, 2: PL 54, 743-744). Infatti la fede è «più preziosa dell’oro» (1 Tim. 6, 13), dice San Pietro; non basta riceverla, ma bisogna conservarla anche in mezzo alle difficoltà («per ignem probatur» -1 Petr. 1, 7 ). Della fede gli Apostoli sono stati predicatori anche nella persecuzione, sigillando la loro testimonianza con la morte, a imitazione del loro Maestro e Signore che, secondo la bella formula di San Paolo «testimonium reddidit sub Pontio Pilato bonam confessionem» (Ibid.). Ora, la fede non è il risultato dell’umana speculazione (Cfr. 2 Petr. 1, 16), ma il «deposito» ricevuto dagli Apostoli, i quali lo hanno accolto da Cristo che essi hanno «visto, contemplato e ascoltato» (1 Io. 1, l-3). Questa è la fede della Chiesa, la fede apostolica. L’insegnamento ricevuto da Cristo si mantiene intatto nella Chiesa per la presenza in essa dello Spirito Santo e per la speciale missione affidata a Pietro, per il quale Cristo ha pregato : «Ego rogavi pro te ut non deficiat fides tua» (Luc. 22, 32) e al Collegio degli Apostoli in comunione con lui: «qui vos audit me audit» (Ibid. 10, 16). La funzione di Pietro si perpetua nei suoi successori, tanto che i Vescovi del Concilio di Calcedonia poterono dire dopo aver ascoltato la lettera loro mandata da Papa Leone: «Pietro ha parlato per bocca di Leone» (Cfr. H. GRISAR, Roma alla fine del tempo antico, I, 359). E il nucleo di questa fede è Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, confessato così da Pietro: «Tu es Christus, Filius Dei vivi» (Matth. 16, 16).

Ecco, Fratelli e Figli, l’intento instancabile, vigile, assillante che ci ha mossi in questi quindici anni di pontificato. «Fidem servavi»! possiamo dire oggi, con la umile e ferma coscienza di non aver mai tradito «il santo vero» (A. MANZONI). Ci sia consentito ricordare, a conferma di questa convinzione, e a conforto del nostro spirito che continuamente si prepara all’incontro col giusto Giudice (2 Tim. 4, 8), alcuni documenti salienti del pontificato, che hanno voluto segnare le tappe di questo nostro sofferto ministero di amore e di servizio alla fede e alla disciplina: tra le encicliche e le esortazioni pontificie, la «Ecclesiam Suam» (9 augusti 1964: AAS 56 (1964) 609.659), che, all’alba del pontificato, tracciava le linee di azione della Chiesa in se stessa e nel suo dialogo col mondo dei fratelli cristiani separati, dei non-cristiani, dei non-credenti; la «Mysterium Fidei» sulla dottrina eucaristica (3 septembris 1965: AAS 57 (1965) 753.774); la «Sacerdotalis Caelibatus» (24 iunii 1967: AAS 59 (1967) 657.697) sul dono totale di sé che distingue il carisma e l’ufficio presbiterale; la «Evangelica Testificatio» (29 iunii 1971: AAS 63 (1971) 497-526) sulla testimonianza che oggi la vita religiosa, in perfetta sequela di Cristo, è chiamata a dare davanti al mondo; la «Paterna cum Benevolentia» (8 decembris 1974: AAS 67 (1975) 5-23), alla vigilia dell’Anno Santo, sulla riconciliazione all’interno della Chiesa; la «Gaudente in Domino» (9 maii 1975: AAS 67 (1975) 289-322) sulla ricchezza zampillante e trasformatrice della gioia cristiana; e, infine la «Evangelii Nuntiandi» (8 decembris 1975: AAS 68 (1976) 5-76), che ha voluto tracciare il panorama esaltante e molteplice dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, oggi.

Ma soprattutto non vogliamo dimenticare quella nostra «Professione di fede» che, proprio dieci anni fa, il 30 giugno del 1968, noi solennemente pronunciammo in nome e a impegno di tutta la Chiesa come «Credo del Popolo di Dio» (PAOLO PP. VI, Credo del Popolo di Dio: AAS 60 (1968) 436-445), per ricordare, per riaffermare, per ribadire i punti capitali della fede della Chiesa stessa, proclamata dai più importanti Concili Ecumenici, in un momento in cui facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli, e richiedevano un ritorno alle sorgenti. Grazie al Signore, molti pericoli si sono attenuati; ma davanti alle difficoltà che ancor oggi la Chiesa deve affrontare sul piano sia dottrinale che disciplinare, noi ci richiamiamo ancora energicamente a quella sommaria professione di fede, che consideriamo un atto importante del nostro magistero pontificale, perché solo nella fedeltà all’insegnamento di Cristo e della Chiesa, trasmessoci dai Padri, possiamo avere quella forza di conquista e quella luce di intelligenza e d’anima che proviene dal possesso maturo e consapevole della divina verità. E vogliamo altresì rivolgere un appello, accorato ma fermo, a quanti impegnano se stessi e trascinano gli altri, con la parola, con gli scritti, con il comportamento, sulle vie delle opinioni personali e poi su quelle dell’eresia e dello scisma, disorientando le coscienze dei singoli, e la comunità intera, la quale dev’essere anzitutto koinonia nell’adesione alla verità della Parola di Dio, per verificare e garantire la koinonia nell’unico Pane e nell’unico Calice. Li avvertiamo paternamente: si guardino dal turbare ulteriormente la Chiesa; è giunto il momento della verità, e occorre che ciascuno conosca le proprie responsabilità di fronte a decisioni che debbono salvaguardare la fede, tesoro comune che il Cristo, il quale è Petra, è Roccia, ha affidato a Pietro, Vicarius Petrae, Vicario della Roccia, come lo chiama San Bonaventura (S. BONAVENTURAE Quaest. disp. de per/. evang., q. 4, a. 3; ed. Quaracchi, V, 1891, p. 195).

II. DIFESA DELLA VITA UMANA

In questo impegno offerto e sofferto di magistero a servizio e a difesa della verità, noi consideriamo imprescindibile la difesa della vita umana. Il Concilio Vaticano secondo ha ricordato con parole gravissime che «Dio padrone della Vita, ha affidato agli uomini l’altissima missione di proteggere la vita»! (Gaudium et Spes, 51) E noi, che riteniamo nostra precisa consegna l’assoluta fedeltà agli insegnamenti del Concilio medesimo, abbiamo fatto programma del nostro pontificato la difesa della vita, in tutte le forme in cui essa può esser minacciata, turbata o addirittura soppressa.

Rammentiamo anche qui i punti più significativi che attestano questo nostro intento.

a) Abbiamo anzitutto sottolineato il dovere di favorire la promozione tecnico-materiale dei popoli in via di sviluppo, con la enciclica «Populorum Progressio» (26 martii 1967: AAS 59 (1967) 257-299)

b) Ma la difesa della vita deve cominciare dalle sorgenti stesse della umana esistenza. È stato questo un grave e chiaro insegnamento del Concilio, il quale, nella Costituzione pastorale «Gaudium et Spes», ammoniva che «la vita, una volta concepita, dev’essere protetta con la massima cura; e l’aborto come l’infanticidio sono abominevoli delitti» (Gaudium et Spes, 51). Non abbiamo fatto altro che raccogliere questa consegna, quando, dieci anni fa, promanammo l’Enciclica «Humanae Vitae» (25 iulii 1968: AAS 60 (1968) 481-503): ispirato all’intangibile insegnamento biblico ed evangelico, che convalida le norme della legge naturale e i dettami insopprimibili della coscienza sul rispetto della vita, la cui trasmissione è affidata alla paternità e alla maternità responsabili, quel documento è diventato oggi di nuova e più urgente attualità per i vulnera inferti da pubbliche legislazioni alla santità indissolubile del vincolo matrimoniale e alla intangibilità della vita umana fin dal seno materno.

c) Di qui le ripetute affermazioni della dottrina della Chiesa cattolica sulla dolorosa realtà e sui penosissimi effetti del divorzio e dell’aborto, contenute nel nostro magistero ordinario come in particolari atti della competente Congregazione. Noi le abbiamo espresse, mossi unicamente dalla suprema responsabilità di maestro e di pastore universale, e per il bene del genere umano!

d) Ma siamo stati indotti altresì dall’amore alla gioventù che sale, fidente in un più sereno avvenire, gioiosamente protesa verso la propria auto-realizzazione, ma non di rado delusa e scoraggiata dalla mancanza di un’adeguata risposta da parte della società degli adulti. La gioventù è la prima a soffrire degli sconvolgimenti della famiglia e della vita morale. Essa è il patrimonio più ricco da difendere e avvalorare. Perciò noi guardiamo ai giovani: sono essi il domani della comunità civile, il domani della Chiesa.

Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Vi abbiamo aperto il nostro cuore, in un panorama sia pur rapido dei punti salienti del nostro Magistero pontificale in ordine alla vita umana, perché un grido profondo salga dai nostri cuori verso il Redentore; davanti ai pericoli che abbiamo delineato, come di fronte a dolorose defezioni di carattere ecclesiale o sociale, noi, come Pietro, ci sentiamo spinti ad andare a Lui, come a unica salvezza, e a gridargli: «Domine, ad quem ibimus? verba vitae aeternae habes» (Io. 6, 68). Solo Lui è la verità, solo Lui è la nostra forza, solo Lui la nostra salvezza. Da lui confortati, proseguiremo insieme il nostro cammino.

Ma oggi, in questo anniversario, noi vi chiediamo anche di ringraziarlo con noi, per l’aiuto onnipotente con cui ci ha finora fortificati, sicché possiamo dire, come Pietro, «nunc scio vere quia misit Deus angelum suum»( Act. 12, 11) Sì, il Signore ci ha assistiti: noi lo ringraziamo e lodiamo; e chiediamo a voi di lodarlo con noi e per noi, per l’intercessione dei Patroni di questa «Roma nobilis» e di tutta la Chiesa, su di essi fondata.

O Santi Pietro e Paolo, che avete portato nel mondo il nome di Cristo, e a Lui avete dato l’estrema testimonianza dell’amore e del sangue, proteggete ancora e sempre questa Chiesa, per la quale avete vissuto e sofferto; conservatela nella verità e nella pace; accrescete in tutti i suoi figli la fedeltà inconcussa alla Parola di Dio, la santità della vita eucaristica e sacramentale, l’unità serena nella fede, la concordia nella carità vicendevole, la costruttiva obbedienza ai Pastori; che essa, la santa Chiesa, continui a essere nel mondo il segno vivo, gioioso e operante del disegno redentivo di Dio e della sua alleanza con gli uomini. Così essa vi prega con la trepida voce dell’umile attuale Vicario di Cristo, che a voi, o Santi Pietro e Paolo, ha guardato come a modelli e ispiratori; e così custoditela, questa Chiesa benedetta, con la vostra intercessione, ora e sempre, fino all’incontro definitivo e beatificante col Signore che viene.

Amen, amen.
*****************************


con il successore...
Paolo VI non scrisse molte encicliche in proporzione ai suoi 16 anni di Pontificato, ma indubbiamente usò i Documenti del Concilio Vaticano II per portare avanti la Barca di Pietro....
Le sue Encicliche:
................
con particolare attenzione all'ultima, sulla vita umana....

(con il futuro Giovanni Paolo II)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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pag. 750 Acta Apostolicae Sedis - Commentarium Officiale Paulus VI

IL PROGRAMMA DEL CONCILIO SUL SACRAMENTO DELL'EUCARESTIA

III
Iis qui ex italico clero interfuerunt Coetui XIII per hebdomadam habito
Urbeveti v. « di aggiornamento pastorale ». *

* Die 6 Septembris mensis a. 1963.


Venerati Confratelli,
Voi avete partecipato alla XIII Settimana di Aggiornamento Pastorale,
promossa dal Centro di Orientamento pastorale, a Noi ben noto,
auspice Mons. Grazioso Ceriani, a Noi sempre caro, e accolta e favorita
dallo zelante Vescovo di Orvieto, Mons. Virginio Dondeo, nell'incomparabile
quadro di quella Città e di quella Cattedrale, a ricordo del settimo
centenario del culto eucaristico del « Corpus Domini », che dal miracolo
della vicina Bolsena e dalla Bolla Transiturus del Nostro
lontano Predecessore Urbano IV, ebbe colà la sua universale irradiazione.

Noi ci compiacciamo vivamente di tale manifestazione, di cui abbiamo
seguito con interesse lo svolgimento ed a cui avremmo Noi stessi
partecipato, se la Provvidenza non avesse disposto altrimenti con la
Nostra elezione al Pontificato Romano, ufficio che ha accresciuto immensamente
nel Nostro animo l'apprezzamento di cotesto Convegno,
ma non Ci ha consentito di parteciparvi personalmente. Tanto più
gradito perciò Ci è questo incontro, e tanto più vivi sono i Nostri voti
di frutti copiosi e duraturi, che dalla celebrazione della anzidetta Settimana
possono scaturire. Ne fa fede la lettera che il Nostro Cardinale
Segretario di Stato ha indirizzata a Mons. Ceriani per tale occasione,
e che voi avete accolta con tanta riverenza.

Che cosa rimane a Noi da aggiungere a quanto sul tema centrale
della Settimana : « Eucaristia e comunità cristiana » è stato già detto,
con tanta abbondanza e con tanta competenza di dottrina, e con comprensione
e devozione è stato meditato e tradotto in magnifici e piissimi
atti di culto?


Valori eterni della verità cristiana e loro inserimento nella realtà della vita
Cercando di leggere negli animi vostri, Ci pare di scoprire in voi
l'attesa d'una Nostra approvazione, d'una Nostra conferma a quanto
cotesta vostra visita, quasi facendone significativa offerta, Ci presenta
davanti. Voi venite, innanzi tutto, inalberando un vocabolo introduttivo
come un vessillo che definisce il metodo del vostro lavoro : « aggiornamento », parola questa che ha avuto l'onore di essere accolta dal Nostro
venerato e compianto Predecessore Giovanni XXIII, di felice memoria,
ed è stata da Lui iscritta nel programma del Concilio ecumenico.
Applicata al campo ecclesiastico è parola che indica il rapporto tra
i valori eterni della verità cristiana ed il loro inserimento nella realtà
dinamica, oggi straordinariamente mutevole, della vita umana, quale
nella storia presente, inquieta, torbida e feconda, viene continuamente e
variamente modellandosi.

È la parola che indica l'aspetto relativo e
sperimentale del ministero della salvezza, al quale nulla sta più a cuore
quanto il riuscire efficace, e che avverte quanto la sua efficacia sia condizionata
dallo stato culturale, morale, sociale delle anime a cui si
dirige, e quanto opportuno per la buona cultura, ma specialmente per
l'incremento pratico dell'apostolato, sia conoscere le altrui esperienze e
far proprie quelle buone : omnia probate, quod bonum est tenete.1 È
la parola che mostra il timore delle consuetudini superate, delle stanchezze
ritardatarie, delle forme incomprensibili, delle distanze neutralizzanti,
delle ignoranze presuntuose e inconsapevoli circa i nuovi fenomeni
umani, come pure della scarsa fiducia nella perenne attualità e
fecondità del Vangelo. È la parola che può sembrare ossequio servile
alla moda capricciosa e fuggente, all'esistenzialismo incredulo nei valori
obiettivi trascendenti e avido solo di momentanea e soggettiva pienezza,
ma che invece assegna al succedersi rapido ed inesorabile dei
fenomeni, in cui si svolge la nostra vita, la dovuta importanza, e cerca
di collegarsi con la celebre raccomandazione dell'Apostolo : redimentes
tempus, quoniam dies mali sunt.2

E parola perciò che Noi pure accoglieremo con piacere, quasi espressione
di carità desiderosa di dare testimonianza alla perenne e perciò
alla moderna vitalità del ministero ecclesiastico.
Come svolgere le sollecitudini pastorali di fronte all'errore e per salvare
le anime
E a questo proposito Noi dobbiamo fare buona accoglienza ad un
altro termine, che qualifica l'attività di cui voi siete promotori o seguaci ;
vogliamo dire il termine (( pastorale ». Oggi è termine programmatico e
glorioso. Il Concilio ecumenico, com'è noto, l'ha fatto suo, e vi polarizza
le sue finalità riformatrici e rinnovatrici. Non bisogna vedere in questo aggettivo, che si accompagna alle manifestazioni più alte e caratteristiche
della vita ecclesiastica, un'inavvertita ma nociva flessione verso
il pragmatismo e l'attivismo del nostro tempo, a scapito dell'interiorità
e della contemplazione, che devono avere il primato nella nostra valutazione
religiosa : tale primato rimane, anche se nella pratica le esigenze
apostoliche del regno di Dio, nelle contingenze della vita contemporanea,
reclamano un'assegnazione preferenziale di tempo e di energie all'esercizio
della carità verso il prossimo. Nè si creda che questa sollecitudine
pastorale, di cui oggi la Chiesa si fa programma prevalente, che assorbe
la sua attenzione e impegna la sua cura, significhi cambiamento di giudizio
circa errori diffusi nella nostra società e già dalla Chiesa condannati,
come il marxismo ateo, ad esempio : cercare d'applicare rimedi
salutari e premurosi ad una malattia contagiosa e letale non significa
mutare opinione su di essa, sì bene significa cercare di combatterla non
solo teoricamente, ma praticamente; significa far seguire alla diagnosi
una terapia; e cioè alla condanna dottrinale la carità salvatrice
.

Sarebbe perciò parimente incauto vedere nell'importanza attribuita
alla attività pastorale una dimenticanza, o una rivalità nei confronti
della speculazione teologica : questa conserva la sua dignità e la sua eccellenza,
anche se le impellenti necessità della vita ecclesiastica reclamano
che la dottrina sacra non rimanga puramente speculativa, ma
sia considerata e coltivata nel quadro completo dell'economia cristiana,
dottrina cioè a noi data per praticare una vera religione, per essere
annunciata alle anime e per dimostrare nella realtà storica la sua virtù
salvatrice. Oggi mente e volontà, pensiero e lavoro, verità ed azione, dottrina
ed apostolato, fede e carità, magistero e ministero assumono nella
vita della Chiesa funzioni complementari, sempre più strette ed organiche,
con reciproco splendore ed incremento.

Contenuto evangelico ed apostolico nelle caratteristiche mirabili del Buon
Pastore
Ma, ciò detto, Ci piace rendere onore, anche in questa occasione, a
quanto di evangelico e di apostolico cotesta qualifica di (( pastorale »
ci presenta. Essa ci richiama alla mente uno dei nomi, con cui Gesù
Cristo volle a noi descriversi ; e col nome la figura ineffabile, soave ed
eroica del buon Pastore ; e con la figura la missione di guida, di maestro,
di custode, di salvatore, che Cristo fece sua per amore nostro, e che a
Pietro fra tutti assegnò. Ci richiama alla mente uno dei rami più fiorenti
della teologia pratica, la teologia pastorale, e cioè la scienza e l'arte propria delia Chiesa, arricchita di particolari poteri e carismi, di salvare
le anime, ch'è quanto dire di conoscerle, avvicinarle, istruirle, educarle,
guidarle, servirle, difenderle, amarle, santificarle.

Ci richiama
alla mente Fumile, grande comune espressione del ministero sacerdotale
: la cura d'anime, la carità della Chiesa in atto, nella forma più
consueta, più assidua, spesso più generosa, certo più necessaria.
Noi profittiamo di questa occasione per manifestare la Nostra altissima
stima, la Nostra speciale benevolenza, il Nostro fraterno e vivissimo
incoraggiamento ai Pastori d'anime. È loro dovuto questo particolare
ricordo, che la vostra insegna pastorale subito solleva nell'animo Nostro,
perchè siamo stati fatti Noi stessi Pastori, dapprima in una diocesi che
sembra essere stata nei secoli passati, con S. Ambrogio, con San Carlo,
e ai giorni nostri con i Servi di Dio Cardinali Ferrari e Schuster, ed
essere tuttora campo sperimentale di tipica e positiva importanza pastorale
; ed oggi su questa Cattedra di Pietro chiamati da Cristo a pascere
la sua Chiesa.

È loro dovuta questa espressione della Nostra affettuosa venerazione,
perchè il ministero pastorale obbliga a dedizione completa, come c'insegna,
con la parola e l'esempio, Gesù nostro Maestro : Bonus pastor
animam suam dat pro ovibus suis; 3 ed è perciò dedizione che tocca i vertici
della carità, come ancora Cristo stesso ci ammonisce : Maiorem hac
dilectionem nemo habet, ut animam suam ponat quis pro amicis suis.41
È dovuto il Nostro incoraggiamento ai Pastori d'anime, ai Vescovi e ai
Parroci specialmente, e a quanti altri alle cure pastorali sono dedicati,
perchè sappiamo in quali condizioni essi oggi lavorano : lo stato spirituale
del mondo presenta oggi difficoltà enormi, alcune delle quali fino
a ieri sconosciute.

Il Papa comprende, stima, ama, segue tutti i Sacerdoti di Cristo
Noi sappiamo quali apprensioni pesano spesso sul cuore d'un Vescovo,
quali sofferenze sovente lo affliggono, non tanto per la indigenza
dei mezzi, anch'essa talora così grave e mortificante, ma per la sordità
di chi dovrebbe ascoltare la sua parola, per la diffidenza che lo circonda
e lo isola, per l'indifferenza e la disistima, che squalificano il suo ministero
e lo paralizzano. Noi sappiamo quanti Parroci e Coadiutori esercitano
la cura d'anime in quartieri vasti e popolosi, dove il numero, la
mentalità, le esigenze degli abitanti li obbligano a lavoro indefesso ed
estenuante; e sappiamo anche quanti Sacerdoti invece devono esercitare
il ministero nel nascondimento in piccoli paesi, nella mancanza di
conversazione, di collaborazione e di risultati confortanti : gli uni e gli
altri spesso in condizioni economiche penose, spesso contrastati ed incompresi,
e obbligati a vivere ripiegati su se stessi ; paghi solo di ritrovare
negli umili che li circondano, nel libro sacro delle loro preghiere e
nel tabernacolo il mistero del divino Presente. Noi Ci sentiamo obbligati
ad assicurare questi cari e venerati fratelli, affaticati operai'4 del
Vangelo, ovvero modesti e tenaci ministri della Chiesa di Dio, che il
Papa li pensa, li comprende, li stima, li assiste, li ama, e perciò li segue
con la sua preghiera e con la sua benedizione.

Grandezza sovrumana del Sacerdote ministro del Sacramento Eucaristico
Ed ecco che questo riferimento alla comunione di spirito che Ci unisce
alla grande schiera di Sacerdoti, impegnati nella cura d'anime, Ci
fa concludere queste Nostre parole con un accenno al tema trattato durante
la vostra Settimana di aggiornamento pastorale, e cioè al tema
sull'« Eucaristia e la comunità cristiana », per augurare che la vostra
riflessione su argomento di tanta ricchezza dottrinale e spirituale abbia
a continuare nell'esercizio del vostro ministero, a conferma della convinzione
che nessuna altra azione ne realizza la pienezza di grazia e
l'efficacia pastorale quanto la celebrazione del divin Sacrifìcio, nella
quale, da un lato, la sovrumana potestà dell'Ordine rende realmente
presente, in forma sacramentale, l'Umanità reale di Cristo, Capo di
tutto il Corpo mistico e delle singole comunità locali, e dall'altro la
missione pastorale, che è affidata al Sacerdote in cura d'anime, è obbligata
a rendere realmente presente, in forma comunitaria, il Corpo mistico
di Cristo, che è la Chiesa.

Abbia a continuare, dicevamo, per alimentare nel vostro Sacerdozio
l'inebriante coscienza del suo rapporto antecedente e conseguente con
la Eucaristia, per il quale il Sacerdote è ministro generatore di tanto
Sacramento, e poi primo adoratore e sapiente rivelatore e instancabile
distributore. Abbia a continuare per assegnare al vostro stesso Sacerdozio
come primo dovere, anche sotto l'aspetto della carità e della fecondità
pastorale, quello, comune e sublime, di « dire la Messa ». Sì, dire
la Messa, ma in modo tale che sia puntuale e perfetta nel rito, sia semplice
nella solennità e solenne nella semplicità, sia raccolta nel silenzio
e nella compostezza dell'assemblea
e unanime nella preghiera e nel
canto, sia parlante e misteriosa nel significato, sia da tutti partecipata
nello svolgimento, e sia da tutti cordialmente, devotamente assistita,
dai fanciulli, dai giovani, dagli studenti,. dagli operai, da ogni ceto
sociale ; dagli uomini e dalle donne, dalle famiglie intere, dalle associazioni
cattoliche e dalle istituzioni dimoranti nel territorio parrocchiale,
e con accoglienza più premurosa, dalle care Suore, fiori sacri delle nostre
Parrocchie ; e poi dai sofferenti, dai piangenti, dai vecchi, dai poveri, da
tutto il popolo di Dio, da tutta la comunità invitata, insieme col Sacerdote,
che ivi funge in persona Christi e nello stesso tempo da capo,
interprete e rappresentante della plebe cristiana, ad esprimere il suo
proprio « sacerdozio regale », in modo da rinnovare e perpetuare il
fenomeno, indice e vertice della realtà comunitaria, della prima « moltitudine
dei credenti », che era, com'è scritto negli Atti degli Apostoli :
(( un cuor solo e una anima sola » . 5
Abbia a continuare, ripetiamo, a diffondersi, e a portare questi frutti
auspicati, con la Nostra Benedizione Apostolica.
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Pubblicati gli atti del convegno per il quarantesimo anniversario dell'«Humanae vitae»

Paolo VI avvocato della persona umana


Intento dell'enciclica non è quello d'imporre pesi perché il Pontefice è ben consapevole dei problemi delle singole persone

Sono appena stati pubblicati nel volume Custodi e interpreti della vita. Attualità dell'enciclica "Humanae vitae" gli atti del convegno che si è tenuto dall'8 al 10 maggio 2008 - in occasione del quarantesimo anniversario dell'enciclica - presso la Pontificia Università Lateranense. Nel volume, curato da Lucetta Scaraffia (Roma, Lateran University Press, 2010, Dibattito per il Millennio, 15, pagine 253, euro 35), è compreso un testo poco noto scritto nel 1995 dal cardinale Ratzinger. Lo anticipiamo insieme ad alcuni stralci dell'introduzione.


di Joseph Ratzinger


Con la convocazione e l'apertura del concilio Vaticano II, Giovanni XXIII aveva lasciato in eredità al suo successore Paolo VI il compito di una riforma generale della Chiesa. Quando il concilio ebbe inizio, la fase della ricostruzione postbellica volgeva alla fine.

Le distruzioni, che la dittatura anticristiana di Hitler aveva lasciato, parlavano un linguaggio eloquente. Esse avevano impresso un nuovo orientamento ai fondamenti cristiani dell'Europa e suscitato una volontà comune di risvegliare a nuova vita questo continente tormentato e smembrato.

Nella necessità dell'ora era nata un'intesa nel pensiero e nell'azione, che si dissolse nel momento in cui fu completata nell'essenziale l'opera di ricostruzione. Lo sforzo di rinnovamento della Chiesa non può essere compreso prescindendo da questo contesto sociale e dai suoi cambiamenti.

Nella prima fase postbellica la Chiesa appariva come il baluardo dell'umanità nella coscienza di coloro che avevano sperimentato il dominio della disumanità. Era la realtà sicura che aveva tenuto e aveva dato buona prova di sé. Pertanto essa poteva uscire dal ghetto in cui era stata cacciata nel diciannovesimo secolo:  il liberalismo e l'idea da esso ispirata degli stati nazionali non erano più - così in ogni caso sembrava - in contraddizione con la Chiesa. Lo spirito della modernità e la Chiesa non si guardavano più con ostilità, ma camminavano l'uno verso l'altro.

Il Vaticano II era cominciato in questo clima ottimistico della riconciliazione finalmente possibile fra epoca moderna e fede; la volontà di riforma dei suoi padri ne era plasmata. Ma già durante il concilio questo contesto sociale cominciò a mutarsi. L'epoca moderna non continuò a rimanere nella specifica situazione degli anni del dopoguerra. L'anno 1968 fu il segnale della svolta:  un mondo veramente nuovo e l'uomo nuovo dovevano essere generati dalle forze proprie della ragione e della potenza umana. Gli avvenimenti del 1968 significarono per così dire una rivolta dell'epoca moderna contro se stessa:  proprio la società liberale, organizzata in modo democratico e borghese, appariva ora come il carcere dell'insensatezza e del vuoto, che doveva essere infranto per trovare la libertà vera, assoluta e la vita piena.

La riconciliazione fra epoca moderna e fede, che in qualche modo era stata un'idea conduttrice del Vaticano II, era così messa in discussione nella sua forma concreta. Quell'epoca moderna, con la quale si era cominciato a riconciliarsi, ora non doveva più esserci. La rivoluzione iniziatasi si rivolgeva contro di essa, per realizzare la vera novità, il progresso definitivo. Questo dramma adombrò necessariamente la recezione del concilio e suscitò le note posizioni contrapposte.

Chi non aveva pensato a una riforma in modo deciso a partire dal contenuto della fede e dei suoi criteri riteneva anche ora di non poter restare in ritardo rispetto al nuovo e poteva facilmente perdere il terreno sotto i piedi. Vi erano però anche gli altri, che ora dichiaravano come fallita l'impostazione stessa del concilio e nelle resistenze contro di esso ritenevano di vedere la salvezza. Guidare la navigazione fra Scilla e Cariddi fu il difficile compito toccato a Paolo VI.

In uno sforzo quasi sovrumano egli ha lottato per restare fedele alla vitalità e al dinamismo interiore della fede sottolineati dal concilio:  la fede non è mai formula congelata del passato, ma significa sempre il vero progresso. Essa infatti va incontro a Cristo, che non è solo l'Alfa, ma anche l'Omega della storia. "Le opere di Cristo non vanno all'indietro, ma in avanti", ha detto una volta san Bonaventura. La fede è sempre l'autentica novità e ha qualcosa da dire in ogni tempo; in ogni epoca può parlare nella sua lingua. Il miracolo di Pentecoste non implica solo la possibilità sincronica delle molte lingue e culture di un periodo, ma anche il miracolo diacronico, la forza di parlare nelle lingue di ogni presente e futuro.

Ma in tale sviluppo vivente rimane sempre l'unica fede nell'unico Signore. Perciò il Papa considerò come suo compito quello di difendere e di mettere in luce questa entità della fede invece di dissolvere il messaggio in un semplice contrappunto o ripetizione delle ideologie che vengono e che vanno. Nella confusione delle dittature essa aveva dato buona prova di sé proprio per la sua non disponibilità a lasciarsi corrompere:  si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. Se molti classificano il pontificato di Papa Montini come contraddittorio, come dialettica irrisolta fra progresso e tradizione, essi trascurano ciò che più lo caratterizza, quest'unità interiore della sua azione, che proviene dall'immutabilità e dal dinamismo dell'amore a Cristo.

Retrospettivamente appare assai significativo che Paolo VI abbia pubblicato proprio nell'anno fatale del 1968 due grandi documenti, che sono una testimonianza della sua capacità di comprensione e della fermezza della sua azione a partire dalla fede. Vi è innanzitutto la Professione di fede, che egli ha consegnato alla Chiesa il 30 giugno 1968 a conclusione dell'anno della fede da lui proclamato; vi è poi l'enciclica Humanae vitae del 25 luglio dello stesso anno. Merita rileggere questi documenti 25 anni dopo. Essi corrispondono a un determinato momento e alle sue sfide, ma vanno molto al di là del momento storico e appartengono al patrimonio permanente della Chiesa, anzi, se li rimeditiamo adesso - dopo tutto quel che è avvenuto - notiamo quanto essi siano attuali e adatti al momento presente.

Veniamo ora al secondo grande documento dell'anno 1968, all'enciclica Humanae vitae. Raramente un testo della storia recente del Magistero è divenuto tanto un segno di contraddizione come questa enciclica, che Paolo VI ha scritto a partire da una decisione di coscienza profondamente sofferta. Due obiezioni fondamentali vengono sollevate contro il testo, una procedurale e una contenutistica.

Dal punto di vista della procedura si rileva che il Papa avrebbe deciso contro la maggioranza della commissione di studio appositamente costituita e si sarebbe collocato in tal modo su di un terreno poco stabile; dal punto di vista del contenuto viene rimproverato all'enciclica che la sua affermazione centrale riposerebbe su di un concetto di natura superato, essa avrebbe mescolato biologia ed etica.

Il problema del rapporto fra maggioranza della commissione e decisione definitiva del Papa tocca questioni di fondo, che vanno molto al di là della problematica dell'enciclica Humanae vitae. Qui si dovrebbero porre problemi come i seguenti:  quando una maggioranza è veramente rappresentativa? Chi deve rappresentare? Come può farlo?
Senza che il problema possa venire qui discusso in tutta la sua ampiezza, possiamo al riguardo dire quanto segue:  una commissione, che dà un parere sulla dottrina della Chiesa, non deve in ogni caso rappresentare la maggioranza dei pareri dominanti, ma l'esigenza interiore della fede.

La verità non viene decisa a maggioranza; davanti alla questione della verità ha termine il principio democratico.
Nella Chiesa inoltre non conta mai solo la società attualmente presente. In essa i morti non sono morti, perché come comunione dei santi essa va al di là dei confini del tempo presente. Il passato non è passato, e il futuro proprio per questo è già presente. Detto anche con altre parole:  nella Chiesa non vi può essere nessuna maggioranza contro i santi, contro i grandi testimoni della fede che caratterizzano tutta la storia. Essi appartengono sempre al presente, e la loro voce non può essere messa in minoranza. La responsabilità nei confronti della continuità della dottrina ecclesiale aveva perciò giustamente per Paolo VI un'importanza maggiore di una commissione di sessanta membri, il cui voto era da tenere in considerazione, ma non poteva costituire l'ultima istanza di fronte al peso della tradizione.

Chi legge serenamente l'enciclica, troverà che essa non è affatto impregnata di naturalismo o biologismo, ma è preoccupata di un autentico amore umano, di un amore, che è spirituale e fisico in quella inseparabilità di spirito e corpo, che caratterizza l'essere umano (in particolare il n. 9). Poiché l'amore è umano, per questo motivo ha a che fare con la libertà dell'uomo, e pertanto deve essere amore, che ama l'altro non per me, ma per se stesso.
Per questo fedeltà, unicità e fecondità sono ancorate nella essenza interiore di questo amore. A Paolo VI sta a cuore difendere la dignità umana dell'amore umano e coniugale. Perciò la libertà - che nella sua essenza è libertà moralmente ordinata - è al centro delle sue riflessioni:  il Papa ritiene la persona umana capace di una grande cosa:  capace di fedeltà e capace di rinuncia.

Per questo motivo egli non vuole che il problema della fecondità responsabile - il controllo delle nascite - sia regolato in modo meccanico, ma che venga risolto in modo umano, cioè morale, a partire dallo spirito dell'amore e della sua libertà stessa.

Se si volesse fare un rimprovero al Papa, non potrebbe essere quello del naturalismo, ma al massimo quello che egli ha un'idea troppo grande dell'essere umano, della capacità della sua libertà nell'ambito del rapporto spirito-corpo. Chi ha conosciuto anche solo globalmente la figura di Paolo VI, sa che non gli mancavano la sensibilità pastorale e la conoscenza dei problemi delle singole persone.
 
Intenzione dell'enciclica non è quella di imporre pesi; il Papa si sente piuttosto impegnato a difendere la dignità e la libertà dell'uomo contro una visione deterministica e materialistica. Egli parla nella prospettiva dell'eternità, nella sua responsabilità davanti alla totalità della storia. Sotto questo punto di vista egli non poteva parlare altrimenti, e a partire da questa prospettiva si deve leggere l'enciclica:  come arringa in favore dell'umanità dell'amore e in favore della dignità della sua libertà morale. Qui si manifesta come Paolo VI anche in questo punto, proprio in questo punto, parli come avvocato della persona umana; come la fede, che lo ispirava, difende la persona umana, anche là ove essa la sprona.



(©L'Osservatore Romano 22-23 novembre 2010)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Il 1° dicembre 1970 veniva approvata in Italia l'introduzione dell'istituto del divorzio

"Palliativo giuridico contrario alla legge di Dio"


di Eliana Versace

All'alba del 1° dicembre del 1970, al termine di una tra le più lunghe sedute nella storia del Parlamento italiano, il presidente della Camera dei deputati, il socialista Sandro Pertini, annunciò l'approvazione definitiva della contrastata proposta di legge Fortuna-Baslini che prevedeva l'introduzione dell'istituto del divorzio.
La controversa vicenda parlamentare che portò alla legalizzazione del divorzio e al successivo referendum abrogativo della legge si svolse complessivamente nell'arco di un decennio, tra il 1965 ed il 1974, e venne a coincidere in larga parte con il pontificato di Paolo VI. Giovanni Battista Montini era infatti Papa da due anni quando, il 1° ottobre del 1965, il deputato del Partito socialista Loris Fortuna presentò alla Camera dei deputati il suo progetto di legge sull'istituzione del divorzio. Anche questa proposta sarebbe probabilmente rimasta senza seguito, come era avvenuto per le altre, avanzate negli anni precedenti sempre da parlamentari del Psi se, a sostegno del deputato socialista, non si fosse raccolto un gruppo d'ispirazione radicale, capeggiato da Marco Pannella, che diede così origine a una "Lega per l'istituzione del divorzio in Italia". Questo movimento godette di ampia visibilità grazie al combattivo e animoso sostegno di riviste di orientamento laico e spesso anticlericale, tra le quali il periodico sensazionalistico "Abc", che si rivolgeva a un pubblico popolare, a cui si aggiunse, tempo dopo, il settimanale d'opinione "L'Espresso".

Il Papa confidava in una presa di posizione più energica e più impegnativa da parte di tutta la stampa cattolica, il cui apporto sarebbe stato indispensabile, "per agire con successo in un mondo così restìo a comprendere il valore anche soltanto naturale e sociale, oltre che religioso" del matrimonio e della famiglia. Queste ansie, che Paolo VI lasciava trapelare all'inizio del 1968 ebbero primaria influenza pure nell'indurre il Papa ad accelerare la nascita, nel dicembre di quello stesso anno, del quotidiano cattolico nazionale "Avvenire".

Fu all'inizio del 1960 che Montini affrontò pubblicamente e apertamente la questione del divorzio, affidando le sue riflessioni a una lettera pastorale indirizzata alla diocesi di Milano per la Quaresima e intitolata Per la famiglia cristiana. L'arcivescovo vi trattava con chiarezza, rigore, e con una impressionante preveggenza, quelle insorgenti tematiche che minacciavano la regolarità e l'unità della famiglia, soffermandosi appunto sul divorzio, ma dedicando ampio spazio anche all'aborto e alla regolamentazione delle nascite. La questione dell'indissolubilità del matrimonio e del divorzio, che emerge in verità in diversi punti della lettera pastorale, veniva ampiamente affrontata nel paragrafo intitolato, in maniera inequivocabile, Inflessibile energia della Chiesa contro il divorzio. 

Spiegava infatti Montini, introducendo il discorso sul divorzio - ritenuto "un palliativo giuridico contrario alla legge di Dio" - che "non per nulla la Chiesa vi si oppone con inflessibile energia:  essa è la custode più gelosa della vita, dell'amore, dell'onestà; essa è la difesa più tenace del bene sociale che deriva dall'indissolubilità della famiglia; essa è la tutrice più fiera e più tenera dei figli innocenti che il divorzio priva di genitori responsabili". L'arcivescovo esortava poi il popolo cattolico a "vigilare su la non mai sopita campagna in favore del divorzio, ricordando la circostanza, che fa onore all'Italia e che ne tutela uno dei beni migliori, e cioè la non esistenza del divorzio nella legislazione civile, e non dimenticando che ogni infrazione, foss'anche col così detto "piccolo divorzio", alla stabilità della famiglia non sarebbe rimedio ai mali che si vorrebbero togliere con tale legalizzazione dell'infedeltà coniugale".

Proprio sull'obbligo evangelico, prima ancora che morale e giuridico, della fedeltà coniugale le parole del futuro Pontefice appaiono chiare e intransigenti:  "è un linguaggio che diventa strano e insolito per l'orecchio moderno, avvezzo alla casistica sempre più varia e più ricca della dissolutezza coniugale, e alle espressioni che ammorbidiscono, con cortesi ipocrisie, l'ignobile crudezza. Ma è linguaggio - continuava Montini - che noi cristiani non possiamo sostituire:  adultero dovremo chiamare chiunque infrange il vincolo che il matrimonio ha reso intangibile e sacro". L'arcivescovo si dimostrava tuttavia fiducioso nella retta coscienza dei cristiani, nonostante continuasse a temere l'influenza corrosiva esercitata dalla grande stampa nazionale, alla quale rivolgeva le maggiori critiche.
All'amore coniugale, tratteggiato con singolare finezza e riletto attraverso una predominante ottica provvidenziale, sono invece dedicate le pagine più belle e suggestive del documento milanese. Il lettore è portato così a intuire come l'amore sincero che unisce marito e moglie e che viene santificato nel sacramento del matrimonio, non sia frutto del caso o delle circostanze e nemmeno scaturisca solo ed esclusivamente dalle legittime e motivate scelte umane ma, ispirato da Dio, è anch'esso parte indispensabile del suo misterioso progetto di salvezza. Ma Montini, nella lettera pastorale, giungeva a cogliere anche una speciale declinazione dell'amore che impegna l'uomo e la donna e che, in una maniera al tempo stesso intima e sublime, assume nel matrimonio quella dimensione, silenziosa e totale, di carità coniugale, di cui tanta esperienza hanno gli sposi cristiani. "Osiamo dunque pronunciare una grande parola - scriveva allora l'arcivescovo - carità è diventato l'amore. Questo sacro impegno d'amore, vivificato dalla grazia è infatti carità". Proprio il termine "carità" - prediletto da Montini e che affiora sovente nella sua intensa biografia spirituale ed intellettuale - era evidenziato dall'autore attraverso una sottolineatura a penna nel testo manoscritto originale.
Possiamo dunque meglio comprendere l'angustia e il profondo turbamento con cui, una volta divenuto Pontefice, Paolo VI seguì la vicenda parlamentare che avrebbe condotto all'approvazione della legge sul divorzio in Italia. Già all'inizio del 1967 il Papa espresse pubblicamente "sorpresa e dispiacere" nei confronti del Parlamento che aveva dichiarato il divorzio compatibile con le norme costituzionali italiane e, negli stessi giorni, "L'Osservatore Romano" denunciava il grave vulnus inferto al Concordato dalla proposta di legge che si avviava a riprendere l'iter parlamentare.

Fu allora che in ambienti cattolici si iniziò a prospettare l'eventualità di un referendum, anche tra personalità molto vicine a Montini:  come monsignor Franco Costa, assistente generale dell'Azione Cattolica dal 1964 per volontà di Paolo VI, il quale aveva frequenti contatti con gli esponenti politici democristiani e svolgeva un ruolo non ufficiale di intermediario tra la Santa Sede e la Democrazia cristiana. E nell'ottobre del 1968, anche la Giunta centrale di Azione Cattolica, guidata dal presidente Vittorio Bachelet, elaborando un documento intitolato Per l'unità della famiglia cristiana, aveva avanzato la proposta referendaria perché - come spiegava Bachelet, in una lettera pubblicata sul quotidiano "La Stampa" e scritta per rispondere a un attacco polemico lanciato da Arturo Carlo Jemolo - "l'ipotesi del referendum che la Costituzione prevede, difficilmente potrebbe trovare una ipotesi di più propria applicazione che in una decisione di così grande importanza e che tocca così da vicino l'esperienza e la coscienza di ciascun cittadino". Nel timore concreto che la legge sarebbe stata infine comunque approvata, quindi, diversi cattolici sembravano ormai persuasi, sin dal 1968, della necessità di ricorrere a un referendum abrogativo.
Nell'estate del 1969 i vescovi lombardi, uniti a quelli del Piemonte e del Triveneto, emanarono una notificazione molto esplicita in merito alla questione del divorzio. Nel documento a proposito del "divorzio e della volontà del Paese", i presuli del Nord Italia ritenevano che "in uno stato democratico, come quello italiano (...) non si possa in ogni caso modificare la struttura fondamentale della famiglia stessa senza avere direttamente accertato il pensiero e la volontà della maggioranza del Popolo".

Ma, più che a un referendum abrogativo della legge sul divorzio, l'episcopato lombardo faceva invece riferimento all'eventualità di un referendum preventivo, "con il quale - notava il giornalista Sandro Magister nel suo libro del 1979, La politica vaticana e l'Italia - sottoporre alla riconferma popolare, data per sicura, l'articolo del codice civile che dichiara sciolto il matrimonio solo in caso di morte". Anche la Conferenza episcopale italiana (Cei), nell'adunanza del settembre 1969, accolse per acclamazione questa nota, già sottoscritta peraltro da diversi episcopati regionali. I vescovi italiani, con una dichiarazione approvata all'unanimità, non solo ribadirono, due mesi dopo, "le ragioni naturali prima ancora che religiose" della loro contrarietà all'istituzione del divorzio, ma auspicarono anche la possibilità di "accertare direttamente il pensiero e la volontà della maggioranza del popolo". La Cei aveva intanto costituito un'apposita Commissione episcopale per la famiglia, presieduta da monsignor Enrico Nicodemo, impegnata a difendere la sacralità del vincolo matrimoniale e promuovere una più efficace formazione del laicato cristiano su questi temi. Uno specifico documento dedicato a Matrimonio e famiglia oggi in Italia, venne predisposto e diffuso nel novembre di quell'anno.
Prima ancora che il vescovi dell'alta Italia rendessero pubblica la loro notificazione, a Roma, sin dalla primavera del 1969, il "Movimento per la difesa della famiglia", presieduto dal giurista Raffaele Pio Petrilli, già presidente del Consiglio di Stato e ben conosciuto da Montini fin dagli anni milanesi, stava avviando una capillare azione di propaganda per promuovere un "referendum nazionale", con lo scopo di ottenere "il rigetto del deprecato progetto di legge" sul divorzio, prima che questo potesse tornare all'esame delle camere.

L'ipotesi di un referendum preventivo - del quale si era parlato anche all'interno del gruppo parlamentare democristiano al Senato e che lo stesso Bachelet non aveva escluso - sembrava costituzionalmente possibile ma difficilmente praticabile, in quanto mancava ancora una legge di attuazione della normativa in materia referendaria. Tuttavia, lo stesso Paolo VI, a cui ci si era direttamente rivolti, offrì a questa iniziativa del "Movimento per la difesa della famiglia", il suo personale sostegno, in una maniera tanto discreta quanto concreta.


(©L'Osservatore Romano - 1 dicembre 2010)


si legga anche qui:

LA CHIESA NON PUO' DARE LA COMUNIONE AI DIVORZIATI RISPOSATI PERCHE' LI AMA



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La preveggenza di Paolo VI


In due appunti autografi del 15 giugno 1970 e del 21 novembre 1971

Pubblichiamo un articolo scritto dal nostro direttore e apparso nel 2004 con il titolo Montini e il divorzio trent'anni dopo sul terzo numero della rivista "Vita e Pensiero" dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

"Argentina Marchei ha vinto, Paolo VI ha perso":  così un cartello esibito davanti a Montecitorio da manifestanti radicali e laici - lo ha ricordato di recente Valter Vecellio sul "Corriere della Sera" - sintetizzava con provocatoria efficacia l'introduzione del divorzio nella legislazione italiana, contrapponendo a Papa Montini la donna romana, militante comunista e sostenitrice della Lega per l'istituzione del divorzio, che fu la prima beneficiaria della nuova legge.


La vicenda - sfociata l'1 dicembre 1970 nella promulgazione del contrastato provvedimento - si era infatti aperta quasi agli inizi del pontificato di Paolo VI, nel 1964, quando partì la proposta legislativa, e culminò nel referendum che il 12 e 13 maggio 1974 respinse con un sorprendente 59,1 per cento dei voti il tentativo di abrogare la legge sul divorzio, mentre gli antidivorzisti raccolsero il 40,9 per cento di consensi. Fu una svolta, politica ma soprattutto sociale e ideologica, sulla quale a suo tempo molto si è discusso. Alla sua ricostruzione si aggiungono ora due appunti inediti di Papa Montini, consegnati ad Agostino Casaroli (allora segretario del Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa) e conservati a Bedonia (Parma) nel centro intitolato al diplomatico vaticano.
I fatti di trent'anni fa sembrano lontani e superati, ma i suoi effetti perdurano, e il nodo costituito dall'opportunità di legislazioni ispirate a morali religiose appare non risolto. Evidente è oggi il contrasto di insegnamenti etici un tempo diffusi con l'affermazione esclusiva dei diritti individuali e con un laicismo aggressivo e intollerante. In Italia, dal divorzio si passò alla regolamentazione dell'aborto - introdotta nella legislazione e sottoposta anch'essa a un tentativo di abrogazione referendaria, sconfitto nel 1981 con percentuali ancora più distanti tra sostenitori e oppositori della legge - e ora a quella della fecondazione assistita.

Ma lo scontro sull'aborto non ebbe lo stesso impatto di quello che divise all'inizio degli anni Settanta il Paese. Nel 1974 infatti l'Italia sembrò all'improvviso prendere coscienza di una secolarizzazione che in realtà si era accelerata progressivamente dagli anni Sessanta, con effetti sociali sconvolgenti, dalla denatalità allo sfaldamento dei tradizionali nuclei familiari. E tuttavia una riflessione spassionata sull'introduzione del divorzio non è ancora stata tentata, né da parte laica né soprattutto da parte cattolica, benché ricostruzioni e documenti siano stati pubblicati da Sandro Magister nel volume La politica vaticana e l'Italia (Roma, Editori Riuniti, 1979) e quindi nel diario di Gian Franco Pompei (1915-1989), già consigliere diplomatico di Aldo Moro e allora rappresentante italiano presso la Santa Sede (Un ambasciatore in Vaticano. Diario 1969-1977, Bologna, Società editrice il Mulino, 1994), curato da Pietro Scoppola.
Nella vicenda il ruolo del Pontefice apparve emblematico al punto da divenire slogan nel cartello laicista ("Paolo VI ha perso"), così come la sua opposizione all'aborto lo fece rappresentare gravido e compiaciuto in una vignetta su "la Repubblica" dell'8 giugno 1978, tre settimane prima del bilancio del pontificato che Papa Montini pronunciò il 29, nelle sue ultime settimane di vita, richiamando tra l'altro la sua contestatissima enciclica Humanae vitae (1968) per il controllo naturale delle nascite:  "quel documento è diventato oggi di nuova e più urgente attualità per i vulnera inferti da pubbliche legislazioni alla santità indissolubile del vincolo matrimoniale e alla intangibilità della vita umana fin dal seno materno. Di qui le ripetute affermazioni della dottrina della Chiesa cattolica sulla dolorosa realtà e sui penosissimi effetti del divorzio e dell'aborto, contenute nel nostro magistero ordinario (...). Noi le abbiamo espresse, mossi unicamente dalla suprema responsabilità di maestro e di pastore universale, e per il bene del genere umano! Ma siamo stati indotti altresì dall'amore alla gioventù che sale, fidente in un più sereno avvenire, gioiosamente protesa verso la propria auto-realizzazione, ma non di rado delusa e scoraggiata dalla mancanza di un'adeguata risposta da parte della società degli adulti. La gioventù è la prima a soffrire degli sconvolgimenti della famiglia e della vita morale".

Il ruolo di Papa Montini fu importante nell'opposizione, ovvia e impopolare, a divorzio e aborto, ma anche nello scontro che divise il Paese - e in particolare il mondo cattolico e la Democrazia Cristiana, che ne era la principale espressione politica - sulla legge e poi sul referendum. La questione, già molto complicata, attraversò fasi diverse, condizionate dalle vicende interne ai partiti, innanzi tutto proprio quello democristiano, anche su questo diviso. Montini - che origini familiari e sensibilità intellettuale portarono a essere sacerdote, vescovo e Papa acutamente vicino alla modernità e altrettanto consapevole delle sue contraddizioni - visse dolorosamente la vicenda che spaccò il paese, turbò il mondo cattolico e sembrò riaprire la ferita di "una nuova Porta Pia. Anche Paolo VI, come Pio ix, ha voluto la sua", come scrisse Pompei la sera del 13 maggio 1974, aggiungendo dal suo punto di vista, vicino agli intellettuali cattolici contrari ad abrogare la legge:  "Speriamo solo che non ci vogliano alla Chiesa 59 anni per comprendere che questa, come quella, l'ha liberata da un peso temporale, dalle scorie" (Un ambasciatore, p. 376).

Le reazioni del Papa sarebbero invece state, nell'udienza generale del 15 maggio, "di stupore e di dolore, anche perché a sostegno della tesi, giusta e buona, dell'indissolubilità del matrimonio è mancata la doverosa solidarietà di non pochi membri della comunità ecclesiale". E l'8 giugno, parlando ai vescovi italiani, Paolo VI rivolse "un paterno appello agli ecclesiastici e religiosi, agli uomini di cultura e di azione, e a tanti carissimi fedeli e laici di educazione cattolica, i quali non hanno tenuto conto, in tale occasione, della fedeltà dovuta ad un esplicito comandamento evangelico, ad un chiaro principio di diritto naturale, ad un rispettoso richiamo di disciplina e comunione ecclesiale, tanto saggiamente enunciato da codesta Conferenza Episcopale e da noi stessi convalidato:  li esorteremo tutti a dare testimonianza del loro dichiarato amore alla Chiesa e del loro ritorno alla piena comunione ecclesiale, impegnandosi con tutti i fratelli nella fede al vero servizio dell'uomo e delle sue istituzioni, affinché queste siano internamente sempre più animate da autentico spirito cristiano".
I due appunti inediti di Papa Montini precedono il trauma del referendum, e anzi il primo, datato "15.6.70", addirittura l'approvazione della legge, quando ancora si sperava in un accordo con la Santa Sede. Il testo di Paolo VI si estende su due foglietti con lo stemma papale, interamente autografi e senza correzioni. Nel primo il Pontefice espone un'attenta valutazione delle conseguenze della legge:  "Non meno della retta interpretazione del Concordato e della sua valida conservazione, preme scongiurare l'introduzione del divorzio nella legislazione italiana (e in quali termini previsti!). Quale sfortuna sarebbe per l'Italia, per la sua tradizione giuridica, per la solidità dell'istituto familiare e della compagine sociale, per la pedagogia del costume e del concetto autentico dell'amore, per il senso del dovere, per la sorte di tanti figli-orfani di genitori infedeli alla loro responsabilità, per la divisione degli animi risultante e per l'obbligo della protesta doverosa per i cattolici e per la Chiesa. Sarebbe atto "politico" infelicissimo".

Sul secondo foglietto Montini elenca quanto doveva essere comunicato a Pompei dall'allora sostituto della Segreteria di Stato Giovanni Benelli e che l'ambasciatore annotò - intravedendo l'appunto, "che mi è sembrato della mano di Sua Santità" - ed espose al ministro degli esteri Moro in un dispaccio del 25 giugno, giorno dell'incontro (cfr. Un ambasciatore, pp. 86-87):  "A voce:  Far sapere all'Ambasciatore d'Italia che la promulgazione della legge sul divorzio produrrà vivissimo dispiacere al Papa:  per l'offesa alla norma morale, per l'infrazione alla legge civile italiana, per la mancata fedeltà al Concordato e il turbamento dei rapporti fra l'Italia e la Santa Sede, per il danno morale e sociale, facilmente progressivo, risultante a carico dell'istituto familiare, dei figli specialmente, per la posizione di contrasto che Clero e cattolici sono obbligati a prendere sopra così grave e permanente questione, nei riguardi del Paese". Cinque mesi più tardi la legge veniva approvata, mentre il Papa era in Australia per l'ultimo viaggio internazionale.

Più breve, su un semplice foglietto, è il secondo appunto, datato "21.xi.1971", quando ormai la legge era approvata e la situazione ingarbugliatissima, con le firme per il referendum depositate e le trattative per una revisione migliorativa della legge (che lo avrebbe evitato) vanificate anche dalla lotta intestina nella Democrazia Cristiana per l'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Paolo vi scrive:  "Allo stato presente delle cose, penso che sia dovere e interesse attenersi alla difficile, ma lineare prova del referendum, anche se dubbio ne sia il risultato. È un rischio audace, ma che dà credito a chi lo affronta per lealtà democratica e cristiana, e che impegna ogni corrente di sana ispirazione morale a dare fiducia a chi lo affronta con franchezza politica, e obbliga la coscienza cattolica del Paese a ritrovare energia ed unità". Con lucidità e senza illusioni di vittoria, da molti coltivate sino alla vigilia della prova referendaria, ma senza incertezze. Su una questione che Montini, pontefice dalla spiccata sensibilità politica, riteneva - certo da un punto di vista morale, ma anche su un piano squisitamente laico e dunque politico - decisiva per il futuro dell'Italia. E soprattutto in coerenza con una predicazione cristiana sui temi della morale sessuale che lo rese impopolare.


(©L'Osservatore Romano - 1 dicembre 2010)


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Per un bilancio dell'"Humanae vitae" quarant'anni dopo

Progresso e destino nella visione di Papa Montini


Nel pomeriggio di venerdì 18 febbraio, alla Pontificia Università Lateranense, viene presentato il volume Custodi e interpreti della vita. Attualità dell'enciclica "Humanae vitae" (a cura di Lucetta Scaraffia, Città del Vaticano, Lateran University Press, 2010, Dibattito per il Millennio, pagine 253, euro 35). Anticipiamo l'intervento di uno dei relatori dell'incontro al quale, oltre alla curatrice del libro, partecipano anche l'arcivescovo Luis Francisco Ladaria Ferrer, segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, il vescovo Enrico dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense, la giornalista Ritanna Armeni e il direttore del "Foglio", Giuliano Ferrara.

di HERMANN GEISSLER

"Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi (...) Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere" (Matteo, 7, 17-20), così disse Gesù. L'enciclica Humanae vitae divenne ben presto "segno di contraddizione": non solo per le società occidentali segnate dalla rivoluzione sessuale, ma anche per vasti settori della Chiesa troppo influenzati dallo spirito del mondo. Il volume Custodi e interpreti della vita ha il pregio di mostrare con efficacia i frutti prodotti sia dall'importante documento di Papa Paolo VI, sia dalla rivoluzione sessuale che ha trasformato le relazioni interpersonali e sociali delle donne e degli uomini.

Considerando oggettivamente questi frutti, condividiamo pienamente la conclusione alla quale giunge Lucetta Scaraffia nell'introduzione: "Paradossalmente, dopo che per quarant'anni le società occidentali hanno trasgredito le norme morali proposte dall'Humanae vitae, oggi è più facile far capire il loro valore e la loro necessità. Il fallimento clamoroso della rivoluzione sessuale (...) rende la società più sensibile a un discorso diverso, pronunciato da chi, come la Chiesa, conosce bene l'essere umano e per questo non ha mai creduto alle utopie moderne" (pp. 11-12).

Non pochi ritengono che l'insegnamento morale della Chiesa presenterebbe troppi divieti, sarebbe una serie di "no", come mostrerebbe in particolare l'Humanae vitae con i suoi "no" all'aborto, alla sterilizzazione e alla contraccezione. I vari contributi del presente volume mettono in evidenza che è vero il contrario: l'Humanae vitae, come tutta la morale cattolica, è un grande "sì": un "sì" alla vita, alla dignità della persona e soprattutto all'amore coniugale. Le seguenti considerazioni cercano di sviluppare tale approccio in alcuni campi del dibattito circa l'Humanae vitae trattati nel volume che presentiamo.

Nel 1968 quando Paolo VI pubblicò l'Humanae vitae, giunse al suo culmine il processo di liberazione sessuale che mirava a "liberare il comportamento sessuale dalle regole morali che lo avevano imbrigliato, per restituirlo ad una mitica naturalità, cosa che avrebbe finalmente reso felici gli esseri umani" (p. 53). Nel contempo si parlava molto della crescita demografica, che - secondo alcuni - stava minando le risorse del pianeta. In questo contesto la "pillola anticoncezionale" appariva come la risposta ideale: permetteva alle donne, finalmente, di separare la sessualità dalla procreazione e costituiva un mezzo efficace per regolamentare la crescita della popolazione ed evitare un disastro ecologico. Così la pillola divenne quasi il "simbolo del progresso" e del tempo nuovo più libero e più felice. Paolo VI però disse "no" alla contraccezione e così appariva come nemico del progresso.

In realtà, l'Humanae vitae non è in alcun modo contro il vero progresso. Non ignora le condizioni demografiche, non è per sé contraria a una ragionevole limitazione della natalità, né alla ricerca scientifica e alle cure terapeutiche, né tanto meno alla paternità veramente responsabile. Nel suo illuminante contributo Giovanni Maria Vian cita un passo di un'importante omelia di Paolo VI pronunciata il 29 giugno 1978, quindicesimo anniversario della sua elezione alla cattedra di Pietro. Riassumendo il Pontificato, il Papa menziona come elemento imprescindibile del suo servizio alla verità "la difesa della vita umana", attestata da due encicliche: la Populorum progressio e l'Humanae vitae (cfr. p. 22).

Paolo VI quindi cercò di servire il progresso veramente umano: quello dei popoli in via di sviluppo e quello della vita matrimoniale nel pieno rispetto di ogni vita umana e dell'amore coniugale. Scrisse al riguardo il cardinale Joseph Ratzinger in un testo ripubblicato nel volume: "Intenzione dell'enciclica non è quella di imporre pesi; il Papa si sente piuttosto impegnato a difendere la dignità e la libertà dell'uomo contro una visione deterministica e materialistica (...) Qui si manifesta come Paolo VI anche in questo punto (...) parli come avvocato della persona umana" (p. 52). Vediamo come l'Humanae vitae sia un "sì" al vero progresso, cioè a quello che rispetta e difende integralmente la dignità della persona.

L'ideologia della rivoluzione sessuale sostenne che nel matrimonio la donna si troverebbe quasi in una prigione perché dovrebbe far nascere tanti bambini non desiderati. Con la pillola, invece, potrebbe liberarsi e potrebbe emarginare completamente le nascite impreviste. Ciò comporterebbe in modo decisivo la sua liberazione e la nascita di figli veramente voluti e quindi, come si disse, "più sani e più intelligenti, ma anche più equilibrati e più felici di quelli nati "per caso"" (p. 61).

Tenendo conto degli sviluppi degli ultimi decenni, occorre costatare tuttavia che la pillola non ha comportato una più grande libertà della donna né un rispetto maggiore dei figli. Al contrario, come evidenziano i contributi di Paul Yonnet, Claudio Risé, Francesco D'Agostino, Eugenia Roccella e Jeanne H. Matlary, la contraccezione ha profondamente trasformato la vita familiare e sociale, caratterizzata sostanzialmente dall'"egocentrismo (...) prodotto specifico dell'individualizzazione moderna" (pp. 90-91); ha mutato il rapporto tra uomo e donna, "separato dalla sua sorgente originaria: Dio" (p. 96) e segnato da una "crisi del dono" (p. 97), perché l'altro viene visto sempre più come "una cosa" totalmente dominabile e manipolabile, con conseguenze terribili soprattutto per la donna (p. 100); ha favorito il diffondersi della fecondazione artificiale, che dimostra come l'uomo, ignorando l'ammonimento di Humanae vitae, abbia abdicato "alla propria responsabilità per rimettersi ai mezzi tecnici" (p. 121); ha aperto in tal modo il passo dal figlio desiderato al figlio scelto, che perde così "il senso di vita umana preziosa ed unica, e diventa immediatamente un oggetto selezionabile" (p. 131); finisce quindi con un relativismo etico che mina la base della politica europea e in particolare i diritti dei figli.

In molti Stati, infatti, "viene ignorato il diritto di un bambino di sapere chi siano i suoi genitori biologici; allo stesso modo, viene ignorato che il medesimo bambino ha il diritto di essere allevato dai propri genitori biologici, se possibile. Inoltre, madre e padre non sono considerati necessari per la crescita del bambino, poiché il sesso è diventato una questione di costruzione sociale e non di biologia" (pp. 135-136). Questi sviluppi fanno vedere le conseguenze disastrose del "no" all'Humanae vitae, che rappresenta invece un grande "sì" alla dignità della donna e dei figli. La pillola favoriva il diffondersi di una nuova cultura, chiamata talvolta "cultura della contraccezione" (p. 232). Separando l'amore dalla procreazione, tale cultura pretendeva di "liberare" l'amore, di renderlo più pieno e più umano. Poiché l'Humanae vitae giudicava illecita la contraccezione, è stata presentata come un "no" al primato dell'amore e come ricaduta in una visione superata che vedeva l'unione matrimoniale solo in funzione della procreazione.

Leggendo il testo dell'enciclica, ci si accorge tuttavia che si tratta di un documento che parla innanzitutto dell'amore coniugale e offre la norma morale come un'esigenza intrinseca dell'autentico amore. Nel nostro volume questa dimensione fondamentale viene approfondita soprattutto nei contributi commoventi di Elena Giacchi e Evelyn L. Billings circa i "metodi naturali". Tali metodi hanno un'efficacia del 98-99 per cento (cfr. p. 161), sono facili da imparare e proponibili a tutte le coppie (cfr. p. 166) e consentono ai coniugi di attuare con serenità una "scelta consapevole e libera, secondo le proprie esigenze, di aprirsi alla ricerca della gravidanza, oppure di rinviare o evitare il concepimento, qualora sussistano validi motivi per farlo" (p. 164).

Nel contempo i metodi naturali, che certamente esigono la conoscenza della fisiologia riproduttiva della donna e la disciplina nella vita dei coniugi, favoriscono la comunicazione, il rispetto vicendevole, l'armonia e l'amore tra marito e moglie. È molto eloquente la testimonianza di una donna semplice: "Questo Metodo è amore". Tale punto centrale è stato affrontato anche da Marta Brancatisano, che legge l'Humanae vitae alla luce della Mulieris dignitatem e giunge alla conclusione che occorre promuovere una "nuova cultura" che metta al centro il rapporto tra uomo e donna e riscopra la "chiamata al dono di sé, nella totalità del dono come fattore di realizzazione di sé" (p. 240). Sarebbe facile approfondire questo tema attingendo alle famose Catechesi e all'esortazione postsinodale Familiaris consortio di Giovanni Paolo II come anche all'enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI, secondo cui la "parola chiave" per comprendere l'Humanae vitae è "quella dell'amore" (p. 246).

Quando fu pubblicata l'Humanae vitae, un'idea molto promossa era quella della "pianificazione familiare" (p. 61). La pillola appariva allora come il mezzo che poteva garantire tale pianificazione secondo la scelta libera e responsabile dei coniugi. Ciò sembrava corrispondere perfettamente anche all'istanza della coscienza moderna che vuol prendere le decisioni in modo autonomo, soprattutto se riguardano questioni personali come quelle circa la propria sessualità. Di conseguenza, l'Humanae vitae fu interpretata come un "no" alla libertà e alla coscienza dei coniugi.

In realtà non è così. La libertà personale e il magistero ecclesiastico, infatti, non sono due poli in contrasto, come mostra John Michael McDermott nel suo ampio contributo. Secondo lui, in un mondo caduto l'esercizio della libertà personale è reso possibile soltanto dalla redenzione di Cristo e dalla luce dello Spirito Santo che preserva la Chiesa nella verità. "Perciò, chiunque voglia essere veramente libero e avverare la propria libertà nell'amore, sarà ben disposto ad accettare con gioia gli insegnamenti ordinari del magistero ecclesiale" (p. 216).

Occorre rilevare, inoltre, che nel caso dell'Humanae vitae il magistero non insegna una dottrina accessibile solo a coloro che credono, ma ribadisce con autorità una verità della legge morale naturale e quindi consentanea alla ragione umana. L'enciclica, infatti, non è in alcun modo contraria alla scelta consapevole e libera dei coniugi in merito alla procreazione, ma invita alla "paternità responsabile", seconda parola chiave per la retta comprensione del documento. Tale concetto include non soltanto la conoscenza dei processi biologici, il dominio della ragione e della volontà sugli istinti e l'integrazione ponderata delle condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali, ma anche la considerazione dell'ordine morale oggettivo.

Con altre parole, la decisione prudenziale di chiamare un bambino all'esistenza o di differire questa chiamata deve tener conto sia delle ragioni individuali soggettive che di quella razionalità oggettiva della "natura dell'atto coniugale", cioè della connessione inscindibile tra i due significati dell'atto coniugale: quello unitivo e quello procreativo. In questo contesto lo studio di Serge-Thomas Bonino evidenzia giustamente che occorre riscoprire "la natura come epifania del Lògos creatore" (p. 229), superando quel dualismo antropologico che riduce la persona allo spirito e svaluta il corpo a un mero oggetto manipolabile e dando fiducia ai coniugi che non devono abdicare alla propria responsabilità per rimettersi ai mezzi tecnici.

L'Humanae vitae è un convinto "sì" alla paternità responsabile, che scaturisce dall'autentico amore coniugale. Prima della pubblicazione dell'Humanae vitae, non solo la maggioranza della commissione di studio, ma anche non pochi Pastori tendevano a ritenere eticamente lecito l'uso della pillola. Paolo VI prese una decisione in senso contrario, che in vasti settori della società e anche della Chiesa non è stata accettata, mettendo molti ad una dura prova, come mostra il commovente contributo del cardinale Francis J. Stafford sull'anno 1968. Ciò ha creato una situazione di dissenso che purtroppo non è ancora superata completamente. In questo contesto occorre rilevare che Paolo VI non poteva decidere diversamente. Nella Chiesa, infatti, conta la verità e non il principio democratico. Nella Chiesa conta la tradizione, da sempre contraria alla contraccezione (cfr. p. 51). Nella Chiesa conta la legge morale iscritta dal Creatore nella natura umana e illuminata dalla rivelazione divina. L'Humanae vitae, decisa da Paolo VI coram Domino (p. 31), è quindi, in ultima analisi, un grande "sì" a Dio stesso.

Il volume Custodi e interpreti della vita fa vedere innanzitutto i tanti frutti buoni del documento di Paolo VI e le conseguenze disastrose della "cultura della contraccezione". Mostra poi come l'enciclica sia un grande "sì" a tanti valori umani e cristiani di rilevanza decisiva per i coniugi e la società come tale. Invita infine alla lettura, allo studio e all'applicazione fedele dell'Humanae vitae, che costituisce uno dei documenti più profetici del magistero pontificio postconciliare.



(©L'Osservatore Romano - 19 febbraio 2011)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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19/05/2011 19:01
 
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Da Cordialiter:

Qualcuno potrebbe pensare che l'eresia modernista sia un pericolo morto e sepolto ai tempi di San Pio X. Purtroppo gli errori del modernismo sono ancora vivi. A denunciarlo è stato Paolo VI nell'udienza generale del 19 febbraio 1972:

Così è, Figli carissimi; e così affermando, la nostra dottrina si stacca da errori che hanno circolato e tuttora affiorano nella cultura del nostro tempo, e che potrebbero rovinare totalmente la nostra concezione cristiana della vita e della storia. Il modernismo rappresentò l’espressione caratteristica di questi errori, e sotto altri nomi è ancora d’attualità.
Noi possiamo allora comprendere perché la Chiesa cattolica, ieri ed oggi, dia tanta importanza alla rigorosa conservazione della Rivelazione autentica, e la consideri come tesoro inviolabile, e abbia una coscienza così severa del suo fondamentale dovere di difendere e di trasmettere in termini inequivocabili la dottrina della fede; l’ortodossia è la sua prima preoccupazione; il magistero pastorale la sua funzione primaria e provvidenziale; l’insegnamento apostolico fissa infatti i canoni della sua predicazione; e la consegna dell’Apostolo Paolo: Depositum custodi (1 Tim. 6, 20; 2 Tim. 1, 14) costituisce per essa un tale impegno, che sarebbe tradimento violare.

La Chiesa maestra non inventa la sua dottrina; ella è teste, è custode, è interprete, è tramite; e, per quanto riguarda le verità proprie del messaggio cristiano, essa si può dire conservatrice, intransigente; ed a chi la sollecita di rendere più facile, più relativa ai gusti della mutevole mentalità dei tempi la sua fede, risponde con gli Apostoli: Non possumus, non possiamo (Act. 4, 20).


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[Modificato da Caterina63 24/05/2011 16:00]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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QUINQUE IAM ANNI

ESORTAZIONE APOSTOLICA

DI SUA SANTITÀ

PAOLO VI

 

Fratelli carissimi,
salute e Apostolica Benedizione

Sono ormai trascorsi cinque anni da quando i vescovi del mondo intero, dopo intense sessioni di lavoro vissute nella preghiera, nello studio, nello scambio fraterno di proposte e di idee, han fatto ritorno nelle loro diocesi, risoluti «a che nessun impedimento arrestasse quell’onda abbondante di grazie celesti che oggi “allieta la Città di Dio” (Ps. 45, 5), e perché in alcun modo si affievolisse quello slancio vitale, che attualmente pervade la Chiesa» (Postrema sessio, 4 nov. 1965; A.A.S., LVII (1965), p. 867).
Ringraziando Iddio per il lavoro compiuto, ciascuno di essi riportava dal Concilio, con l’esperienza vissuta della collegialità, i testi dottrinali e pastorali laboriosamente redatti, come altrettanti tesori spirituali da comunicare ai presbiteri, nostri collaboratori nel sacerdozio, ai religiosi e alle religiose, a tutti i membri del popolo di Dio, trattandosi di documenti destinati ad essere guida sicura per l’annuncio della parola di Dio nel nostro tempo e per l’interiore rinnovamento delle comunità cristiane.
Questo fervore non è diminuito. Ognuno al posto dove lo Spirito Santo lo ha chiamato a reggere la Chiesa di Dio (Cfr. Act. 20, 28), e tutti insieme, in vari modi, ma particolarmente nelle conferenze episcopali e nei sinodi dei vescovi, i successori degli Apostoli si sono applicati senza risparmio di forze a tradurre nella vita della Chiesa gli insegnamenti e le direttive conciliari. Secondo il voto espresso nella Nostra prima Enciclica «Ecclesiam suam» (Cfr. A.A.S., LVI (1964), pp. 609-659), il Concilio ha fatto sì che la Chiesa acquistasse una più profonda coscienza di se stessa. Esso ha posto in più chiara luce le esigenze della sua missione apostolica nel mondo contemporaneo, e l’ha aiutata a impegnarsi nel dialogo della salvezza in uno spirito autenticamente ecumenico e missionario.

Ma la Nostra intenzione, oggi, non è di tentare un bilancio delle ricerche, delle iniziative, delle riforme che si sono moltiplicate dopo la fine del Concilio. Con l’animo attento a discernere i segni dei tempi, Noi vorremmo, insieme con voi in spirito di fraternità, interrogarci sulla nostra fedeltà all’impegno da noi preso all’inizio del Concilio, nel nostro Messaggio a tutti gli uomini: «Noi cercheremo di presentare agli uomini d’oggi la verità di Dio nella sua integrità e nella sua purezza, in modo che essa sia resa loro intelligibile ed essi l’accolgano volentieri» (20 ottobre 1962; A.A.S., LIV (1962), p. 822).
Questo impegno la Costituzione pastorale Gaudium et spes - magna carta del Concilio sulla presenza della Chiesa nel mondo - lo ha precisato senza equivoci: «Posta in mezzo alle angosce del tempo presente, la Chiesa di Cristo non cessa tuttavia di nutrire la più ferma speranza. Agli uomini della nostra età essa intende suggerire continuamente, sia che l’accolgano favorevolmente o lo respingano come importuno, il messaggio che le viene dagli Apostoli» (Gaudium et spes, 82; A.A.S., LVIII (1966), pp. 1106-1107).
Indubbiamente i Pastori hanno sempre avuto questo dovere di trasmettere la fede nella sua pienezza e in maniera adeguata agli uomini del loro tempo, sforzandosi cioè di usare un linguaggio che fosse loro facilmente accessibile, rispondendo ai loro interrogativi, suscitando il loro interesse, aiutandoli a scoprire, attraverso l’insufficienza delle parole umane, tutto il messaggio di salvezza che Gesù Cristo ci ha portato. È infatti il collegio episcopale che, con Pietro e sotto la di lui autorità, garantisce la trasmissione autentica del deposito rivelato, e che appunto per questo ha ricevuto, secondo l’espressione di S. Ireneo, «un sicuro carisma di verità» (Adv. haer. IV, 26, 2; PG 7, 1053). Ed è la fedeltà della sua testimonianza, saldamente ancorata nella Tradizione e nella Sacra Scrittura, nutrita della vita ecclesiale di tutto il popolo di Dio, che consente alla Chiesa, grazie all’assistenza indefettibile dello Spirito Santo, di predicare senza mai venir meno la parola di Dio e di spiegarla in maniera progressiva.

Tuttavia, la condizione presente della fede esige da parte di noi tutti un maggiore sforzo perché tale parola, nella sua pienezza, giunga ai nostri contemporanei e le opere compiute da Dio siano ad essi mostrate senza alcuna adulterazione, con tutta l’intensità d’amore della verità che li salva (Cfr. 2 Thess. 2, 10). Infatti, nel momento stesso in cui la proclamazione della parola di Dio nella liturgia registra, grazie al Concilio, un meraviglioso rinnovamento, l’uso della Bibbia diventa sempre più familiare in mezzo al popolo cristiano; i progressi della catechesi, purché attuati secondo gli orientamenti conciliari, permettono di evangelizzare in profondità; la ricerca biblica, patristica e teologica offre spesso un prezioso contributo all’espressione viva del dato rivelato: ecco che molti fedeli sono turbati nella loro fede da un cumulo di ambiguità, d’incertezze e di dubbi che la toccano in quel che essa ha di essenziale. Tali sono i dogmi trinitario e cristologico, il mistero dell’Eucaristia e della presenza reale, la Chiesa come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale in mezzo al popolo di Dio, il valore della preghiera e dei sacramenti, le esigenze morali riguardanti, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio o il rispetto della vita umana. Anzi, si arriva a tal punto da mettere in discussione anche l’autorità divina della Scrittura, in nome di una radicale demitizzazione.
Mentre il silenzio avvolge a poco a poco alcuni misteri fondamentali del cristianesimo, vediamo delinearsi una tendenza a ricostruire, partendo dai dati psicologici e sociologici, un cristianesimo avulso dalla Tradizione ininterrotta che lo ricollega alla fede degli Apostoli, e ad esaltare una vita cristiana priva di elementi religiosi.

Eccoci allora chiamati - noi tutti che abbiamo ricevuto, con l’imposizione delle mani, la responsabilità di conservare puro e integro il deposito della fede e la missione di annunciare incessantemente il Vangelo - a offrire la testimonianza della nostra comune obbedienza al Signore. Per il popolo, che ci è stato affidato, è diritto imprescrittibile e sacro il ricevere la parola di Dio, tutta la parola di Dio, di cui la Chiesa non ha cessato di acquistare una sempre più profonda comprensione. Per noi è grave e urgente dovere di annunciargliela instancabilmente, perché esso cresca nella fede e nella intelligenza del messaggio cristiano e dia testimonianza, con tutta la sua vita, della salvezza in Gesù Cristo.
Questo il Concilio ha voluto richiamarcelo con forza: «Tra i principali doveri dei vescovi eccelle la predicazione del Vangelo. I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede, che portano a Cristo nuovi discepoli, sono dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede di credere e da applicare nella pratica della vita e la illustrano alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (Cfr. Matth. 13, 52), la fanno fruttificare e vegliano per tenere lontani dal loro gregge gli errori che lo minacciano (Cfr. 2 Tim, 4, l-4).
I vescovi quando insegnano in comunione col Romano Pontefice, devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità; e i fedeli devono accettare il giudizio dato dal loro vescovo a nome di Cristo in cose di fede e di morale, e aderirvi con religioso rispetto» (Lumen gentium, 25; A.A.S., LVII (1965), pp. 29-30). Senza dubbio, la fede è sempre un assenso dato a motivo dell’autorità di Dio stesso. Ma il magistero dei vescovi è, per il credente, il segno ed il tramite che gli consente di ricevere e di riconoscere la parola di Dio. Ciascun vescovo, nella sua diocesi, è solidale con tutto il collegio episcopale, al quale è stato affidato, in quanto succede al collegio apostolico, l’ufficio di vigilare sulla purezza della fede e sull’unità della Chiesa.

II

Riconosciamolo francamente: nelle presenti circostanze, il compimento necessario e urgente di questo fondamentale dovere incontra più difficoltà di quante non ne incontrasse nel corso dei secoli passati.
In realtà, se l’esercizio del magistero episcopale era relativamente facile quando la Chiesa viveva a stretto contatto con la società del suo tempo, ispirava la sua cultura e le partecipava le sue forme di espressione, a noi oggi è richiesto un serio sforzo perché la dottrina della fede conservi la pienezza del suo contenuto e del suo significato, esprimendosi in una forma che le permetta di raggiungere la mente e il cuore di tutti coloro ai quali essa è diretta. Nessuno meglio del Nostro predecessore Giovanni XXIII, nel suo discorso di apertura delle assise conciliari, ha mostrato il dovere che noi abbiamo a questo riguardo: «Occorre che, rispondendo al vivo desiderio di quanti sono sinceramente attaccati a tutto ciò che è cristiano, cattolico e apostolico, questa dottrina sia più largamente e profondamente conosciuta, che le anime ne siano più intimamente penetrate e trasformate. Occorre che questa dottrina sicura e immutabile, la quale deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze della nostra epoca. Altro, infatti, è il deposito della fede in se stesso, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altro è la forma con la quale queste verità sono enunziate, conservando loro, tuttavia, lo stesso significato e lo stesso valore. Occorrerà dare molta importanza a questa forma e lavorare pazientemente, se necessario, alla sua elaborazione; si dovrà cioè far ricorso a modi di esposizione che meglio corrispondano a un insegnamento di indole soprattutto pastorale» (A.A.S., LIV (1962), p. 792).

Nell’attuale crisi che investe il linguaggio e il pensiero, spetta a ciascun Vescovo nella propria Diocesi, a ciascun Sinodo, a ciascuna Conferenza Episcopale curare attentamente che questo sforzo necessario non tradisca mai la verità e la continuità della dottrina della fede. Bisogna segnatamente vigilare affinché una scelta arbitraria non coarti il disegno di Dio entro le nostre umane vedute, e non limiti l’annuncio della sua Parola a quel che le nostre orecchie amano ascoltare, escludendo, secondo criteri puramente naturali, quel che non è di gradimento ai gusti odierni. «Ma anche se noi - ci previene l’apostolo Paolo - o anche un angelo del Cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo annunciato, sia anatema» (Gal. 1, 8).
Infatti, non siamo noi i giudici della parola di Dio: è essa che ci giudica e che mette in luce il nostro conformismo alla moda del mondo. «Le manchevolezze dei cristiani, anche di coloro che hanno la missione di predicare, non saranno mai nella Chiesa un motivo per attenuare il carattere assoluto della parola. Il filo tagliente della spada (Cfr. Hebr. 4, 12; Apoc. 1, 16; 2, 16) non potrà mai essere smussato. Essa mai potrà parlare della santità, della verginità, della povertà e dell’obbedienza diversamente da Cristo» (HANS URS VON BALTHASAR, Das Ganze im Fragment, Einsiedeln, Benziger, 1963, p. 296).
Lo ricordiamo di passaggio: se le inchieste sociologiche ci sono utili per meglio conoscere la mentalità dell’ambiente, le preoccupazioni e le necessità di coloro ai quali annunciamo la parola di Dio, come pure le resistenze che le oppone l’umana ragione nell’età moderna, con l’idea largamente diffusa che non esisterebbe, fuori della scienza, alcuna forma legittima di sapere, le conclusioni di tali inchieste non potrebbero costituire di per se stesse un criterio determinante di verità.

Non dobbiamo peraltro ignorare i problemi che incontra oggi un credente, giustamente desideroso di progredire ulteriormente nell’intelligenza della sua fede. Questi problemi dobbiamo conoscerli, non per mettere in dubbio il loro giusto fondamento o per negarne le esigenze, ma per accoglierne le giuste richieste, sul piano nostro, quello della fede. Questo è vero per i grandi interrogativi dell’uomo moderno sulle sue origini, sul significato della vita, sulla felicità alla quale aspira, come sul destino della umana famiglia. Ma questo non è meno vero per le questioni che pongono oggi i dotti, gli storici, gli psicologi, i sociologi, e che sono per noi altrettanti stimoli a meglio annunciare, nella sua trascendenza incarnata, la Buona Novella di Cristo Salvatore, la quale non contraddice affatto alle scoperte dello spirito umano, ma lo eleva al piano delle realtà divine, sino a farlo partecipe, in maniera ancora balbettante e incipiente, ma tuttavia reale, a quel mistero d’amore, del quale l’apostolo ci dice che «sorpassa ogni conoscenza» (Eph. 3, 19).
A coloro che si assumono nella Chiesa il compito delicato di approfondire l’insondabile ricchezza di tale mistero, teologi ed esegeti in particolare, noi daremo a testimonianza un incoraggiamento e un sostegno che li aiuterà a condurre avanti il loro lavoro nella fedeltà alla grande corrente della Tradizione cristiana (Cfr. Relatio Commissionis in Synodo Episcoporum constitutae, Roma, ott. 1967, pp. 10-11). È stato detto, or non è molto, assai giustamente: «La teologia, come scienza della fede, non può trovare il suo luogo se non nella Chiesa, comunità dei credenti. Quando la teologia rinnega i suoi presupposti e intende altrimenti il suo luogo, perde il suo fondamento e il suo oggetto. La libertà religiosa affermata dal Concilio, che si appoggia sulla libertà di coscienza, vale per la decisione personale di fronte alla fede, ma non è assolutamente valida per la determinazione del contenuto e della portata della rivelazione divina» (Cfr. Dichiarazione dei Vescovi tedeschi, Fulda, 27 dicembre 1968, in «Herder Korrespondenz», Friburgo in Brisgovia, genn. 1969, p. 75). Così pure, l’utilizzazione delle scienze umane nei lavori di ermeneutica è una forma di investigazione del dato rivelato; ma questo non potrebbe ridursi ad oggetto delle loro analisi, perché le trascende sia per la sua origine sia per il suo contenuto.

All’indomani di un Concilio, che è stato preparato con le migliori conquiste della scienza biblica e teologica, un considerevole lavoro resta da compiere, specialmente per approfondire la teologia della Chiesa e per elaborare un’antropologia cristiana adeguata allo sviluppo delle scienze umane e alle questioni che esse pongono all’intelligenza dei credenti. Chi di noi non riconosce, con l’importanza di questo lavoro, le sue esigenze e non ne comprende le inevitabili incertezze? Ma, dinanzi alla rovina che causa oggi nel popolo cristiano la divulgazione di ipotesi avventate o di opinioni che turbano la fede, noi abbiamo il dovere di ricordare con il Concilio che la vera teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione (Cfr. Dei verbum, 24; A.A.S., LVIII (1966), p. 828).
Non ci riduca al silenzio, Fratelli carissimi, il timore delle critiche sempre possibili e a volte fondate. Per quanto necessaria la funzione dei teologi, non ai sapienti però Dio ha affidato la missione di interpretare autenticamente la fede della Chiesa: questa s’innesta nella vita di un popolo, di cui responsabili dinanzi a Dio sono i Vescovi. Tocca appunto a loro di annunciare a questo popolo quel che Dio gli domanda di credere.
Per ciascuno di noi tutto questo esige molto coraggio, perché se siamo aiutati dall’esercizio comunitario di questa responsabilità di sede di sinodo dei Vescovi e di Conferenza Episcopale, non in minor misura entra qui in gioco la responsabilità personale, assolutamente inalienabile, dovendosi dare risposta a bisogni immediati e quotidiani del popolo di Dio. Non è il momento di domandarci, come alcuni vorrebbero insinuare, se è veramente utile, opportuno, necessario parlare, ma piuttosto di usare i mezzi per farci capire. A noi Vescovi è diretta di certo l’esortazione di Paolo a Timoteo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo, che deve giudicare i vivi e i morti e per la sua venuta e per il suo regno: predica la parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, minaccia, esorta con tutta pazienza e dottrina. Perché verrà un tempo in cui gli uomini non sopporteranno più la sana dottrina, ma sollecitati ad ascoltare cose piacevoli, si circonderanno di una folla di dottori secondo i loro capricci e, distogliendo l’orecchio dalla verità, si volgeranno a favole. Quanto a te, sii vigilante in tutto, paziente nelle sofferenze, fa’ opera di vero evangelizzatore, compi bene il tuo ministero» (2 Tim. 4. l-5).

III

Che ciascuno di noi, Fratelli carissimi, si interroghi circa il modo con cui adempie questo sacro dovere; esso esige da noi un culto assiduo della parola rivelata e una costante attenzione alla vita degli uomini.
Come potremmo, infatti, annunciare con frutto la parola di Dio, se questa non ci fosse divenuta familiare con la meditazione e la preghiera di ogni giorno? E come essa potrebbe essere accolta se non fosse sostenuta da una vita di fede profonda, di operosa carità, di totale obbedienza, di preghiera fervente e di umile penitenza? Dopo aver insistito, come dovevamo, sull’insegnamento della dottrina della fede, dobbiamo aggiungere: la cosa spesso più necessaria non è tanto una sovrabbondanza di parole, quanto una parola che sia in consonanza con una vita più evangelica. Sì, il mondo ha bisogno della testimonianza dei santi, perché «in essi - ci ricorda il Concilio - è Dio stesso che ci parla: Egli ci offre un segno del suo regno, al quale siamo potentemente attirati
» (Lumen gentium, 50; A.A.S., LVII (1965), p. 56).
Facciamo attenzione ai problemi che sorgono dalla vita degli uomini, specialmente dei giovani: «Se un figlio domanda del pane - dice Gesù - quale è fra di voi quel padre che gli darà un sasso?» (Luc. 11, 11). Accogliamo volentieri le istanze che vengono a turbare la nostra pacifica quiete. Siamo pazienti davanti alle indecisioni di coloro che cercano come a tentoni la luce. Sappiamo camminare fraternamente con tutti coloro che, privi di questa luce, della quale noi godiamo i benefici, nondimeno tendono, attraverso le nebbie del dubbio, verso la casa paterna. Ma se noi prendiamo parte alle loro angosce, sia per cercare di guarirle; se noi presentiamo loro Gesù Cristo, questi sia il Figlio di Dio fatto uomo per salvarci e per comunicarci la sua vita, non una figura puramente umana, per quanto meravigliosa e attraente possa essere per il nostro spirito (Cfr. 2 Io. 7, 9).

In questa fedeltà a Dio e agli uomini, ai quali siamo da lui inviati, noi sapremo prendere, certo con delicatezza e prudenza, ma con chiaroveggenza e fermezza, le indispensabili decisioni per un giusto discernimento, Ecco, senza dubbio, uno dei compiti più difficili, ma anche, oggi, dei più necessari, per l’episcopato. Infatti, nel contrasto delle opposte ideologie c’è pericolo che la più grande generosità si accompagni ad affermazioni quanto mai discutibili: «anche in mezzo a noi - come al tempo di San Paolo - sorgono uomini che insegnano delle dottrine perverse per trascinar dietro a sé dei discepoli» (Act. 20, 30), e coloro che parlano in tal modo sono a volte persuasi di farlo in nome di Dio, illudendosi sullo spirito che li anima. Siamo noi abbastanza vigili, per ben discernere la parola di fede, sui frutti che essa produce? Potrebbe venire da Dio una parola che faccia perdere ai fedeli il senso della rinunzia evangelica, o che proclami la giustizia tralasciando di annunciare la dolcezza, la misericordia e la purezza, una parola che ponga i fratelli contro i fratelli? Gesù ci ha avvertiti: «dai loro frutti li riconoscerete» (Matth. 7, 15-20).
Proprio tutto questo chiediamo ai collaboratori, che hanno con noi il compito di predicare la parola di Dio. Che la loro testimonianza sia sempre quella del Vangelo e la loro parola quella del Verbo che suscita la fede e, con essa, l’amore verso i nostri fratelli trascinando tutti i discepoli del Cristo a permeare del suo spirito la mentalità, i costumi, e la vita della città terrestre (Cfr. Apostolicam actuositatem, 7, 13, 24; A.A.S., LVIII (1966), pp. 843-844; 849-850; 856-857).

È così, secondo la meravigliosa espressione di S. Agostino, che «persino col ministero di uomini timidi Dio parla liberamente» (Enar. in Ps. 103; Sermo 1, 19; PL 37, 1351). Questi sono, Fratelli carissimi, alcuni dei pensieri che ci suggerisce l’anniversario del Concilio, questo «provvidenziale strumento del vero rinnovamento della Chiesa» (Cfr. Postrema Sessio; A.A.S., LVII (1965), p. 865). Esaminandoci con voi in fraterna semplicità sulla Nostra fedeltà a questa missione primordiale dell’annuncio della parola di Dio abbiamo avuto la consapevolezza di compiere un imperioso dovere. Ci sarà forse qualcuno che se ne meraviglierà o vorrà contestarlo? Con animo sereno Noi vi consideriamo testimoni di questa necessità che ci spinge ad essere fedeli al Nostro ufficio pastorale e di questo desiderio che ci muove a prendere con voi mezzi che siano insieme i più adatti al nostro tempo ed i più conformi all’insegnamento del Concilio, per meglio assicurarne la fecondità. Affidandoci con voi alla dolce maternità di Maria Vergine, Noi imploriamo di gran cuore sulle vostre persone, come sul vostro ministero pastorale, l’effusione delle grazie di «Colui che tutto può, infinitamente di più di tutto ciò che possiamo domandare o pensare mediante la potenza con cui già opera in noi; a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù. Amen» (Eph. 3 , 20-21). Con la Nostra affettuosa Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso S. Pietro, nella festa dell’Immacolata Concezione della B. Vergine Maria, 1970, anno ottavo del Nostro Pontificato.

PAULUS PP. VI

 


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/06/2013 15:42
 
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venerdì 21 giugno 2013

Tommaso compagno di una vita. Per decenni Giovanni Battista Montini trascrisse e commentò passi dell'Aquinate (Biffi)

Tommaso compagno di una vita

Per decenni Giovanni Battista Montini trascrisse e commentò passi dell'Aquinate


di mons. Inos Biffi


Più che attraverso i manuali scolastici la formazione teologica di Giovanni Battista Montini è avvenuta con lo studio dei grandi maestri del pensiero cristiano. Il primo di essi è riconosciuto certamente in sant'Agostino, al quale tuttavia va subito aggiunto san Tommaso d'Aquino.

Montini è insieme agostiniano e tomista: conviene in lui l'ardore, la sensibilità mentale, l'interiorità del dottore di Ippona, ma non meno l'acuta e profonda lucidità, la “razionalità”, e l'esigenza logica del Dottore Angelico. E questo è forse meno consueto ritenerlo. In alcune note scritte da Montini nel 1931 sotto il titolo Spiritus veritatis si legge: «qualunque sia l'ordine dei miei studi, amerò la letteratura che raccoglie il pensiero tradizionale della Chiesa. Sant'Agostino e san Tommaso avranno da me venerazione particolare».

Veramente, già gli scritti editi di Montini rivelano Tommaso come una delle sue fonti; ma soprattutto si avverte la sua familiarità con «il principe dei teologi» -- come egli lo definiva -- sfogliando e studiando i suoi Quaderni, con l'infinità di passi o di riferimenti tomistici trascritti di prima mano lungo tutto il corso della sua vita. Sarebbe possibile, dalla loro analisi e dal loro studio, individuare e collegare una grande varietà di temi illustrati da Montini coi testi e la dottrina di Tommaso. È il caso, per fare qualche esempio, dell'ecclesiologia, dei sacramenti, specialmente dell'Eucaristia e dell'Ordine, dell'antropologia, dell'etica, della vita spirituale e religiosa, dell'itinerario a Dio, della fede. Esattamente su questi due ultimi argomenti vorremmo fare una considerazione.

Montini conosce bene le “vie” tomiste per arrivare a Dio, e ne offre un raffinato esame, mostrando tutta la sua ineccepibile capacità metafisica. Scrive: «Meditare su Dio è molto più bello che meditare su le vie che a lui conducono. Tuttavia osservare l'esigenza intrinseca che ogni essere ha di lui e di proclamarsi insufficiente e perciò creato, ascoltare l'appello che sale dall'universo verso il suo principio e il suo fine (...) è tal cosa che inebria di grandezza e di sapienza e offre alla preghiera e al pensiero ali sconfinate», e cita il testo della Summa Theologiae (i, 4, 5, 2m): «Dio è detto misura di tutte le cose, per il fatto che ogni cosa partecipa l'essere nella misura in cui si avvicina lui». Per altro, «tutti quello che bramano le proprie perfezioni, bramano Dio stesso» (i, 6, 1, 2m).

E a proposito della fede Montini riporta la definizione di Tommaso: «La fede è un abito della mente, grazie al quale incomincia in noi la vita eterna» (ii-ii, 14, 1) e cita più volte l'affermazione: «L'oggetto della fede, pur essendo in se stesso semplice, assume nel credente la forma complessa dell'enunciazione», restando in ogni caso vero che «l'atto del credente non ha come sua meta l'enunciazione, ma la comunione con la realtà» (ii-ii, 1, 2, ad 2).

Ancora, sono note a Montini le affermazioni dell'Angelico: «Di Dio conosciamo quello che non è, mentre, quello che è, ci risulta affatto sconosciuto» (Summa contra Gentiles, III, 49); e: «In questa vita noi conosciamo Dio tanto più perfettamente, quanto più ci rendiamo conto che egli eccede tutto quello che è compreso mediante l'intelletto» (Summa Theologiae, ii-ii, 8, 7). D'altronde, «la più piccola cognizione che si può avere di Dio supera ogni cognizione che si ha della creatura» (De veritate, x, 7 ad 3).
Ma egli si sofferma anche su quest'altra: «Benché in questa vita noi conosciamo Dio mediatamente, tuttavia, con la dilezione della carità, lo possiamo amare immediatamente» (Summa Theologiae, ii-ii, 27, 4).

Gli è ugualmente nota la dottrina di Tommaso sulla conoscenza “simpatica” o per connaturalità; non mancando però di avvertire che «l'amore nell'atto di fede compie un ufficio essenziale, ma senza detrimento dell'intellettualità più rigorosa».

Abbiamo offerto un breve e semplice saggio di come Montini sia stato discepolo diligente e appassionato di Tommaso d'Aquino: un indice ulteriore della sua incomparabile personalità, dove la vastissima cultura diventava esperienza, sapienza e magistero.

(L'Osservatore Romano 21 giugno 2013)



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05/02/2017 17:51
 
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9 MARZO 1969: VISITA DI PAPA PAOLO VI


Domenica 9 marzo, papa Paolo VI visita la parrocchia di San Pio V. Questa è la cronaca della visita riportata dall'Osservatore Romano del 10-11 marzo 1969. Le foto sono tratte dall'archivio parrocchiale.


Alla parrocchia di San Pio V, nel quartiere che si estende, ormai popolosissimo, nella zona della Madonna del Riposo, il Papa ha presieduto ieri il rito penitenziale della Quaresima.


Le accoglienze riservate in questa circostanza al Vescovo di Roma per l’atteso incontro pastorale hanno dimostrato quanto era desiderata la visita del Vicario di Cristo in una nuova Roma che il Papa, come Egli stesso ha detto ad inizio del suo colloquio con i fedeli della contrada, conosceva soltanto di riflesso per il fervore delle opere e delle iniziative e per la sempre crescente espansione edilizia. La parrocchia ha superato ormai le venticinquemila anime, ed è costellata, nel suo contesto territoriale, anche da una trentina di istituti religiosi maschili e femminili che da questa altura irradiano la loro azione benefica su tutta la immensa città.


Paolo VI è giunto a S. Pio V poco prima delle 17 ed è stato ricevuto all’ingresso degli edifici parrocchiali sulla piazza (che porta il nome del grande Santo e Pontefice domenicano in onore del quale il tempio fu eretto sedici anni fa dalla Pontificia Opera per la Preservazione della fede con il contributo della Sacra Congregazione allora del S. Offizio, ora per la Dottrina della Fede) dal Signor Cardinale Vicario Em.mo Angelo Dell’Acqua, dal Vicegerente di Roma Mons. Ettore Cunial Arcivescovo tit. di Soteropoli, dal Vescovo  Ausiliare della zona Mons. Filippo Pocci, dal Parroco Don Orlando Picchiantani con i suoi collaboratori D. Edorado Leboroni, D. Antonio Naghes e D. Pedro Rebolé, dagli altri sacerdoti che esercitano il ministero a vantaggio della comunità parrocchiale.


Tra le affettuose ed interminabili manifestazioni di saluto da parte della folla che gremiva l’ampio piazzale e le vie adiacenti e che si sporgeva dalle finestre, tutte addobbate a festa, Paolo VI, com’è ormai simpatica e significativa consuetudine nelle sue visite quaresimali alle parrocchie periferiche, ha voluto riservare il suo primo saluto diciamo così «ufficiale» alle migliaia di bambini che lo attendevano, irrequieti e felici, nel grande cortile dell’oratorio, e che, al suo arrivo, lo hanno salutato sventolando bandierine dai colori papali ed italiani. Da un podio il Papa ha ascoltato un breve indirizzo di omaggio rivoltogli a nome di tutti i bambini del quartiere da un ragazzetto della prima media e ha ricevuto dalle mani di una bambina un album contenente pensierini e propositi, offerte di preghiere e di sacrifici per il Papa e per i suoi desideri di bontà e di pace nel mondo. Paolo VI ha ringraziato, con i piccoli interpreti, tutti gli artefici di questo gradito omaggio, li ha esortati ad essere sempre buoni, in casa, a scuola, in parrocchia sempre conservando la letizia e la vivacità propria della loro età, soprattutto a studiare il catechismo, a far tesoro degli insegnamenti che in tutti questi luoghi ricevono da coloro che sono preposti alla loro educazione e che fanno ogni sforzo perché essi diventino dei buoni cristiani e dei buoni cittadini.


Ha voluto, poi, recitare con loro un «Pater noster» ed un’«Ave Maria» dando loro infine la sua Benedizione, con l’incarico di farsene latori presso i loro genitori, i loro insegnanti e i loro amici, piccoli e grandi. Questa Benedizione, soprattutto, voleva essere il dono e il ricordo del Papa.


Paolo VI si è diretto poi nell’interno del tempio parrocchiale, dove, oltre che una folla di fedeli, si erano raccolte numerose personalità invitate e che facevano corona al Signor Cardinale Giuseppe Beltram, parrocchiano di San Pio V, il Vescovo Monsignor Salmon, Abate Emerito dell’attigua Abbazia di S. Girolamo de Urbe, con tutti i monaci dello stesso Cenobio, il Segretario della Conferenza Episcopale per la Pastorale Mons. Cardini, il Sostituto del Vicariato Mons. Ragonesi, il Procuratore Generale dei Frati Minori P. Lazzari, il Delegato della Radio Vaticana Padre Martegani SJ, i Parroci della XXXIII Prefettura Urbana con i Superiori e le Superiore delle varie comunità religiose della zona, il Delegato per le Cerimonie Pontificie Padre Bugnini CM, la Scuola per i ciechi con il Preside Prof. Ceppi e tutti i ragazzi di Villa Nazareth.


Nell’interno della chiesa si è formata la processione che, presieduta dal Papa e al canto delle nuove Litanie dei santi, ha percorso la navata centrale del tempio e il Largo San Pio V. Qui il sacro corteo ha proceduto lentamente e il Papa si è soffermato più volte per rispondere al saluto dei fedeli e per benedire in particolar modo infermi e bambini.


Rientrata la processione in chiesa, dopo la conclusione delle preci litaniche Paolo VI ha assunto i paramenti violacei per iniziare la celebrazione della Messa che era quella propria della III Domenica di Quaresima. L’Epistola e il Vangelo sono stati letti dai due vice Parroci. I canti della liturgia popolare appositamente composti, quali le invocazioni per l’Introito, il Graduale, l’Offertorio e quelle per la Comunione, sono statei eseguiti alla perfezione dalla «Schola cantorum» parrocchiale sotto la direzione di D. Edoardo Leboroni.


Dopo la lettura del Vangelo Paolo VI ha rivolto ai fedeli la sua omelia che è stata diffusa attraverso gli altoparlanti della Radio Vaticana anche sulla piazza e nelle vie adiacenti.


Alla Comunione, il Papa ha distribuito il Pane Eucaristico a cinquanta rappresentanti delle opere parrocchiali, alle suore, a vari collaboratori nonché ad alcuni infermi.


Al termine del Divin Sacrificio che è stato seguito dalla raccolta pietà dei fedeli, il Papa ha rivolto nuovamente la sua parola ai parrocchiani, per annunciare il dono che Egli stava facendo alla parrocchia, il calice e la pianeta con la quale aveva celebrato la S.Messa e una offerta per i poveri della parrocchia. Un fervido applauso ha salutato l’abbraccio che Paolo VI si è scambiato con il Parroco e i Vice Parroci, applauso che si è rinnovato, festoso e, diremmo, addirittura incontenibile, quando Paolo VI sul sagrato della chiesa, prima di lasciare San Pio V, ha rivolto alla folla che lo attendeva, per un affettuoso commiato, oltre le transenne, un nuovo saluto e una nuova Benedizione, con la quale rinnovava i suoi voti di vita serenamente cristiana aggiungendo a questo l’augurio paterno per le non lontane feste pasquali.


Erano ormai scese le ombre della sera e il quartiere si andava punteggiando di migliaia di luci. Paolo VI ridiscendeva, benedicente, sulla macchina scoperta, verso S. Pietro, concludendo nella pace del vespro domenicale la sua ventiquattresima visita quaresimale alle parrocchie romane.


 


Clicca qui per vedere la prima pagina dell'Osservatore Romano del 10-11 marzo 1969.


 


Leggi qui il testo dei discorsi e dell'omelia pronunciati da Paolo VI (riportati in Insegnamenti di Paolo VI, vol. VII: an. 1969, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana).


 




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14/10/2017 23:59
 
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SANTA MESSA DI MEZZANOTTE NEL CENTRO SIDERURGICO DI TARANTO

OMELIA DI PAOLO VI

Notte Santa, 24-25 dicembre 1968

 

PER CIASCUNO E PER TUTTI PADRE PASTORE FRATELLO AMICO

Figli! Fratelli! Amici! Uomini sconosciuti e già da Noi amati come reciprocamente legati - voi a Noi, Noi a voi - da una parentela superiore a quella del sangue, del territorio, della cultura; una parentela, ch’è una solidarietà di destini, una comunione di fede, esistente o da suscitare, una unità misteriosa, quella che ci fa cristiani, una sola cosa in Cristo!

Tutte le distanze sono superate, le differenze cadono, le diffidenze e le riserve si sciolgono; siamo insieme, come se non fossimo forestieri gli uni e gli altri; e questo specialmente con Noi, proprio perché siamo vostri, come lo è il Papa per tutti, per i cattolici, quali voi siete, specialmente: Padre, Pastore, Maestro, Fratello, Amico! Per ciascuno, per tutti.

Così adesso pensateci! Così ascoltateci!

Siamo qua venuti per voi, Lavoratori! Per voi Lavoratori di questo nuovo e colossale centro siderurgico; ed anche per gli altri delle officine e dei cantieri di questa Città e di questa Regione; e diciamo pure per tutti i Lavoratori dell’immenso e formidabile settore dell’Industria moderna (e non dimentichiamo neppure i Lavoratori dei campi, i Pescatori, gli Addetti ai cantieri navali, i Marinai, e quelli d’ogni altro campo dell’attività umana: voi ora tutti li rappresentate al Nostro sguardo).

Per voi, Lavoratori!

Ma prima che Noi vi parliamo, lasciateci essere cortesi e riconoscenti con tutti coloro che qui Ci hanno accolto e permesso di entrare. Noi Ci sentiamo obbligati a ringraziare le Autorità civili e militari, i Promotori e i Dirigenti di questa gigantesca impresa; così l’Arcivescovo e quanti spiritualmente e socialmente vi assistono; le vostre Rappresentanze; ed anche le vostre Famiglie, i vostri Figli, tutta la Popolazione di questa Città e di questa Regione. A tutti il Nostro saluto, il Nostro augurio ed anche la Nostra Benedizione. Il Natale riempie il cuore di voti buoni e felici per tutti.

AGLI OPERAI IL MESSAGGIO DI RINNOVAZIONE E DI SPERANZA DEL REDENTORE DEL MONDO

Ma ora a voi, Lavoratori, che cosa diremo nel breve momento concesso a questo nostro rapido incontro?

Vi parliamo col cuore. Vi diremo una cosa semplicissima, ma piena di significato. Ed è questa: Noi facciamo fatica a parlarvi. Noi avvertiamo la difficoltà a farci capire da voi. O Noi forse non vi comprendiamo abbastanza? Sta il fatto che il discorso è per Noi abbastanza difficile. Ci sembra che tra voi e Noi non ci sia un linguaggio comune. Voi siete immersi in un mondo, che è estraneo al mondo in cui noi, uomini di Chiesa, invece viviamo. Voi pensate e lavorate in una maniera tanto diversa da quella in cui pensa ed opera la Chiesa! Vi dicevamo, salutandovi, che siamo fratelli ed amici: ma è poi vero in realtà? Perché noi tutti avvertiamo questo fatto evidente: il lavoro e la religione, nel nostro mondo moderno, sono due cose separate, staccate, tante volte anche opposte. Una volta non era così. (Anni fa Noi parlammo di questo fenomeno a Torino). Ma questa separazione, questa reciproca incomprensione non ha ragione di essere. Non è questo il momento di spiegarvi perché. Ma per ora vi basti il fatto che Noi, proprio come Papa della Chiesa cattolica, come misero, ma autentico rappresentante di quel Cristo, della cui Natività noi questa notte celebriamo la memoria, anzi la spirituale rinnovazione, siamo venuti qua fra voi per dirvi che questa separazione fra il vostro mondo del lavoro e quello religioso, quello cristiano, non esiste, o meglio non deve esistere. Ripeteremo ancora una volta da questo centro siderurgico, che consideriamo ora espressione tipica del lavoro moderno, portato alle sue più alte manifestazioni industriali, d’ingegno, di scienza, di tecnica, di dimensioni economiche, di finalità sociali, che il messaggio cristiano non gli è estraneo, non gli è rifiutato; anzi diremo che quanto più l’opera umana qui si afferma nelle sue dimensioni di progresso scientifico, di potenza, di forza, di organizzazione, di utilità, di meraviglia - di modernità insomma - tanto più merita e reclama che Gesù, l’operaio profeta, il maestro e l’amico dell’umanità, il Salvatore del mondo, il Verbo di Dio, che si incarna nella nostra umana natura, l’Uomo del dolore e dell’amore, il Messia misterioso e arbitro della storia, annunci qui, e di qui al mondo, il suo messaggio di rinnovazione e di speranza.

LE CONQUISTE DELL’UMANITÀ SONO CONFERMA DELLA GRANDEZZA E DELL’INEFFABILE DISEGNO DI DIO

Lavoratori, che Ci ascoltate: Gesù, il Cristo, è per voi!

Ricordate e meditate: il Cristo del Vangelo, quello che la Chiesa cattolica vi presenta e vi offre, è per voi! Questa notte è con voi!

Non abbiate timore che questa presenza, questa alleanza, vissuta nella fede e nel costume, voglia mutare l’aspetto, la finalità, l’ordinamento d’un’impresa come questa, e d’altre simili; voglia cioè, come volgarmente si dice, clericalizzare il lavoro moderno dell’uomo, ovvero frenare la sua espansione, opporre la finalità religiosa della vita allo sviluppo dell’attività umana, il Vangelo al progresso scientifico, tecnico, economico e sociale.

Voi avete certamente sentito parlare del recente Concilio, nel quale la Chiesa ha espresso e precisato il suo pensiero a riguardo dei suoi rapporti col mondo contemporaneo. Ecco che cosa dice il Concilio: «I cristiani . . . non solo non pensano di contrapporre le conquiste dell’ingegno e dell’abilità dell’uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; ma, al contrario, essi - i cristiani - sono piuttosto persuasi che le conquiste dell’umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto d’un suo ineffabile disegno. E quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità individuale e collettiva» (Gaudium et spes, n. 34).

Questo vale per chi pone a confronto il cristianesimo con l’umanesimo del lavoro moderno; e vale specialmente per chi infonde in questo lavoro le risorse della scienza, della tecnica, dell’organizzazione industriale, e produce opere ciclopiche e perfette come quella in cui ci troviamo, ovvero domina in tal modo le leggi e le forze della natura da aprire agli ardimenti dell’uomo imprese impensabili e meravigliose, come quella che proprio durante questa notte porta tre uomini a girare nello spazio celeste intorno alla Luna. Onore ai pionieri dell’espansione dell’intelligenza e dell’attività dell’uomo! E gloria a Dio che sul volto dell’uomo irradia la sua luce e imprime alle facoltà umane la regale potestà di dominare le creature che lo circondano (cfr. Gen. 1, 20 ss.; cfr. S. IRENEO, Gloria Dei vivens homo).

È questo un pensiero, un principio, che dovrà sempre più diventare sorgente di meditazione per l’uomo moderno, e suscitare in lui non l’orgoglio e la tragedia di Prometeo, ma quel sentimento primordiale e dinamico di simpatia e di fiducia verso la natura, di cui siamo parte e in cui siamo esploratori (cfr. EINSTEIN, Cosmic Religion, New York, 1931, 52-53); sentimento che si chiama meraviglia - sentimento di gioventù e d’intelligenza -, e che passando dall’osservazione incantata delle cose alla ricerca suprema della loro origine diventa scoperta del mistero, diventa adorazione, diventa preghiera.

Cari Lavoratori! sono parole difficili? No; sono parole consolanti, e proprio per voi, che vivete in questo quadro, che sembra a prima vista un enigma formidabile, un intreccio di macchine e di energie incomprensibile, un regno della materia che dispiega certi suoi segreti, che voi trasformate con una lotta tremenda e abilissima in elemento utile ad altri lavori, perché sia poi utile al servizio e al bisogno dell’uomo. Voi avete davanti una visione estremamente realista, ma non materialista. Voi sapete come trattare la materia, che sembra ingrata e refrattaria ad ogni tentativo dell’arte umana; sapete trattarla e dominarla, perché, da un lato, siete diventati così intelligenti, voi e chi vi dirige, da scoprire le leggi nuove del mestiere umano, cioè dell’arte di dominare le cose, e, d’altro lato, avete scoperto, voi e i vostri maestri, le leggi nascoste nelle cose stesse: le leggi? Che cosa sono le leggi, se non pensieri? Pensieri nascosti nelle cose, pensieri imperativi che non solo le definiscono con i nostri nomi comuni, ferro, fuoco, o altro, ma che danno ad esse un loro essere particolare, un essere che da sé, è evidente, le cose non sanno darsi, un essere ricevuto, un essere che diciamo creato. Voi incontrate ad ogni fase del vostro immane lavoro questo essere creato, che VUOI dire pensato. Pensato da Chi? Voi, senza accorgervi, estraete dalle cose una risposta, una parola, una legge, un pensiero, ch’è dentro le cose; un pensiero che, a ben riflettere, ci porta a rintracciare la mano, la potenza, che diciamo?, la presenza, immanente e trascendente, cioè li dentro e li sopra, d’uno Spirito Pensante e Onnipotente, al quale siamo abituati a dare il nome, che ora Ci trema sulle labbra, il nome misterioso di Dio.

LAVORO E PREGHIERA HANNO UNA RADICE COMUNE ANCHE SE ESPRESSIONE DIVERSA

Cioè, cioè, cari Lavoratori! voi vedete come quando lavorate in questa officina è, in certo senso, come se foste in Chiesa; voi, senza pensarvi, voi qui venite a contatto con l’opera, col pensiero, con la presenza di Dio. Voi vedete come lavoro e preghiera hanno una radice comune, anche se espressione diversa. Voi, se siete intelligenti, se siete veri uomini, potete e dovete essere religiosi, qui, nei vostri immensi padiglioni del lavoro terrestre, senza altro fare che amare, pensare, ammirare il vostro faticoso lavoro.

Abbiamo detto faticoso; cioè abbiamo riconosciuto l’aspetto umano dell’opera vostra. Qui due mondi s’incontrano: la materia e l’uomo; la macchina, lo strumento, la struttura industriale da una parte, la mano, la fatica, la condizione di vita del lavoratore dall’altra. Il primo mondo, quello della materia, ha una sua segreta rivelazione spirituale e divina, Noi dicevamo, da fare a chi la sa cogliere; ma quest’altro mondo, che è l’uomo, impegnato nel lavoro, carico di fatica, e pieno lui stesso di sentimenti, di pensieri, di bisogni, di stanchezza, di dolore, quale sorte trova qui dentro? Qual è, in altri termini, la condizione del Lavoratore impegnato nell’organizzazione industriale? sarà macchina anche lui? puro strumento che vende la propria fatica per avere un pane, un pane da vivere; perché prima e dopo tutto, la vita è la cosa più importante d’ogni altra; l’uomo vale più della macchina e più della sua produzione. Sappiamo bene tutte queste cose, le quali hanno assunto, nel tempo passato e ancora assumono, nel tempo nostro, una importanza nuova, immensa, predominante; e hanno avuto la loro espressione in quel complesso di problemi e di lotte, che chiamiamo la questione sociale. Tutti sanno quali sono stati i fenomeni culturali, storici, sociali, economici, politici, nei quali la questione sociale si è posta e si pone. Non è in questo momento che se ne vuole parlare.

In questo momento a Noi, e certo a voi, preme di risolvere con qualche risposta, sia pure molto sommaria, l’obbiezione che Noi stessi abbiamo sollevato entrando qua dentro; e cioè: che cosa fa . il messaggero del Vangelo qua dentro? che cosa può dire il rappresentante di Cristo a questo vostro mondo del lavoro moderno? a voi, specialmente, lavoratori delle braccia, datori di quella fatica fisica, umile ed estenuante, che ancora nessuna macchina vale a sostituire?

Cari Lavoratori! sotto questo aspetto, quello umano, la Nostra parola diventa più facile, e quasi Ci erompe dal cuore perché Ci sembra di leggerla nel vostro cuore. Che cosa avete nel cuore? siete uomini: siete per questo felici? avete tutto quello che vi spetta come uomini e che voi profondamente desiderate? Questo certamente non può del tutto verificarsi; non lo è per alcuno; non lo è, forse tanto meno, per voi. Ciascuno porta in fondo al suo animo una sofferenza: siete miseri? siete veramente liberi? siete affamati di giustizia e di dignità? siete desiderosi di salute? bisognosi di amore? Avete nel cuore sentimenti di rancore e di odio? avete ansia di vendetta e di ribellione? Dov’è per voi la pace, la fratellanza, la solidarietà, l’amicizia, la lealtà, la bontà? dentro e fuori di voi?

LA CHIESA VI CONOSCE VI INTERPRETA VI DIFENDE IN PIENA GIUSTIZIA

Noi vi diremo una cosa, che dovrete ricordare: noi vi comprendiamo. Dicendo noi, diciamo la Chiesa. Sì, la Chiesa, come una madre, vi comprende. Non dite e non pensate mai che la Chiesa sia cieca ai vostri bisogni, sorda alle vostre voci. Ancora prima che voi abbiate coscienza di voi stessi, delle vostre condizioni reali, totali e profonde, la Chiesa vi conosce, vi studia, vi interpreta, vi difende. Anche più che voi talvolta non pensiate. Che direste se noi, la Chiesa, ci limitassimo a conoscere le passioni che hanno agitato in tanti modi le classi lavoratrici? Che cosa moveva queste passioni? Il desiderio, il bisogno di giustizia. La Chiesa non condivide le passioni classiste, quando queste esplodono in sentimenti di odio e in gesti di violenza; ma la Chiesa riconosce, sì, il bisogno di giustizia del popolo onesto, e lo difende, come può, e lo promuove. E badate bene: non di solo pane vive l’uomo, dice la Chiesa ripetendo le parole di Cristo; non di sola giustizia economica, di salario, di qualche benessere materiale, ha bisogno il Lavoratore, ma di giustizia civile e sociale. Ancora per questa rivendicazione la Chiesa vi comprende e vi aiuta. E di più: voi avete altri bisogni e altri diritti; a tutelare i quali la Chiesa molto spesso rimane l’unica vostra avvocata; i bisogni e i diritti dello spirito, quelli propri di figli di Dio, quelli di cittadini del regno delle anime, chiamate ai veri e superiori destini della pienezza della vera vita presente e di quella futura. Non siete voi elevati a questa eguaglianza, che supera ogni dislivello sociale? Anzi non siete fra tutti i preferiti del Vangelo, voi se piccoli, voi se poveri, voi se sofferenti, voi se oppressi, voi se assetati di giustizia, voi se capaci di gioia vera e di amore vero?

La Chiesa questo pensa e dice di voi e per voi. Ed è chiaro il perché. Perché la Chiesa è la continuazione di Cristo. La Chiesa è il tramite che porta attraverso i secoli e diffonde per tutta la terra la Parola del Signore, anzi la presenza, avvertita solo da chi crede, di Gesù, di quel Gesù, del quale questa notte commemoriamo e in noi, spiritualmente, rinnoviamo la nascita.

REALTÀ NECESSARIA E SUBLIME: CRISTO È PRESENTE FRA VOI

Dite una cosa: trovate strano, allora, trovate anacronista, trovate nemico il messaggio del Vangelo qui dentro? non vi sono uomini vivi, uomini sofferenti, uomini bisognosi di dignità, di pace, di amore qui dentro, che non comprendono il pericolo d’essere ridotti ad esseri di una «sola dimensione», quella di strumenti, e che non si accorgono proprio qui (vogliamo dire nel cuore del mondo industriale in grande stile), dove il pericolo di questa disumanizzazione è maggiore, proprio qui il soffio del Vangelo, come ossigeno di vita degna dell’uomo, è più che mai al suo posto, e la presenza umile e amorosa di Cristo è più che mai necessaria?

Ecco, figli carissimi, perché qua siamo venuti. Siamo venuti per voi. Siamo venuti, affinché la Nostra presenza vi dimostrasse la presenza consolatrice, salvatrice di Cristo in mezzo al mondo meraviglioso, ma vuoto di fede e di grazia, del lavoro moderno. Siamo venuti per lanciare di qui, come uno squillo di tromba risonante nel mondo, il beato annunzio del Natale all’umanità che sale, che studia, che lavora, che fatica, che soffre, che piange e che spera; e l’annuncio è quello degli Angeli di Bethleem: oggi è nato il Salvatore vostro, Cristo Signore.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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