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Ultimo Aggiornamento: 09/12/2015 13:37
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Sul sano e vero autentico ECUMENISMO


L'Ecumenismo


Riporto a beneficio di tutti uno stralcio dal Capitolo XXXV di Iota Unum, intitolato appunto "L'ecumenismo". Tra l'altro viene analizzata l'espressione "subsistit in" di Lumen Gentium.


245. La variazione nel concetto dell'ecumenismo. La lnstructio del 1949. -Questa variazione è senza dubbio la più significativa che si sia prodotta nel sistema cattolico dopo il Vaticano II e vi si trovano riuniti tutti i motivi della tentata variazione di fondo che siamo soliti stringere nella formula di perdita delle essenze.

La dottrina tradizionale dell'ecumenismo è stabilita nella lnstructio de motione oecumenica emanata dal Santo Officio il 20 dicembre 1949 (in AAS, 31 gennaio 1950) la quale riprende l'insegnamento di Pio XI nell'enciclica Mortalium animos. Si stabilisce dunque: Primo: «la Chiesa cattolica possiede la pienezza del Cristo» e non deve perfezionarla ad opera delle altre confessioni. Secondo: non si deve perseguire l'unione per via di una progressiva assimilazione delle varie confessioni di fede né mediante un'accomodazione del dogma cattolico ad altro. Terzo: l'unica vera unione delle Chiese può farsi soltanto con il ritorno (per reditum) dei fratelli separati alla vera Chiesa di Dio. Quarto: i separati che si ricongiungono alla Chiesa cattolica non perdono nulla di sostanziale di quanto appartiene alla loro particolare professione, ma anzi lo ritrovano identico in una dimensione completa e perfetta («completum atque absolutum»).

La dottrina ribadita dalla lnstructio importa dunque che la Chiesa di Roma sia il fondamento e il centro dell'unità cristiana: che la vita storica della Chiesa, che è la persona collettiva del Cristo, non si faccia intorno a più centri (le varie confessioni cristiane) i quali avrebbero un centro più profondo situato fuori di ciascuna di esse; e infine che i separati devono muovere verso il centro immobile che è la Chiesa del servizio di Pietro. L 'unione ecumenica trova dunque la sua ragione e il suo fine in qualche cosa che sta già nella storia, che non è un futuro, e che i separati devono ripigliare. Tutte le cautele adoperate in materia ecumenica dalla Chiesa romana e massime la astensione tuttora perdurante dal Consiglio ecumenico delle Chiese hanno per motivo questa nozione dell'unità del cristiani e l'esclusione del pluralismo paritario delle confessioni separate. La posizione dottrinale infine è una riaffermazione della trascendenza del Cristianesimo il cui principio, che è il Cristo, è un principio teandrico vicariato storicamente dal ministero di Pietro.

246. La variazione conciliare. Villain. Card. Bea.

- La variazione introdotta dal Concilio si palesa per segni estrinseci e per un passaggio teoretico. Nel decreto Unitatis redintegratio l'Instructio del 1949 non è citata mai e il vocabolo di ritorno (reditus) neppure. Al vocabolo reversione è subentrato quello di conversione. Le confessioni cristiane, compresa la cattolica, non devono volgersi l'una all'altra, sibbene tutte insieme gravitare verso il Cristo totale che trovasi fuori di esse e in cui esse devono convergere.
Veramente nel discorso inaugurale del secondo periodo Paolo VI ripropose la dottrina tradizionale asserendo che i separati «mancano della perfetta unità che solo la Chiesa cattolica può loro dare». Il triplice vincolo di tale unità è costituito dall'identica credenza, dalla partecipazione agli identici sacramenti e dalla «apta cohaerentia unici ecclesiastici regiminis», anche se questa unica direzione rispetterà una larga varietà di espressioni linguistiche, di forme rituali, di tradizioni storiche, di prerogative locali, di correnti spirituali, di situazioni legittime.

Ma nonostante le dichiarazioni papali il decreto Unitatis redintegratiorespinge il reditus dei separati e professa la tesi della conversione di tutti i cristiani. L 'unità non deve farsi per ritorno dei separati alla Chiesa cattolica, bensì per conversione di tutte le Chiese nel Cristo totale, il quale non sussiste in alcuna di esse ma va reintegrato mediante la convergenza di
tutte in uno. Dove gli schemi preparatorii definivano che la Chiesa di Cristo è la Chiesa cattolica, il Concilio concede soltanto che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica,
adottando la teoria che anche nelle altre Chiese cristiane sussiste la Chiesa di Cristo e che tutte devono prendere coscienza di tale comune sussistenza nel Cristo. Le Chiese separate, come scrive in OR, 14 ottobre, un cattedratico della Gregoriana, sono riconosciute dal Concilio come «strumenti di cui lo Spirito Santo si serve per operare la salvezza dei loro aderenti». Il
cattolicismo, in questa veduta paritaria di tutte le Chiese, non ha più nessun carattere di preminenza e di esclusività.

Già nel periodo dei lavori preparatorii del Concilio (§§ 29 sgg.) il padre M. Villain nell'opera Introduction à l’oecuménisme (Paris 1959) proponeva di far cadere l'antinomia tra Chiesa
cattolica e confessioni protestanti distinguendo tra dogmi centrali e dogmi periferici, ma più ancora distinguendo le verità di fede dalle formule con cui il pensiero contingentemente le
obiettiva e le esprime e che non sono immutabili. poiché le formule non sono l'effetto di una facoltà manifestativa del vero, bensì di una facoltà categorizzante un dato sempre inconoscibile, l'unione deve farsi in qualche cosa di più profondo della verità, che il Villain chiama il Cristo orante. Ma oltre a quanto dicemmo al § 243, è da osservare che l'orazione di tutti quelli che si richiamano al Cristo è certo un mezzo necessario dell’unione, ma che il pregare insieme per l'unione non costituisce l’unità, che è di fede, di sacramenti e di reggimento.

Il card. Bea riprese un’analoga concezione dell’ecumenismo in «Civiltà Cattolica», gennaio 1961, in conferenze ed in interviste («Corriere del Ticino», 10 marzo 1971). Egli dichiarò che
il movimento non è di ritorno dei separati alla Chiesa Romana e, seguendo la sentenza comune, asserì che i Protestanti non sono staccati del tutto, giacche hanno il carattere del battesimo. Però, citando dalla Mystici corporis di Pio XII che «sono ordinati al mistico corpo» giungeva ad asserire che vi appartengono, e che perciò versano in una situazione di salvezza non diversa da quella dei cattolici (OR, 27 aprile 1962). La causa dell'unione è da lui ricondotta a esplicitazione di un’unità già virtualmente presente, di cui si tratta di prendere coscienza. Questa unità è soltanto virtuale anche nella Chiesa cattolica la quale deve prender coscienza non di se stessa, ma di quella più profonda realtà del Cristo totale che è la sintesi delle sparse membra della cristianità. Non dunque reversione degli uni agli altri, ma conversione di tutti al centro che è il Cristo profondo.

247. L'ecumenismo postconciliare. Paolo VI. Il Segretariato per l'unione.

- Il termine di conversione di tutti sostituito a quello di reversione dei separati ha una parte grande nel decreto Unitatis redintegratio, 6, dove si insegna una perpetua riforma della Chiesa. Ma il termine ha un senso incerto. In primo luogo, se non si indulge al mobilismo, si ha da dire che c'è uno status del cristiano dentro il quale si svolge il suo personale perfezionamento religioso e dal quale egli non ha da far passaggio o convertirsi a un altro stato. In secondo luogo la conversione, ossia il continuo moto perfettivo del cristiano, è necessaria in sé anche all'opera della riunione della Chiesa, ma non ne costituisce l'essenza, essendo un momento del destino personale.

Anche in un intervento nell'OR del 4 dicembre 1963, il Bea, pure riconoscendo la differenza tra le Chiese, asserisce che «i punti che dividono non riguardano veramente le dottrine, ma il modo di esprimerle», poiché tutte le confessioni sottintendono un'identica verità subiacente a tutte: come se la Chiesa si fosse ingannata per secoli e l'errore fosse un equivoco.

L’azione del pastore delle parabole evangeliche consisterebbe non nel ricondurre cioè nel far tornare (¢gage‹n), ma puramente nel lasciare aperte le porte dell'ovile, che non sarebbe poi nemmeno l'ovile del pastore ma un altro.
In una pericope implessa del discorso del 23 gennaio 1969 Paolo VI sembra vicino a tali vedute. «Dalla discussione teologica» dice il Papa «può risultare quale sia l'essenziale patrimonio dottrinale cristiano, quanto sia di esso comunicabile autenticamente e insieme in termini differenti sostanzialmente uguali e complementari, e come sia per tutti possibile e alla
fine vittoriosa la scoperta di quell’identità della fede nella libertà e nella varietà delle sue espressioni dalla quale l'unione possa felicemente essere celebrata». Sembra da questa pericope che l'unità preesista ubique e che si debba prenderne coscienza ubique e che la verità si trovi non già abbandonando, ma approfondendo la sostanza dell'errore.

Non diversa è la posizione di Giovanni Paolo II nel discorso al Sacro Collegio, 23 dicembre 1982 richiamato in occasione della VI Assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese: «Celebrando la Redenzione andiamo al di là delle incomprensioni e delle controversie contingenti per ritrovarci nel fondo comune al nostro essere cristiani». A quell’assemblea erano rappresentate trecentoquattro confessioni cristiane, le quali, secondo OR, 25-6 luglio 1983, «hanno espresso nel canto, nella danza, nella preghiera i diversi modi di significare un atteggiamento di rapporto con Dio».

Significativo è il documento in lingua francese del Segretariato per l'unione in applicazione del decreto Unitatis redintegratio (OR, 22-3 settembre 1970). Vi si riprende da LG, 8, la
formula tradizionale: «l’unité de l’Eglise une et unique, unité dont le Christ a doté son Eglise dès l'origine, et qui subsiste, nous le croyons, de façon inamissible dans l'Eglise catholique
et qui, nous espérons, doit s'accroître sans cesse jusqu’à la consommation des siècles».

Qui dunque la Chiesa cattolica possiede l'unità e la accresce non formalmente, cioè diventando più
una, ma materialmente, aggiungendo a se le confessioni presentemente separate: è un'estensione, non un'intensione di unità. Però tutto il documento si svolge poi al contrario in una prospettiva di unità da ricercare, anziché da comunicare, in una reciprocanza di riconoscimenti grazie ai quali si persegue «la résolution des divergences au de là des différences historiques actuelles». Le differenze dogmatiche sono riguardate come differenze storiche, il ritorno alla fede dei primi sette Concili deve farle cadere nell’irrilevanza. Qui è negato implicitamente lo sviluppo omogeneo del dogma dopo quei sette Concili, si imprime alla fede un moto retrogrado e si dà al problema ecumenico una soluzione storica anziché teologica.

Questa mentalità, onde l'unione è da conseguire sinteticamente per ricomposizione di frammenti assiologicamente pari, ha ormai del tutto rimosso la situazione tradizionale. L’appello fatto nella congregazione LXXXIX del Concilio dal vescovo di Strasburgo, affinché «si evitasse ogni espressione che allude al ritorno dei separati», è diventato l'assioma dottrinale e la direttiva pratica del movimento ecumenico.
[…]


Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha forse cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa ?

Risposta:
Il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente.
Proprio questo affermò con estrema chiarezza Giovanni XXIII all’inizio del Concilio1. Paolo VI lo ribadì2 e così si espresse nell’atto di promulgazione della Costituzione Lumen gentium: "E migliore commento sembra non potersi fare che dicendo che questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo noi pure. Ciò che era, resta. Ciò che la Chiesa per secoli insegnò, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito; ciò che era meditato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione"3. I Vescovi ripetutamente manifestarono e vollero attuare questa intenzione4.

[Modificato da Caterina63 28/09/2009 18:59]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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24/02/2010 22:32
 
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L'Ecclesiologia della costituzione «Lumen Gentium»

Card. JOSEPH RATZINGER
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede
Da L'osservatore romano del 4 marzo 2000


Nel tempo della preparazione al Concilio Vaticano II ed anche durante il Concilio stesso il Cardinale Frings mi ha spesso raccontato un piccolo episodio, che evidentemente lo aveva toccato profondamente.

Papa Giovanni XXIII non aveva da parte sua fissato alcun tema determinato per il Concilio, ma aveva invitato i Vescovi del mondo a proporre le loro priorità, così che dalle esperienze vive della Chiesa universale emergesse la tematica di cui il Concilio si sarebbe dovuto occupare. Anche nella Conferenza Episcopale Tedesca si discusse su quali temi si dovessero proporre per la riunione dei Vescovi. Non solo in Germania, ma praticamente in tutta la Chiesa cattolica si era del parere che il tema dovesse essere la Chiesa: il Concilio Vaticano I interrotto innanzi tempo a motivo della guerra franco-tedesca non aveva potuto condurre a termine la sua sintesi ecclesiologica, ma aveva lasciato un capitolo di ecclesiologia isolato.

Riprendere le fila di allora e così cercare una visione globale della Chiesa appariva essere il compito urgente dell'imminente Concilio Vaticano II. Ciò emergeva anche dal clima culturale dell'epoca: la fine della prima guerra mondiale aveva portato con sé un profondo rivolgimento teologico. La teologia liberale orientata in modo del tutto individualistico si era eclissata come da se stessa, si era ridestata una nuova sensibilità per la Chiesa. Non solo Romano Guardini parlava di risveglio della Chiesa nelle anime; il Vescovo evangelico Otto Dibelius coniava la formula del secolo della Chiesa, e Karl Barth dava alla sua dogmatica fondata sulle tradizioni riformate il titolo programmatico di «Kirchliche Dogmatik» (Dogmatica ecclesiale): la dogmatica presuppone la Chiesa, così egli spiegava; senza Chiesa non esiste.

Fra i membri della Conferenza Episcopale Tedesca pertanto era ampiamente prevalente un consenso sul fatto che la Chiesa dovesse essere il tema. L'anziano Vescovo Buchberger di Regensburg, che come ideatore del Lexikon für Theologie und Kirche in dieci volumi, oggi alla sua terza edizione, si era conquistato stima e rinomanza molto al di là della sua diocesi, chiese la parola — così mi raccontava l'Arcivescovo di Colonia — e disse: cari fratelli, al Concilio voi dovete innanzitutto parlare di Dio. Questo è il tema più importante. I Vescovi rimasero colpiti; non potevano sottrarsi alla gravità di questa parola. Naturalmente non potevano decidersi a proporre semplicemente il tema di Dio. Ma un'inquietudine interiore è nondimeno rimasta almeno nel Cardinale Frings, che si chiedeva continuamente come potessimo soddisfare a questo imperativo.

Questo episodio mi è ritornato in mente, quando lessi il testo della conferenza con la quale Johann Baptist Metz si congedò nel 1993 dalla sua cattedra di Münster. Di questo importante discorso vorrei citare almeno alcune frasi significative.
Metz dice: «La crisi, che ha colpito il cristianesimo europeo, non è più primariamente o almeno esclusivamente una crisi ecclesiale... La crisi è più profonda: essa non ha affatto le sue radici solo nella situazione della Chiesa stessa: la crisi è divenuta una crisi di Dio».
«Schematicamente si potrebbe dire: religione, sì — Dio no, ove questo no a sua volta non è inteso nel senso categorico dei grandi ateismi. Non esistono più grandi ateismi. L'ateismo di oggi può in realtà già di nuovo riprendere a parlare di Dio — distrattamente o tranquillamente — senza intenderlo veramente...».
«Anche la Chiesa ha una sua concezione della immunizzazione contro le crisi di Dio. Essa non parla più oggi — come ad esempio ancora al Concilio Vaticano II — di Dio, ma soltanto — come ad esempio nell'ultimo Concilio — del Dio annunciato per mezzo della Chiesa. La crisi di Dio viene cifrata ecclesiologicamente».

Parole del genere dalla bocca del creatore della teologia politica devono rendere attenti. Esse ci ricordano innanzitutto giustamente che il Concilio Vaticano II non fu solo un concilio ecclesiologico, ma prima e soprattutto esso ha parlato di Dio e questo non solo all'interno della cristianità, ma rivolto al mondo — di quel Dio, che è il Dio di tutti, che tutti salva e a tutti è accessibile. Forse che il Vaticano II, come Metz sembra dire, ha raccolto solo metà dell'eredità del precedente Concilio? Una relazione, che è dedicata all'ecclesiologia del Concilio, deve evidentemente porsi questa domanda.

Vorrei subito anticipare la mia tesi di fondo: il Vaticano II voleva chiaramente inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, voleva proporre una ecclesiologia nel senso propriamente teologico, ma la recezione del Concilio ha finora trascurato questa caratteristica qualificante in favore di singole affermazioni ecclesiologiche, si è gettata su singole parole di facile richiamo e così è restata indietro rispetto alle grandi prospettive dei Padri conciliari.

Qualcosa di analogo si può per altro dire a proposito del primo testo, che il Vaticano II mise a punto — la Costituzione sulla Sacra Liturgia.
Il fatto che essa si collocasse all'inizio, aveva dapprincipio motivi pragmatici. Ma retrospettivamente si deve dire che nell'architettura del Concilio questo ha un senso preciso: all'inizio sta l'adorazione. E quindi Dio. Questo inizio corrisponde alla parola della Regola benedettina: Operi Dei nihil praeponatur.
 
La Costituzione sulla Chiesa, che segue poi come secondo testo del Concilio, la si dovrebbe considerare ad essa interiormente collegata. La Chiesa si lascia guidare dalla preghiera, dalla missione di glorificare Dio. L'ecclesiologia ha a che fare per sua natura con la liturgia. E quindi è poi anche logico che la terza Costituzione parli della parola di Dio, che convoca la Chiesa e la rinnova in ogni tempo.

La quarta Costituzione mostra come la glorificazione di Dio si propone nella vita attiva, come la luce ricevuta da Dio viene portata nel mondo e solo così diviene totalmente la glorificazione di Dio.
 
Nella storia del postconcilio certamente la Costituzione sulla liturgia non fu più compresa a partire da questo fondamentale primato dell'adorazione, ma piuttosto come un libro di ricette su ciò che possiamo fare con la liturgia.
Nel frattempo ai creatori della liturgia sembra che sia uscito di mente, occupati come sono in modo sempre più incalzante a riflettere come si possa configurare la liturgia in modo sempre più attraente, comunicativo, coinvolgendovi attivamente sempre più gente, che la liturgia in realtà è «fatta» per Dio e non per noi stessi. Quanto più però noi la facciamo per noi stessi, tanto meno attraente essa è, perché tutti avvertono chiaramente che l'essenziale va sempre più perduto.

Per quanto concerne ora l'ecclesiologia di «Lumen gentium», sono innanzitutto restate nella coscienza alcune parole chiave:
- l'idea di Popolo di Dio,
- la collegialità dei Vescovi come rivalutazione del ministero del Vescovo nei confronti del primato del Papa,
- la rivalutazione delle Chiese locali nei confronti della Chiesa universale,
- l'apertura ecumenica del concetto di Chiesa e
- l'apertura alle altre religioni;
- infine la questione dello stato specifico della Chiesa cattolica, che si esprime nella formula secondo cui la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, di cui parla il Credo, « subsistit in Ecclesia catholica»: lascio questa famosa formula qui dapprima non tradotta, perché essa — come era previsto — ha trovato le spiegazioni più contraddittorie — dall'idea, che qui si esprima la singolarità della Chiesa cattolica unita al Papa fino all'idea che qui sia stata raggiunta un'equiparazione con tutte le altre Chiese cristiane e la Chiesa cattolica abbia abbandonato la sua pretesa di specificità.

In una prima fase della recezione del Concilio domina insieme con il tema della Collegialità il concetto di popolo di Dio, che compreso assai presto totalmente a partire dall'uso linguistico politico generale della parola popolo, nell'ambito della teologia della liberazione fu compreso con l'uso della parola marxista di popolo come contrapposizione alle classi dominanti e più in generale ancora più ampiamente nel senso della sovranità del popolo, che ora finalmente sarebbe da applicare anche alla Chiesa.

Ciò a sua volta diede occasione ad ampi dibattiti sulle strutture, nei quali fu interpretato a seconda della situazione in modo più occidentale come «democratizzazione» ovvero più nel senso delle «Democrazie popolari» orientali.

Lentamente questo «fuoco d'artificio di parole» (N.Lohfink) intorno al concetto di popolo di Dio si è andato spegnendo, da una parte e principalmente perché questi giochi di potere si sono svuotati da se stessi e dovevano lasciare il posto al lavoro ordinario nei consigli parrocchiali, dall'altra però, anche, perché un solido lavoro teologico ha mostrato in modo incontrovertibile l'insostenibilità di tali politicizzazioni di un concetto di per sé proveniente da un ambito totalmente diverso.

Come risultato di analisi esegetiche accurate l'esegeta di Bochum Werner Berg, ad esempio, afferma: «Malgrado l'esiguo numero di passi, che contengono l'espressione “popolo di Dio” — da questo punto di vista “popolo di Dio” è un concetto biblico piuttosto raro — può nondimeno rilevarsi qualcosa di comune: l'espressione “popolo di Dio” esprime la “parentela” con Dio, la relazione con Dio, il legame fra Dio e quello che è designato come “popolo di Dio”, quindi una “direzione verticale”. L'espressione si presta meno a descrivere la struttura gerarchica di questa comunità, soprattutto se il “popolo di Dio” viene descritto come “controparte” dei ministri...
A partire dal suo significato biblico l'espressione non si presta neppure ad un grido di protesta contro i ministri: “Noi siamo il popolo di Dio”».

Il professore di teologia fondamentale di Paderborn Josef Meyer zu Schlochtern conclude la rassegna sulla discussione intorno al concetto di popolo di Dio con l'osservazione che la Costituzione sulla Chiesa del Vaticano II termina il capitolo relativo in modo tale da «designare la struttura trinitaria come fondamento dell'ultima determinazione della Chiesa...». Così la discussione è ricondotta al punto essenziale: la Chiesa non esiste per se stessa, ma dovrebbe essere lo strumento di Dio, per radunare gli uomini a lui, per preparare il momento, in cui «Dio sarà tutto in tutto» (1 Cor 15, 28).

Proprio il concetto di Dio era stato lasciato da parte nel «fuoco d'artificio» intorno a questa espressione e in tal modo era stato privato del suo significato. Infatti una Chiesa, che esiste solo per se stessa, è superflua. E la gente lo nota subito. La crisi della Chiesa, come essa si rispecchia nel concetto di popolo di Dio, è «crisi di Dio»; essa risulta dall'abbandono dell'essenziale. Ciò che resta, è ormai solo una lotta per il potere. Di questa ve ne è abbastanza altrove nel mondo, per questa non c'è bisogno della Chiesa.

Si può certamente dire che all'incirca a partire dal Sinodo straordinario del 1985, che doveva tentare una specie di bilancio di vent'anni di postconcilio, un nuovo tentativo si va diffondendo, quello di riassumere l'insieme dell'ecclesiologia conciliare in un concetto base: l'ecclesiologia di comunione. Ho accolto con gioia questo nuovo ricentramento dell'ecclesiologia ed ho anche cercato secondo le mie capacità di prepararlo. Si deve comunque innanzitutto riconoscere che la parola «communio» nel Concilio non ha una posizione centrale. Nondimeno, compresa rettamente, essa può servire come sintesi per gli elementi essenziali dell'ecclesiologia conciliare. Tutti gli elementi essenziali del concetto cristiano di «communio» si trovano riuniti nel famoso passo di 1 Giov 1, 3, che si può considerare come il criterio di riferimento per ogni corretta comprensione cristiana della «communio»: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta».

Qui emerge in primo piano il punto di partenza della «communio»: l'incontro con il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che nell'annuncio della Chiesa viene agli uomini. Così nasce la comunione degli uomini fra di loro, che a sua volta si fonda sulla comunione con il Dio uno e trino. Alla comunione con Dio si ha accesso tramite quella realizzazione della comunione di Dio con l'uomo, che è Cristo in persona; l'incontro con Cristo crea comunione con lui stesso e quindi con il Padre nello Spirito Santo; e a partire di qui unisce gli uomini fra di loro. Tutto questo ha come fine la gioia piena: la Chiesa porta in sé una dinamica escatologica.

Nell'espressione gioia piena si avverte il riferimento ai discorsi d'addio di Gesù, quindi al mistero pasquale ed al ritorno del Signore nelle apparizioni pasquali, che tende al suo pieno ritorno nel nuovo mondo: «Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia... vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà... Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» ( Gv 16, 20.22.24).
Se si confronta l'ultima frase citata con Lc 11, 13 — l'invito alla preghiera in Luca — appare chiaramente che «gioia» e «Spirito Santo» si equivalgono e che dietro la parola gioia si nasconde in 1 Giov 1, 3 lo Spirito Santo qui non espressamente menzionato. La parola «communio» ha quindi a partire da questo ambito biblico un carattere teologico, cristologico, storico salvifico ed ecclesiologico. Porta quindi in sé anche la dimensione sacramentale, che in Paolo appare in modo del tutto esplicito: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo...» (1 Cor 10, 16s).

L'ecclesiologia di comunione è fin dal suo intimo una ecclesiologia eucaristica. Essa si colloca così assai vicino all'ecclesiologia eucaristica, che teologi ortodossi hanno sviluppato in modo convincente nel nostro secolo. In essa l'ecclesiologia diviene più concreta e rimane nondimeno allo stesso tempo totalmente spirituale, trascendente ed escatologica. Nell'Eucaristia Cristo, presente nel pane e nel vino e donandosi sempre nuovamente, edifica la Chiesa come suo corpo e per mezzo del suo corpo di risurrezione ci unisce al Dio uno e trino e fra di noi. L'Eucaristia si celebra nei diversi luoghi e tuttavia è allo stesso tempo sempre universale, perché esiste un solo Cristo e un solo corpo di Cristo.

L'Eucaristia include il servizio sacerdotale della «repraesentatio Christi» e quindi la rete del servizio, la sintesi di unità e molteplicità, che si palesa già nella parola «Communio». Si può così senza dubbio dire che questo concetto porta in sé una sintesi ecclesiologica, che unisce il discorso della Chiesa al discorso di Dio ed alla vita da Dio e con Dio, una sintesi, che riprende tutte le intenzioni essenziali dell'ecclesiologia del Vaticano II e le collega fra di loro nel modo giusto.

Per tutti questi motivi ero grato e contento, quando il Sinodo del 1985 riportò al centro della riflessione il concetto di «communio». Ma gli anni successivi mostrarono che nessuna parola è protetta dai malintesi, neppure la migliore e la più profonda.
Nella misura in cui «communio» divenne un facile slogan, essa fu appiattita e travisata.
Come per il concetto di popolo di Dio così si doveva anche qui rilevare una progressiva orizzontalizzazione, l'abbandono del concetto di Dio.

L'ecclesiologia di comunione cominciò a ridursi alla tematica della relazione fra Chiesa locale e Chiesa universale, che a sua volta ricadde sempre più nel problema della divisione di competenze fra l'una e l'altra. Naturalmente si diffuse nuovamente il motivo egualitaristico, secondo cui nella «communio» potrebbe esservi solo piena uguaglianza. Si è così arrivati di nuovo esattamente alla discussione dei discepoli su chi fosse il più grande, che evidentemente in nessuna generazione intende placarsi. Marco ne riferisce con maggiore insistenza. Nel cammino verso Gerusalemme Gesù aveva parlato per la terza volta ai discepoli della sua prossima passione. Arrivati a Cafarnao egli chiese loro di che cosa avevano discusso fra di loro lungo la via. «Ma essi tacevano», perché avevano discusso su chi di loro fosse il più grande — una specie di discussione sul primato ( Mc 9, 33-37). Non è così anche oggi? Mentre il Signore va verso la sua passione, mentre la Chiesa e in essa egli stesso soffre, noi ci soffermiamo sul nostro tema preferito, sulla discussione circa i nostri diritti di precedenza. E se egli venisse fra di noi e ci chiedesse di che cosa abbiamo parlato, quanto dovremmo arrossire e tacere.

Questo non vuol dire che nella Chiesa non si debba anche discutere sul retto ordinamento e sulla assegnazione delle responsabilità. E certamente vi saranno sempre squilibri, che esigono correzioni. Naturalmente può verificarsi un centralismo romano esorbitante, che come tale deve poi essere evidenziato e purificato. Ma tali questioni non possono distrarre dal vero e proprio compito della Chiesa: la Chiesa non deve parlare primariamente di se stessa, ma di Dio, e solo perché questo avvenga in modo puro, vi sono allora anche rimproveri intraecclesiali, per i quali la correlazione del discorso su Dio e sul servizio comune deve dare la direzione. In conclusione non a caso ritorna nella tradizione evangelica in diversi contesti la parola di Gesù secondo cui l'ultimo diverrà il primo ed il primo l'ultimo — come uno specchio, che riguarda sempre tutti.

Di fronte alla riduzione, che a riguardo del concetto di «communio» si verificò negli anni dopo il 1985, la Congregazione per la Dottrina della Fede ritenne opportuno preparare una «Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione», che fu pubblicata con la data del 28 giugno 1992.

Poiché oggi per teologi, che tengono alla propria rinomazione, sembra essere divenuto un dovere dare una valutazione negativa dei documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, su questo testo cadde una gragnola di critiche, da cui ben poco riuscì a salvarsi.
Soprattutto fu criticata la frase, che la Chiesa universale sarebbe nel suo mistero essenziale una realtà, che ontologicamente e temporalmente precede le singole Chiese particolari. Questo nel testo era brevemente fondato con il richiamo al fatto che secondo i padri l'una e singola Chiesa precede la creazione e partorisce le Chiese particolari (9).

I padri continuano così una teologia rabbinica, che aveva concepito come preesistenti la Thora ed Israele: la creazione sarebbe stata concepita, perché in essa vi fosse uno spazio per la volontà di Dio; questa volontà però aveva bisogno di un popolo, che vive per la volontà di Dio e ne fa la luce del mondo. Poiché i padri erano convinti dell'identità ultima fra Chiesa ed Israele, essi non potevano vedere nella Chiesa qualcosa di casuale sorto all'ultima ora, ma riconoscevano in questa riunione dei popoli sotto la volontà di Dio la teleologia interna della creazione.
A partire dalla cristologia l'immagine si allarga e si approfondisce: la storia — di nuovo in relazione con l'Antico Testamento — viene spiegata come storia d'amore fra Dio e l'uomo. Dio trova e si prepara la sposa del Figlio, l'unica sposa, che è l'unica Chiesa. A partire dalla parola della Genesi, che uomo e donna diverranno «due in una carne sola» ( Gen 2, 24), l'immagine della sposa si fuse con l'idea della Chiesa come corpo di Cristo, metafora che a sua volta deriva dalla liturgia eucaristica. L'unico corpo di Cristo viene preparato; Cristo e la Chiesa saranno «due in una sola carne», un corpo, e così «Dio sarà tutto in tutto».

Questa precedenza ontologica della Chiesa universale, dell'unica Chiesa e dell'unico corpo, dell'unica sposa, rispetto alle realizzazioni empiriche concrete nelle singole Chiese particolari mi sembra così evidente, che mi riesce difficile comprendere le obiezioni ad essa.
Mi sembrano in realtà essere possibili solo se non si vuole e non si riesce più a vedere la grande Chiesa ideata da Dio — forse per disperazione a motivo della sua insufficienza terrena; essa appare ora come una fantasticheria teologica, e rimane quindi solo l'immagine empirica delle Chiese nella loro relazione reciproca e nella loro conflittualità. Questo però significa che la Chiesa come tema teologico viene cancellato. Se si può vedere la Chiesa ormai solo nelle organizzazioni umane, allora in realtà rimane solo desolazione.
Ma allora non si è abbandonato solo l'ecclesiologia dei padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e la concezione di Israele dell'Antico Testamento.

Nel Nuovo Testamento del resto non è necessario attendere le epistole deutero-paoline e l'Apocalisse per riscontrare la priorità ontologica — riaffermata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede — della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari. Nel cuore delle grandi Lettere paoline, nella lettera ai Galati, l'Apostolo ci parla della Gerusalemme celeste e non come di una grandezza escatologica, ma come una realtà che ci precede: «Questa Gerusalemme è la nostra madre» ( Gal 4, 26). Al riguardo H.Schlier rileva che per Paolo come per la tradizione giudaica cui si ispira la Gerusalemme di lassù è il nuovo eone. Per l'apostolo però questo nuovo eone è già presente «nella Chiesa cristiana. Questa è per lui la Gerusalemme celeste nei suoi figli».

Se la priorità ontologica dell'unica Chiesa non si può seriamente negare, nondimeno la questione riguardante la precedenza temporale è senza dubbio già più difficile. La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede rimanda qui all'immagine lucana della nascita della Chiesa a Pentecoste per opera dello Spirito Santo. Non si vuol qui discutere la questione della storicità di questo racconto. Ciò che conta è l'affermazione teologica, che sta a cuore a Luca.
 
La Congregazione per la Dottrina della Fede richiama l'attenzione sul fatto che la Chiesa ha inizio nella comunità dei 120 radunata intorno a Maria, soprattutto nella rinnovata comunità dei dodici, che non sono membri di una Chiesa locale, ma sono gli apostoli, che porteranno il vangelo ai confini della terra. Per chiarire ulteriormente si può aggiungere che essi nel loro numero di dodici sono allo stesso tempo l'antico ed il nuovo Israele, l'unico Israele di Dio, che ora — come fin dall'inizio era contenuto fondamentalmente nel concetto di popolo di Dio — si estende a tutte le nazioni e fonda in tutti i popoli l'unico popolo di Dio.

Questo riferimento viene rafforzato da due ulteriori elementi: 

la Chiesa in questa ora della sua nascita parla già in tutte le lingue. I padri della Chiesa hanno giustamente interpretato questo racconto del miracolo delle lingue come un anticipo della Catholica — la Chiesa fin dal primo istante è orientata «kat'holon» — abbraccia tutto l'universo.
A ciò fa da corrispettivo il fatto che Luca descriva la schiera degli ascoltatori come pellegrini provenienti da tutta quanta la terra, sulla base di una tavola di dodici popoli, il cui significato è quello di alludere alla onnicomprensività dell'uditorio; Luca ha arricchito questa tavola dei popoli ellenistica con un tredicesimo nome: i romani, con cui senza dubbio voleva sottolineare ancora una volta l'idea dell'Orbis.

Non si rende del tutto esattamente il senso del testo della Congregazione per la Dottrina della Fede, quando al riguardo Walter Kasper dice che la comunità originaria di Gerusalemme sarebbe stata di fatto Chiesa universale e Chiesa locale allo stesso tempo e poi continua: «Certamente questo rappresenta un'elaborazione lucana; infatti dal punto di vista storico esistevano presumibilmente sin dall'inizio più comunità, accanto alla comunità di Gerusalemme anche comunità in Galilea».
Qui non si tratta della questione per noi ultimamente insolubile, quando esattamente e dove per la prima volta sono sorte delle comunità cristiane, ma dell'inizio interiore della Chiesa nel tempo, che Luca vuol descrivere e che egli al di là di ogni rilevamento empirico riconduce alla forza dello Spirito Santo. Soprattutto però non si rende giustizia al racconto lucano, se si dice che la «comunità originaria di Gerusalemme» sarebbe stata allo stesso tempo Chiesa universale e Chiesa locale.
La realtà prima nel racconto di san Luca non è una comunità originaria gerosolimitana, ma la realtà prima è che nei dodici l'antico Israele, che è unico, diviene quello nuovo e che ora questo unico Israele di Dio per mezzo del miracolo delle lingue, ancora prima di divenire la rappresentazione di una Chiesa locale gerosolimitana, si mostra come una unità che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi.

Nei pellegrini presenti, che provengono da tutti i popoli, essa coinvolge subito anche tutti i popoli del mondo. Forse non è necessario sopravvalutare la questione della precedenza temporale della Chiesa universale, che Luca nel suo racconto propone chiaramente. Importante resta nondimeno che la Chiesa nei dodici viene generata dall'unico Spirito fin dall'inizio per tutti i popoli e pertanto anche sin dal primo istante è orientata ad esprimersi in tutte le culture e proprio così ad essere l'unico popolo di Dio: non una comunità locale si allarga lentamente, ma il lievito è sempre orientato all'insieme e quindi porta in sé una universalità sin dal primo istante.
La resistenza contro le affermazioni della precedenza della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari è teologicamente difficile da comprendere o addirittura incomprensibile.

Comprensibile diviene solo a partire da un sospetto che sinteticamente è stato così formulato da Walter Kasper: «Totalmente problematica diventa la formula, se l'unica Chiesa universale viene tacitamente identificata con la Chiesa romana, de facto con il Papa e la Curia. Se questo avviene, allora la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede non può essere intesa come un aiuto alla chiarificazione della ecclesiologia di comunione, ma deve essere compresa come il suo abbandono e come il tentativo di una restaurazione del centralismo romano».
In questo testo l'identificazione della Chiesa universale con il Papa e la Curia viene dapprima introdotta come ipotesi, come pericolo, ma poi sembra di fatto essere attribuita alla Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, che così viene ad apparire come restaurazione teologica e quindi come distacco dal Concilio Vaticano II. Questo salto interpretativo sorprende, ma rappresenta senza dubbio un sospetto largamente diffuso; esso da voce ad un'accusa che si ode tutt'intorno, ed esprime bene anche una crescente incapacità a rappresentarsi sotto la Chiesa universale, sotto la Chiesa una, santa, cattolica qualcosa di concreto. Come unico elemento configurabile restano il Papa e la Curia, e se si da ad essi una classificazione troppo alta dal punto di vista teologico, è comprensibile che ci si senta minacciati.

Così ci si trova qui molto concretamente, dopo quello che solo apparentemente è un Excursus, di fronte alla questione dell'interpretazione del Concilio. La domanda, che ora ci si pone, è la seguente: quale idea di Chiesa universale ha propriamente il Concilio?

Non si può dire in verità che la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede «identifichi tacitamente la Chiesa universale con la Chiesa romana, de facto con il Papa e la Curia». Questa tentazione insorge se in precedenza si era già identificato la Chiesa locale di Gerusalemme e la Chiesa universale, cioè se si è ridotto il concetto di Chiesa alle comunità che appaiono empiricamente e la sua profondità teologica è stata persa di vista. È proficuo ritornare con questi interrogativi al testo stesso del Concilio.

Subito la prima frase della Costituzione sulla Chiesa chiarisce che il Concilio non considera la Chiesa come una realtà chiusa in se stessa, ma la vede a partire da Cristo: «Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini... ».

Sullo sfondo riconosciamo l'immagine presente nella teologia dei padri, che vede nella Chiesa la luna, la quale non ha da se stessa luce propria, ma rimanda la luce del sole Cristo. L'ecclesiologia si manifesta come dipendente dalla cristologia, ad essa legata. Poiché però nessuno può parlare correttamente di Cristo, del Figlio, senza allo stesso tempo parlare del Padre e poiché non si può parlare correttamente di Padre e Figlio senza mettersi in ascolto dello Spirito Santo, la visione cristologica della Chiesa si allarga necessariamente in una ecclesiologia trinitaria ( LG n. 2-4). Il discorso sulla Chiesa è un discorso su Dio, e solo così è corretto. In questa ouverture trinitaria, che offre la chiave per la giusta lettura dell'intero testo, noi apprendiamo che cosa è la Chiesa una, santa a partire dalle ed in tutte le concrete realizzazioni storiche, che cosa significa «Chiesa universale».

Questo si chiarifica ulteriormente quando successivamente viene mostrato il dinamismo interiore della Chiesa verso il Regno di Dio. Proprio perché la Chiesa è da comprendersi teologicamente, essa autotrascende sempre se stessa; essa è il raduno per il Regno di Dio, irruzione in esso. Vengono poi presentate brevemente le diverse immagini della Chiesa, che rappresentano tutte l'unica Chiesa, sia che si parli della sposa, che della casa di Dio, della sua famiglia, del tempio, della città santa, della nostra madre, della Gerusalemme di lassù o del gregge di Dio, ecc.

Alla fine ciò si concretizza ulteriormente. Riceviamo una risposta molto pratica alla domanda: che cosa è questo, quest'unica Chiesa universale che precede ontologicamente e temporalmente le Chiese locali? Dov'è? Dove possiamo vederla agire? La Costituzione risponde parlandoci dei sacramenti. Vi è innanzitutto il battesimo: esso è un evento trinitario, cioè totalmente teologico, molto più che una socializzazione legata alla Chiesa locale, come oggi è purtroppo così spesso travisato. Il battesimo non deriva dalla singola comunità, ma in esso si apre a noi la porta all'unica Chiesa, esso è la presenza dell'unica Chiesa, e può scaturire solo a partire da essa — dalla Gerusalemme di lassù, dalla nuova madre. Al riguardo il noto ecumenista Vinzenz Pfnür ha detto recentemente al riguardo: il battesimo è essere inseriti «nell 'unico corpo di Cristo aperto per noi sulla croce (cfr Ef 2, 16), nel quale essi... vengono battezzati per mezzo dell'unico Spirito (1 Cor 12, 13), ciò che è essenzialmente di più che non l'annuncio battesimale in uso in molti luoghi: abbiamo accolto nella nostra comunità...».

Membra di questo unico corpo noi diveniamo nel battesimo, «ciò che non va scambiato con l'appartenenza ad una Chiesa locale. Di ciò fa parte l'unica sposa e l'unico episcopato..., al quale con Cipriano si partecipa solo nella comunione dei vescovi». Nel battesimo la Chiesa universale precede continuamente la Chiesa locale e la costituisce. A partire di qui la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla «communio» può dire che nella Chiesa non vi sono stranieri: ognuno è ovunque a casa sua e non solo ospite. E sempre l'unica Chiesa, l'unica e la medesima. Chi è battezzato a Berlino, è nella Chiesa a Roma o a New York o a Kinshasa o a Bangalore o in qualunque altro posto, altrettanto a casa sua come nella Chiesa in cui è stato battezzato. Non deve registrarsi di nuovo, è l'unica Chiesa. Il battesimo viene da essa e partorisce in essa. Chi parla del battesimo parla, tratta di per se stesso anche della parola di Dio, che per la Chiesa intera è solo una e continuamente la precede in tutti i luoghi, la convoca e la edifica. Questa parola è sopra la Chiesa, e nondimeno è in essa, affidata ad essa come soggetto vivo. La parola di Dio ha bisogno, per essere presente in modo efficace nella storia, di questo soggetto, ma questo soggetto da parte sua non sussiste senza la forza vivificante della parola, che innanzitutto la rende soggetto.
 Quando parliamo della parola di Dio, intendiamo anche il Credo, che sta al centro dell'evento battesimale; esso è la modalità, con cui la Chiesa accoglie la parola e se la appropria, in qualche modo parola e risposta allo stesso tempo. Anche qui la Chiesa universale è presente, l'unica Chiesa in modo assai concreto e qui percepibile.

Il testo conciliare passa dal battesimo all'Eucaristia, nella quale Cristo dona il suo corpo e ci rende così suo corpo. Questo corpo è unico, e così nuovamente l'Eucaristia per ogni Chiesa locale è il luogo dell'inserimento nell'unico Cristo, il divenire una cosa sola di tutti i comunicandi nella «communio» universale, che unisce cielo e terra, vivi e morti, passato, presente e futuro e apre all'eternità. L'Eucaristia non nasce dalla Chiesa locale e non finisce in essa. Essa manifesta continuamente che Cristo dall'esterno attraverso le nostre porte chiuse viene a noi; essa viene continuamente a noi a partire dall'esterno, dal totale, unico corpo di Cristo e ci conduce entro di esso. Questo «extra nos» del Sacramento si rivela anche nel ministero del vescovo e del presbitero: che l'eucaristia abbia bisogno del sacramento del servizio sacerdotale, ha il suo fondamento esattamente nel fatto che la comunità non può darsi essa stessa l'eucaristia; essa deve riceverla a partire dal Signore per mezzo della mediazione dell'unica Chiesa.
 
La successione apostolica, che costituisce il ministero sacerdotale, implica allo stesso tempo l'aspetto sincronico come quello diacronico del concetto di Chiesa: l'appartenere all'insieme della storia della fede a partire dagli apostoli e lo stare in comunione con tutti coloro che si lasciano radunare dal Signore nel suo corpo. La Costituzione sulla Chiesa ha notoriamente trattato il ministero episcopale nel terzo capitolo e chiarito il suo significato a partire dal concetto fondamentale del «collegium». Questo concetto che appare solo in modo marginale nella tradizione serve a illustrare l'interiore unità del ministero episcopale.

Vescovo non si è come singoli, ma attraverso l'appartenenza ad un corpo, ad un collegio, che a sua volta rappresenta la continuità storica del «collegium apostolorum».
In questo senso il ministero episcopale deriva dall'unica Chiesa e introduce in essa. Proprio qui diviene visibile che non esiste teologicamente alcuna contrapposizione fra Chiesa locale e Chiesa universale. Il Vescovo rappresenta nella Chiesa locale l'unica Chiesa, ed egli edifica l'unica Chiesa, mentre edifica la Chiesa locale e risveglia i suoi doni particolari per l'utilità di tutto quanto il corpo.

Il ministero del successore di Pietro è un caso particolare del ministero episcopale e connesso in modo particolare con la responsabilità per l'unità di tutta quanta la Chiesa.
Ma questo ministero di Pietro e la sua responsabilità non potrebbero neppure esistere, se non esistesse innanzitutto la Chiesa universale. Si muoverebbe infatti nel vuoto e rappresenterebbe una pretesa assurda. Senza dubbio la retta correlazione di episcopato e primato dovette essere continuamente riscoperta anche attraverso fatica e sofferenze. Ma questa ricerca è impostata in modo corretto solo quando viene considerata a partire dal primato della specifica missione della Chiesa e ad esso in ogni tempo orientata e subordinata: il compito cioè di portare Dio agli uomini, gli uomini a Dio. Lo scopo della Chiesa è il Vangelo, e attorno ad esso tutto in lei deve ruotare.

Vorrei a questo punto interrompere l'analisi del concetto di «communio» e prendere ancora posizione almeno brevemente nei confronti del punto più discusso di «Lumen gentium»: il significato della già menzionata frase di «Lumen gentium» 8, secondo cui l'unica Chiesa di Cristo, che confessiamo nel Simbolo come l'unica, santa, cattolica ed apostolica, «sussiste» nella Chiesa cattolica, che è guidata da Pietro e dai vescovi in comunione con lui.

La Congregazione per la Dottrina della Fede si vide obbligata nel 1985 a prendere posizione nei confronti di questo testo molto discusso a motivo di un libro di Leonardo Boff, nel quale l'autore sosteneva la tesi, secondo cui l'unica Chiesa di Cristo come sussiste nella Cattolico-romana, così sussisterebbe anche in altre Chiese cristiane. Superfluo dire che il pronunciamento della Congregazione per la Dottrina della Fede fu sopraffatto da critiche pungenti e poi messo da parte. Nel tentativo di riflettere su dove oggi siamo nella recezione dell'ecclesiologia conciliare, la questione dell'interpretazione del « subsistit » è inevitabile, ed al riguardo l'unico pronunciamento ufficiale del Magistero dopo il Concilio su questa parola, cioè la menzionata Notificazione, non può essere trascurato.

A distanza di 15 anni emerge con più chiarezza, di quanto non fosse allora, che non si trattava qui tanto di un singolo autore teologico, ma di una visione di Chiesa che circola con diverse variazioni e che anche oggi è molto attuale. La chiarificazione del 1985 ha presentato estesamente il contesto della tesi di Boff già brevemente riferita. Questi particolari non è necessario che li approfondiamo ulteriormente, perché ci sta a cuore qualcosa di più fondamentale. La tesi, il cui rappresentante allora è stato Boff, si potrebbe caratterizzare come relativismo ecclesiologico. Essa trova la sua giustificazione nella teoria secondo cui il «Gesù storico» di per sé non avrebbe pensato ad una Chiesa, tanto meno quindi l'avrebbe fondata.

La Chiesa come realtà storica sarebbe sorta solo dopo la resurrezione, nel processo di perdita di tensione escatologica, a motivo delle inevitabili necessità sociologiche dell'istituzionalizzazione, ed all'inizio non sarebbe neppure esistita una Chiesa universale «cattolica», ma solo diverse Chiese locali con diverse teologie, diversi ministeri ecc. Nessuna Chiesa istituzionale potrebbe quindi affermare di essere quell'una Chiesa di Gesù Cristo voluta da Dio stesso; tutte le configurazioni istituzionali sono quindi nate da necessità sociologiche e pertanto come tali sono tutte costruzioni umane, che si possono o addirittura si devono anche nuovamente radicalmente mutare in nuove circostanze. Nella loro qualità teologica si differenziano in modo molto secondario, e pertanto si potrebbe dire che in tutte o in ogni caso almeno in molte sussiste l'«unica Chiesa di Cristo» — a proposito della quale ipotesi sorge naturalmente la domanda con che diritto in una tale visione si possa semplicemente parlare di un'unica Chiesa di Cristo.

La tradizione cattolica invece ha scelto un altro punto di partenza: essa fa fiducia agli evangelisti, crede ad essi. Allora risulta evidente che Gesù, il quale annunciò il regno di Dio, per la sua realizzazione radunò attorno a sé dei discepoli; egli donò loro non solo la sua parola come nuova interpretazione dell'Antico Testamento, ma nel sacramento dell'ultima cena fece loro dono di un nuovo centro unificante, per mezzo del quale tutti coloro che si confessano cristiani, in un modo totalmente nuovo divengono una cosa sola con lui — tanto che Paolo poté designare questa comunione come l'essere un solo corpo con Cristo, come l'unità di un solo corpo nello Spirito.
Allora risulta evidente che la promessa dello Spirito Santo non era un vago annuncio, ma intendeva la realtà di Pentecoste — il fatto dunque che la Chiesa non fu pensata e fatta da uomini, ma fu creata per mezzo dello Spirito, è e rimane creatura dello Spirito Santo.

Allora però istituzione e Spirito stanno nella Chiesa in una relazione ben diversa da quella che le menzionate correnti di pensiero vorrebbero suggerirci.
Allora l'istituzione non è semplicemente una struttura che si può mutare o demolire a piacere, che non avrebbe niente a che vedere con la realtà della fede come tale.
Allora questa forma di corporeità appartiene alla Chiesa stessa. La Chiesa di Cristo non è nascosta in modo inafferrabile dietro le molteplici configurazioni umane, ma esiste realmente, come Chiesa vera e propria, che si manifesta nella professione di fede, nei sacramenti e nella successione apostolica.

Il Vaticano II con la formula del « subsistit » — conformemente alla tradizione cattolica — voleva quindi dire esattamente il contrario del «relativismo ecclesiologico»: la Chiesa di Gesù Cristo esiste realmente. Egli stesso l'ha voluta, e lo Spirito Santo la crea continuamente a partire dalla Pentecoste pur di fronte ad ogni fallimento umano e la sostiene nella sua identità essenziale. L'istituzione non è una inevitabile, ma teologicamente irrilevante o addirittura dannosa esteriorità, ma appartiene nel suo nucleo essenziale alla concretezza dell'incarnazione. Il Signore mantiene la sua parola: «Le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa».

A questo punto diviene necessario indagare un po' più accuratamente circa la parola « subsistit ».

Il Concilio si differenzia con questa espressione dalla formula di Pio XII, che nella sua Enciclica «Mystici Corporis Christi» aveva detto: la Chiesa cattolica «è» ( est ) l'unico corpo mistico di Cristo. Nella differenza fra « subsistit » e « est » si nasconde tutto quanto il problema ecumenico.
La parola subsistit deriva dall'antica filosofia ulteriormente sviluppatasi nella scolastica. Ad essa corrisponde la parola greca «hypostasis», che nella cristologia ha un ruolo centrale, per descrivere l'unione di natura divina ed umana nella persona di Cristo. «Subsistere» è un caso speciale di «esse». È l'essere nella forma di un soggetto a sé stante.
Qui si tratta proprio di questo.
Il Concilio vuol dirci che la Chiesa di Gesù Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica. Ciò può avvenire solo una volta e la concezione secondo cui il subsistit sarebbe da moltiplicare non coglie proprio ciò che si intendeva dire.

Con la parola subsistit il Concilio voleva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa cattolica: esiste la Chiesa come soggetto nella realtà storica.

La differenza fra subsistit e est rinchiude però il dramma della divisione ecclesiale.
Benché la Chiesa sia soltanto una e sussista in un unico soggetto, anche al di fuori di questo soggetto esistono realtà ecclesiali — vere Chiese locali e diverse comunità ecclesiali.
Poiché il peccato è una contraddizione, questa differenza fra subsistit ed est non si può ultimamente dal punto di vista logico pienamente risolvere.

Nel paradosso della differenza fra singolarità e concretezza della Chiesa da una parte e esistenza di una realtà ecclesiale al di fuori dell'unico soggetto dall'altra si rispecchia la contraddittorietà del peccato umano, la contraddittorietà della divisione. Tale divisione è qualcosa di totalmente altro dalla sopra descritta dialettica relativistica, nella quale la divisione dei cristiani perde il suo aspetto doloroso ed in realtà non è una frattura, ma solo il manifestarsi delle molteplici variazioni di un unico tema, nel quale tutte le variazioni in qualche modo hanno ragione ed in qualche modo non ce l'hanno.
Una necessità intrinseca per la ricerca dell'unità in realtà allora non esiste, perché in verità comunque l'unica Chiesa è ovunque e da nessuna parte. Il cristianesimo quindi in realtà esisterebbe solo nella dialettica correlazione di variazioni contrapposte. L'ecumenismo consiste nel fatto che tutti in qualche modo si riconoscono reciprocamente, perché tutti sarebbero solo frammenti della realtà cristiana. L'ecumenismo sarebbe quindi il rassegnarsi ad una dialettica relativistica, perché il Gesù storico appartiene al passato e la verità rimane comunque nascosta.

La visione del Concilio è tutt'altra
: che nella Chiesa cattolica sia presente il subsistit dell'unico soggetto Chiesa, non è affatto merito dei cattolici, ma solo opera di Dio, che egli fa perdurare malgrado il continuo demerito dei soggetti umani.
Essi non possono gloriarsene, ma solo ammirare la fedeltà di Dio vergognandosi dei loro propri peccati e allo stesso tempo pieni di gratitudine. Ma l'effetto dei loro propri peccati si può vedere: tutto il mondo vede lo spettacolo delle comunità cristiane divise e contrapposte, che rivendicano reciprocamente le loro pretese di verità e così apparentemente vanificano la preghiera di Cristo alla vigilia della sua passione. Mentre la divisione come realtà storica è percepibile ad ognuno, la sussistenza dell'unica Chiesa nella figura concreta della Chiesa cattolica si può percepire come tale solo nella fede.

Poiché il Concilio Vaticano II ha avvertito questo paradosso, proprio per questo ha proclamato come un dovere l'ecumenismo quale ricerca della vera unità e l'ha affidato alla Chiesa del futuro.

Arrivo alla conclusione.

Chi vuol comprendere l'orientamento dell'ecclesiologia conciliare, non può tralasciare i capitoli 4-7 della Costituzione, nei quali si parla dei laici, della vocazione universale alla santità, dei religiosi e dell'orientamento escatologico della Chiesa. In questi capitoli torna ancora una volta in primo piano lo scopo intrinseco della Chiesa, ciò che è più essenziale alla sua esistenza: si tratta cioè della santità, della conformità a Dio — che nel mondo vi sia spazio per Dio, che egli possa abitare in esso e così il mondo divenga il suo «regno».
Santità è qualcosa di più che una qualità morale: essa è il dimorare di Dio con gli uomini, degli uomini con Dio, la «tenda» di Dio fra di noi ed in mezzo a noi ( Giov 1, 14). Si tratta della nuova nascita — non da carne e sangue, ma da Dio ( Giov 1, 13).

L'orientamento alla santità è identico con l'orientamento escatologico, e di fatto ora esso a partire dal messaggio di Gesù è fondamentale per la Chiesa. La Chiesa esiste, perché divenga dimora di Dio nel mondo e così sia «santità»: per questo si dovrebbe competere nella Chiesa, non su un più o un meno in diritti di precedenza, sull'occupazione dei primi posti. Tutto questo è poi ancora una volta ripreso e sintetizzato nell'ultimo capitolo della Costituzione sulla Chiesa, che tratta della Madre del Signore.

A prima vista l'inserimento della mariologia nell'ecclesiologia, che il Concilio ha intrapreso, potrebbe apparire piuttosto casuale. È vero dal punto di vista storico che di fatto una maggioranza assai ridotta di padri decise per questo inserimento. Ma da un punto di vista più interiore questa decisione corrisponde perfettamente all'orientamento dell'insieme della Costituzione: solo se si è compresa questa correlazione, si è compresa rettamente l'immagine della Chiesa, che il Concilio voleva tracciare.

In questa decisione sono state messe a frutto le ricerche di H.Rahner, A.Müller, R.Laurentin e Karl Delahaye, grazie ai quali mariologia ed ecclesiologia sono state allo stesso tempo rinnovate e approfondite. Soprattutto Hugo Rahner ha mostrato in modo grandioso a partire dalle fonti, che tutta quanta la mariologia è stata pensata e impostata dai padri prima di tutto come ecclesiologia: la Chiesa è vergine e madre, essa è concepita senza peccato e porta il peso della storia, essa soffre e nondimeno è già ora assunta in cielo. Molto lentamente si rivela nel corso dello sviluppo successivo che la Chiesa è anticipata in Maria, in Maria è personificata e che viceversa Maria non sta come individuo isolato chiuso in se stesso, ma porta in sé tutto quanto il mistero della Chiesa.

La persona non è chiusa individualisticamente e la comunità non è compresa collettivisticamente in modo impersonale; entrambe si sovrappongono l'una all'altra in modo inseparabile. Questo vale già per la donna dell'Apocalisse, così come appare nel capitolo 12: non è corretto limitare questa figura esclusivamente in modo individualistico a Maria, perché in lei è insieme contemplato tutto quanto il popolo di Dio, l'antico ed il nuovo Israele, che soffre e nella sofferenza è fecondo; ma non è neppure corretto escludere da questa immagine Maria, la madre del Redentore.

Così nella sovrapposizione fra persona e comunità, come la troviamo in questo testo, già è anticipato l'intreccio di Maria e Chiesa, che poi è stato lentamente sviluppato nella teologia dei Padri e finalmente ripreso dal Concilio. Che più tardi entrambe si siano separate, che Maria sia stata vista come un individuo ricolmato di privilegi e perciò da noi infinitamente lontano, la Chiesa a sua volta in modo impersonale e puramente istituzionale, ha danneggiato in eguale misura sia la mariologia che l'ecclesiologia. Operano qui le divisioni, che il pensiero occidentale ha particolarmente attuato e che per altro hanno i loro buoni motivi.

Ma se vogliamo comprendere rettamente la Chiesa e Maria, dobbiamo saper ritornare a prima di queste divisioni, per comprendere la natura sovraindividuale della persona e sovraistituzionale della comunità proprio là, ove persona e comunità vengono ricondotte alle loro origini a partire dalla forza del Signore, del nuovo Adamo. La visione mariana della Chiesa e la visione ecclesiale, storico-salvifica di Maria ci riconducono ultimamente a Cristo e al Dio trinitario, perché qui si manifesta ciò che significa santità, cosa è la dimora di Dio nell'uomo e nel mondo, cosa dobbiamo intendere con tensione «escatologica» della Chiesa. Così solo il capitolo di Maria porta a compimento l'ecclesiologia conciliare e ci riporta al suo punto di partenza cristologico e trinitario.

Per dare un assaggio della teologia dei Padri, vorrei a conclusione proporre un testo di sant'Ambrogio, scelto da Hugo Rahner: «Così dunque state saldi sul terreno del vostro cuore!... Che cosa significa stare, l'apostolo ce lo ha insegnato, Mosè lo ha scritto: “Il luogo, sul quale tu stai, è terra santa”. Nessuno sta, se non colui che sta saldo nella fede... ed ancora una parola sta scritta: “Tu però sta saldo con me”. Tu stai saldo con me, se tu stai nella Chiesa. La Chiesa è la terra santa, sulla quale noi dobbiamo stare... Sta dunque saldo, sta nella Chiesa. Sta saldo colà, ove io ti voglio apparire, là io resto presso di te. Ove è la Chiesa, là è il luogo saldo del tuo cuore. Sulla Chiesa si appoggiano i fondamenti della tua anima. Infatti nella Chiesa io ti sono apparso come una volta nel roveto ardente. Il roveto sei tu, io sono il fuoco. Fuoco nel roveto io sono nella tua carne. Fuoco io sono, per illuminarti; per bruciare le spine dei tuoi peccati, per donarti il favore della mia grazia».


[Modificato da Caterina63 24/02/2010 23:08]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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19/03/2010 14:06
 
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Avevo questo testo sottomano da tempo, questo postato sopra dell'allora card. Ratzinger, è un pò lungo come potete vedere e leggere e finalmente sono riuscita a leggerlo con calma dovuta....

il testo,  è stato pubblicato dall'Osservatore Romano il 4.3.2000 e riguarda, se avete potuto leggerlo con calma, una serie di chiarimenti MAGISTERIALI dell'allora cardinale Ratzinger Prefetto della CdF e cita la famosa Commuinis Notio e qui chiarisce la vera interpretazione della Lumen Gentium facendo una interessantissima cronologia dei fatti che vi invito a meditare con molta, ma molta attenzione e lo ritengo UN CAPOLAVORO che fa ben comprendere perchè un certo sito a difesa del Concilio, si guarda bene dal pubblicarlo....

Per ora passo direttamente alla correzione che Ratzinger fa ad alcune affermazioni GRAVI del card. Kasper errori che determinarono e sostennero IL FALSO ECUMENISMO E LA FALSA DEFINIZIONE DI CHIESA...  quanto segue fa comprendere come Ratzinger divenuto poi Pontefice, abbia voluto aiutare certi vescovi e cardinale a ritornare sulla retta via...altrimenti diventa incomprensibile del perchè si sia tenuto accanto persone con queste idee....

da questo punto in poi non ci saranno parole mie, il tutto sarà dalle parole di Ratzinger che troverete integralmente nel post sopra:

Per tutti questi motivi ero grato e contento, quando il Sinodo del 1985 riportò al centro della riflessione il concetto di «communio». Ma gli anni successivi mostrarono che nessuna parola è protetta dai malintesi, neppure la migliore e la più profonda.
Nella misura in cui «communio» divenne un facile slogan, essa fu appiattita e travisata.
Come per il concetto di popolo di Dio così si doveva anche qui rilevare una progressiva orizzontalizzazione, l'abbandono del concetto di Dio.

L'ecclesiologia di comunione cominciò a ridursi alla tematica della relazione fra Chiesa locale e Chiesa universale, che a sua volta ricadde sempre più nel problema della divisione di competenze fra l'una e l'altra. Naturalmente si diffuse nuovamente il motivo egualitaristico, secondo cui nella «communio» potrebbe esservi solo piena uguaglianza.
(...)

La Congregazione per la Dottrina della Fede richiama l'attenzione sul fatto che la Chiesa ha inizio nella comunità dei 120 radunata intorno a Maria, soprattutto nella rinnovata comunità dei dodici, che non sono membri di una Chiesa locale, ma sono gli apostoli, che porteranno il vangelo ai confini della terra. Per chiarire ulteriormente si può aggiungere che essi nel loro numero di dodici sono allo stesso tempo l'antico ed il nuovo Israele, l'unico Israele di Dio, che ora — come fin dall'inizio era contenuto fondamentalmente nel concetto di popolo di Dio — si estende a tutte le nazioni e fonda in tutti i popoli l'unico popolo di Dio.
(..) la Chiesa in questa ora della sua nascita parla già in tutte le lingue. I padri della Chiesa hanno giustamente interpretato questo racconto del miracolo delle lingue come un anticipo della Catholica — la Chiesa fin dal primo istante è orientata «kat'holon» — abbraccia tutto l'universo.
(...)
Non si rende del tutto esattamente il senso del testo della Congregazione per la Dottrina della Fede, quando al riguardo Walter Kasper dice che la comunità originaria di Gerusalemme sarebbe stata di fatto Chiesa universale e Chiesa locale allo stesso tempo e poi continua: «Certamente questo rappresenta un'elaborazione lucana; infatti dal punto di vista storico esistevano presumibilmente sin dall'inizio più comunità, accanto alla comunità di Gerusalemme anche comunità in Galilea».
 
(continua Ratzinger)

Qui non si tratta della questione per noi ultimamente insolubile, quando esattamente e dove per la prima volta sono sorte delle comunità cristiane, ma dell'inizio interiore della Chiesa nel tempo, che Luca vuol descrivere e che egli al di là di ogni rilevamento empirico riconduce alla forza dello Spirito Santo. Soprattutto però non si rende giustizia al racconto lucano, se si dice che la «comunità originaria di Gerusalemme» sarebbe stata allo stesso tempo Chiesa universale e Chiesa locale.
La realtà prima nel racconto di san Luca non è una comunità originaria gerosolimitana, ma la realtà prima è che nei dodici l'antico Israele, che è unico, diviene quello nuovo e che ora questo unico Israele di Dio per mezzo del miracolo delle lingue, ancora prima di divenire la rappresentazione di una Chiesa locale gerosolimitana, si mostra come una unità che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi.

Comprensibile diviene solo a partire da un sospetto che sinteticamente è stato così formulato da Walter Kasper: «Totalmente problematica diventa la formula, se l'unica Chiesa universale viene tacitamente identificata con la Chiesa romana, de facto con il Papa e la Curia. Se questo avviene, allora la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede non può essere intesa come un aiuto alla chiarificazione della ecclesiologia di comunione, ma deve essere compresa come il suo abbandono e come il tentativo di una restaurazione del centralismo romano».

 
(e continua Ratzinger)

In questo testo l'identificazione della Chiesa universale con il Papa e la Curia viene dapprima introdotta come ipotesi, come pericolo, ma poi sembra di fatto essere attribuita alla Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, che così viene ad apparire come restaurazione teologica e quindi come distacco dal Concilio Vaticano II. Questo salto interpretativo sorprende, ma rappresenta senza dubbio un sospetto largamente diffuso; esso da voce ad un'accusa che si ode tutt'intorno, ed esprime bene anche una crescente incapacità a rappresentarsi sotto la Chiesa universale, sotto la Chiesa una, santa, cattolica qualcosa di concreto. Come unico elemento configurabile restano il Papa e la Curia, e se si da ad essi una classificazione troppo alta dal punto di vista teologico, è comprensibile che ci si senta minacciati.

Così ci si trova qui molto concretamente, dopo quello che solo apparentemente è un Excursus, di fronte alla questione dell'interpretazione del Concilio. La domanda, che ora ci si pone, è la seguente: quale idea di Chiesa universale ha propriamente il Concilio?

Non si può dire in verità che la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede «identifichi tacitamente la Chiesa universale con la Chiesa romana, de facto con il Papa e la Curia». Questa tentazione insorge se in precedenza si era già identificato la Chiesa locale di Gerusalemme e la Chiesa universale, cioè se si è ridotto il concetto di Chiesa alle comunità che appaiono empiricamente e la sua profondità teologica è stata persa di vista. È proficuo ritornare con questi interrogativi al testo stesso del Concilio.

Subito la prima frase della Costituzione sulla Chiesa chiarisce che il Concilio non considera la Chiesa come una realtà chiusa in se stessa, ma la vede a partire da Cristo: «Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini... ».

(....)

Vorrei a questo punto interrompere l'analisi del concetto di «communio» e prendere ancora posizione almeno brevemente nei confronti del punto più discusso di «Lumen gentium»: il significato della già menzionata frase di «Lumen gentium» 8, secondo cui l'unica Chiesa di Cristo, che confessiamo nel Simbolo come l'unica, santa, cattolica ed apostolica, «sussiste» nella Chiesa cattolica, che è guidata da Pietro e dai vescovi in comunione con lui.

La Congregazione per la Dottrina della Fede si vide obbligata nel 1985 a prendere posizione nei confronti di questo testo molto discusso a motivo di un libro di Leonardo Boff, nel quale l'autore sosteneva la tesi, secondo cui l'unica Chiesa di Cristo come sussiste nella Cattolico-romana, così sussisterebbe anche in altre Chiese cristiane. Superfluo dire che il pronunciamento della Congregazione per la Dottrina della Fede fu sopraffatto da critiche pungenti e poi messo da parte. Nel tentativo di riflettere su dove oggi siamo nella recezione dell'ecclesiologia conciliare, la questione dell'interpretazione del « subsistit » è inevitabile, ed al riguardo l'unico pronunciamento ufficiale del Magistero dopo il Concilio su questa parola, cioè la menzionata Notificazione, non può essere trascurato.

A distanza di 15 anni emerge con più chiarezza, di quanto non fosse allora, che non si trattava qui tanto di un singolo autore teologico, ma di una visione di Chiesa che circola con diverse variazioni e che anche oggi è molto attuale. La chiarificazione del 1985 ha presentato estesamente il contesto della tesi di Boff già brevemente riferita. Questi particolari non è necessario che li approfondiamo ulteriormente, perché ci sta a cuore qualcosa di più fondamentale. La tesi, il cui rappresentante allora è stato Boff, si potrebbe caratterizzare come relativismo ecclesiologico. Essa trova la sua giustificazione nella teoria secondo cui il «Gesù storico» di per sé non avrebbe pensato ad una Chiesa, tanto meno quindi l'avrebbe fondata.



*****************************************

prosegue poi la spiegazione di Ratzinger e la conclusione che, ripeto, trovate integralmente nel post precedente a questo...



[Modificato da Caterina63 03/06/2011 19:44]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Laicismo e fondamentalismo, due facce della stessa medaglia


Vi alleghiamo l’estratto di un commento di Massimo Introvigne – apparso su La Bussola quotidiana del 16 dicembre scorso (che potrete trovare qui) – sull’interpretazione del regnante pontefice Benedetto XVI del concetto di libertà religiosa, che tanti problemi interpretativi ha dato dopo l’uscita della Dignitatis humanae (cfr. qui) del Concilio Vaticano II. Il S. Padre legge questo documento “alla luce Tradizione”. Il testo del Messaggio di Benedetto XVI per la giornata della pace 2011 lo potete trovare qui.

Cacius

[…] Il messaggio per la Giornata del 2011 riveste particolare importanza per il suo tema: la libertà religiosa. Anzitutto, il Papa ritiene opportuno intervenire dopo un anno segnato da «terribili atti di violenza» soprattutto ai danni dei «cristiani [i quali] sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede».

In secondo luogo, Benedetto XVI – il cui Magistero è fin dal suo esordio rivolto a un’interpretazione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II nel solco della Tradizione della Chiesa, evitando quella che chiama una loro «ermeneutica della discontinuità e della rottura» – offre ora preziose indicazioni per interpretare uno dei documenti conciliari più discussi, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae.

Quanto al primo aspetto – la gravità della situazione attuale – il Papa denuncia due diversi tipi di discriminazione e persecuzione. La prima, che riferisce particolarmente a regioni dell’Africa e dell’Asia, è in atto in tutte quelle «regioni del mondo [dove] non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale». In queste regioni, ricorda il Papa, chiedere la libertà di celebrare il culto è necessario ma non è sufficiente. È necessario che sia riconosciuto il diritto alla missione e che nessuno debba «incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione», una chiara allusione a sistemi e pratiche giuridiche fondate sull’islam e sull’induismo che in alcuni Paesi puniscono direttamente o indirettamente la conversione al cristianesimo come apostasia.

La seconda forma di persecuzione è la nostra, quella dei «Paesi occidentali», i quali manifestano «forme più sofisticate di ostilità contro la religione». Quando i governi sono laicisti, queste ostilità «si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini». In talune zone dell’Occidente le autorità addirittura «fomentano l’odio e il pregiudizio» contro la religione storicamente maggioritaria, cioè contro il cristianesimo.

Ma che cos’è la libertà religiosa? Interpretando la Dignitatis humanae lo stesso Benedetto XVI ha spiegato più volte che dal punto di vista giuridico non si tratta di un diritto positivo – il quale dovrebbe comprendere anche un «diritto all’errore» che, come ribadisce il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2108, la Chiesa non ha mai riconosciuto – ma di un diritto negativo, che anche questo Messaggio chiama «immunità dalla coercizione». Questa immunità acquista certo un profilo specifico negli Stati moderni, per definizione incompetenti in materia di religione, ma corrisponde al principio antico secondo cui – come recita il Messaggio – «la professione di una religione non può essere […] imposta con la forza».

Se si può parlare di «diritto», in senso giuridico, si tratta del diritto a non essere turbati da un’intromissione dello Stato moderno nella formazione delle proprie convinzioni in materia di religione.Rispetto a interventi precedenti, vi è qui però un secondo elemento, certamente non nuovo ma il cui collegamento inscindibile con il primo è ribadito con particolare forza. La libertà religiosa che la Chiesa proclama «va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità». Da un punto di vista filosofico, un’analisi di che cos’è la persona viene «prima» delle soluzioni giuridiche. La persona è ordinata alla verità ed è dotata di libertà per la verità. Il libero arbitrio consente certamente il cattivo uso della libertà, contro la verità e addirittura contro Dio. Ma in questo caso, spiega Benedetto XVI, la libertà erode il suo stesso fondamento. «Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani».

Un altro equivoco, indotto da una lettura secondo il Papa errata, ma per anni dominante, della nozione di libertà religiosa e della Dignitatis humanae, è quello che vorrebbe confinare la religione in una dimensione meramente privata, quasi che quando la Chiesa chiede leggi conformi alle verità naturali che fanno parte del suo insegnamento consueto – anzitutto nelle materie, specificamente richiamate nel Messaggio, della vita, della famiglia e della libertà dell’educazione (i famosi «valori non negoziabili» di Benedetto XVI) – stia negando la libertà religiosa dei non cattolici attraverso un’indebita ingerenza nella vita politica. Non solo i principi della morale naturale valgono per tutti, credenti e non credenti. Ma, sia pure «nel rispetto della laicità positiva delle istituzioni statali», l’orientamento della libertà alla verità non può rinunciare a una dimensione politica. «La dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta» e «le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto».

«Non essendo questa [dimensione religiosa della persona] una creazione dello Stato, non può esserne manipolata, dovendo piuttosto riceverne riconoscimento e rispetto». Tutto questo è riassunto in un’espressione molto forte sul ruolo della società per la salvezza delle anime, che ricorda analoghe e celebri espressioni del venerabile Pio XII: «Anche la società, dunque, in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere ed organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza».Questa ricostruzione della vera nozione di libertà religiosa esclude dunque anzitutto «la strada del relativismo, o del sincretismo religioso» – cose diverse, spiega il Papa, dal dialogo tra le religioni condotto nella chiarezza e nella verità – e consente di evitare i due errori opposti del fondamentalismo e del laicismo, anch’essi più volte richiamati nel Magistero di Benedetto XVI. «Non si può dimenticare – scrive ora il Papa – che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari» fra loro. Entrambe infatti negano il corretto rapporto fra fede e ragione. Nel fondamentalismo, la fede nega la ragione.

Nel laicismo la ragione, o meglio il razionalismo, nega la fede. Entrambi sono nemici della libertà religiosa: il fondamentalismo vuole imporre la religione con la forza, il laicismo con la forza vuole imporre l’irreligione. Mentre solo l’equilibrio fra fede e ragione – senza confusione, ma anche senza separazione – garantisce la libertà religiosa che, ci assicura il Papa, «è all’origine della libertà morale» e dunque di ogni vera libertà...

Fraternamente CaterinaLD

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Il Sultano sottopose a San Francesco D'Assisi un'altra questione:


FF. 2690-2691


II vostro Signore insegna nei Vangeli che voi non dovete rendere male per male, e non dovete rifiutare neppure il mantello a chi vuol togliervi la tonaca, dunque voi cristiani non dovreste imbracciare armi e combattere i vostri nemici;


rispose il beato Francesco:


"Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo. Il perdono di cui Cristo parla non è un perdono folle, cieco, incondizionato, ma un perdono meritato.

Gesù infatti ha detto: "Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino". Infatti il Signore ha voluto dirci che la misericordia va dispensata a tutti, anche a chi non la merita, ma che almeno sia capace di comprenderla e farne frutto, e non a chi è disposto ad errare con la stessa tenacia e convinzione di prima.

Altrove, oltretutto, è detto: "Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te”. E, con questo, Gesù ha voluto insegnarci che, se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell'occhio, dovremmo essere disposti ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tentasse di allontanarci dalla fede e dall'amore del nostro Dio.


Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo massima giustizia quando vi combattono, perché voi avete invaso delle terre cristiane e conquistato Gerusalemme, progettate di invadere l’Europa intera, oltraggiate il Santo Sepolcro, distruggete chiese, uccidete tutti i cristiani che vi capitano tra le mani, bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla sua religione quanti uomini potete.
Se invece voi voleste conoscere, confessare, adorare, o magari solo rispettare il Creatore e Redentore del mondo e lasciare in pace i cristiani, allora essi vi amerebbero come se stessi".


Approfondimenti:


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03/06/2011 19:45
 
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Un interessante articolo di "Cristianità" pubblicato nel 1976



Tra le critiche più lucide della Dignitatis Humanae apparve nel 1976, con lo pseudonimo di Michel Martin, quella dello scienziato francese Georges Salet (Vatican II et les erreurs libérales, in “Courrier de Rome”, Parigi 15 maggio 1976, anno decimo, n. 157, pp. 3-20). L’articolo fu pubblicato in “Cristianità”, n. 19-20 (1976), pp. 13-18, con il titolo:


Il Problema della libertà religiosa

Il Vaticano II e gli errori liberali


Alcuni, testi del Concilio Vaticano II sono, più o meno, contaminati dagli errori liberali? È quanto affermò durante il Concilio stesso·il Coetus Internationalis Patrum che raggruppava, i vescovi tradizionalisti.
Successivamente l’accusa non ha mai cessato di essere formulata da alcuni teologi, isolati, ma, eccetto che presso una esigua minoranza di “integristi”, come si dice, essa fu sempre accolta con indifferenza, fino al momento, recentissimo, in cui, il penoso affaire di Ecône non la mise in primo piano nell’attualità cattolica.
A coloro che s’indignassero per il fatto che si possa supporre che un testo conciliare sia discutibile, ricorderò, come per altro ha detto il Santo Padre stesso, che nessun testo del Vaticano Il ha il carattere di definizione o di decisione infallibile (1). Con tutto il rispetto dovuto alla Chiesa, docente, i teologi sono dunque liberi di discutere la questione che è l’oggetto del presente articolo.
Notiamo tuttavia che solo il Papa mediante definizioni ex cathedra potrebbe dare una soluzione completa e definitiva ai gravi interrogativi, sollevati dalle accuse di cui sono oggetto alcuni testi del Vaticano II (2).

I. La contraddizione

Ma supponiamo ora che una affermazione sia in contraddizione evidente, chiara, manifesta, con una dottrina che la Chiesa ha infallibilmente definito. Abbiamo bisogno in tali caso di un giudizio della Chiesa docente per rifiutarla? 1mmaginiamo per esempio che una setta sostenga che in Dio vi sono solo due persone: il Padre e il Figlio, Abbiamo bisogno di un giudizio della Chiesa docente per dire che questa affermazione deve essere respinta, perché in contraddizione con il dogma trinitario infallibilmente definito?
Certo, una contraddizione tra due dottrine non è sempre manifesta e in questo caso è richiesto il giudizio della Chiesa docente.
Quando però si tratta di due dottrine chiaramente formulate e di cui l’una è manifestamente la negazione dell’altra, abbiamo bisognò di un giudizio della Chiesa docente per convincerci che vi è contraddizione? Constatando una contraddizione evidente, non esprimiamo alcun giudizio dottrinale, ma solo un giudizio di fatto. Non siamo più nel campo della teologia, ma in quello della logica.

La dichiarazione sulla libertà religiosa

Con i vescovi del Coetus Internationalis Patrum affermò da dieci anni, senza che alcuno mi abbia mai dato risposta, se non per mezzo di scappatoie, che vi è una contraddizione evidente, chiara, manifesta, tra certe affermazioni del Vaticano II e la dottrina tradizionale a proposito della libertà religiosa in foro esterno.
Inoltre queste affermazioni conciliari non sono state definite infallibilmente, non dobbiamo forse noi rifiutarle?
Ma, non volendo accettare questa conclusione, i difensori del Concilio si sono trovati nella necessità di sostenere che non vi è contraddizione, poiché la dottrina conciliare è solo, secondo loro, lo sviluppo della tradizione.
Confronteremo più avanti i testi, ma ci si rende conto che dichiarando compatibili due dottrine che almeno nove persone su dieci stimerebbero contraddittorie, si compromette la credibilità di tutto quanto insegna la Chiesa?


II. Il liberalismo. Il cattolico liberale

Nella sua essenza il liberalismo è il rifiuto di accettare una verità o una legge imposta all’uomo dall’esterno (3). L’uomo deve essere libero di giudicare lui stesso la verità.
Secondo la dottrina cattolica, al contrario, l’uomo ha il dovere di credere alle verità che Dio ha rivelato e che sono insegnate infallibilmente dalla Chiesa.
I due punti di vista sono inconciliabili e i massoni, per i quali il liberalismo è un dogma, su questo punto non si sono ingannati. Ascoltiamo uno di loro: «Maestra di verità. Mai, senza dubbio, la Chiesa aveva manifestato la sua imperiosa volontà di imporre il suo dogma e sottolineato che questo dogma era l’unica verità, in termini così categorici, così definitivi della loro brutalità, mai con una formula che tanto colpisce. Bisogna allora onestamente porsi il problema di sapere dove possa sboccare un dialogo con un interlocutore che dichiara, all’esordio di questo dialogo, che lui è padrone della verità per volontà di Dio” (4).
A rigore, infatti, cattolico e liberale sono due termini che si escludono.
Nella loro grande maggioranza i cattolici attuali sono, tuttavia, più o meno liberali.
Ciò non significa·che questi cattolici abbiano personalmente passato l’insegnamento della Chiesa al vaglio della loro ragione, per ritenere soltanto quanto personalmente hanno giudicato vero; un tale cattolico rappresenta in verità l’eccezione.
Ma i cattolici sono oggi immersi in un mondo il cui pensiero si allontana sempre più dalla dottrina tradizionale della Chiesa. sollecitato e diviso tra questa dottrina e il “pensiero moderno”, il cattolico liberale di oggi è colui che cerca o adotta compromessi tra questi due sistemi di pensiero.
Questa sete di compromesso ha invaso la Chiesa stessa: un teologo “moderno” non cerca più tanto di approfondire la dottrina e di opporla agli errori attuali; cerca soprattutto di distorcerla (nel modo meno visibile) in modo da evitare il più possibile gli attriti con il pensiero moderno (5).
Non è possibile, in un semplice articolo, enumerare tutti questi compromessi. Mi limiterò all’esame della tesi che figura nella dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa e che è relativa ai rapporti tra il potere civile e il potere spirituale.


III. La dottrina della Chiesa sul potere civile

Non spetta alla Chiesa dare costituzioni agli Stati, ma solo enunciare i grandi princìpi di ordine morale cui queste costituzioni devono ottemperare.
Questa dottrina della Chiesa sul potere civile è immutabile; essa è infatti fondata nella Scrittura e nella Tradizione ed è stata costantemente insegnata dalla Chiesa a partire dai Padri fino a Pio XII compreso. Essa è dunque garantita dal Magistero ordinario infallibile della Chiesa.
Inoltre, come vedremo più in dettaglio, alcuni punti di questa dottrina sono stati oggetto di definizioni ex cathedra e sono dunque garantiti dalla infallibilità del Magistero straordinario della Chiesa.

La dottrina

Essendo stato creato da Dio, avendo ricevuto tutto da Dio, l’uomo deve rendere omaggio al suo Creatore e soprattutto a Gesù Cristo, il Verbo di Dio che è stato costituito dal Padre suo Re dell’Universo.
Consideriamo bene quanto – richiamato da Pio XI – ha insegnato Leone XIII: “L’impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici, o a coloro che rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto, alla Chiesa, sebbene le errate opinioni ne li allontanino o il dissenso li divida dalla carità; ma abbraccia anche quanti sono privi della fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo” (6).
Pio XI osserva poi: “Non v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli” (7).
Lo Stato non ha dunque il diritto di essere “laico”; deve, in quanto Stato, riconoscere la regalità di Gesù Cristo e rendergli omaggio. E, ben inteso, fare in modo che non vi sia alcuna contraddizione tra le leggi civili che promulga e le leggi di Dio.
Lo Stato ha il dovere di assicurare il bene comune della città e deve in particolare proteggere i cittadini. Tutti trovano naturale che si opponga al libero commercio della droga, che devasta i corpi, e che quindi nessuno sia obbligato ad acquistarla. La Chiesa aggiunge che lo Stato ha anche il dovere di proteggere i cittadini contro le idee false che devastano le anime.
Ma qual può darsi morte peggiore dell’anima che la libertà dell’errore?”, dichiarava sant’Agostino.
La Chiesa non ammette dunque la libertà di dire e di scrivere qualunque cosa; in opposizione completa al pensiero moderno ritiene infatti che solo la verità abbia dei diritti. L’errore non ne ha alcuno e può tutt’al più essere tollerato.
Derivando l’uno e l’altra il loro potere da Dio ed esercitandosi la loro giurisdizione sugli stessi soggetti, la Chiesa e lo Stato non possono ignorarsi, benché costituiscano de poteri distinti: “Ma poiché uno e medesimo è il soggetto di ambedue le potestà, e potendo una medesima cosa, quantunque sotto ragione e aspetto differente, appartenere alla giurisdizione dell’una e dell’altra (…). Devono dunque essere tra loro debitamente ordinate le due potestà” (8).
In altri termini la Chiesa condanna la separazione tra Stato e Chiesa.
Anche se spiace alla mentalità moderna, la dottrina cattolica sullo Stato, come fu esposta dai Padri fino a Pio XII compreso, è non poco intollerante. Essa afferma che, poiché Cristo ha fondato una sola religione, si deve, nella misura del possibile, cercare di instaurare lo Stato cattolico. E poiché il culto cattolico è il solo pienamente gradito a Dio, nessun altro culto pubblico dovrebbe di principio essere tollerato.
La Chiesa non impone alcuna forma di governo. Essa ammette sia la repubblica che la monarchia, purché siano rispettati i princìpi che ho riassunti.

Le realizzazioni

Dal 313, Costantino e i suoi successori si sforzano di realizzare questo ideale (9). Dapprima religione ammessa, la religione cattolica fu presto proclamata religione dello Stato. Dopo la caduta dell’impero, Clodoveo è consacrato re e monarchie cattoliche vengono instaurate pressoché in tutta Europa. Fino all’inizio del secolo XX lo Stato cattolico (o almeno confessionale) è la regola generale. In realtà sono sempre esistiti Stati cattolici e il 27 agosto 1953 – data relativamente recente – è stato firmato un concordato tra la Santa Sede e la Spagna di cui ecco l’articolo 1: “La religione cattolica, apostolica, romana continua a essere la sola religione della nazione spagnola (…) (10).
Il concordato del 1945 non annullava la Carta degli Spagnoli del 13 luglio 1945 che dichiarava: “(…) nessuno sarà molestato per le sue convinzioni religiose né per l’esercizio privato del suo culto. Non si autorizzeranno altre cerimonie né altre manifestazioni esterne se non quelle della religione cattolica ” (11).

La tolleranza. La tesi e l’ipotesi

Ma la Chiesa cattolica non ignora che, in campo politico, l’ideale non sempre è realizzabile. Essa ammette dunque che nei Paesi divisi da diverse fedi e per evitare un male maggiore, lo Stato cattolico tolleri l’esercizio di altri culti. È per questo che Enrico IV, per evitare la guerra civile, concesse ai protestanti con l’editto di Nantes, il diritto (limitato) di esercitare pubblicamente il loro culto (12).
Da cui la classica distinzione tra la tesi e l’ipotesi. La tesi è la dottrina cattolica in tutta la sua purezza; l’ipotesi è ciò che è possibile realizzare, tenuto conto delle circostanze.
Ma la Chiesa chiede che non si perda mai di vista la tesi e che si faccia tutto ciò che è possibile per realizzarne il massimo. Di fatto, nell’editto di Nantes, il protestantesimo è sempre chiamato “la religione che si pretende riformata”, cosa che mostra con chiarezza che gli estensori dell’editto avevano tenuto a sottolineare in questo modo come la religione cattolica sia la sola vera e sola abbia dei diritti.
Ma la giusta distinzione tra la tesi e l’ipotesi servirà di pretesto ai cattolici liberali per rinnegare la dottrina tradizionale, che essi dichiarano non più confacente al nostro tempo.
Come vedremo più in dettaglio, il Concilio Vaticano II andrà più lontano ancora; senza più occuparsi della tesi, che non richiama neppure, dichiarerà che la libertà religiosa in foro esterno è un diritto per gli adepti di qualsiasi religione e che questo diritto scaturisce dalla dignità della persona umana.
Cedendo allora alle reiterate pressioni della Santa Sede, il generale Franco accordò agli spagnoli, il 28 giugno 1967, la piena libertà per tutti i culti.


IV. Il liberalismo cattolico e le sue condanne

Con liberalismo cattolico e l’espressione equivalente cattolicesimo liberale, si indica soprattutto un insieme di teorie sostenute nel secolo XIX che minimizzano la dottrina tradizionale sullo Stato, che ho appena riassunto.
Queste teorie furono condannate da tutti i Papi che si sono succeduti da Gregorio XVI a Pio XII compreso. Inoltre Pio IX, come vedremo più particolarmente, per condannarle impegnò nella Quanta cura l’infallibilità pontificia.

Gregorio XVI e l’enciclica Mirari vos

Nel 1830 l’abbé de Lamennais sostiene che ogni uomo ha il diritto di manifestare pubblicamente le sue opinioni e che di conseguenza lo Stato deve ammettere il libero esercizio di tutti i culti.
Egli fa notare che nel sistema dello Stato cattolico, che ha regnato per più di quindici secoli, il potere spirituale e temporale non hanno mai cessato di contendere (s. Luigi stesso ebbe difficoltà con la Santa Sede). Separando completamente i poteri, la Chiesa godrà di una piena libertà, che dovrebbe, secondo lui, accrescere la sua influenza (13).
Tutte queste idee sono sostenute con talento nel giornale “L’Avenir”, di cui Lamennais è l’ispiratore. Ma Roma, dal 1832, le condanna. Nell’enciclica Mirari vos, Gregorio XVI denuncia anzitutto l’indifferentismo, che sostiene che tutte le religioni salvano, e poi scrive queste righe, le ultime della quali – che sottolineo – predicono oggi: “Da questa correttissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che debbasi ammettere e garantire per ciascuno la libertà di coscienza (14): errore velenosissimo a cui appiana il sentiero quella assoluta e smodata libertà d’opinare che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata, provenire da siffatta licenza alcun comodo alla Religione. “Ma qual può darsi morte peggiore dell’anima che la libertà dell’errore” diceva sant’Agostino. Tolto infatti ogni freno che contenga nelle vie della verità gli uomini già volgentisi al precipizio per la natura inclinata al male, potremmo dire con verità essersi aperto il pozzo dell’abisso (…). Di là infatti proviene l’instabilità degli spiriti, di là la depravazione della gioventù, di là il disprezzo nel popolo delle cose sacre e delle leggi più sante, di là in una parola la peste della società più di ogni altra funesta (…)” (15).
Non è precisamente quanto accadde nella nostra società liberale avanzata?
I cattolici liberali si sottomisero e l’“Avenir” chiuse i battenti. Ma Lamennais finì per abbandonare la Chiesa.

Pio IX, il Sillabo e l’enciclica Quanta cura

La seduzione delle idee liberali era tale che il liberalismo cattolico riapparve venti o trent’anni dopo. Montalembert, che si era sottomesso nel 1832, ne fu uno dei più ardenti difensori. Egli sostiene con talento che bisogna riconciliare il cattolicesimo e la democrazia, la quale esige prima di tutto la libertà religiosa. Egli afferma che la libertà è più utile alla Chiesa che non la protezione dei re.
I discorsi di Montalembert ebbero una grande eco. Ma l’8 dicembre 1864 il successore di Gregorio XVI, Pio IX, condanna di nuovo il liberalismo cattolico nel Sillabo e nell’enciclica Quanta cura.
Ecco qui, per esempio, due articoli del Sillabo. Sono condannate le seguenti proposizioni. “55. Si deve separare la Chiesa dallo Stato, e lo Stato dalla Chiesa.
77. Ai giorni nostri non giova più tenere la religione cattolica per unica religione dello Stato, escluso qualunque sia altro culto” (16).
Ma ecco un fatto nuovo. Nell’enciclica Quanta cura, Pio IX, come vedremo, impegna l’infallibilità pontificia. Perciò dedicherò più avanti tutto un paragrafo alle condanne formulate in questa enciclica (17).

Monsignor Dupanloup

Scoraggiati da questa nuova condanna, Montalembert e i suoi amici erano del parere di rinunciare alla lotta. Ma questa fu ripresa con un opuscolo che monsignor Dupanloup, vescovo di Orleans, inviò a tutti i vescovi e anche al Papa.
Monsignor Dupanloup vi sostiene che si sono letti male la Quanta cura e il Sillabo. Egli fa numerose osservazioni esatte (come la distinzione logica tra contrario e contraddittorio), ma per il resto si tiene costantemente al limite del sofisma. Riprende la distinzione tra la tesi e l’ipotesi, ma lasciando intendere che le tesi di Pio IX sono oggi irrealizzabili.
Poiché nell’opuscolo non vi era niente di positivamente falso, Pio IX ringrazia monsignor Dupanloup dell’invio, ma con una riserva che mostra che aveva ben compreso quanto stava per succedere. Infatti i cattolici liberali restarono sulle loro posizioni; continuarono soprattutto a chiedere la separazione di Chiesa e Stato (che non si era ancora realizzata a quel tempo) e rimasero così fedeli a una tattica che in seguito non hanno mai abbandonata: invece di lottare contro i nemici della Chiesa si esige insieme a loro quanto si pensa che essi inevitabilmente un giorno otterranno.

Leone XIII

Leone XIII succede a Pio IX. Nelle encicliche Immortale Dei, sulla costituzione cristiana degli Stati (1885) e Libertas, sulla libertà (1888), riprende tutte le tesi tradizionali sullo Stato cattolico.
Nella Libertas fa suo quanto vi è di esatto nella distinzione tra la tesi e l’ipotesi, ma riprende anche, senza una sola eccezione, tutte le condanne formulate da Gregorio XVI e Pio IX, e cita esplicitamente l’enciclica Mirari vos e il Sillabo.
Una volta ancora il liberalismo cattolico è condannato.
San Pio X succede a Leone XIII ed è sotto il suo pontificato che la Repubblica francese denuncia, nel 1905, il concordato, proclamando che lo Stato da ora sarà laico e non riconoscerà più alcun culto.
San Pio X protesta con l’enciclica Vehementer, dell’11 febbraio 1906, e lo fa con termini che costituiscono una nuova condanna del liberalismo cattolico: “(…) in virtù dell’autorità assoluta che Iddio Ci ha conferito, Noi (…) riproviamo e condanniamo la legge votata in Francia sulla separazione della Chiesa e dello Stato come profondamente ingiuriosa rispetto a Dio che essa rinnega ufficialmente, ponendo il principio che la Repubblica non riconosce nessun culto” (18).
Era la rinnovata affermazione, una volta ancora, che, contrariamente alla tesi liberale, lo Stato deve rendere omaggio a Dio e obbedire anch’esso a Gesù Cristo, solo e vero Re delle Nazioni, e che in ogni caso lo Stato non può lasciare che si propaghi liberamente l’errore come se avesse lo stesso titolo della verità. E se lo Stato lo fa, la Chiesa non può in nessun caso approvarlo.

Pio XI e la festa di Cristo Re

Non appena elevato al sommo pontificato, nel 1922, Pio XI condanna esplicitamente il liberalismo cattolico nella sua enciclica Ubi arcano Dei.
Ma egli comprende presto che, essendo rimaste inoperanti le condanne dei suoi predecessori, sarebbe accaduto lo stesso delle sue. Utilizzerà allora un altro metodo, che avrebbe probabilmente avuto successo, se, senza volerlo, non l’avesse vanificato con le sue stesse mani.
Poiché il popolo non legge le encicliche, Pio XI pensa che il miglior modo per istruirlo sia quello di utilizzare la liturgia.
Nell’enciclica Quas primas, dell’11 dicembre 1925, egli espone anzitutto in termini luminosi una teologia esauriente della regalità di Cristo e dimostra che essa implica necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto è in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico.
Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici (…)” (19).
Dichiara poi di istituire la festa di Cristo Re spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l’umana società.
La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi” (20).
Disgraziatamente, male informato sulla situazione religiosa e politica che regna in Francia in quel momento, meno di un anno dopo, i cattolici anti-liberali più attivi, mentre per contro né lui, né i vescovi danno disturbo ai cattolici liberali.
In realtà i cattolici anti-liberali, in questo tempo, facevano capo a due movimenti: l’Action Française, guidata da un ateo, Charles Maurras, e la Fédération Nationale Catholique del generale de Castelnau.
La condanna dei cattolici dell’Action Française (che Pio XII doveva togliere non appena elevato al sommo pontificato) fu interpretata (a torto) come quella dell’anti-liberali in Francia sono solo una minoranza di isolati. Hanno perduto ogni influenza e, nel timore di essere trattati da fascisti, rari sono coloro che osano manifestare le loro opinioni.
La vittoria dei cattolici liberali era dunque totale. La separazione di Chiesa e Stato, la completa libertà di stampa, si erano realizzate ed erano considerate normali dalla stragrande maggioranza dei francesi. L’esistenza di un partito cattolico-liberale era divenuta inutile, e l’espressione liberalismo cattolico cadde in dimenticanza.
Ma ora in Francia progrediscono le idee politiche di sinistra e con esse i cattolici liberali cercheranno compromessi. Mounier con la rivista “Esprit”, i domenicani con la rivista “Sept” amoreggiano con il socialismo e il marxismo. I cattolici liberali virano a sinistra e andranno sempre più avanti su questa via.
Dopo la liberazione essi si organizzano in un potente movimento politico, il MRP (Mouvement des Républicains Populaires) di cui Marc Sangnier fu, fino alla morte avvenuta nel 1950, il presidente onorario (21).
Vedremo come nel 1946 il MRP doveva tradire vergognosamente la causa di Cristo Re.
E l’enciclica? Docilmente la Chiesa celebra ogni anno, dal 1925, la festa di Cristo Re, ma vescovi, sacerdoti e fedeli non ne comprendono più il significato (22).

Il MRP e la festa di Cristo Re

Nel 1946 fu necessario dare alla Francia una nuova costituzione. I comunisti presentarono una proposta in parlamento chiedendo che la laicità dello Stato fosse esplicitamente menzionata, cosa a cui gli autori del progetto costituzionale non avevano pensato.
Il MRP era allora un partito potente e i suoi deputati costituivano un terzo del parlamento. Ma, per le ragioni dette, questo partito cattolico era liberale e non poco orientato a sinistra.
Il progetto costituzionale era sostenuto dai socialisti e dai comunisti, che occupavano un terzo dei seggi, e combattuto invece dai deputati che sedevano alla destra del MRP, che costituivano il rimanente terzo, e pertanto il MRP era arbitro della situazione.
Dimenticando completamente che Pio XI aveva istituito la festa di Cristo Re per ricordare ai cattolici il loro dovere di lottare contro il laicismo, frutto del liberalismo condannato dai Papi, il MRP, che poteva far respingere l’emendamento sulla laicità, si guardò bene dal farlo. Non ricordo più ora se votò a favore o si astenne, ma rimane sempre il fatto che fu grazie a un partito cattolico che la laicità dello Stato fu promossa per la prima volta al rango di legge costituzionale.
E per una sorprendente coincidenza, nella quale vedo per conto mio, uno scherzo del demonio, questa costituzione laica fu promulgata sulla gazzetta ufficiale con la data del 27 ottobre 1946, giorno della festa di Cristo Re!

De Gaulle e la costituzione del 1958

Dodici anni dopo, questa repubblica laica crolla senza gloria, e un generale cattolico è incaricato di proporre una nuova costituzione.
Ma anch’egli è un cattolico liberale e inscrive anche la laicità dello Stato nella costituzione, che sottopone all’approvazione dei francesi mediante referendum.
Un gruppo assai esiguo di cattolici anti-liberali fece una campagna contro questa costituzione empia, ma fu sconfessato dalla quasi totalità dei vescovi; bisognava salvare l’Algeria e l’impero. Il seguito lo si conosce.

Pio XII

Pio XII è un Papa moderno che si preoccupa già dell’organizzazione di comunità di Stati.
In un discorso del 6 dicembre 1953, dedicato a questo problema, egli ricorda, una volta ancora, i principi tradizionali: “(…) nessuna autorità umana, nessuno Stato, nessuna Comunità di Stati, qualunque sia il loro carattere religioso, possono dare un mandato positivo o una positiva autorizzazione d’insegnare o di fare ciò che sarebbe contrario alla verità religiosa o al bene morale” (23).
Come Leone XIII, egli riconosce che l’ideale non è sempre realizzabile; è dunque spesso necessario usare tolleranza; ma, nella determinazione di ciò che occorre fare in pratica, lo statista cattolico “(…) nella sua decisione si lascerà guidare dalle conseguenze dannose, che sorgono dalla tolleranza, paragonate con quelle che mediante l’accettazione della formula di tolleranza verranno risparmiate alla Comunità degli Stati” (24).
Le tesi sullo Stato, proprie del cattolicesimo liberale, erano una volta ancora condannate.
Senza esito migliore.

Da Pio XII ai nostri giorni

Le idee sovvertitrici dello stesso ordine naturale, segnatamente il marxismo, guadagnano tutti i giorni terreno.
Ma la Chiesa, come in preda allo scoraggiamento, ha praticamente rinunciato a opporre loro la barriere invalicabile della sua dottrina. Pur affermando la sua volontà di non rinunciare a nulla, essa cerca comprimessi con questo mondo, che non vuol più intendere ragione. Ed è con questo stato d’animo che si apre il Vaticano II.

Conclusione

In questo anno 1976, i francesi, costernati, si preoccuparono dell’anarchia che regna dovunque, e specialmente del disorientamento della gioventù: anarchia nell’insegnamento, cinema pornografico, incitamento dei minori alla corruzione attraverso la libera vendita dei contraccettivi, aborto libero, ecc.
Ma chi ha compreso che, come aveva predetto Gregorio XVI, tutti questi mali sono conseguenza necessaria del liberalismo?


V. La dichiarazione del Vaticano II sulla libertà religiosa

Essa segnerà un mutamento di rotta senza precedenti nella storia della Chiesa.

Foro interno e foro esterno

Non si possono cogliere le contraddizioni tra la dottrina tradizionale e la dichiarazione del Vaticano II se non si distingue bene tra la libertà religiosa in foro interno e la libertà religiosa in foro esterno, distinzione che la dichiarazione ignora.
Circa la libertà religiosa in foro interno, non si coglie nessuna contraddizione tra la dottrina tradizionale e quella esposta dal Concilio. Certamente, davanti a Dio, la libertà religiosa non è un diritto, poiché ogni uomo è tenuto a cercare la verità e ad aderirvi (come ricorda d’altra arte la dichiarazione conciliare). Ma se la posizione che l’uomo assume resta puramente interiore, questo è affare da regolarsi tra lui e Dio solo, e di cui i pubblici poteri non sono tenuti a occuparsi. In particolar e, nessuna autorità umana ha il diritto di esercitare pressioni su qualcuno per forzarlo a credere (25).
Ma, come ha sempre insegnato la Chiesa, la libertà religiosa in foro interno non implica affatto la libertà religiosa in foro esterno, vale a dire il diritto di praticare pubblicamente qualsiasi culto, di insegnare qualsiasi errore. La libertà di ognuno in questo campo è limitata infatti dal diritto degli altri a essere protetti contro le idee false, che possono essere tanto pericolose per le anime (e anche per l’uomo nella sua completezza) quanto la droga per i corpi.

La dichiarazione del Vaticano II

Ecco qui il passo essenziale relativo all’argomento di cui trattiamo: “Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Questa libertà consiste in ciò, che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte sia di singoli individui, sia di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, e in modo tale, che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, ad agire in conformità ad essa privatamente e pubblicamente, da solo o associato ad altri. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce sia per mezzo della parola di Dio rivelata che tramite la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società” (26).
Notiamo anzitutto che non viene fatta alcuna distinzione tra foro interno e foro esterno, a proposito dei quali la dottrina tradizionale non ha la stessa posizione. Privatamente è il foro interno, pubblicamente è il foro esterno.
Notiamo poi che la dichiarazione non fa alcuna differenza tra forzare ad agire e impedire ad agire. Secondo la dottrina tradizionale, lo Stato non può forzare qualcuno ad agire contro la sua coscienza, ma ha il diritto, per contro, in casi determinati, di impedirgli di agire secondo la sua coscienza (27).
Il Concilio pone tuttavia una restrizione: “Entro debiti limiti”, dice. Questa nozione assai vaga sarà precisata più avanti. Lo Stato non ha il diritto d’intervenire se non quando l’ordine pubblico è minacciato: “Si fa quindi ingiuria alla persona umana e allo stesso ordine stabilito da Dio agli uomini, se si nega all’uomo il libero esercizio della religione nella società, una volta rispettato l’ordine pubblico giusto” (28).
Il Concilio non ha voluto parlare solo della religione cattolica, ma di qualunque religione. Infatti, dopo avere spiegato che l’uomo è tenuto per obbligo morale a ricercare la verità e ad aderirvi, il Concilio dichiara: “Per cui il diritto a questa immunità perdura anche in coloro che non soddisfano all’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa” (29).
Il Concilio non condanna totalmente lo Stato cattolico: lo accetta volentieri, ma alla condizione che sia accordata agli adepti delle altre religioni la stessa libertà di culto e di propaganda che ai cattolici: “Se, considerate le circostanze particolari dei popoli, nell’ordinamento giuridico di una società viene attribuito ad una determinata comunità religiosa uno speciale riconoscimento civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e a tutte le comunità religiose venga riconosciuto e sia rispettato il diritto alla libertà in materia religiosa” (30).
E più avanti: “Nello stesso tempo i cristiani, come gli altri uomini, godono del diritto civile di non essere impediti di vivere secondo la propria coscienza. Vi è quindi concordia fra la libertà della Chiesa e quella libertà religiosa che deve essere riconosciuta come un diritto a tutti gli uomini e a tutte le comunità e che deve essere sancita nell’ordinamento giuridico” (31).
Tutto questo era la condanna del concordato con la Spagna, stipulato esattamente dodici anni prima, che Pio XII aveva dichiarato essere uno dei migliori!
Poiché molti Padri avevano fatto notare che non si faceva alcun cenno della differenza tra la verità e l’errore, tra la religione vera e le altre, si aggiunse un preambolo che ricordava come l’unica e vera religione fosse la religione cattolica. Ma questa aggiunta non infirma per nulla la tesi sulla libertà religiosa in foro esterno, sostenuta nella dichiarazione.

La libertà religiosa e la Rivelazione. La dignità dell’uomo

Rifiutando sempre ogni distinzione tra foro interno e foro esterno, il Concilio afferma che: “una tale dottrina sulla libertà ha le sue radici nella Rivelazione divina, per cui tanto più dai cristiani va rispettata con sacro impegno” (32).
Come vedremo nel paragrafo seguente, Pio IX, nella Quanta cura, affermava il contrario. Egli diceva, infatti, che la libertà religiosa in foro esterno è “contro la dottrina delle Scritture, della Chiesa e dei Santi Padri” (33).
I passi della Scrittura che condannano la libertà religiosa in foro esterno sono infatti innumerevoli. Per esempio, non è Dio stesso che ha ordinato a Gedeone di andare a rovesciare l’altare di Baal, che apparteneva allo stesso padre suo? (34).
Il Concilio riconosce tuttavia come “la Rivelazione non affermi esplicitamente il diritto all’immunità dalla coercizione esterna in materia religiosa” (35).
Ma allora, in che modo la dottrina conciliare ha la sua fonte nella Rivelazione? Nella maniera seguente (secondo il Concilio): e perché la Rivelazione “fa tuttavia conoscere la dignità della persona umana in tutta la sua ampiezza, mostra il rispetto di Cristo verso la libertà dell’uomo nell’adempimento del dovere di credere alla parola di Dio, e ci insegna lo spirito che i discepoli di un tale Maestro devono assimilare e manifestare in ogni loro azione” (36).
Mi sembra chiaro come questo si applichi alla libertà religiosa in foro interno, ma non vedo il rapporto con la libertà religiosa in foro esterno.
Comunque, la dichiarazione afferma a più riprese che le sue tesi sono fondate sulla nozione della dignità dell’uomo. Siccome gli estensori della dichiarazione traggono conclusioni contrarie a proposizioni infallibilmente definite, bisogna concludere che nel loro ragionamento vi è qualche cosa che no va.
Dov’è l’errore? Alla Chiesa docente tocca dirlo. Con tutto il rispetto dovuto a questa Chiesa docente, e lasciando impregiudicato il suo giudizio, si po’ pensare che non sia tenuto sufficientemente conto non solo dei diritti del prossimo, ma anche della dignità di Dio, la quale, in caso di conflitto, ha la meglio sulla dignità dell’uomo.

Conclusione

Questi sono i testi, ed è sufficiente leggerli per constatare che le tesi del Concilio sulla libertà religiosa in foro esterno sono in contraddizione con la dottrina tradizionale.
La dichiarazione ci dice che “questo Concilio Vaticano scruta la tradizione sacra e la dottrina della Chiesa, dalle quali trae nuovi elementi sempre in armonia con quelli già posseduti” (37).
Di fatto la dichiarazione si riferisce diciotto volte a testi pontifici. Perché non si fa alcuna menzione delle encicliche Mirari vos, Quanta cura e del Sillabo?
Guardiamo dunque più da vicino ciò che diceva Pio IX nella Quanta cura.


VI. La dichiarazione del Vaticano II di fronte alle condanne infallibili della Quanta cura

La Quanta cura è una delle rarissime encicliche che sia un documento ex cathedra. Poiché i redattori della dichiarazione non ne hanno tenuto alcun conto, credo anzitutto necessario ricordare le condizioni della infallibilità, che ogni teologo e ogni cattolico colto dovrebbe peraltro conoscere”

Le condizioni dell’infallibilità pontificia

Andiamo direttamente alla fonte: la costituzione sulla Chiesa del Vaticano I (1870): “Quindi Noi aderendo fedelmente alla tradizione ricevuta dai primi tempi della fede cristiana, a gloria di Dio nostro Salvatore, ad esaltazione della religione cattolica ed a salute dei popoli cristiani, approvante il sacro Concilio, insegniamo e definiamo essere dogma divinamente rivelato: che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando, adempiendo l’ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i Cristiani, in virtù della sua suprema Autorità apostolica, definisce una dottrina riguardante la fede ed i costumi, da tenersi da tutta la Chiesa: in virtù della divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, è dotato di quella infallibilità, della quale il divino Redentore volle che fosse fornita la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede o ai costumi; e che perciò tali definizioni del Romano Pontefice, per se stesse, e non già mediante il consenso della Chiesa, sono irreformabili.
Se poi alcuno oserà, che Dio non lo permetta!, di contraddire a questa Nostra definizione: sia anatema
” (38).
Di qui le quattro ben note condizioni della infallibilità pontificia:
1. Il Papa deve parlare come pastore e dottore di tutti i cristiani.
2. Si deve trattare di fede o di costumi.
3. Il Papa deve definire, vale a dire ben precisare le tesi in questione e dire chiaramente da che parte sta la verità.
4. Il Papa deve, almeno implicitamente, obbligare i fedeli ad accettare la sua definizione.
È importante notare che l’infallibilità pontificia non data dal 1870. Come ricorda Pio IX nella sua definizione, si tratta di una “tradizione ricevuta dai primi tempi della fede cristiana”. Pio IX, nel 1870, non ha fatto che mettere fine a una controversia. Non si deve dunque pretendere che i documenti pontifici anteriori al 1870, e che soddisfano le quattro condizioni precisate da Pio IX, non siano coperti dall’infallibilità.

L’infallibilità delle condanne della Quanta cura

Ecco ciò che si può leggere in questa enciclica: “In tanta igitur depravatarum opinionum perversitate, Nos Apostolici Nostri officii memores, ac de sanctissima nostra religione, de sana doctrina, et animarum salute Nobis divinitus commissa, Apostolicam Nostram vocem iterum extollere existimavimus.
Itaque omnes et singulas pravas opiniones ac doctrinas singillatim hisce Litteris commemoratas auctoritate Nostra Apostolica reprobamus, proscribimus atque damnamus, easque ab omnibus catholicae Ecclesiae filiis, veluti reprobatas, proscriptas atque damnatas omnino haberi volemus et mandamus”.
“In tanta perversità di errate opinioni, Noi dunque, giustamente memori del Nostro Apostolico Ufficio, e paternamente solleciti della Nostra santa religione, della sana dottrina e della salute delle anime, a Noi commesse da Dio, e del bene della stessa umana società, abbiamo stimato bene innalzare di nuovo la Nostra Apostolica voce. Pertanto, con la Nostra autorità Apostolica riproviamo, proscriviamo e condanniamo tutte e singole le prave opinioni e dottrine ad una ad una ricordate in questa lettera e vogliamo e comandiamo che tutti i figli della Chiesa cattolica le ritengano come riprovate, proscritte e condannate
” (39).
È evidente che le quattro condizioni della infallibilità sono qui riunite:
1. Il Papa precisa di agire in virtù della sua carica e della sua autorità apostolica.
2. Si tratta di costumi. Il Papa si propone di giudicare la moralità delle leggi sulla tolleranza o l’intolleranza promulgate dagli Stati.
3. Come si vedrà, le proposizioni condannate sono enunciate in termini chiari e precisi.
4. Il Papa indica esplicitamente che i fedeli devono accettare le condanne da lui comminate.
Notiamo bene che l’infallibilità non verte su tutto ciò che dice Pio IX nell’enciclica, ma unicamente su “tutte e singole le prave opinioni e dottrine ad una ad una ricordate in questa lettera”. Queste opinioni sono infallibilmente condannate da quando il Papa le ha chiaramente definite.
Tutto ciò appare chiaro a un semplice laico quale sono. Fino a tempi assai recenti, tutti i teologi erano d’accordo nel riconoscere il carattere di infallibilità delle condanne sancite da Pio IX nella Quanta cura (8 dicembre 1864).
Contestandolo, oggi, i difensori della dichiarazione sulla libertà religiosa si rendono conto di mettere in causa tutta la dottrina della infallibilità pontificia, come è stata infallibilmente definita da Pio IX nel 1870?

Tre proposizioni condannate

Le proposizioni condannate dall’enciclica Quanta cura sono numerose. Ne esaminerò solo tre. Si trovano nel passo seguente, dove le ho messe in evidenza chiamandole A, B, C.
E contro la dottrina della Scritture, della Chiesa e dei Santi Padri non dubitano di asserire:
[A] “La migliore condizione della società è quella in cui non si riconosce nello Stato il dovere di reprimere con pene stabilite i violatori della religione cattolica, se non in quanto ciò richiede la pubblica quiete”. Da questa idea di governo dello Stato, che è del tutto falsa, non temono di dedurre quell’altra opinione sommamente dannosa alla Chiesa cattolica e alla salute delle anime, chiamata deliramento dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di r. m. e cioè: “la libertà di coscienza e dei culti è diritto proprio di ciascun uomo, che si deve proclamare con legge in ogni società ben costituita
(…)” (40).
Perché non vi sia alcun dubbio possibile sul senso delle proposizioni A, B, C, eccone il testo latino: “[A] Optimam esse conditionem societatis, in qua imperio non agnoscitur officium coercendi sancitis poenis violatores catholicae religionis, nisi quatenus pax publica postulet”. “Libertatem conscientiae et cultum esse proprium cuiuscumque hominis ius, quod lege proclamari, et asseri debet in omni recte constituta societate (…)”.
Ora, come risulta dalla prima citazione fatta, il Vaticano II afferma lecito esattamente tutto ciò che condanna Pio IX: 1. Il Vaticano II non riconosce al potere pubblico il dovere di reprimere le violazioni della legge cattolica poiché: “In materia religiosa nessuno (…) sia impedito (…) ad agire in conformità ad essa [la sua coscienza] (…) pubblicamente [foro esterno], da solo o associato ad altri”. 2. Per il Vaticano II, la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. 3. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa, nell’ordine giuridico della società deve essere riconosciuto in modo tale che costituisca un diritto civile.
Vi è dunque opposizione tra le condanne pronunciate in forma infallibile da Pio IX e la dichiarazione del Vaticano II, che, dato il suo “carattere pastorale”, “ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità” (41), come lo stesso Santo Padre ha confermato.


VII. Conclusioni

Lascio al lettore la cura di trarre le conclusioni. Ma, insieme a migliaia di cattolici costernati, auspico soprattutto che siano tirate dalla nostra santa Madre Chiesa, alla quale intendiamo restare fedeli.


Michel Martin


NOTE

(1) Cfr. Michel Martin, Vous vous faites Athanase, in « Courrier de Rome », Parigi, gennaio 1976, anno decimo, n. 153.
(2) È assolutamente evidente che una semplice dichiarazione del Santo Padre comunicante a mons. Lefebvre che le decisioni sulla Fraternità Sacerdotale San Pio X sono giustificate dalla “sua opposizione pubblicata e persistente al Concilio Vaticano II”, non basterebbe a scagionare questo Concilio dalle accuse di cui è fatto oggetto.
(3) Precisiamo bene, per evitare ogni malinteso, che in questo articolo non si tratterà mai del liberalismo economico. Questa è una teoria alla quale la nostra epoca sa ormai opporre soltanto il socialismo, che è un rimedio peggiore del male.
(4) Jacques Mitterand, La politique des Francs-Maçons, Roblot, Parigi 1973.
(5) Eccone un esempio. La dottrina cattolica afferma che l’uomo è stato creato direttamente da Dio. L’evoluzione (che non ha nessun fondamento scientifico serio e che è anche contraddetta dalle ultime scoperte della biologia) afferma al contrario che l’uomo discende dall’animale. Il compromesso proposto da numerosi teologi sta, in proposito, nel dire che certamente l’uomo discende dall’animale ma che Dio è intervenuto direttamente, non solo per la creazione di un’anima immortale, ma anche per il perfezionamento del suo corpo.
(6) Leone XIII, Enciclica Annum Sacrum, del 35 maggio 1899, cit. in Pio XI, Enciclica Quas primas, dell’11 dicembre 1925, in La pace interna delle nazioni. Insegnamenti pontifici a cura dei monaci di Solesmes, trad. it. Edizioni Paoline, 2° ed., Roma 1962, p. 339. Con questa enciclica Pio XI istituisce la festa di Cristo Re.
(7) Pio XI, doc. cit., ibid., p. 340.
(8) Leone XIII, Enciclica Immortale Dei, dell’1 novembre 1885, ibid., pp. 118 e 119.
(9) Con eccessi di zelo certo condannabili, ma molto meno offensivi nei riguardi di Dio della laicità dello Stato. Non avendo ben compresa la distinzione dei poteri spirituale e temporale, Costantino, per esempio, convocò lui stesso il Concilio di Nicea e ne fissò il programma. Questo sconfinamento nelle prerogative del Papa non impedirà a Nicea di essere il concilio ecumenico più importante.
(10) La Documentation Catholique, del 20 settembre 1953. La sottolineatura è nostra.
(11) Ibid., del 30 settembre 1946. Le sottolineature sono nostre.
(12) La revoca dell’editto di Nantes da parte di Luigi XIV segnò, certo, un ritorno ai princìpi della Chiesa cattolica, ma le persecuzioni contro i protestanti, ch precedettero e seguirono questa revoca (soprattutto le cosiddette dragnonnades), sono contrarie alla dottrina della Chiesa, che non ha mai cessato di insegnare che nessuno può essere forzato a credere. Queste persecuzioni gettano un’ombra sul regno di Luigi XIV e hanno contribuito alla comparsa, centocinquant’anni dopo, del cattolicesimo liberale.
(13) Il diritto di intervento dello Stato nella nomina dei vescovi ha sempre irritato i cattolici liberali, che rifiutano di capire che, poiché la Chiesa e lo Stato hanno giurisdizione sugli stessi soggetti, devono collaborare. Questi cattolici liberali si fanno delle illusioni sulla libertà assicurata alla Chiesa dalla separazione di Chiesa e Stato. Lo Stato conosce troppo bene l’influenza dei vescovi per rinunciare ad avere diritto di intervento nella loro nomina. Nei Paesi come la Francia, in cui la Chiesa è separata dallo Strato, il controllo di quest’ultimo non si esercita in misura minore, anche se in modo non ufficiale, e lo Stato dispone di tutti i mezzi di pressione per far rispettare i suoi veti.
(14) La Chiesa condanna la libertà di coscienza, ma si può evitare una interpretazione erronea di questa condanna soltanto se si distingue bene tra il foro interno e il foro esterno. L’uomo che rifiuta di aderire alla verità interiormente è colpevole, ma si tratta di un affare da sistemare tra lui e Dio solo. Il potere civile non deve immischiarsene e non può, in particolare, forzare qualcuno a credere. Ma, come abbiamo visto, il potere civile ha il diritto e spesso il dovere di intervenire se si verifica la manifestazione pubblica di errori gravi, anche se quanti propagano questi errori sono interiormente convinti di servire la verità.
(15) Gregorio XVI, Enciclica Mirari vos, del 15 agosto 1832, in La pace interna delle nazioni, cit., p. 37. Le sottolineature sono nostre.
(16) Pio IX, Sillabo, Edizioni Paoline, Roma 1961, 2° ed., pp. 26 e 30. La sottolineatura è nostra.
(17) L’infallibilità del Sillabo è stata contestata. Infatti non è manifesta la realizzazione della quarta condizione dell’infallibilità. Vedi parte VI.
(18) San Pio X, Enciclica Vehementerm dell’11 febbraio 1906, in Tutte le encicliche dei Sommi Pontefici, raccolte e annotate da Eucardio Momigliano, Dall’Oglio Editore, 4° ed., Milano 1959, p. 564.
(19) Pio XI, Enciclica Quas primas, cit., in La pace interna delle nazioni, cit., p. 344.
(20) Ibid., p. 343. Le sottolineature sono nostre. Si distingue talora tra la laicità dello Stato, che è una situazione giuridica, e il laicismo, che sarebbe soltanto una concezione della vita, e si afferma che Pio XI avrebbe avuto in vista solamente il laicismo. Basta leggere correttamente l’enciclica per constatare che Pio XI ha condannato nello stesso tempo il laicismo e la laicità. Ricordiamo che nella prospettiva della laicità lo Stato non tollera l’insegnamento dell’errore, gli dà gli stessi diritti dell’insegnamento della verità. Non mette in guardia contro l’errore. Lascia che si propaghi, qualunque ne siano le conseguenze per la rovina della società. Il laicismo è quindi l’espressione del liberalismo.
(21) Il Sillon di Marc Sangnier fu condannato nel 1910 da san Pio X. Marc Sangnier si sottomise senza riserva, ma non si coglie bene la differenza tra le idee da lui sostenute prima e dopo la condanna.
(22) Tutti gli anni, alla fine della messa di Cristo Re, avvicino il predicatore e gli chiedo se sa perché Pio XI ha istituito questa festa. Non lo sa. E quando gli dico che lo ha fatto per lottare contro questa peste che infetta la società umana e che è il laicismo, mi guarda con gli occhi spalancati: non capisce. Le mie parole fanno su di lui lo stesso effetto che gli farebbero se gli dicessi che Pio XI ha voluto lottare contro questa peste della società moderna che è il telefono o l’automobile.
(23) Pio XII, Discorso ai partecipanti al V Convegno Nazionale della Unione Giuristi Cattolici Italiani, del 6 dicembre 1953, in Discorsi e Radiomessaggi, vol. XV, p. 487.
(24) Ibid., p. 489.
(25) Certamente questo principio, in passato, è stato spesso trasgredito da re cattolici e anche da esponenti del clero. Ma si tratta di deplorevoli abusi che la Chiesa ha sempre condannato.
(26) Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, n. 2. La traduzione è quella del Dizionario del Concilio Ecumenico Vaticano II, Unedi-Unione Editoriale, Roma 1946. In tutte le citazioni di testi conciliari le sottolineature sono nostre.
(27) Per esempio: la diffusione di teorie sovversive, ecc.
(28) Concilio Ecumenico Vaticano II, doc. cit., n. 3.
(29) Ibid., n. 2.
(30) Ibid., n. 6.
(31) Ibid., n. 13.
(32) Ibid., n. 9.
(33) Pio IX, Enciclica Quanta cura, dell’8 dicembre 1864, Edizioni Paoline, 2° ed., Roma 1961, p. 4.
(34) Cfr. Giud. 6, 25.
(35) Concilio Ecumenico Vaticano II, doc. cit., n. 9.
(36) Ibidem.
(37) Ibid., n. 1.
(38) Concilio Vaticano I, Costituzione apostolica Pastor aeternus, del 18 luglio 1870, in La Chiesa. insegnamenti pontifici a cura dei monaci di Solesmes, tr. it. Edizioni Paoline, Roma 1967, vol. I, pp. 291-292. Le sottolineature sono nostre.
(39) Pio IX, Enciclica Quanta cura, cit., pp. 8-9. Le sottolineature sono nostre.
(40) Ibid., p. 4.
(41) Paolo VI, Allocuzione dell’udienza generale, del 12 gennaio 1966, in Insegnamenti, vol. IV, p. 700.
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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14/06/2011 12:17
 
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Libertà religiosa: la chiara posizione di Mons. De Castro Mayer

“Il 15 ottobre scorso, ho avuto l'onore di scrivere a Vostra Santità affermando il mio filiale rispetto a tali ordini.
Tra questi c'era quello per cui, nell'eventualità che "in coscienza io non fossi d'accordo con gli atti dell'attuale Magistero Ordinario della Chiesa", "manifestassi liberamente alla Santa Sede" il mio parere. È quel che faccio, con tutta la riverenza dovuta all’Augusto Vicario di Gesù Cristo, consegnando a Vostra Santità i tre studi allegati.”

 
Mons. Antonio de Castro Mayer


Il nodo teologico della “libertà religiosa”, così come descritta nel documento conciliare Dignitatis Humanae - al n. 2 in particolare - ha suscitato innumerevoli studi e proposte interpretative nella linea oggi ribattezzata “della continuità ermeneutica”. Finora i tentativi, benché di estrema erudizione teologica, si sono rivelati poco convincenti.
Il Vescovo della diocesi di Campos, Mons. De Castro Mayer - oggi ingiustamente dimenticato - si rivolse rispettosamente al Papa Paolo VI, in qualità di membro della Chiesa docente; i Vescovi infatti, prima d’ammaestrare il proprio gregge, ricevono un insegnamento dal Sommo Pontefice ed è prassi che ad Esso facciano appello per sapere quale sia l’interpretazione autentica di un testo loro proposto. Nello studio e nella supplica del Vescovo brasiliano, la schiettezza teologica si unisce al filiale - ed altrettanto teologico - rispetto verso il Successore di Pietro. Da figlio devoto della Chiesa, ma senza nascondere la verità, il presule conduce uno studio teologico di una disarmante semplicità, ripercorrendo il pensiero costante della Chiesa; non riuscendo a trovare una soluzione alla questione e vedendo la pericolosità della situazione si rivolge a Chi da Cristo ha ricevuto le chiavi, perché - per parafrasare il padre greco Teodoro Studita - la Sua parola, il Suo “calamo divino”, i suoi scritti, hanno il potere di dissipare i branchi di lupi che infestano la casa di Dio: “Lupi graves irruerunt in aulam Domini (…) habes potestatem a Deo… Terreto, supplicamus, haereticas feras calamo divini verbi tui”.
Il testo è del 1974, ma merita d’essere riproposto per le caratteristiche accennate e per la penna che lo scrisse, riflettendo apertamente all’esigenza di un’interpretazione autentica del testo controverso, senza escludere che il Sommo Pontefice possa procedere ad una revisione del testo, il quale non gode dell’infallibilità.
S.C.




Seguono lo studio e la supplica di Mons. De Castro Mayer.

25 gennaio 1974

Beatissimo Padre,

prostrato rispettosamente ai piedi di Vostra Santità, chiedo venia di sottomettere alla Vostra considerazione gli studi allegati alla presente lettera.
L'invio di questi studi è in ubbidienza all'ordine di Vostra Santità, trasmesso con lettera dell’Eminentissimo Cardinale Sebastiano Baggio all’Eminentissimo Cardinale Vincente Scherer, della quale quest'ultimo mi ha messo al corrente a viva voce durante un nostro incontro a Rio de Janeiro il 24 settembre u.s.
Il 15 ottobre scorso, ho avuto l'onore di scrivere a Vostra Santità affermando il mio filiale rispetto a tali ordini.
Tra questi c'era quello per cui, nell'eventualità che "in coscienza io non fossi d'accordo con gli atti dell'attuale Magistero Ordinario della Chiesa", "manifestassi liberamente alla Santa Sede" il mio parere. È quel che faccio, con tutta la riverenza dovuta all’Augusto Vicario di Gesù Cristo, consegnando a Vostra Santità i tre studi allegati.
Con ciò – si degni Vostra Santità notare – non faccio altro che un atto di ubbidienza alla Vostra veneranda determinazione. Gli apprezzamenti ivi espressi li ho concepiti durante anni di riflessione e di preghiera. Non è nelle mie intenzioni renderli pubblici, poiché sono certo che il mio riserbo sarà gradito a Vostra Santità.


Santo Padre, l'ubbidienza mi obbliga ora comunicare a Vostra Santità pensieri che forse vi cagioneranno afflizione. Lo faccio però con l'animo in pace, poiché sono nella via della sincerità e dell’ubbidienza in cui conto di rimanere con la grazia di Dio.
Però, se è tranquilla la mia coscienza allo stesso tempo è triste il mio cuore.
Infatti tutta la mia vita di Sacerdote e di Vescovo è stata segnata dall'impegno di essere, entro il mio limitato campo di azione, per la mia devozione senza restrizioni e la mia ubbidienza senza riserve motivo di grazia per i vari Papi sotto la cui autorità ho successivamente servito.
Invece, nella congiuntura presente, la devozione e l'ubbidienza mi portano a rattristare Vostra Santità.
A questo punto mi viene alla mente un episodio della Storia di Francia del secolo scorso. Lo racconta Chateaubriand nelle Memoires d'Outre Tombe. Una volta il re Luigi XVIII sollecitava la sua opinione circa una misura che il monarca aveva appena reso pubblica. La sincerità impediva allo scrivente di elogiare tale misura. Il timore però di rattristare il Re lo induceva tacere. Si è sottratto dunque all’esprimere il proprio pensiero. Accortosi di ciò, Luigi XVIII gli ha formalmente ordinato di parlare con tutta franchezza. Egli, rispondendo al nobile appello e prima di aprirsi al Re, gli ha fatto questa richiesta: "Sire, pardonnez ma fidelité". È quel che chiedo a Vostra Santità: perdonatemi la fedeltà con cui eseguo i Vostri ordini.
Imploro da Vostra Santità compassione per l'ubbidienza di questo Vescovo ormai settuagenario e che vive in questo momento l'episodio più drammatico della propria esistenza. E chiedo a Vostra Santità almeno una particella di quella comprensione e benevolenza che tante volte avete manifestato non soltanto verso quelli che Vi stanno vicini, ma anche con persone estranee, e perfino nemiche del Gregge unico dell'unico Pastore.
Negli anni ha preso corpo nel mio spirito la convinzione che atti ufficiali di Vostra Santità non hanno quella consonanza, che con tutta l'anima desideravo vedere, con gli atti di Pontefici che Vi hanno preceduto.
Non si tratta chiaramente di atti garantiti dal carisma dell'infallibilità. Così, quella mia convinzione non scuote in niente la mia fede senza riserve nelle definizioni del Concilio Vaticano I.
Timoroso di abusare del tempo prezioso del Vicario di Cristo, mi esimo da più ampie considerazioni e mi limito a sottomettere all'attenzione di Vostra Santità tre studi:

1 - riguardo la Octogesima Adveniens;


2 - riguardo la Libertà religiosa;
3 - sul nuovo "Ordo Missae" (di quest'ultimo è autore l'avvocato Arnaldo Vidigal Xavier da Silveira, al cui pensiero mi associo).

Sarà superfluo aggiungere che in questo momento, come in altri della mia vita, porterò a compimento, in tutta la misura ordinata dalle leggi della Chiesa, il sacro dovere dell'ubbidienza. E in questo spirito, con il cuore di figlio ardente e devotissimo del Papa e della Santa Chiesa, accoglierò qualsiasi parola di Vostra Santità riguardo a questo materiale.


In modo speciale supplico Vostra Santità di volermi comunicare:

a) se trova qualche errore nella dottrina esposta nei tre studi allegati;


b) se vede nella posizione assunta negli studi menzionati circa i documenti del Magistero Supremo qualcosa che discordi con la riverenza che ad essi è dovuta come Vescovo.
Supplicando che Vostra Santità voglia concedere a me e alla mia Diocesi il prezioso beneficio della Benedizione Apostolica, sono di Vostra Santità figlio umile e ubbidiente.



Antonio De Castro Mayer
Vescovo di Campos                  




Il 22 marzo 1974 il Nunzio Apostolico, Mons. Carmine Rocco, trasmise a S.E. Mons. Antonio de Castro Mayer la seguente risposta e null’altro:


«Le lettere del 25 gennaio u.s. dirette all’Eminentissimo Card. Baggio e a Sua Santità Paolo VI, insieme con gli studi fatti da Vostra Eccellenza, sono pervenute a destinazione».


La libertà religiosa


In materia di libertà religiosa nell'ordine civile, tre punti capitali, tra gli altri, sono assolutamente chiari nella tradizione cattolica:


1)      nessuno può essere costretto con la forza ad abbracciare la Fede;


2)     l'errore non ha diritti;


3)     il culto pubblico delle religioni false può eventualmente essere tollerato dai poteri civili, in vista di un bene più grande da ottenersi o di un male maggiore da evitarsi, però per se stesso deve essere represso anche con la forza se necessario.


È quello che si deduce, per esempio, dai seguenti documenti:
Pio IX, Enciclica "Quanta Cura": "E contro la dottrina delle Scritture, della Chiesa e dei SS. Padri [i seguaci del naturalismo] non dubitano di asserire: "La migliore condizione della società essere quella, in cui non si riconosce nello Stato il dovere di reprimere con pene stabilite i  violatori della cattolica religione, se non in quanto ciò richiede la pubblica quiete". Dalla quale idea di governo dello Stato, in tutto falsa, non temono di dedurre quell'altra opinione sommamente dannosa alla Chiesa cattolica e alla salute delle anime, chiamata deliramento dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di recente memoria, cioè "La libertà di coscienza e dei culti essere diritto proprio di ciascun uomo, che si deve con legge proclamare e sostenere in ogni società bene costituita, e essere diritto d’ogni cittadino una totale libertà, che non può essere limitata da alcuna autorità vuoi civile, vuoi ecclesiastica, di manifestare e  dichiarare i propri pensieri, quali che siano sia di viva voce, sia per iscritto, sia in altro modo palesemente ed in pubblico"."
"Syllabus" di Pio IX: proposizioni condannate 77 e 78: " Ai tempi nostri non giova più tenere la religione cattolica per unica religione dello Stato, escluso qualunque sia altro culto". "Quindi lodevolmente in alcuni paesi cattolici  fu stabilito per legge esser lecito a quelli che vi recano il pubblico esercizio del proprio qualsiasi culto".
Leone XIII, Enciclica "Libertas": "Nell'ordine sociale dunque la civile libertà, degna di questo nome, non consiste già in far quel che talenta a ciascuno, ciò che anzi partorirebbe confusione e disordine, che riuscirebbe in ultimo ad oppressione comune; ma in questo unicamente, che con la tutela e l'aiuto delle leggi civili si possa più agevolmente vivere secondo le norme della legge eterna [...]. "Considerata rispetto alla società, la libertà dei culti importa non esser tenuto lo Stato a professarne o a favorirne alcuno: anzi dover essere indifferente a riguardo di tutti e averli in conto di giuridicamente uguali, anche se si tratti di nazioni cattoliche [...]."Iddio è quegli che creò l'uomo socievole, e lo pose nel consorzio de’ suoi simili, affinché i beni, onde ha bisogno la natura di lui, e ch’ei, solitario, non avrebbe potuto conseguire, li trovasse nell'associazione. Laonde la società civile, proprio perché società, deve conoscere e onorarne il potere e dominio sovrano. Ragione adunque e giustizia del pari condannano lo Stato ateo o, ch’è lo stesso, indifferente verso i vari culti, e ad ognuno di loro largo de’ diritti medesimi. "Posto pertanto che una religione debba professarsi dallo Stato, quella va professata che è unicamente vera, e che per le note di verità, che evidentemente la suggellano, non è difficile a riconoscersi, massime in paesi cattolici [...]."Potestà morale è il diritto, e, come si disse e converrà spesso ridire, è assurdo che la natura ne dia indistintamente e indifferentemente alla verità e alla menzogna, al bene e al male. Le cose vere ed oneste hanno diritto, salve le regole della prudenza, di essere liberamente propagate, e divenire il più che possibile comune retaggio; ma gli errori, peste della mente, i vizi, contagio dei cuori e dei costumi, è giusto che dalla pubblica autorità siano diligentemente repressi per impedire che non si dilatino a danno comune. L'abuso della forza dell'ingegno, che torna ad oppressione morale degl’ignoranti, va legalmente represso con non minore fermezza, che l'abuso della forza materiale a danno dei deboli. Tanto più che guardarsi dai sofismi dell'errore, specialmente se accarezzanti le passioni, la massima parte dei cittadini o del tutto non possono o non possono senza estrema difficoltà [...]."Per queste cagioni, senza attribuire diritti fuorché al vero e all'onesto, ella non vieta che per evitare un male più grande o conseguire e conservare un più gran bene, il pubblico potere tolleri qualche cosa non conforme a verità e giustizia".

Pio XII, allocuzione "Ci riesce": "Un'altra questione essenzialmente diversa è se in una Comunità di Stati possa, almeno in determinate circostanze, essere stabilita la norma che il libero esercizio di una credenza e di una prassi religiosa o morale, le quali hanno valore in uno degli Stati-membri, non sia impedito nell'intero territorio della Comunità per mezzo di leggi o provvedimenti coercitivi, statali. In altri termini, si chiede se il "non impedire", ossia il tollerare, sia in quelle circostanze permesso, e perciò la positiva repressione non sia sempre un dovere."Noi abbiamo or ora addotta l'autorità di Dio. Può Dio, sebbene sarebbe a lui possibile e facile di reprimere l'errore e la deviazione morale, in alcuni casi scegliere il "non impedire", senza venire in contraddizione con la Sua infinita perfezione? Può darsi che in determinate circostanze Egli non dia agli uomini nessun mandato, non imponga nessun dovere, non dia perfino nessun diritto d’impedire e di reprimere ciò che è erroneo e falso?"Uno sguardo alla realtà dà una risposta affermativa. Essa mostra che l'errore e il peccato si trovano nel mondo in ampia misura. Iddio li riprova; eppure li lascia esistere. Quindi l'affermazione: Il traviamento religioso e morale deve essere sempre impedito, quanto è possibile, perché la sua tolleranza è in se stessa immorale – non può valere nella sua incondizionata assolutezza. D'altra parte, Dio non ha dato nemmeno all'autorità umana un siffatto precetto assoluto e universale, né nel campo della fede né in quello della morale. Non conoscono un tale precetto né la comune convinzione degli uomini, né la coscienza cristiana, né le fonti della rivelazione, né la prassi della Chiesa. Per omettere qui altri testi della Sacra Scrittura che si riferiscono a questo argomento, Cristo nella parabola della zizzania diede il seguente ammonimento: Lasciate che nel campo del mondo la zizzania cresca insieme al buon seme a causa del frumento. Il dovere di reprimere le deviazioni morali e religiose non può quindi essere una ultima norma di azioni. Esso deve essere subordinato a più alte e generali norme, le quali in alcune circostanze permettono, ed anzi fanno forse apparire come il partito migliore il non impedire l'errore, per promuovere un bene maggiore."Con questo sono chiariti i due prìncipi, dai quali bisogna ricavare nei casi concreti la risposta alla gravissima questione circa l'atteggiamento del giurista, dell'uomo politico e dello Stato sovrano cattolico riguardo ad una formula di tolleranza religiosa e morale del contenuto sopra indicato, da prendersi in considerazione per la Comunità degli Stati. Primo: ciò che non risponde alla verità e alla norma morale, non ha oggettivamente alcun diritto né all'esistenza né alla propaganda, né all'azione. Secondo: il non impedirlo per mezzo di leggi statali e di disposizioni coercitive può nondimeno essere giustificato nell'interesse di un bene superiore e più vasto."Quanto alla seconda proposizione, vale a dire alla tolleranza, in circostanze determinate, alla sopportazione anche in casi in cui si potrebbe procedere alla repressione, la Chiesa – già per riguardo a coloro, che in buona coscienza (sebbene erronea, ma invincibile) sono di diversa opinione – si è vista indotto ad agire ed ha agito secondo quella tolleranza, dopo che sotto Costantino il Grande e gli altri Imperatori cristiani divenne Chiesa di Stato, sempre per più alti e prevalenti motivi; così fa oggi e anche nel futuro si troverà di fronte alla stessa necessità. In tali singoli casi l'atteggiamento della Chiesa è determinato dalla tutela e dalla considerazione del bonum comune, del bene comune della Chiesa e dello Stato nei singoli Stati, da una parte, e dall'altra, del bonum comune della Chiesa universale, del regno di Dio sopra tutto il mondo".[1]




Non si concilia con i documenti sopra citati la dottrina della "Dignitatis Humanae" riguardo questa materia. Infatti nel n. 2 si legge: "Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto della libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata".


Il testo è chiaro e a rigore dispensa da commenti. C'è, secondo la Dichiarazione, un vero diritto[2] alla libertà religiosa nel senso indicato. L'immunità dalla coercizione è presentata come un diritto di tutti in relazione a tutti: individui, gruppi e Stato.
Si noti, perciò, che la Dichiarazione non considera situazioni concrete anche se molto frequenti che consiglierebbero la permissione, la tolleranza del culto falso. Al contrario, il testo prescinde dai fatti concreti e stabilisce come principio che ogni uomo ha il diritto di agire secondo la propria coscienza, in privato come in pubblico, in materia religiosa.


I limiti alla libertà religiosa stabiliti dalla Dichiarazione ("entro i dovuti limiti") non sono sufficienti, alla luce dell'insegnamento tradizionale dei Papi, per liberarla dai difetti segnalati[3].
Più avanti il testo conciliare continua: "Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell'ordinamento giuridico della società".
Il testo è chiaro. Il motivo per cui la Dichiarazione desidera che la libertà religiosa, nei termini indicati, si converta in diritto civile, consiste nel fatto che, già prima di qualsiasi disposizione legale, l'uomo avrebbe questo diritto. Si tratterebbe perciò di un vero diritto naturale[4]. Ebbene, questo principio si oppone all'insegnamento dei Papi precedenti.


Quel che causa perplessità è il fatto che la "Dignitatis Humanae" non soltanto difende la libertà religiosa in termini che discordano con la tradizione, ma afferma "ex professo" – peraltro senza addurre le prove – che la sua posizione non si scontra con gli insegnamenti tradizionali: "E poiché la libertà religiosa, che gli esseri umani esigono nell'adempiere il dovere di onorare Iddio, riguarda l'immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo".
Ora, la tradizionale dottrina cattolica circa il dovere morale degli uomini e delle società in rapporto alla Chiesa Cattolica, ha sempre insegnato che la vera religione deve essere favorita e sostenuta dallo Stato, mentre il culto pubblico e il proselitismo delle false religioni devono essere impediti, se necessario con la forza (malgrado possano, evidentemente, essere tollerati in considerazione di determinate circostanze concrete). E questo la tradizionale dottrina cattolica ha sempre insegnato essere un dovere morale, nel senso esatto del termine. E qualcosa che le società, come creature di Dio, devono in modo assoluto alla religione vera.


Nel numero 2 della "Dignitatis Humanae", si legge: "A motivo della loro dignità[5] tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà, e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze. Ad un tale obbligo, però, gli esseri umani non sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell'immunità dalla coercizione esterna. Non si fonda quindi il diritto alla libertà religiosa su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano all'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato l'ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito".
È evidente, perciò, che la Dichiarazione non rivendica la libertà religiosa soltanto per gli adepti di altre religioni, ma per tutti gli uomini. Pertanto, anche per quelli che non abbracciano nessuna religione e per quelli che negano l'esistenza di Dio. Anche questi, secondo la "Dignitatis Humanae", possono professare pubblicamente i loro errori e fare propaganda delle loro irreligiosità. Non vediamo come la Dichiarazione possa non trovare in opposizione con la tradizione cattolica questo strano "diritto" al proselitismo ateistico.



A sostegno del suo concetto di libertà religiosa, la Dichiarazione conciliare adduce alcuni testi pontifici. Essi sono: l'Enciclica "Pacem in Terris" di Giovanni XXIII, AAS 1963, pp. 260-261; il Radiomessaggio Natalizio del 1942 di Pio XII, AAS 1943, p. 19, l'Enciclica "Mit brennender Sorge" di Pio XI, AAS 1937, p.160, l'enciclica "Libertas" di Leone XIII, Acta Leonis XIII,8 ,1888, pp. 237-238.


Esaminiamo brevemente questi quattro testi pontifici.
Quello dell'enciclica "Libertas” di Leone XIII dice così:


"Non meno celebrata delle altre è la libertà così detta di coscienza, la quale se prendasi in questo senso che ognuno sia libero di onorare Dio o di non onorarlo, dagli argomenti recati di sopra è confutata abbastanza. Ma può avere ancora questo significato, che l'uomo abbia nel civile consorzio diritto di compiere tutti i suoi doveri verso Dio senza impedimento alcuno. Questa libertà vera e degna dei figli di Dio, che mantiene alta la dignità dell'uomo, è più forte di qualunque violenza ed ingiuria, e la Chiesa la reclamò e l’ebbe carissima ognora".
Può un tale testo costituire una genuina difesa della libertà religiosa nel senso di immunità da coercizione esterna per il seguace di qualsiasi religione? L'espressione "nulla re impediente" dà a questo testo il significato di una libertà religiosa nel senso sopra indicato?
Il senso reale del testo non avalla una simile interpretazione. Infatti, parlando della libertà per seguire la volontà di Dio ed eseguire i Suoi ordini, il testo colloca faccia a faccia l'uomo da una parte, la volontà di Dio e i Suoi ordini dall'altra. E chiede per l’uomo la facoltà di eseguire questa volontà e questi ordini senza impedimenti. Si capisce subito che il testo parla della volontà di Dio e dei suoi ordini come si presentano ufficialmente ed obiettivamente. D'altronde, l'interpretazione favorevole al testo della "Dignitatis Humanae" sarebbe talmente opposta a tutto il contesto dell'Enciclica che è difficile comprendere come possa valersi di esso il testo conciliare. Leone XIII, che aveva appena difeso la "repressione" contro quelli che oralmente o per scritto diffondono l'errore (op. cit. p. 196), non potrebbe poi contraddire se stesso!


Il senso della libertà ivi difeso da Leone XIII è chiaro. Come dice lo stesso testo, si tratta del diritto di " seguire la volontà di Dio e di compiere i Suoi precetti" d'accordo con " la coscienza del dovere". Questa libertà, secondo la stessa Enciclica, ha "per oggetto un bene conforme alla ragione" (n. 6, cfr. nn. 69); non si oppone al principio per cui la Chiesa concede diritti soltanto "a quello che è vero e onesto" (n. 41); ed è qualificata come "legittima e onesta" (n. 16), per opposizione alla libertà di cui parlano i liberali radicali o moderati.
Inoltre il contesto prossimo del passo della "Libertas" che stiamo analizzando, dà ancora più risalto al suo vero significato che non è quello che la "Dignitatis Humanae" gli vuol attribuire.


Infatti, la Commissione del Segretariato per l'Unione dei Cristiani, citando il testo testé analizzato (cfr. opuscolo "Schema Declarationis de Libertate Religiosa",1965, p. 19), ha trascritto solo il passo che sopra abbiamo riportato. Se questa citazione si fosse estesa ancora per qualche rigo, si sarebbe visto subito che il passo non si riferisce alla libertà religiosa nel senso di immunità da coercizione esterna contro la diffusione di religioni false. Poiché, di seguito, la "Libertas" dice:


"Siffatta libertà rivendicarono con intrepida costanza gli Apostoli, la sancirono con scritti gli Apologisti, la consacrarono gran numero di Martiri col proprio sangue".


Ora, la libertà religiosa nel senso di immunità da coercizione esterna per le religioni false, la stessa "Dignitatis Humanae" non la difende come insegnata espressamente dagli Apostoli, ma dichiara soltanto che " ha radici nella rivelazione divina". Come potrebbe perciò dire Leone XIII che gli Apostoli costantemente rivendicavano per sé questa libertà?


E, soprattutto, come potrebbe Leone XIII dire che "una moltitudine innumerevole di Martiri" ha consacrato questa libertà col proprio sangue? Non abbiamo notizia di nessun martire che sia morto per difendere il "diritto" dei nicolaiti, degli gnostici, degli ariani, dei protestanti o degli atei a diffondere i loro errori. E, soprattutto, sarebbe singolare parlare di una "moltitudine di martiri" che abbiano versato il loro sangue con tale intenzione. Torna perciò evidente che il tratto citato della "Libertas" non riguarda la libertà religiosa nel senso di immunità da coercizione esterna per i divulgatori dell'errore.


Immediatamente all'inizio del paragrafo seguente, Leone XIII dichiara:


"Nulla di comune ha [questa libertà cristiana] con lo spirito di sedizione e di rea indipendenza, né deroga punto al debito ossequio verso il pubblico potere, il quale intanto ha diritto di comandare e obbligare in coscienza, in quanto non discorda dal potere di Dio, e nell'ordine stabilito da Dio si mantiene. Ma quando si comandano cose apertamente contrarie alla divina volontà, allora si esce da quest’ordine e si va contro al volere divino e quindi non obbedire è giusto e bello".
Ora, l’ "ubbidienza dovuta al pubblico potere" e il diritto dei cittadini di disubbidire alle leggi umane ingiuste non dimostrano la libertà religiosa, nel senso di immunità da coercizione esterna nella pratica delle false religioni. Ciò riguarda la vera libertà, che è la facoltà di fare il bene, di seguire la volontà di Dio, di praticare la religione cattolica, senza essere in questo impedito da nessuno.


Più avanti, il testo della "Libertas" è ancora più chiaro:
"Ai liberali al contrario, che fanno padrone assoluto e onnipotente lo Stato, e che inculcano di vivere senza curarsi minimamente di Dio, questa libertà, congiunta a onestà e religione, è affatto ignota; tantoché ciò che altri faccia per mantenerla è, a giudizio loro, delitto e attentato contro l'ordine pubblico".
Ora, sarebbe totalmente assurdo dire che i liberali sono contrari alla libertà religiosa nel senso di immunità da coercizione esterna per la diffusione delle religioni false. Si rende chiaro, perciò, che Leone XIII propone ivi quella libertà "legittima ed onesta" da lui stesso definita e difesa precedentemente nella stessa Enciclica (cfr. p. 186), nel cui nome possiamo e per principio dobbiamo opporci alle leggi ingiuste.
Queste considerazioni sul testo della "Libertas", citato dalla "Dignitatis Humanae", rendono facile la comprensione anche del vero senso degli altri passi che la Dichiarazione conciliare cita nello stesso luogo.
Quando la "Mit Brennender Sorge" rivendica, contro il nazismo, il diritto del fedele a conoscere e praticare la religione[6], il testo di fatto non afferma che l'errore gode dell'immunità nell'ordine civile. D'altronde, sarebbe inconcepibile che, in quattro brevi righe, Pio XI pretendesse difendere una nuova nozione cattolica di libertà, in opposizione con i Papi precedenti. È evidente che, nello stesso modo in cui Leone XIII ha proclamato, in nome di questa libertà, il diritto di resistere alle leggi ingiuste e oppressive dei governi liberali, così anche Pio XI ha proclamato, in nome di questa stessa libertà, il diritto di resistere al nazismo.
E quando Pio XII, durante la seconda Guerra Mondiale, con una semplice frase ha rivendicato, tra i diritti fondamentali delle persone, " il diritto al culto di Dio privato e pubblico, compresa l'azione caritativa religiosa"[7], il testo del suo Radiomessaggio non affermava – come abbiamo già osservato a proposito della "Mit Brennender Sorge" – il diritto al culto falso reso a Dio in una religione non vera. Al contrario, il suo senso naturale è che all'uomo sia riconosciuto il diritto di rendere a Dio il vero culto, una volta che questo soltanto è il culto a Lui dovuto.


Inoltre, è evidente che Pio XII non intendeva modificare la dottrina cattolica riguardo a questa materia, ma difendeva soltanto la libertà "legittima e onesta" tanto chiaramente spiegata da Leone XIII. Tanto più che Pio XII, nell'allocuzione "Ci riesce", dove ha trattato "ex professo" della questione, nega qualsiasi diritto a ciò che non corrisponde alla verità e alla norma morale.
Lo stesso dicasi del brano di Giovanni XIII citato dalla "Dignitatis Humanae". Esso dice:
"In hominis iuribus hoc quoque numerandum est, ut et Deum, ad rectam conscientiae suae normam, venerari possit, et religionem privatim publice profiteri".

Poiché il testo dice: "secondo i retti dettami della propria coscienza", e non "secondo i dettami della propria coscienza retta" (come hanno voluto certuni), si rende chiaro che Giovanni XXIII parla qui nello stesso senso di Leone XIII nella "Libertas". Questa interpretazione si impone ancora più chiaramente se consideriamo che, per chiarire il senso del passo indicato, Giovanni XXIII trascrive, nello stesso testo principale della "Pacem in Terris", una pagina di Lattanzio e una di Leone XIII. Quella di Lattanzio si riferisce al "rendere giusti e dovuti onori a Dio"[8], mentre quella di Leone XIII è esattamente la stessa che abbiamo sopra commentato (“Haec quidem vera, haec digna filiis Dei libertas…”).


Al termine di questo studio, giudichiamo opportuno risolvere un'obiezione che potrebbe essere formulata come segue:
La Dichiarazione "Dignitatis Humanae" è stata approvata dalla maggioranza dell'Episcopato. Non sarebbe perciò garantita dal carisma dell’infallibilità o almeno, come documento del Magistero Ordinario, non obbligherebbe tutti fedeli?



Rispondiamo con le seguenti osservazioni:

1) Come è stato ufficialmente dichiarato, il Concilio Vaticano II non ha avuto intenzione di fare nuove definizioni solenni. Perciò anche la Dichiarazione "Dignitatis Humanae" non è garantita dal carisma dell'infallibilità, inerente alle definizioni solenni.


2) Ciò nonostante, una risoluzione presa dalla maggioranza dell'Episcopato riunito in Concilio e approvata dal Sommo Pontefice obbliga tutti i fedeli, anche se non viene con la garanzia dell'infallibilità.
3) Quest'obbligo però cessa, come succede con la"Dignitatis Humanae", quando si verificano nello stesso caso le due seguenti condizioni: a) è manifesto che l'Episcopato universale non ha avuto l'intenzione di vincolare in maniera definitiva le coscienze, e inoltre, b) è anche chiaro che tale documento dell'Episcopato universale è in contrasto con una dottrina già data come certa dal Magistero Ordinario di una lunga serie di Papi.


A cura di Claudia Marchini

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[1] Nello stesso senso si veda ancora: Pio VI, Carta "Quod Aliquantun”, in La Paix Intérieure des Nations, pp.4-5; Enc. “Adeo Nota”, ibidem, p. 7; Pio VII, Carta Apost. “Post tam diuturnas”, ibidem, pp. 18-19; Gregorio XVI, Enc. “Mirari Vos”, Denz.-Sch. 2731 ss; Pio IX, Enc. “Singulari Nos”, in La Paix Int. Des Nat., p. 29, Leâo XIII, Enc “Humanum Genus”, in Doctrina Pontificial, vol. II, B.A.C., p. 168; Enc. “Immortale Dei”, ibidem, pp. 193-194, 204-205, 207-208; Sao Pio X, Carta “Vehementer Nos”, ibidem, pp. 384-385, Pio XI, Enc. “Quas primas”, ibidem, p. 504; Carta “Ci si è domandato”, ibidem, vol. V, p. 125, Enc. “Non Abbiamo Bisogno”, ibidem, vol. II, p. 594; Pio XII, Carta ao Episcopado Basiliero, AAS, 1950, p. 841.
Come si vede, i Papi hanno insegnato tassativamente che la propaganda delle religioni false dev’essere "impedita", "repressa" ("Ci riesce"), se necessario pertanto con coercizione esterna. Essendo così, non è soltanto l'errore astrattamente considerato che manca di diritti ("Libertas", p. 196; "Ci riesce"), ma anche le persone concrete che diffondono l’errore in materia religiosa ("Syllabus" di Pio IX, proposizione 78, Enc. "Libertas", p. 196).
D'altra parte, i Papi non hanno condannato soltanto la libertà religiosa assoluta e illimitata, che offende la moralità e l'ordine pubblico (Enc. "Libertas"). Ma hanno dichiarato espressamente che la diffusione dell'errore, in quanto tale, deve essere impedita, anche nei casi in cui non pregiudichi il cosiddetto ordine pubblico (Enc. “Quanta cura”, "Libertas", e "Ci riesce").
[2] Nell'occasione dei dibattiti conciliari sulla libertà religiosa, alcuni autori tradizionalisti, desiderosi di dare una spiegazione ortodossa allo schema, cercarono di difendere la tesi che, in un senso o nell'altro, gli adepti delle false religioni godono di un vero diritto a praticare pubblicamente e diffondere la loro religione. Registriamo qui due di questi tentativi.
Il P. Marcelino Zalba S.J. difese la tesi che la coscienza invincibile erronea genera veri diritti, anche se secondari, cioè che cedono davanti al diritto superiore del cattolico, il quale possiede la verità oggettiva ed intera (Cf. "Gregorianum", 1964, pp. 94-102; "Periodica", 1964, pp. 31-67). Questa tesi non ci sembra in armonia né con i principi del diritto naturale, né con gli insegnamenti dei Papi precedenti. L'errore, in quanto tale, non può generare veri diritti di nessun genere, ma soltanto diritti putativi.
Mons. Temino ha proposto la teoria, secondo la quale chi non conosce il cattolicesimo o non è persuaso della sua verità, ha il diritto di professare la sua religione, nella misura in cui questa contiene il diritto naturale o ad esso non si oppone. Ma tale diritto cede davanti alla religione cattolica (La conciencia y la Liberdad Religiosa, Burgos, 1965, p.72). Un'analisi approfondita di questa posizione eccederebbe i limiti che ci siamo proposti in questo studio. Basti qui osservare che la teoria di Mons. Temino non giustificherebbe in nessun modo quello che è il punto centrale della "Dignitatis Humanae": l’affermazione di un vero diritto all'immunità da coercizione con la religione cattolica.
 
[3] Quali sono i “limiti dovuti” entro i quali c'è il "diritto" di immunità da coercizione esterna in materia religiosa?
L'argomento è trattato "ex professo" nel n. 7 della "Dignitatis Humanae": l’esercizio della libertà religiosa non deve pregiudicare la composizione pacifica dei diritti di tutti cittadini, né l'onesta pace pubblica basata sulla vera giustizia e nemmeno la moralità pubblica.
Sulla scorta dei documenti di una serie di Papi, è evidente che le religioni false non hanno il diritto né all'esistenza né alla propaganda. Non si può perciò parlare di un vero diritto all'immunità da coercizione nell'ordine civile. Stando così le cose, il problema dei limiti di un tale diritto è ozioso: dove non c'è il diritto, non si pone neppure la questione dei suoi limiti.
Ci sia pertanto lecito osservare che la "Dignitatis Humanae" propone per la libertà in materia religiosa gli stessi limiti che la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo" dell'ONU stabilisce per l'esercizio della libertà di coscienza e di religione, e che riscontrano, più o meno, nelle Costituzioni liberali delle nazioni moderne, ispirate ai principi della Rivoluzione Francese.
Inoltre, merita qui una nota speciale l’impostazione pluralistica della "Dignitatis Humanae", che per sua natura non si rivolge soltanto ai cattolici, ma orienterà anche i non cattolici (governanti o privati) in materia di libertà religiosa. Così, quando essa parla di "composizione pacifica di diritti", a quali diritti si riferisce? Pretende la "Dignitatis Humanae" presupporrebbe ammessi da tutti, come norma della convivenza sociale, i postulati del diritto naturale? La Dichiarazione conciliare guadagnerebbe molto se lo dicesse chiaramente. In effetti, data l'ampiezza con cui la "Dignitatis Humanae" definisce la libertà civile in materia religiosa, perché mai essa escluderebbe, per esempio, il concetto che hanno i marxisti della religione? Al contrario, perché escluderebbe il concetto di "onesta pace pubblica", "vera giustizia" predicati per esempio dai governi liberali o dai governi totalitari? La mancata definizione nella "Dignitatis Humanae" dei limiti del "diritto" di immunità da coercizione esterna in materia religiosa (Diritto questo che d'altronde non esiste) è un elemento che in pratica viene a favorire certi movimenti eterodossi nella loro lotta contro la Santa Chiesa.
[4] Nell'aula conciliare, parlando in nome della Commissione del Segretariato per l'Unità dei Cristiani, Mons. de Smedt dichiarò: " Libertas seu immunitas a coercitione, de qua agitur in Declaratione, non [...] agil de relationibus inter fideles et auctoritates in Ecclesia" (Schema Declarationis de Libertate Religiosa,1965, p. 25). Ben sappiamo la grande importanza che hanno queste parole per l'interpretazione del documento conciliare. Ciò nonostante, non possiamo esimerci dal lamentare qui la grande confusione che certe espressioni della "Dignitatis Humanae" introducono nella dottrina concernente il potere coercitivo della Chiesa sui suoi sudditi.
Perché mai il pensiero di Mons. de Smedt non è stato incluso nel testo conciliare? Questa omissione, già di per sé, in un testo che vuole trattare "ex professo" dell'immunità da coercizione esterna in materia religiosa e che fa l'analisi particolareggiata delle conseguenze di tale immunità, porta naturalmente il lettore a pensare che anche la Chiesa non può esercitare coercizione esterna sui suoi sudditi.
Inoltre, la Dichiarazione difende la "libertà sociale e civile" in materia religiosa (sottotitolo, et passim). Ora, la parola "sociale", nel suo senso comune ed anche tecnico, comprende anche la Chiesa.
Il testo conciliare proclama in termini talmente tassativi ed universali il cosiddetto "diritto", all'immunità da coercizione esterna in materia religiosa, che nella sua sana logica non si vede come conciliarlo con il diritto della Chiesa ad esercitare coercizione sui suoi sudditi (imporre pene, ecc.). Poiché come potrebbe la Chiesa contraddire un diritto che è presentato con tutte le caratteristiche di un diritto naturale?
Nel numero 1 della "Dignitatis Humanae", leggiamo: "Il Sacro Concilio professa pure che questi doveri attingono e vincolano la coscienza degli uomini, e che la verità non si impone che in virtù della stessa verità, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore".
Nel contesto, il senso è chiaro: questi doveri toccano e vincolano soltanto la coscienza. Come può allora la Chiesa, logicamente, imporre pene? E, se prendiamo le parole nel loro senso naturale, come conciliare, per esempio, le pene medicinali imposte dalla Chiesa con il principio secondo il quale " la verità non s'impone se non in forza della stessa verità"?
Siccome questa questione va oltre gli obiettivi che ci siamo prefissi nel presente studio, vogliamo qui soltanto accennarla brevemente, mettendo in risalto il pericolo che ci sarebbe nell’indebolire la dottrina sul potere coercitivo della Chiesa. A questo proposito, Leone XIII ha scritto nell'Enciclica "Libertas": "Altri ammettono di fatto la Chiesa, e non potrebbero non ammetterla: non riconoscono però la natura e i diritti di società perfetta con vero potere di far leggi, giudicare, punire, ma solamente la facoltà di esortare, persuadere, governare, chi spontaneamente e volontariamente le si assoggetta. Con tali idee snaturano l'essenziale concetto di questa divina società, ne restringono ed assottigliano l'autorità, il magistero, l'influenza..."
 
[5] Senza dubbio, diversi Papi hanno messo in relazione la libertà religiosa legittima e onesta con la dignità umana (cfr. Leone XIII, Enc. "Libertas", op. cit., p.202; Lettera Apostolica "Præclara Gratulationis", in La Paix Intérieure des Nations, Solesmes, pp. 215-216; San Pio X, Lett. Ap. "Notre Charge Apostolique", ibidem, pp. 254-263; Pio XI, Enc. " Quas Primas", ibidem, p. 318; Pio XII, radiomessaggio del Natale 1944, ibidem, p. 452; radiomessaggio del Natale 1949, ibidem, p. 549; allocuzione al "Katholikentag" di Vienna, in "Catolicismo" n. 24, dicembre 1952).
 
Tuttavia, questi Papi mai hanno dedotto dalla dignità umana qualsiasi diritto al male o all'errore; al contrario, hanno sempre insegnato che la dignità umana non è negata né violentata quando, nei dovuti casi si reprime il male. Ancora: hanno insegnato che tale repressione del male contribuisce soltanto al perfezionamento degli individui e della società e, perciò, è perfino richiesto dalla dignità umana intesa nel suo senso autentico.
Nel dedurre dalla dignità umana un vero diritto a professare pubblicamente l'errore in materia religiosa, la Dichiarazione del Vaticano II si colloca in posizione diversa da quella dei Papi precedenti. E, dottrinalmente, si mette in una posizione insostenibile per la sana logica, poiché sarebbe concepibile che la dignità umana fondi un diritto al male solo nel caso che essa in qualche modo sia fuori o al di sopra dell'ordine morale.
[6] È il seguente testo dell'Enciclica: «Der gläubige Mensch hat ein unverlierbares Recht, seinen Glauben zu bekennen und in den ihm gemässen Formen zu betätigen. Gesetze, die das Bekenntnis und die Betätigung dieses Glaubens unterdrücken oder erschweren, stehen im Widerspruch mit einem Naturgesetz» (AAS, 1937, p. 160).
Nella versione ufficiale italiana, questo stesso testo dice: "Il credente ha un diritto inalienabile di professare la sua fede e di praticarla in quella forma che ad essa conviene. Quelle leggi, che sopprimono o rendono difficile la professione e la pratica di questa fede, sono in contrasto col diritto naturale" (AAS, 1937, p. 182).
 
[7] Sono queste le parole del Radiomessaggio di Pio XII che figurano nella documentazione presentata al Concilio: vedere l'opuscolo Schema Declarationis de Libertate Religiosa,1965, p. 19.
 
[8] «Hac conducione gignimur, ut generanti nos Deo iusta et debita obsequia praebeamus, hunc solum noverimus, hunc sequarum. Hoc vinculo pietatis obstricti Deo et relegati sumus, unde ipsa religio nomen accepit» (AAS, 1963, pp. 260-261).

Pubblicato da Disputationes Theologicae

 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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09/01/2013 12:30
 
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Benedetto

SCOPRIAMO CHE LA

CHIESA

FU DALL’INIZIO (LA SOLA)

MAESTRA DI TOLLERANZA

 

 

Il problema non è il dialogo. Ma la mancanza di apologetica

Una riflessione documentata e anche storiografica sulla libertà religiosa, l’ecumenismo, il dialogo interreligioso. Su quando nel dialogo la Verità smette di essere la protagonista e protagonisti diventiamo noi, le comparse. Un’analisi di Nostra Aetate e Gaudium et spes, le rubiconde mele “avvelenate” (da qualcuno) della Chiesa contemporanea.

PARAGRAFI

I documenti del Concilio che dovevano unire… dovevano! Concilio, dialogo e libertà religiosa: nulla di nuovo sul fronte tradizionale.
Il macello nasce dal definire “chiese” le comunità protestanti. Ma quando mai i Padri della Chiesa sono stati “antisemiti”?!
Perfido e’ chi dà del perfido al “perfido”. A proposito di “perfidi giudei”. Il “dialogo” e’ con tutti, ma l’ecumenismo e’ fra soli cristiani…
E poi si pensi a Gesù e la prostituta. Manco aveva fatto in tempo a morire Cristo, che comparve il primo Melloni del cristianesimo: quel disgraziato di Marcione. Lo schifo e la vergogna viene da noi cristiani, non dalle “altre religioni”.
E Gregorio Magno insegna la tolleranza religiosa. Lutero: se si convertono, bene; altrimenti, vadano a morì ammazzati!
Lutero, il maestro dell’intolleranza religiosa. La Chiesa dai tempi apostolici era stata maestra di tolleranza… peccato che Lutero e progressisti se ne erano scordati. Quel “volemose bbene a tutti i costi” che fa male all’ecumenismo.
La Chiesa: debitrice di tutti, salda il debito evangelizzando. Il dialogo e’ ok quando si intende “disputa”; non relazione fine a se stessa con l’altro. La missione della correzione fraterna

 

 

 

 

RITAGLI

E allora, cosa c’è di sbagliato in Nostra Aetate o Gaudium et spes? Nulla, almeno a riguardo delle intenzioni. Se il dialogo non funziona e la gente non si converte, non è colpa di questo, ma di come viene impostato; dipende da noi aver abbandonato la dottrina cristiana: l’aborto, il divorzio, l’orgoglio gay, l’eutanasia, la genetica incontrollata, ecc… non l’hanno mica pretesi come legge “le altre religioni” ma noi, noi che ci dicevamo cristiani! Questo è lo scandalo e l’infruttuosità del dialogo.

Ciò che ci interessa è il Magistero ufficiale della Chiesa e ciò che ha insegnato fin dal primo secolo: la tolleranza della libertà religiosa. Senza dubbio sollecitava ad un impegno costante per la predicazione del Divin Verbo affinché queste “genti” potessero alla fine conoscere Gesù, Verità Incarnata.

Ciò che accadde dopo il Concilio Vaticano II è ben diverso: si presentò la tolleranza e la libertà per le altrui convinzioni religiose come un insegnamento “nuovo” e, con questa interpretazione, si giunse al sincretismo religioso, dimenticando la sollecitazione ad essere cristiani, a testimoniarlo e a predicarlo. In una parola, si staccò questa tolleranza religiosa dal dovere di predicare e testimoniare Cristo; si tenne esclusivamente il dialogo, dimenticando i doveri del battezzato. Questo, però, non fu mai chiesto dal Concilio, né è richiesto dai suoi documenti!

Il vero dramma del nostro tempo non è il “dialogo” in sé ma l’assenza dell’apologetica, l’assenza della conoscenza della fede che diciamo di professare e l’avanzare delle proprie opinioni, delle proprie interpretazioni, del proprio individualismo.

 

 

 

 

di Tea Lancellotti da papalepapale.com

 

 

I DOCUMENTI DEL CONCILIO CHE DOVEVANO UNIRE. DOVEVANO…

Giovanni Paolo II, nel discorso al Sacro Collegio del 23 dicembre 1982, in occasione della VI Assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese disse: «Celebrando la Redenzione andiamo al di là delle incomprensioni e delle controversie contingenti per ritrovarci nel fondo comune al nostro essere cristiani». Questo, in sintesi, è uno dei pilastri dei nuovi cambiamenti voluti dal Concilio Vaticano II: guardando al Cristo che diciamo di credere e predicare è indispensabile, in questo tempo, andare oltre le incomprensioni e le controversie e ritrovarci, ripartire, da quel fondo comune al nostro essere cristiani, ossia di Cristo. Non si tratta di perseguire “esclusivamente” quel quid che ci unisce, quanto piuttosto, superate le diffidenze maturate nel corso della storia soprattutto per questioni politiche, perseguire anche altre strade fra le quali quella del “ciò che ci unisce”, una strada effettivamente mai percorsa prima dalla Chiesa, ma non per questo illegittima. Questa è l’unica novità autentica del Concilio! L’errore fondamentale che è stato fatto è quello di aver pensato o addirittura pensato di insegnare una “nuova dottrina” e dunque una “nuova Chiesa”.

 

CONCILIO, DIALOGO E LIBERTÀ RELIGIOSA: NULLA DI NUOVO SUL FRONTE TRADIZIONALE

Paolo VI apre una sessione del Concilio

Con questo piccolo lavoro dimostreremo che non è così. Non c’è nessuna “nuova” dottrina: piuttosto la novità del percorrere una strada che la Chiesa avrebbe già dovuto intraprendere ma che, per motivi storici ed altro, non poté perseguire.

Questo aspetto legittimo della Chiesa ha tuttavia dato origine anche alle false interpretazioni, fino a giungere spesso a dei pericolosi sincretismi o a porre la Chiesa sullo stesso piano delle altre comunità non cattoliche o, persino, sullo stesso piano delle altre religioni.

Per rispondere adeguatamente alle tante domande sull’argomento, è fondamentale partire da questa affermazione ufficiale: il 29.6.2007 la Congregazione per la Dottrina della Fede ha espresso per volere del santo padre Benedetto XVI una Dichiarazione che chiarisse, una volta per tutte, la situazione dottrinale e magisteriale della Chiesa e per una corretta applicazione del Concilio Vaticano II. Cinque risposte a cinque quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina cattolica sulla Chiesa. Rileggiamo quello che maggiormente interessa noi riguardo all’argomento trattato.

Primo quesito: “Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha forse cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa?

Risposta: Il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente.

Proprio questo affermò con estrema chiarezza Giovanni XXIII all’inizio del Concilio. Paolo VI lo ribadì e così si espresse nell’atto di promulgazione della Costituzione Lumen Gentium: “E migliore commento sembra non potersi fare che dicendo che questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo noi pure. Ciò che era, resta. Ciò che la Chiesa per secoli insegnò, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito; ciò che era meditato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione”. I Vescovi ripetutamente manifestarono e vollero attuare questa intenzione”

 

IL CASINO NASCE DAL DEFINIRE “CHIESE” LE COMUNITÀ PROTESTANTI

Benedetto XVI predica ai seguaci di Lutero dal pulpito (loro non li hanno abbattuti come ha fatto certa pretaglia cattolica dopo il concilio) di un luogo di culto luterano in Germania

Se molti che vogliono percorrere il cammino ecumenico si ostinano nel definire “chiese” quelle che non lo sono, ossia tutte le comunità protestanti, non è colpa del Concilio. Anche in questo caso, infatti, il documento fa luce:

Quinto quesito: Perché i testi del Concilio e del Magistero successivo non attribuiscono il titolo di “Chiesa” alle Comunità cristiane nate dalla Riforma del 16° secolo ?

Risposta:

Perché, secondo la dottrina cattolica, queste Comunità non hanno la successione apostolica nel sacramento dell’Ordine, e perciò sono prive di un elemento costitutivo

essenziale dell’essere Chiesa. Le suddette Comunità ecclesiali, che, specialmente a causa della mancanza del sacerdozio ministeriale, non hanno conservato la genuina e integra sostanza del Mistero eucaristico, non possono, secondo la dottrina cattolica, essere chiamate “Chiese” in senso proprio”

Eppure dobbiamo tristemente costatare che non pochi Pastori definiscono “chiese” queste comunità, ma, ripetiamo, la colpa non è del Concilio: è di chi si ostina ancora ad imporre le proprie opinioni, anche sottoforma a volte di messaggi pastorali nei quali si usa il termine “chiesa” senza tenere a mente queste precisazioni. E quel che è più triste è che molti sostengono l’errore che fanno volontariamente in nome “del Concilio”.

 

MA QUANDO MAI I PADRI DELLA CHIESA SONO STATI “ANTISEMITI”!

Vogliamo specificare che “noi”, che qui tentiamo di sviscerare l’argomento senza pretendere di dare risposte definitive, ci riteniamo un pò nel mezzo, con il Papa, in un difficile equilibrio fra i due estremi, catalogati oramai come progressisti da una parte e fondamentalisti (tradizionalisti) dall’altra: una posizione anch’essa scomoda perché facilmente attaccabile da entrambi gli estremi. Ma che è anche l’unica postazione che riteniamo plausibile, ossia “con il Papa”, fiduciosi nelle scelte che compie anche quando non le comprendiamo pienamente. Questo non esclude una serie di analisi e continui approfondimenti degli argomenti che, al di là di chi ha torto o ragione, ci coinvolgono tutti, perché interessano tutta la Chiesa e hanno ripercussioni sul mondo intero. Dunque, a certi gruppi troppo “tradizionalisti” (leggasi fondamentalisti) così come a chi soffia sul falso “spirito del Concilio” (leggasi progressisti) per alimentarlo, vogliamo ricordare in breve il pensiero della Chiesa in duemila anni di storia.

I Padri della Chiesa, memori di questo passo: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17), i Padri, dicevo, sono sempre stati consapevoli che compito della Chiesa non è mai stato quello di vietare (a parte il peccato) agli altri di professare il proprio credo, quanto quello di portare al mondo la conoscenza di questo compimento e della venuta del Messia. Così come è assurdo attribuire, oggi, ai Padri della Chiesa l’accusa di antisemitismo, quando essi non intervenivano mai sulla razza in quanto tale ma sul rifiuto di accogliere il Messia. C’è, pertanto, una bella differenza!

 

PERFIDO E’ CHI DÀ DEL PERFIDO AL “PERFIDO”. A PROPOSITO DI “PERFIDI GIUDEI”

Eugenio Zolli, il rabbino che si “arrese a Cristo”

Un esempio concreto è il termine “perfidi”… a proposito di “perfidi giudei”. Leggiamo questo passo:

598. La Chiesa, nel magistero della sua fede e nella testimonianza dei suoi santi, non ha mai dimenticato che ” ogni singolo peccatore è realmente causa e strumento delle [...] sofferenze ” del divino Redentore. (434) Tenendo conto del fatto che i nostri peccati offendono Cristo stesso, (435) la Chiesa non esita ad imputare ai cristiani la responsabilità più grave nel supplizio di Gesù, responsabilità che troppo spesso essi hanno fatto ricadere unicamente sugli Ebrei:” È chiaro che più gravemente colpevoli sono coloro che più spesso ricadono nel peccato. Se infatti le nostre colpe hanno condotto Cristo al supplizio della croce, coloro che si immergono nell’iniquità crocifiggono nuovamente, per quanto sta in loro, il Figlio di Dio e lo scherniscono con un delitto ben più grave in loro che non negli Ebrei. Questi infatti – afferma san Paolo – se lo avessero conosciuto, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria (1 Cor 2,8). Noi cristiani, invece, pur confessando di conoscerlo, di fatto lo rinneghiamo con le nostre opere e leviamo contro di lui le nostre mani violente e peccatrici “.

Qualcuno potrebbe pensare che si tratta del Concilio o del Catechismo. In effetti è così: ma non appartengono al Vaticano II o all’ultimo Catechismo della Chiesa Cattolica. Queste parole sono del Concilio di Trento, in particolar modo arrivano dal Catechismo Tridentino. Sorprendente vero? Dov’è l’accusa di “deicidio”? Al contrario, già in quel concilio, la Chiesa aveva chiarito la situazione. Rimaneva solo da spiegare il termine “perfidi”: cosa volevano intendere i Padri con questo vocabolo?

Per comprenderlo, occorre far presente che il significato dei termini è cambiato da quando vennero usati con la loro etimologia originaria. Così, un autentico apologeta, oggi, si sforza di ricercare il significato delle parole e, in base a questo, prova a comprendere cosa intendessero dire i Padri ai loro tempi.

Nel suo libro su Pio XII del 2001 Andrea Tornielli chiarisce il qui pro quo con una limpidezza che è saggio riportare:

Come tutti i filologi sanno, il termine perfidi in latino ha soltanto il significato di “miscredenti”, riferito a coloro che non vogliono accettare la fede cristiana. Nessuno ha mai detto “perfido” ad un giudeo, nel termine che si traduce oggi. Gli dicevano “perfidus”, cioè “che non crede” nella seconda Persona della Santissima Trinità. Infatti i giudei non credono nella seconda Persona della Santissima Trinità. Ma con l’introduzione dei messalini in lingua volgare e le traduzioni, quel perfidi latino si era trasformato nell’inglese perfidious, nel francese perfide, nel tedesco treulos, nell’olandese trouweloos, nell’italiano perfidi

Da una constatazione si era cioè passati a una condanna morale.

Eugenio Zolli (il Rabbino di Roma, amico di Pio XII che poi si convertì alla Chiesa richiedendo egli stesso come dono il nome di Eugenio) chiese a Pio XII di cancellare l’espressione. Il Papa rispose che il significato della parola latina non conteneva un giudizio morale, ma soltanto la constatazione che i giudei rifiutano la fede cristiana ed erano dunque infedeli. Ma fece fare una precisazione sull’argomento dalla Sacra Congregazione dei Riti, pubblicata il 10 giugno 1948. Dunque i perfidi Judaei erano soltanto i giudei infedeli e non perfidi.

L’espressione sarà definitivamente abolita da Giovanni XXIII. Oggi nella liturgia del Venerdì Santo i cristiani pregano soltanto “per gli Ebrei”, senza l’aggiunta di aggettivi”.

 

IL “DIALOGO” E’ CON TUTTI. MA L’ECUMENISMO E’ FRA SOLI CRISTIANI. E POI SI PENSI A GESÙ E LA PROSTITUTA…

Un esempio di follia e sclerosi senile che da decenni sta devastando l’ordine francescano in ogni latidine della terra: qui un manifesto di aperto e orgoglioso sincretismo di una famiglia di suore francescane missionarie che osano ancora “richiamarsi a santa Chiara”

Questo viene detto riguardo all’Ebraismo. E riguardo alle altre Religioni? Differenze sostanziali non ce ne sono. Si parla, infatti, di dialogo “interreligioso” nei confronti di tutte le “religioni” non cristiane, mentre si parla di “ecumenismo” per il dialogo fra cristiani separati, ossia solo fra coloro che credono in qualche modo nella Santissima Trinità, nell’Incarnazione di Dio e nella Sua Morte e Risurrezione, ma che tuttavia non sono nella Chiesa.Infine, si parla oggi anche di “cortile dei gentili”, con attenzione all’insegnamento paolino, per intrattenere un dialogo franco e sincero nei riguardi di chi cerca ancora un “Dio”, oseremo dire “gli atei aperti, devoti”.

Nostra Aetate parte da un incrocio irrinunciabile: la Chiesa, Nuovo Testamento, e Israele, l’Antico Testamento, sono inseparabili. Nel bene o nel male i nostri destini sono legati. Gesù è ebreo; Maria, sua Madre, è ebrea; la genealogia descritta da Matteo lega Giuseppe alla discendenza del re Davide al quale è unita indissolubilmente tutta la storia della Salvezza. Perciò non possiamo essere antisemiti: sarebbe una contraddizione in termini ed una contraddizione teologica. Al tempo stesso, non temiamo alcun confronto, non temiamo alcun dialogo, non temiamo alcuna religione. Di conseguenza, il rispetto e il dialogo non possono fare altro che aumentare la stima verso la Verità, verso Gesù Signore se coloro che si dicono cattolici sanno essere veri testimoni.

Gesù assume su di sé il sacerdozio regale; mantiene il sacrificio diventando Egli stesso il Sacrificio “unico e perfetto” a Dio gradito; Gesù così completa la Legge, rompe ogni schiavitù e la Legge diventa dono e regola di salvezza, non già di terrore. Un esempio concreto è il passo evangelico sulla donna adultera che stava per essere lapidata: Gesù non abolisce la Legge, ma la supera facendo leva sulla dignità della vita umana, richiamando i suoi giudici alle coscienze e al perdono, quando questi vengono chiamati a lanciare la loro pietra se si fossero ritenuti, in coscienza, senza peccato. Alla donna, dopo averle confermato il perdono, Gesù rivolge il suo paterno monito: “và e non peccare più!”. Dunque, in un breve dialogo, il Signore non mette da parte la legge o la dottrina, ma la vive, la mette al confronto con le coscienze di tutti i presenti, lascia decidere a loro; alla donna fa vedere il volto misericordioso di Dio, senza rinunciare ad ammonirla per evitare che cada di nuovo nel peccato.

Questa è la vera base per ogni autentico dialogo con i non cattolici o con gli atei.

Nostra Aetate e la Gaudium et spes, partendo dal Concilio, si irradiano nel mondo con queste intenzioni, ma senza dubbio tra il dire e il fare qualcosa è andato storto ed oggi, questi due testi sono quelli che maggiormente dividono all’interno della Chiesa.

 

MANCO AVEVA FATTO IN TEMPO A MORIRE CRISTO, CHE COMPARVE IL PRIMO MELLONI DEL CRISTIANESIMO: QUEL DISGRAZIATO DI MARCIONE

Qualcuno in Occidente sta barando: la Chiesa di Cristo è disarmata. Molto meno disarmati sono islamici e occidentali ormai senza alcuna fede

Riguardo agli Ebrei, occorre dire che la famosa Diaspora non comincia con l’avvento del Cristo né per colpa dei cristiani: essa era già iniziata secoli prima dell’Incarnazione di Dio. La stessa distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. non è attribuibile ai Cristiani: il Tempio subì la distruzione qualche decennio dopo la morte in croce del “Sacerdote regale ed unico”. Dalla morte di Gesù cambia tutto: da qui inizia il cammino della Chiesa con Gesù quale Sacerdote attraverso i “suoi”, attraverso coloro che lo accoglieranno senza più distinzione fra razza, popolo, lingua o nazione; da qui crollano tutte le frontiere; da qui si avvia il nuovo popolo redento; da qui nascono anche molte incomprensioni, ma nasce e si sviluppa l’apologetica, gli scritti dei Padri della Chiesa, ecc.; da qui nasce e si sviluppa l’insegnamento della dignità umana e della sua libertà che ha in Cristo la massima espressione.

I Padri della Chiesa hanno sempre sostenuto strenuamente che è lo stesso Dio vivente che parla a tutti noi nell’Antico come nel Nuovo Testamento, cominciando a condannare Marcione quando nell’anno 100 voleva separare l’Antico dal Nuovo Testamento vedendo nei due testi due divinità contrapposte…

Ricordando che il precetto fondamentale del cristianesimo è quello dell’amore di Dio verso il prossimo, promulgato già nell’Antico Testamento e confermato da Gesù, è del tutto normale e legittimo che questo obbliga cristiani ed ebrei, o persone di altre religioni, in ogni relazione umana senza eccezione alcuna. Dice Nostra Aetate: “I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra, hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti finché gli eletti saranno riuniti nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce. (..) La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è « via, verità e vita » (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose. (NOTA DELL’AUTRICE: basti pensare che l’Incarnazione di Dio, l’avvento del Messia, non avvenne solo per gli ebrei o solo per i cristiani, ma per tutto il genere umano e fin anche per la natura stessa che, come ci rammenta san Paolo “soffre a causa del Peccato e attende la redenzione”).

Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi.”



[SM=g1740771]  continua.......

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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09/01/2013 12:32
 
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[SM=g1740758] segue da sopra

LO SCHIFO E LA VERGOGNA VIENE DA NOI CRISTIANI, NON DALLE “ALTRE RELIGIONI”. E GREGORIO MAGNO INSEGNA LA TOLLERANZA RELIGIOSA

E allora, cosa c’è di sbagliato in Nostra Aetate o Gaudium et spes? Nulla, almeno a riguardo delle intenzioni. Se il dialogo non funziona e la gente non si converte, non è colpa di questo, ma di come viene impostato; dipende da noi aver abbandonato la dottrina cristiana: l’aborto, il divorzio, l’orgoglio gay, l’eutanasia, la genetica incontrollata, ecc… non l’hanno mica pretesi come legge “le altre religioni” ma noi, noi che ci dicevamo cristiani! Questo è lo scandalo e l’infruttuosità del dialogo.

Leggiamo san Gregorio Magno, che fu anche papa (590 – 604), cosa scrisse nella lettera “Qui sincera” al vescovo Pascasio di Napoli, nov. 602: “Tolleranza dell’altrui convinzione religiosa. Coloro che con sincera intenzione desiderano portare alla retta fede quanti sono lontani dalla religione cristiana, debbono provvedere con (parole) attraenti, e non aspre, che un sentire ostile non allontani coloro la cui mente avrebbe potuto essere stimolata dall’adduzione di una chiara motivazione. Infatti chiunque agisca diversamente e li voglia con questo pretesto allontanare dal culto consueto del loro rito, dimostra di impegnarsi maggiormente per i propri interessi che per quelli di Dio.

“Alcuni giudei appunto, che abitano a Napoli, si sono lamentati presso di Noi, asserendo che qualcuno si sforza irrazionalmente di impedire loro la celebrazione di alcune loro feste, che ad essi (cioè) non sia permesso di celebrare le loro feste come finora a loro e in tempo lontano addietro ai loro antenati era lecito osservare e celebrare. Se la verità sta in questo modo, evidentemente prestano opera per una causa totalmente inutile. Infatti che cosa porta di utilità impedire un’antica usanza, se ciò a loro non giova nulla per la fede e la conversione? O perché stabilire per i giudei regole come debbano celebrare le loro festività, se con ciò non possiamo guadagnarli (alla fede)? Si deve perciò piuttosto agire in modo che, provocati dalla ragione e dalla mansuetudine, vogliano seguirci, non fuggire, affinché, mostrando loro dai loro Scritti ciò che noi affermiamo, li possiamo con l’aiuto di Dio convertire (portandoli) nel grembo della madre chiesa.

“Perciò la tua fraternità, per quanto con l’aiuto di Dio potrà, li sproni con moniti alla conversione e non permetta che vengano di nuovo disturbati per via delle loro festività, ma abbiano la libera concessione di osservare e di celebrare tutte le loro ricorrenze e feste, come finora hanno fatto.”

La lettera ci racconta un episodio grave dal quale emerge che i giudei confidavano nell’aiuto del Pontefice e conoscevano i loro diritti a tal punto da andare dal Papa per lamentarsi del fatto che tali diritti non erano rispettati, e il Papa li difende: difende la libertà religiosa! Ed è bene ricordare che, in Spagna, i Mori, dopo le svariate lotte, andavano d’accordo con gli ebrei e i cristiani e che la prima traduzione della Bibbia in arabo avviene in Spagna”.

Esiste anche un’altro documento antico che appoggia e sostiene Nostra Aetate ed è di papa Alessandro II (1061 – 1073), la lettera “Licet ex” al principe Landolfo di Benevento, scritta nel 1065, e che richiama la lettera di san Gregorio Magno:

“Quantunque noi non dubitiamo affatto che proceda dal fervore della pietà il tuo nobile proposito di condurre i giudei al culto della cristianità, tuttavia poiché sembra che tu lo faccia con disordinato fervore, abbiamo ritenuto necessario indirizzarti la nostra lettera a modo di ammonizione.

“Si legge, infatti, che il Signore nostro Gesù Cristo non ha ridotto con la violenza nessuno al suo servizio, ma con l’umile esortazione, avendo lasciato a ciascuno la libertà del proprio arbitrio, non giudicando ma effondendo ilproprio sangue, hadistolto dall’errore tutti coloro che ha predestinato alla vita eterna. Così pure il beato Gregorio in una sua lettera proibisce che questo stesso popolo sia condotto alla fede con la violenza”.

(Se volete approfondire, alla Redazione Papalepapale potete chiedere anche la versione originale, scritta in latino).

 

LUTERO: SE SI CONVERTONO, BENE; ALTRIMENTI, VADANO A MORÌ AMMAZZATI! IL MAESTRO DELL’INTOLLERANZA RELIGIOSA

Lutero inchioda le sue famigerate “95 tesi” sul portone della Chiesa di Wittemberg. Ignaro che stava per essere strumentalizzato e prossimo a diventare un eresiarca. Infatti, quella di attaccare “tesi” sulle porte delle chiese era un consolidato uso tutto accademico fra professori (o studenti) di teologia, che davano il via a “disputatio” fra dissimili tesi teologiche, nei campi della teologia aperti alla speculazione. Lutero voleva limitarsi a fare questo: il diavolo, invece ci mise la coda. Successivamente accetto di vendergli l’anima. Per orgoglio, vigliaccheria e convenienza.

Che cosa è accaduto dunque, perché l’ultimo Concilio presentasse questo progetto della Chiesa come se fosse “nuovo”, alimentando, di conseguenza, quella rottura con la tradizione vera della Chiesa?

I veri persecutori erano i protestanti: non è una cattiveria ma una constatazione. Purtroppo, venne a crearsi una forte chiusura anche da parte della Chiesa dopo il disastro della Riforma. Leggiamo un passo della Lettera di Martin Lutero, una citazione lunga e dolorosa, ma necessaria:

Ammonimento ai Giudei (15 febbraio 1546): “(..) Per di più nella vostra regione avete ancora Giudei, che fanno gravi danni. Ora vogliamo comportarci con loro cristianamente e offrire la fede cristiana, perché vogliano accettare il Messia, che è pur sempre loro consanguineo: nato dalla loro carne, dal loro sangue e vera stirpe di Abramo, di cui si vantano, anche se io temo che il sangue giudeo sia ormai diventato acquoso e inquinato. Questo dovete offrire loro e cioè che si vogliano convertire al Messia e si facciano battezzare, dimostrando così la loro serietà: se non si comportano così non dobbiamo tollerarli. E’ Cristo che ci ordina di farci battezzare e di credere in Lui. E se ora non riusciamo a credere con fermezza come dovremmo, Dio avrà tuttavia pazienza con noi.

“Ora invece con i Giudei accade che essi bestemmiano e oltraggiano ogni giorno il nostro Signore Gesù. Intanto lo fanno e noi sappiamo che non possiamo sopportare ciò. Infatti se tollero chi oltraggia, bestemmia e maledice il mio Signore Cristo, mi rendo partecipe di peccati altrui, mentre ne ho a sufficienza dei miei. Quindi, o miei Signori, non dovreste tollerarli, ma espellerli. Se però i Giudei si convertono, lasciano la loro usura e accettano Cristo, dobbiamo considerarli nostri fratelli.

(..) In altra maniera non andrà, poiché la fanno troppo grossa.

“Sono i nostri pubblici nemici, non la smettono di bestemmiare il nostro Signore Gesù Cristo, chiamano puttana la Vergine Maria e Cristo figlio di puttana e li chiamano mostri, bastardi. E se potessero ucciderci tutti, lo farebbero volentieri, anzi lo fanno spesso, specialmente quelli che si spacciano per medici – anche se ogni tanto aiutano – poiché alla fine il diavolo aiuta a mettere il sigillo. Così i Giudei conoscono anche la medicina che viene praticata nella terra di Roma; i Welschen, gl’italiani, sanno bene come si produce un veleno che fa morire in un’ora, un mese, un anno: l’arte la conoscono. Siate dunque decisi con loro, poiché non sanno fare altro che bestemmiare il nostro amato Signore Gesù Cristo in modo mostruoso e vogliono privarci del nostro corpo, della nostra vita, del nostro onore e dei nostri beni.

Ciò nonostante vogliamo esprimere loro l’amore cristiano e pregare per loro, che si convertano, accettino il Signore, che dovrebbero onorare davanti a noi.

Chi non vuole fare questo, è indubbiamente un malvagio giudeo, che non smetterà di bestemmiare Cristo, di approfittare di te e, dove può, di uccidere. “

 

LA CHIESA DAI TEMPI APOSTOLICI ERA STATA MAESTRA DI TOLLERANZA. PECCATO CHE LUTERO E PROGRESSISTI SE NE ERANO SCORDATI…

Un conato modaiolo di buonismo sincretista. Che è insieme falsa e violenta “bontà”, falsa tolleranza, falso dialogo e vera confusione principio di ogni futura eresia con regolamento di conti finale. Perchè parte dal deicidio come presupposto. Ossia la negazione della Verità, che invece dovrebbe essere la base di ogni “dialogo”.

Tolto qualche termine forte che suona quasi come una bestemmia e per il quale ci scusiamo, ma questa è la realtà, ci sembra di leggere una lettera “fondamentalista”. Come possiamo ben verificare, il Magistero ufficiale della Chiesa aveva già insegnato “Nostra Aetate” con san Gregorio Magno, mentre il protestantesimo di Lutero insegnava l’intolleranza religiosa. Vi abbiamo portato come esempio due lettere, due modi diversi di intendere il cristianesimo e il rapporto con i non cattolici: il primo è quello autentico ed insegna la tolleranza religiosa e il rispetto dei non cattolici; il secondo, senza dubbio, è falso! Altra cosa poi sono stati i comportamenti dei singoli nella Chiesa ma per questi non spetta a noi giudicare. Inoltre solo la Chiesa Cattolica ha fatto un mea culpa per i comportamenti “dei suoi figli”, mentre ancora nulla è arrivato dalle altre comunità non cattoliche, in primis i luterani!

Ciò che ci interessa è il Magistero ufficiale della Chiesa e ciò che ha insegnato fin dal primo secolo: la tolleranza della libertà religiosa. Senza dubbio sollecitava ad un impegno costante per la predicazione del Divin Verbo affinché queste “genti” – che di fatto avevano un animo sensibile, rivolto al soprannaturale, tollerate nel rispetto delle proprie usanze religiose e della propria cultura, a meno che non fosse offensiva ed irriguardosa nei confronti di Dio – affinchè queste genti, dicevo, potessero alla fine conoscere Gesù, Verità Incarnata.

Ciò che accadde dopo il Concilio Vaticano II è ben diverso: si presentò la tolleranza e la libertà per le altrui convinzioni religiose come un insegnamento “nuovo” e, con questa interpretazione, si giunse al sincretismo religioso, dimenticando la sollecitazione ad essere cristiani, a testimoniarlo e a predicarlo. In una parola, si staccò questa tolleranza religiosa dal dovere di predicare e testimoniare Cristo; si tenne esclusivamente il dialogo, dimenticando i doveri del battezzato. Questo, però, non fu mai chiesto dal Concilio, né è richiesto dai suoi documenti!

 

QUEL “VOLEMOSE BBENE A TUTTI I COSTI” CHE FA MALE ALL’ECUMENISMO

Fu un errore. Uno dei tanti “gesti” arbitrari di un pontificato lunghissimo, provvidenziale e controverso

Va sottolineato che una certa spinta ecumenica è falsa ed è quella che si fonda sul “volemose bene a tutti i costi” e sul sincretismo religioso; è quella, tanto per intenderci, che nel suo nome fece arrivare “li boni frati” a prestare l’altare di santa Chiara per far sgozzare un pollo per un rito religioso, ma – lo ribadisco – non è questo che voleva Nostra Aetate, né è quello che si proponeva di insegnare. La vera difficoltà nel comprendere correttamente certe aperture avvenute nel Concilio sta nel fatto che queste sono avvenute attraverso delle applicazioni abusive, in nome della “nuova” pastorale imposta nelle parrocchie. Imposta, pertanto, ai fedeli che di colpo si sono ritrovati, senza preparazione alcuna, ad una svolta tutta nuova quando, in verità, di nuovo non c’era nulla in sé, ma tutto andava precisato, andava ripreso spiegando più approfonditamente il Concilio di Trento (questo, per esempio, nella Nostra Aetate non viene mai citato, mentre lo stesso Concilio viene citato 5 volte nel documento Sacrosanctum Concilium in difesa della Liturgia e della lingua latina: eppure come ben sappiamo, anche queste citazioni non furono sufficienti per proteggere la Messa dalle derive che abbiamo vissuto e che ancora oggi devastano le anime dei fedeli).

E, allora, come si esercita l’ecumenismo attraverso i documenti del Concilio?

L’ecumenismo cattolico avviene tramite l’insegnamento. Non si scappa: la Chiesa è Mater et Magistra come dice l’enciclica, dimenticata, del beato Giovanni XXIII.

Il primo compito della Chiesa è di insegnare la fede: la Chiesa è in possesso della fede che è la Verità assoluta ed immutabile e deve insegnarla agli altri per la loro salvezza. Così rammenta uno dei quesiti riportati sopra dalla CdF: “… Ciò che era, resta. Ciò che la Chiesa per secoli insegnò, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito…”.

Dunque, per essere salvati, tutti gli uomini, nessuno escluso, devono conoscere Dio con la fede e amarlo con la carità (di per Se Stesso e tramite il prossimo), per glorificarlo quaggiù e in cielo, e per salvare le loro anime.

Non c’è altra via d’uscita, non ci sono “altre religioni” che possono salvare gli uomini, ma esistono le “vie straordinarie”. In un testo catechetico del 1886, con imprimatur, si spiega quanto segue: “Quando la Chiesa insegna questa Salvezza non intese mai dire che tutti gli altri che non appartengono alla Chiesa siano come eternamente dannati o perduti… ma solamente dice che la sola Chiesa di Gesù Cristo ha la potenza di condurre gli uomini alla certezza della salvezza. I mezzi per conseguire l’eterna salute sono quelli ordinari, ma anche quelli straordinari: i mezzi ordinari sono nelle mani della Chiesa e sono i suoi Divini Sacramenti, quelli straordinari sono nelle mani di Dio e sono quelli che la Chiesa definisce “strade misteriose che conducono a Dio”, tuttavia anche i mezzi straordinari si muovono in modo ordinato che ha nella Divina Eucaristia, la Santa Messa, il suo principio motore, e poi le Preghiere della Chiesa e dei fedeli, specialmente il santo Rosario. E scrive Sant’Agostino: “L’uomo non può aver salute se non nella Chiesa Cattolica. Fuori della Chiesa può trovare tutto, tranne la salute: può avere autorità, può anche possedere il Vangelo, può tenere e predicare la fede col nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, ma in nessun luogo, se non nella Chiesa potrà trovare salvezza” (Sermone ad Caesariens. Eccl. prebem. n.6).

 

LA CHIESA: DEBITRICE DI TUTTI, SALDA IL DEBITO EVANGELIZZANDO

Un po’ di confusione qualche, anno fa

Sempre da questo testo catechetico, per nulla superato, trattandosi di insegnamento di dommatica, leggiamo:

In cosa consiste la Missione della Chiesa?

La Bibbia e la Tradizione abbisognano d’essere interpretate, sì, anche la Tradizione ha bisogno di essere interpretata nel corso dei secoli, capita ed esposta sempre più chiaramente come la Sacra Scrittura: la prima missione di farlo spetta esclusivamente alla Chiesa docente la quale, per l’indeficiente assistenza dello Spirito Santo possiede in seno la Parola viva di Dio rivelante Sé Stesso, e che definiamo Tradizione viva della Chiesa, e derivando il Vero rivelato dalla Scrittura e dai Padri, ne determina il senso, l’unico vero senso, spiegato e sviluppato, e così nel tempo lo spiega e lo sviluppa, lo soddisfa ai bisogni intellettuali del tempo.

Ma se il Divin Redentore sottrasse la fede al giudizio dei dotti, non è perciò che la scienza non concorda anch’essa come fonte ausiliare allo sviluppo delle discipline teologiche. Il pontefice Gregorio XVI, infatti, come condannò gli Ermesiani che troppo concedevano all’umana ragione, così condannò del pari il sistema dell’Abbé Bautin (1836) secondo il quale, la umana ragione, sarebbe incapace di conoscere alcuna verità religiosa che a lei dalla Tradizione non sia derivata, ossia, la pretesa del “tradizionalismo”.

E’ bene insegnare soprattutto ai giovani e a quanti si dedicano all’insegnamento di materia religiosa, che la Chiesa Cattolica, fondata per tutti i tempi e per tutte le Nazioni, sa di essere “debitrice” ai popoli civili ed anche ai barbari, alle persone dotte, quanto a quelle ignoranti, come insegna l’Apostolo Paolo ai Romani 1,14-15 “Graecis ac barbaris, sapientibus et insipientibus debitor sum. Itaque, quod in me est, promptus sum et vobis, qui Romae estis, evangelizare. / Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma”.

E’ pertanto la Chiesa stessa a favorire lo studio delle discipline teologiche, nella Sua Missione c’è la predicazione del santo Vangelo per sollecitare la Fede, quanto la sollecitazione ad impegnar la ragione rispettando l’evolversi delle dispute, tollerando le diversità delle opinioni altrui, favorendo un clima di libertà intellettuale, Essa non interviene che allora, quando vede compromessa la purità della fede, quando vede che i Dogmi sono minacciati, quando si vede costretta a farlo per proteggere il Depositum Fidei.

Quindi la missione della Chiesa è evangelizzare ai popoli tutti l’annuncio del santo Vangelo, nel quale rientra tutta la Dottrina dei Sacramenti e la Legge della Chiesa, e al tempo stesso guidare e condurre i popoli non solo con la fede ma anche con la ragione, ossia, sviluppando e favorendo le dispute. Si ammonisce solo che entrambe le missioni della Chiesa, siano contestualizzate in una sola grande Missione e del suo unico scopo e fine: conoscere il Sommo Bene e il Cristo Signore affinché tutti i popoli Lo accolgano e si lascino Battezzare, perseguendo la via del bene e il suo fine ultimo: “Fur non venit, nisi ut furetur et mactet et perdat; ego veni, ut vitam habeant et abundantius habeant. / Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. ” (Gv.10,10)

 

IL DIALOGO E’ OK QUANDO SI INTENDE “DISPUTA”. NON RELAZIONE FINE A SE STESSA CON L’ALTRO. LA VERITÀ DEVE ESSERE PROTAGONISTA NON NOI

Papa Alessandro VIII Ottoboni, regnò a fine ’600, per circa un biennio, essendo stato eletto ormai ottuagenario

Possiamo dire che fonte autentica di un sano ecumenismo non è tanto il “dialogo” quanto “le dispute” che, condotte con rispetto reciproco, non possono che dare spazio alla Verità (che nel nostro caso non è una religione culturale o una filosofia ma è la Persona, Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo) la quale, essendo appunto Dio, si farà strada facendosi conoscere.

Oggi invece, il concetto di dialogo viene inteso come una specie di relazione reciproca con l’altro, dove, in un tipo di processo senza fine, ognuno rimane nelle sue convinzioni, in ricerca di una verità elusiva o mutabile, magari raggiungibile con dei compromessi, di recente condannati espressamente da Benedetto XVI. Una ricerca che penalizza, però, quella sola Verità, considerata come meno importante del dialogo stesso o dell’amore che lo costituisce. Per valutare questo concetto di dialogo, bisogna spiegare che la santa Chiesa Cattolica ha ricevuto la verità da Dio stesso che è la Verità tutta intera. Nostro Signore Gesù Cristo disse: “Io vi manderò lo Spirito della verità, che vi condurrà alla verità intera”. Questa verità è la Verità sovrannaturale, il contenuto della fede, la Verità assoluta e immutabile: più stabile della terra, delle stelle, della luna, e persino del sole, perché “il cielo e la terra passeranno ma – dice il Signore – le mie parole non passeranno”.

Le parole del Signore, le verità della fede, sono immutabili e non cambieranno: neanche uno jota cambierà, e nessun uomo di Chiesa, nessun Concilio ha il potere di cambiare il minimo dettaglio della fede e di fatto questo non è avvenuto nei documenti nel Concilio.

L’unico autentico dialogo è quel parlarsi rispettosamente che Gesù ci ha insegnato nel Vangelo, predicando la conversione: “convertitevi e credete al Vangelo“.

Non mi sembra che Nostra Aetate o la Gaudium et spes dicano il contrario. Certo, il non aver citato nessun documento bimillenario della Chiesa, per approfondire uno sviluppo naturale e legittimo del rapporto con il prossimo non cattolico, ha causato inevitabilmente un fraintendimento nella loro interpretazione, una rottura con il passato forse per alcuni anche voluta, ma non certo magisteriale, non certo papale.

Facciamo un esempio concreto: papa Alessandro VIII, con il Decreto del S. Uffizio del 7 dicembre 1690, condannava alcuni errori dei giansenisti fra i quali questi: “Pagani, Giudei, eretici e altri di questo genere non ricevono assolutamente nessun influsso da Gesù Cristo: si deduce quindi rettamente da questo che in loro c’è la nuda e inerme volontà, senza nessuna grazia sufficiente” (Denz/36a ed., n. 2305).

“Il non credente in ogni azione pecca necessariamente” (Denz/36a ed., n. 2308).

“Tutto ciò che non proviene dalla fede cristiana soprannaturale che opera per l’amore, è peccato” (Denz/36a ed., n. 2311).

Se papa Alessandro VIII nel 1600 sosteneva che pagani, giudei, eretici ed altri potrebbero ricevere l’influsso da Gesù Cristo, perché non citarlo in Nostra Aetate o nella Gaudium et spes e mettere così a tacere ogni conflitto? Quanti cattolici oggi conoscono questi testi antichi che abbiamo riportato nell’articolo? Mi chiedo, e Dio mi perdoni, se il clero e certi vescovi li conoscono.

Il vero dramma del nostro tempo non è il “dialogo” in sé ma l’assenza dell’apologetica, l’assenza della conoscenza della fede che diciamo di professare e l’avanzare delle proprie opinioni, delle proprie interpretazioni, del proprio individualismo!

 

CONCLUSIONE. LA MISSIONE DELLA CORREZIONE FRATERNA

Ascoltiamo le parole di Papa Benedetto XVI per la XXIII Giornata Mondiale della Gioventù, pronunciate a Lorenzago il 20 luglio 2007:

“… cari amici, siate santi, siate missionari, poiché non si può mai separare la santità dalla missione. Non abbiate paura di diventare santi missionari come san Francesco Saverio, che ha percorso l’Estremo Oriente annunciando la Buona Novella fino allo stremo delle forze, o come santa Teresa del Bambino Gesù, che fu missionaria pur non avendo lasciato il Carmelo: sia l’uno che l’altra sono “Patroni delle Missioni”. Siate pronti a porre in gioco la vostra vita per illuminare il mondo con la verità di Cristo; per rispondere con amore all’odio e al disprezzo della vita; per proclamare la speranza di Cristo risorto in ogni angolo della terra”.

Concludiamo con le parole dal Messaggio per la Quaresima 2012, sempre del nostro amato pontefice:

“Il «prestare attenzione» al fratello comprende altresì la premura per il suo bene spirituale. E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna in vista della salvezza eterna. Oggi, in generale, si è assai sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo.

(..)La tradizione della Chiesa ha annoverato tra le opere di misericordia spirituale quella di «ammonire i peccatori». E’ importante recuperare questa dimensione della carità cristiana. Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all’atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. (..) Nel nostro mondo impregnato di individualismo, è necessario riscoprire l’importanza della correzione fraterna, per camminare insieme verso la santità. Persino «il giusto cade sette volte» (Pr 24,16), dice la Scrittura, e noi tutti siamo deboli e manchevoli (cfr 1 Gv 1,8). E’ un grande servizio quindi aiutare e lasciarsi aiutare a leggere con verità se stessi, per migliorare la propria vita e camminare più rettamente nella via del Signore. C’è sempre bisogno di uno sguardo che ama e corregge, che conosce e riconosce, che discerne e perdona (cfr Lc 22,61), come ha fatto e fa Dio con ciascuno di noi…”.




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11/01/2013 11:45
 
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[SM=g1740758] La Lumen Gentium e la fuga dei Santi

(di Luciana Cuppo)

“And when the saints – go marching in…” (“E quando si fa avanti la gran marcia dei santi, vorrei esser fra i tanti quando marciano i santi”) A New Orleans, questo è uno spiritual che evoca ovazioni entusiastiche ad ogni partita di football, poiché i santi che marciano in campo sono gli atleti della locale squadra locale denominata appunto “I santi”; cosicché lo spiritual, diventato il loro inno, si suona ad ogni inizio di partita. Ed anche nel nome di una squadra di football e nel suo inno può far capolino la nostalgia dell’assoluto, il desiderio di essere fra i cittadini della città celeste dell’Apocalisse. Di questa città siamo cittadini anche noi; ed anche quello spiritual che riecheggia a ritmo di jazz sui marciapiedi di New Orleans può rinsaldare il vincolo fra i santi e quelli chiamati ad esserlo, tra chi ha già vinto il mondo  e chi, come noi, ancora ci sguazza dentro.


In termini teologici questo vincolo si chiama comunione dei santi e la Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium (LG) ne tratta nel capitolo VII, dove la Chiesa viene considerata nel suo triplice aspetto di Chiesa trionfante, militante e purgante. In quelle pagine LG si sofferma sull’unione di tutti i membri della Chiesa nell’unico Corpo mistico di Cristo ed in questo quadro trovano posto i santi ed il loro culto. La LG ne tratta in particolare nella parte conclusiva del capitolo VII. Immediatamente dopo un breve richiamo alla memoria dei defunti, LG traccia  un ancor più breve excursus storico sul culto dei santi (LG VII,50a), per poi riprendere le considerazioni sull’unione di Cristo e della Chiesa (LG VII,50b e c).LG  VII,51 è poi dedicato a considerazioni pastorali sulla  devozione ai santi. L’excursus in VII,50(a) e le considerazioni pastorali in VII,51 sono logicamente connessi, perché trattano entrambi della presenza dei santi nella vita quotidiana dei fedeli, sia in passato che (prevedibilmente) in futuro.

Va detto subito che in questo documento come in molti altri il Vaticano Secondo si richiama, e non una volta sola, al Magistero della Chiesa, ed in particolare ai canoni di Concili precedenti: il Niceno II, il Fiorentino, il Tridentino, il Vaticano I. Questi canoni vengono espressamente citati a proposito del culto dei santi, e basterebbero queste citazioni a consigliare una pausa di riflessione a chi vede nel CVII un evento in netto contrasto con la Tradizione cattolica. Accanto a queste espressioni del Magistero infallibile  ve ne sono altre tratte dal magistero ordinario dei papi, da Gelasio I a Pio XII. Tutto ciò è ineccepibile sul piano dottrinale, sul piano storico, però, e su quello metodologico-pastorale – cioè sul come portare queste verità alla conoscenza di tutte le anime, perché tutte ne traggano giovamento – c’è parecchio da dire, e dirlo bisogna; ciò è tanto più necessario in quanto la cura pastorale fu la vera ragion d’essere del Vaticano II, parola di Paolo VI nel discorso di chiusura della IV sessione il 7 dicembre 1965: “Ma per chi bene osserva questo prevalente interesse del Concilio per i valori umani e temporali non può negare che tale interesse è dovuto al carattere pastorale, che il Concilio ha scelto quasi programma” (Tutti i documenti del Concilio Vaticano II, ed. Massimo 1967, p. 976).

La dottrina della comunione dei santi in LG si regge dunque sui pilastri delle affermazioni dogmatiche dei concili precedenti e del Magistero ordinario. È dunque infallibile, e ci si attenderebbe che la LG vi dia il dovuto risalto; ma ciò non avviene, perché per tutti i canoni dei concili cui si fa riferimento (Niceno II, Fiorentino, Tridentino, Vaticano I) c’è un rimando in nota, ma non viene citato il contenuto. L’accesso al testo è dunque affidato alla buona volontà dei lettori, ed il testo è quello del Denzinger , che è un manuale rispettabilissimo ed utilissimo, ma pur sempre un manuale che oggi si può consultare comodamente online; ma ai tempi del CVII tale provvidenziale disponibilità era ancora in mente Dei ed i non specialisti faticavano ad aver accesso al contenuto del volume.

Ecco dunque il canone definitorio del Concilio Niceno II riguardo alle immagini: “Definiamo con ogni cura ed in tutta certezza che, così come la figura della vivificante e preziosa croce, sono anche da esporre le venerande e sacre immagini , tanto quelle dipinte ed a mosaico quanto quelle di altro materiale, nelle sacre chiese di Dio, nei vasi e nei paramenti sacri, su parete e su tavola, nelle case e nelle vie; così l’immagine del signor e Salvator nostro Gesù Cristo come quella di nostra Signora intemerata, la santa Madre di Dio, gli angeli onorati, e tutti i santi e gli uomini grandi.” (Denzinger 600; 302)

Questa la definizione che data dal 13 ottobre 787. Il Vaticano II vi rimanda, ma non la cita esplicitamente; se l’avesse fatto, sarebbe stata una sonora smentita per i moderni iconoclasti che in suo nome bandirono statue e quadri dei santi dalle nostre chiese.

Il Concilio di Trento nella sessione del 3 dicembre 1563 riafferma la dottrina del Niceno II e vi si richiama esplicitamente; ricorda inoltre altrettanto esplicitamente alcune espressioni fisiche di culto, quali imagines quas osculemur, coram quibus caput aperimus et procumbimus, cioè “le immagini che baciamo, innanzi alle quali ci scopriamo il capo e ci prostriamo”, poiché “attraverso tali atti si adora Cristo e si venerano i santi.” Ed il Tridentino non si preoccupa affatto della molteplicità di atti esteriori, la actuum exteriorum multiplicitate[m] paventata dal Vaticano II (LG VII, 51a).

Nella LG il Concilio Fiorentino è citato solo in relazione al suffragio dei defunti e la relativa nota 21 rimanda anche, senza distinzione, a testi di altri concili sulle immagini e sul culto dei  santi; la stessa mancanza di distinzione si rileva nel testo della LG, dove sono commiste la gloria celeste e la purificazione del purgatorio; ed a questo punto si fa strada il pensiero ribaldo che forse tale commistione, certo non propizia alla chiarezza, tende a dar l’impressione che anche nell’aldilà la vita spirituale è un continuo divenire, dal purgatorio al paradiso, e che un gran stacco fra i due in fondo non c’è.   

Nel capitolo VII, dunque, la LG con una mano dà, citando canoni validissimi e zittendo così quelli che vorrebbero demonizzare a tutti i costi il Vaticano II, ma con l’altra toglie, rendendo arduo l’accesso ai documenti citati ed in almeno un caso interpretandoli con estrema disinvoltura.

Accanto alla parte dogmatica, ineccepibile ma quasi irraggiungibile, c’è quella storica relativa al culto dei santi: un excursus, per la verità brevissimo, in LG VII,50(a). Vi sono ricordati la Madonna, i santi Angeli, gli Apostoli, i martiri di Cristo, tutti oggetto di particolare affetto e venerazione da parte della Chiesa (Ecclesia… peculiari affectu venerata est). Ai tempi di S. Pio X anche un bambino di sette anni sapeva che la venerazione resa alla Madonna non è la stessa che si rende ai santi, perché la dignità della Madonna è incomparabilmente superiore a quella di qualsiasi santo – e perciò in termini tecnici il culto della Madonna si chiama iperdulia e quello dei santi dulia, mentre a Dio è riservato il culto di latria o adorazione; ma una delle note caratteristiche dei documenti del Vaticano II è il sistematico livellamento della posizione di Maria Santissima in seno alla Chiesa, allo scopo abbastanza ovvio di sminuzzare ogni privilegio mariano, e pazienza se tali privilegi furono voluti da Dio Padre onnipotente. Nemmeno LG VII,50(a) è immune da questo morbo. Ma a parte ogni considerazione teologica su un tale livellamento, LG VII, 50(a) non tiene conto di un elementare dato storico: il canone della Messa era già fissato ben prima di papa Gregorio Magno, e la devozione a Maria aveva già allora un posto specialissimo, ma LG VII,50(a) non vi dà alcun rilievo.
Tuttavia, in VII,50(d) LG nota che i santi sono inclusi nel canone della Messa e cita verbatim il canone, pur guardandosi bene dal sottolineare la posizione d’eccellenza che Maria riveste in quello stesso canone rispetto agli altri santi: Communicantes et memoriam venerantes in primis beatae Verginis Mariae, venerando in primo luogo la memoria della beata Vergine Maria. In questo modo LG VII,50(a) contraddice in pratica quanto viene poi affermato – ma solo indirettamente e per via di citazione – in LG VII,50(d).

E fosse questo il solo strafalcione di carattere storico di LG VII; ma ve ne sono altri. In LG VII,50(a), dopo i “martiri di Cristo” ricordati più sopra fra i santi, la vena si inaridisce ed i santi scompaiono. Da Costantino ai giorni del Concilio, non c’è menzione esplicita, non dico di santi, ma neppure delle fonti storiche che li riguardano, dal martirologio geronimiano a quelli storici all’agiografia moderna; e neppure si parla delle forme concrete di devozione in cui si è espresso il culto dei santi: reliquie, santuari, pellegrinaggi, ex-voto, processioni, immagini; tutti parte del vissuto della Chiesa da duemila anni a questa parte, e qui disinvoltamente azzerati in un vuoto storico dà le vertigini. Da Costantino in poi, per LG la Chiesa nella sua manifestazione storica e concreta, nella vita quotidiana dei suoi fedeli che hanno cercato di seguire Cristo fino all’eroismo, non esiste. e dopo Costantino, di santi non si parla più.       

C’è una nota di rimando ad opere agiografiche, una sola, che si penserebbe rimandi ai santi od al loro culto, ma non è così; perché quella nota 8 rimanda a santi e sante che non esistono e non sono mai esistiti. E mi spiego.

La nota 8 rimanda al Symposion (“Banchetto” ) di Metodio d’Olimpo. Sarebbe interessante vedere perché, fra tutti i padri e dottori della Chiesa, i redattori della LG abbiano scelto proprio lui. Dal punto di vista storico le notizie su Metodio sono poche e difficilmente verificabili; da quello dottrinale vi sono dubbi, perché – benché Metodio sia morto martire e sia stato venerato in alcuni luoghi come santo – alcune sue espressioni riguardo a Cristo sono più ariane che cattoliche, e si è quindi dubitato della sua ortodossia. Vi furono infatti due edizioni del Symposion, una filoariana, l’altra riveduta in senso ortodosso. Per di più, Metodio credeva al millennio, considerato da S. Gerolamo una fabula, un’esimia sciocchezza.  Ma è sopratutto la scelta dell’opera che desta sorpresa.

Nella LG i santi che imitarono Cristo nella verginità e nella povertà vengono immediatamente dopo la Beata Vergine, gli Apostoli e i martiri, ed il Symposion è un dialogo in lode della verginità, che di fatto considera la verginità la via maestra per arrivare alla perfezione cristiana. Ma in questo scritto, redatto nello stile del Symposion  di Platone anche se con intenti opposti, mancano i santi in carne ed ossa, veramente vissuti, con cui i fedeli possono identificarsi. Il Symposion di Metodio presenta invece una serie di personaggi, vergini consacrate riunite in un giardino ameno ad apprendere la via alla cristiana perfezione vista attraverso il prisma della verginità.  Di santi veri, però, non ce ne sono; a meno di annoverarvi Tecla, venerata in Asia Minore; ma i suoi “Atti” erano considerati apocrifi dalla chiesa di Roma già al tempo di papa Gelasio.

Difficile, insomma, spiegare il riferimento a Metodio. E qui un altro pensiero ribaldo: che la scelta di uno scrittore dottrinalmente dubbio sia stata voluta cinquant’anni fa per facilitare – come poi di fatto è avvenuto – l’accettazione di altri scrittori come Origene e Ticonio, ortodossi  in alcune loro opere, ma eretici in altre. Metodio in LG fu forse un passo verso una visione di chiesa inclusiva, in cui la distinzione fra eretico ed ortodosso diventa molto sfumata, per non dire inesistente; il tipo di chiesa che, se non erro, si sta proponendo adesso con la riabilitazione di Lutero.   

Il rimando ai santi storici evapora dunque, in LG VII,50, nel simbolismo e nell’allegoria; non a caso Herbert Musurillo, curatore dell’edizione di Metodio per Sources Chrétiennes, richiamandosi a Karl Rahner, scrisse un saggio sul valore simbolico del “Banchetto.”  Ma i santi sono sempre stati, nella storia della Chiesa, esempi concreti di vita vissuta; di quella vita si possono ignorare i particolari, si può persino ignorare il nome del santo, e dargli un nome fittizio, ma non si ignora il fatto essenziale: che quel santo diede la vita per Cristo. I martirologi più antichi la vedevano così: narravano tutti le gesta, cioè i fatti, dei martiri. E la sostituzione di figure poetiche nella LG alla presenza viva e reale di un santo avviene alla faccia della pastorale, perché i fedeli vogliono un santo vivo e vero al quale rivolgersi nelle loro necessità.

Anche nel culto dei santi ci furono abusi; se ne occupa la LG (VII,51a) e se n’era occupato il Concilio di Trento nel 1563 (Denzinger 1825; 988). Ma fra i documenti dei due concili vi sono notevoli differenze. Il Tridentino aveva riaffermato la validità degli atti esteriori di culto  purché essi rispecchino le disposizioni interiori ed aveva disposto che i prelati preposti alla cura d’anime istruissero i fedeli in proposito (Denzinger 984; 1821), mentre LG VII,51(a) afferma senz’altro che la devozione non consiste nella molteplicità di atti esteriori, ma nell’”intensità del nostro amore fattivo” (intensitas amoris nostri actuosi); e quando tratta del rapporto tra i santi ed i fedeli, cioè la comunione dei santi, LG VII,50(b) non fa parola della Chiesa se non in modo estremamente indiretto, attraverso una nota che rimanda al Vaticano I (nota 12). Il canone del Vaticano I citato nella nota 12 non tratta specificamente del culto dei santi, ma della natura della Chiesa, ed in quel contesto afferma che la Chiesa è maestra di santità (Denzinger 1794; 3013).
Da ciò si può e si deve dedurre che la santità fiorisce nella Chiesa; ma questa verità, che dovrebbe essere offerta ai fedeli fino a diventare il loro pane quotidiano, non è affermata esplicitamente ma rintuzzata in una nota che a prima vista appare fuori tema – poiché il discorso di LG VII,50(b) è sul rapporto tra santi e fedeli, ma della Chiesa non si parla.
In tale discorso si minimizza la presenza della Chiesa, mai citata come istituzione, e non si accenna neppure al dovere di istruire i fedeli nella devozione ai santi; ma la Chiesa è la sola che può e deve regolare il culto dei santi, prevenendo o limitando abusi.  Quando tale presenza istituzionale non c’è  e ci si limita ad una generica e non vincolante esortazione ai singoli vescovi perché rimedino ad abusi peraltro non definiti, avviene precisamente quel che è avvenuto: ciascuno fa a modo suo, e con il pretesto di eliminare gli abusi si sono di fatto eliminate quelle stesse devozioni ai santi che il Tridentino aveva caldamente approvato. Ne è risultata in molti, troppi casi, la fuga dei santi.

La riduzione di tutto il culto dei santi alle disposizioni interiori è – proprio dal punto di vista pastorale, cioè della cura d’anime, che dovrebbe essere il piatto forte del CVII – profondamente errata.

È errato il malcelato disprezzo per la cosiddetta “pietà popolare.”
Ai tempi del concilio più di mezzo secolo di critica bollandista aveva lasciato il segno, e si diffidava di ogni forma del culto dei santi che non poggiasse su solide basi scientifiche o ritenute tali. Alla base di un tale atteggiamento c’era un equivoco: il ritenere che la conoscenza dei dati storici su di un santo equivalga alla fede in Dio manifestata attraverso il culto reso a quello stesso santo. Ma non occorre aver a disposizione dati scientifici inappuntabili per credere nell’intercessione dei santi; basta sapere che un santo c’è, e che per volontà di Dio intercede per noi; e, poiché siamo creature umane e non puri spiriti, la fede in Dio e nei santi trova manifestazione in espressioni esteriori.
In un saggio pubblicato in Florilegium nel 1982, quando imperversavano le stroncature della “pietà popolare” vista come superstizione e contrapposta alla sofisticata pietà degli intellettuali, Leonard Boyle ebbe a dire questo: “Alla lunga, tutte queste espressioni [di pietà] non sono altro che flebili tentativi di fissare, in termini umani ed a vari livelli, la comune fede in Dio ed il rapporto di Dio con l’uomo ed il creato, sia che tali espressioni siano quelle di Anselmo nel suo Proslogion o quelle di un trovatore che strimpella sul suo strumento le lodi di Maria.” O come si espresse lapidariamente Brunero Gherardini a proposito di devozioni popolari e pietà intellettuale: “La sostanza è la stessa.”

Questa sostanza è la fede: il porsi di fronte a un Dio che supera infinitamente la nostra capacità di comprenderlo. Che ci si affidi alla medaglia di S. Antonio od alla consumata perfezione letteraria del Cantico spirituale, la distanza tra le nostre espressioni umane e la realtà di Dio resta incolmabile ed il ponte resta la fede, che è dono soprannaturale di Dio e virtù teologale. In questa luce la più sublime espressione di fede è inadeguata e di grana grossa: tutta paglia, come disse S. Tommaso dei suoi scritti.

Ora, proprio il rapporto tra culto dei santi e fede, che è il fulcro di tale culto, non viene affermato in LG. Oibò, non che lo si neghi; ma non se ne parla. Si dice invece (LG VII,50c) che “ogni genuina testimonianza d’amore da noi resa ai celesti per sua stessa natura tende e termina in Cristo” (omne enim genuinum amoris testimonium coelitibus a nobis exhibitum suapte natura tendit ac terminatur ad Christum) e più avanti contrappone agli atti di devozione ai santi “l’intensità dell’amore fattivo” (intensitas amoris nostri actuosi), LG VII,51(a). Non spiega però – e proprio in base a criteri pastorali, lo sforzo cioè di rendere la buona novella accessibile a tutti, queste cose bisognerebbe spiegarle – quando una testimonianza d’amore è genuina, e neppure quando l’amor actuosus è efficace. Sono cose lapalissiane, su cui però casca di botto l’asinello conciliare: nella comunione dei santi non c’è amore fattivo o genuino che non sia radicato nella carità, che – come la fede – è un dono, una virtù soprannaturale dataci nel battesimo con la grazia santificante. Senza queste virtù, intenso o no, l’amore sarà al più filantropia o un sentimento di compassione verso il prossimo.  

L’unica reale contrapposizione è quella fra le devozioni esteriori prive di fede, anche dette superstizioni, e quelle motivate dalla fede; o tra un’attività motivata dall’amor di Dio ed una dettata da semplici sentimenti di compassione; la contrapposizione, insomma, tra la natura umana e l’ordine soprannaturale che Cristo ci ha messo aportata di mano. La LG non nega tale ordine, ma neppure ne fa motto. Ma noi siamo semplici laici che hanno bisogno di sentirsi dire le cose in termini semplici. Si può e si deve farlo; cinquant’anni dopo, sarebbe un passo verso la tanto autorevolmente auspicata ermeneutica della continuità.

 (di Luciana Cuppo)


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Sulle recenti critiche di Benedetto XVI al Concilio Vaticano II


articolo del 18 novembre 2012 da ConcilioVaticanoSecondo.it


(di  Paolo  Pasqualucci
Nel numero speciale di 96 pagine de L’Osservatore Romano dell’11 ottobre 2012 dedicato al cinquantenario del Vaticano II, è riprodotta in apertura sotto il titolo “Benedetto XVI racconta” (pp. 5-9) la prefazione del Santo Padre (datata 2.8.2012) ad un volume di suoi scritti concernenti il Concilio,  or ora pubblicato a cura dello Institut Papst Benedikt XVI. 
Questo testo riserva  due critiche e una sospensione di giudizio a tre documenti conciliari. 
  

1.  La critica di Benedetto XVI alla ‘Gaudium et spes’.  

Cominciamo dalla prima critica, rivolta alla Gaudium et spes, la celebre Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (De Ecclesia in mundo huius temporis). 
Descrivendo le attese per il Concilio da parte dei vari episcopati, il Papa ricorda:  “Tra i francesi si mise sempre più in primo piano il tema del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, ovvero il lavoro sul cosiddetto “Schema XIII”, dal quale poi è nata la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.  Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del concilio.  La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata.  Le cose dovevano rimanere così?  La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi?  Dietro l’espressione vaga “mondo di oggi” [huius temporis] vi è la questione del rapporto con l’età moderna.  Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna.  Questo non è riuscito nello “Schema XIII”.  Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale” (op. cit., p. 6.  Le parole tra parentesi quadre sono sempre di Paolo Pasqualucci).



Dunque:  nel giudizio del Papa (come dottore privato) la Gaudium et spes (GS) non è riuscita a definire bene il proprio oggetto ossia a darci un concetto valido di “mondo contemporaneo”. 

Lo “Schema XIII” dal quale è nata, elaborato soprattutto dall’episcopato francese, era evidentemente carente e le sue manchevolezze si sono mantenute nella Costituzione.   Se ben mi ricordo, non fu l’allora cardinale Ratzinger a sottolineare, diversi anni fa, che la GS rappresentava una sorta di “Controsillabo”, dal momento che essa aveva voluto chiudere l’epoca dello scontro frontale con il “mondo” (per l’appunto esemplificata da ultimo nel Sillabo di Pio IX, 1865) per aprire quella della comprensione e del dialogo? 
Ma se ora, nelle parole stesse di Papa Ratzinger la GS viene giudicata manchevole proprio perché “non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale” per ciò che riguarda il concetto stesso di “mondo”, della modernità, il supposto suo valore di “controsillabo” a cosa si riduce?  Non viene ad azzerarsi del tutto?


È vero che il Romano Pontefice attribuisce alla GS il merito di aver espresso “molte cose importanti per la comprensione del “mondo”” e di aver dato “rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana”.  Tuttavia, non dice quali siano state queste “cose importanti” e quali “i rilevanti contributi”. 
In ogni caso tali lodi, rivolte ad aspetti importanti ma parziali del testo conciliare, nulla tolgono alla sua critica, che a me non sembra di poco momento. 
Il rilievo è assai pesante, se si guarda alla sostanza, al di là della forma pacata e distaccata tipica dello stile di Benedetto XVI. 
Questa critica ci dice, in parole povere:  “La GS non ha saputo chiarire il proprio oggetto, non ha saputo darci un concetto soddisfacente di mondo moderno”.  Come a dire:  è mancata al suo scopo.  Facendosi forti di questa critica, tutti coloro che vogliono oggi aprire un dibattito serio ed obiettivo sul Concilio, possono (io credo) ricavare la seguente direttiva:  siamo autorizzati a ricercare i motivi per i quali la GS è fallita nel suo obiettivo principale; la GS che doveva rispondere alla “vera aspettativa del Concilio” e chiarire in primo luogo ai fedeli che cosa dovessero intendere con “mondo contemporaneo”.  Siamo pertanto autorizzati a porci domande di questo tipo:  perché la GS è mancata al suo scopo?  Quali le sue carenze?   Dopo questo giudizio critico (e diciamo pure coraggioso) del Papa in persona, il dibattito su una delle Costituzioni portanti del Vaticano II deve a mio modesto avviso ritenersi di fatto consentito da parte dell’Autorità legittima, con buona pace di coloro che si ostinano a ritenere il pastorale Vaticano II un Concilio superdogmatico, da accettare senza discussione in ogni suo minimo risvolto.



2.  La sospensione di giudizio sulla Dichiarazione concernente la libertà religiosa. 

Dopo la bordata contro la GS, Benedetto XVI fornisce un’interpretazione che molto probabilmente spiazzerà ancor più tanti zelanti ed acritici assertori del Vaticano II.  Scrive, infatti, che “inaspettatamente, l’incontro con i grandi temi dell’età moderna non avvenne nella grande Costituzione pastorale, bensì in due documenti minori, la cui importanza è emersa solo poco a poco con la ricezione del concilio” (op. cit, p. 6).  (La GS, nonostante i suoi 93 articoli aveva dunque mancato “i grandi temi dell’età moderna”!)
I due documenti sono:  la Dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa (DH) e la Dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane (NAet). 
I “grandi temi” della modernità sono qui appunto la libertà di culto come espressione della libertà di coscienza individuale e il dialogo interreligioso in prospettiva ecumenica, nell’ottica della c.d. “globalizzazione” del mondo ed “unificazione” del genere umano.


A proposito della prima, il Papa così ne giustifica la necessità.   “La dottrina della Tolleranza, così come era stata elaborata nei dettagli  da Pio XII, non appariva più sufficiente dinanzi all’evolversi del pensiero filosofico e del modo di concepirsi dello Stato moderno” (ivi).  Pio XII, lo ricordo, riconosceva come diritto dell’uomo quello di praticare la propria religione di appartenenza, fatta però salva la giusta preminenza sociale da riconoscersi alla religione cattolica, in quanto unica autenticamente rivelata da Dio.  Non riconosceva un diritto innato (o “umano”) della coscienza individuale a praticare qualsivoglia credo di sua scelta (o a non praticarne nessuno). 
È l’orientamento individualistico, soggettivistico del pensiero moderno, succube in generale del principio d’immanenza e votato ad ogni forma di antropocentrismo, a propugnare, come sappiamo, questo tipo di “diritto”. 
Ora, DH ha evitato il pericolo di innovare rispetto all’insegnamento di Pio XII (che, ricordo, era del tutto in linea con quello costante della Chiesa), senza cadere nell’anticristiano “soggettivismo” del pensiero moderno in tema di libertà di religione? 

Del soggettivismo del pensiero moderno, padre di tutti i relativismi, Benedetto XVI è sempre stato ben consapevole.  “Si può affermare che il cristianesimo, con la sua nascita, ha portato nel mondo il principio della libertà di religione [di contro alle pretese dello Stato romano ancora pagano, che richiedeva da tutti il sacrificio all’imperatore in cambio della libertà di esercitare il proprio culto, purché non fosse immorale, come ad esempio quello dionisiaco].  Tuttavia, l’interpretazione di questo diritto alla libertà nel contesto del pensiero moderno era ancora difficile, poiché poteva sembrare che la versione moderna della libertà di religione presupponesse l’inaccessibilità della verità per l’uomo [della verità in sé, oggettiva, poiché il pensiero moderno non crede in una verità che si ponga indipendentemente dal soggetto] e che, pertanto, spostasse la religione dal suo fondamento [oggettivo, nella Rivelazione]  nella sfera del soggettivo”(op. cit., p. 7).

 
Ma il Papa, a ben vedere, non afferma che la DH abbia effettivamente raggiunto il suo scopo, senza concessioni pericolose al soggettivismo del pensiero moderno.  Passa di colpo a tessere l’elogio di Giovanni Paolo II, attribuendogli  il merito di aver reso “nuovamente visibile l’intimo ordinamento della fede al tema della libertà”. 
Mettendo a frutto la sua lunga esperienza di sacerdote costretto a confrontarsi con l’oppressione marxista, egli è stato infatti in grado di “render nuovamente visibile l’intimo ordinamento della fede al tema della libertà, soprattutto la libertà di religione e di culto” (ivi).  L’elogio dell’opera di Giovanni Paolo II, con il quale si conclude il ragionamento sull’importanza della DH per la comprensione ed il dialogo della Chiesa con la modernità, non sembra secondo me fornire una risposta al problema che il documento conciliare doveva risolvere:  quello di elaborare una concezione di “libertà religiosa” nuova rispetto al passato ma che non scivolasse in alcun modo nel soggettivismo dei Moderni. 
Su questo punto capitale mi sembra che il Pontefice non prenda posizione, lasciando così il suo giudizio in sospeso. 
Infatti, affermare che Giovanni Paolo II ha reso nuovamente visibile “l’intimo ordinamento della fede alla libertà” mi sembra significhi limitarsi a riconoscere che il tema della libertà della fede è stato tema centrale dell’insegnamento di quel Pontefice, senza chiarire se e fino a che punto il nesso di fede e libertà sia stato da lui mantenuto immune dal soggettivismo di cui sopra e senza chiarire se tale nesso sia stato mantenuto immune anche dalla DH.  E se il giudizio del Papa resta qui in sospeso, non siamo allora autorizzati a chiderci per qual motivo?  E a rivisitare criticamente la DH?


 3.  La Dichiarazione “Nostra aetate” ha trascurato le “forme malate e disturbate di religione”. 

E vengo all’ultima notazione critica del Sommo Pontefice. 
Dopo aver sottolineato l’importanza della Dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, ed affermato che si tratta di “un documento preciso e straordinariamente denso”, il Papa afferma tuttavia che “nel processo di ricezione attiva [del documento stesso] è via via emersa anche una debolezza di questo testo di per sé straordinario:  esso parla della religione solo in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata” (op. cit, pp. 7-8). 
Come dobbiamo intendere questi rilievi? 
A mio avviso, in questo senso:  nell’applicazione dei princìpi propugnati dalla Dichiarazione, ci si è accorti che essa dava un quadro troppo roseo delle religioni non cristiane, vedendole “solo in modo positivo”.  L’esperienza degli ultimi decenni ha indubbiamente fatto emergere quelle che il Papa chiama giustamente “forme malate e disturbate di religione”, caratterizzate soprattutto (come è stato già osservato) dai cosiddetti “fondamentalismi”:  mussulmano, indù, buddista, tutti particolarmente aggressivi, come sappiamo, in particolare il primo. 

Anche nella Nostra Aetate si mostra dunque una lacuna, che la fa apparire inadeguata a sostenere la sfida che “le forme malate e disturbate di religione” stanno lanciando da anni al cattolicesimo. 
Anche qui siamo dunque autorizzati, io credo, a porre una serie di questioni:  perché la NAet ha voluto dare un quadro “solo positivo” delle religioni non cristiane?  Quali sono, allora, gli elementi non positivi e quindi negativi presenti in esse, inaccettabili per noi cattolici?  Le “forme malate e disturbate di religione” sono poi solo quelle riconducibili ai fondamentalismi sopra menzionati?  Che dire, per esempio, dei cosiddetti movimenti carismatici che, nella migliore delle ipotesi, rimandano ai convulsionari giansenisti del XVIII secolo?

Il dibattito sul Concilio è solo all’inizio e il Papa stesso ne ha voluto offrire ampi e validissimi spunti.  Cosa della quale, credo di poter dire, gli siamo tutti molto riconoscenti. (Paolo  Pasqualucci)

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740758] Libertà religiosa, Concilio travisato

di Stefano Fontana
da LanuovaBussolaQuotidiana del 18-06-2013
 
La Dichiarazione conciliare Dignitatis humanae riguarda il tema della libertà di religione. Di per sé non è il documento più importante del Vaticano II, però è senz’altro quello che maggiormente è stato assunto a simbolo della presunta “svolta” attuata dal Concilio rispetto al passato. Coloro che interpretano il Concilio non in continuità ma come una svolta si rifanno sempre e principalmente alla Dignitatis humanae. Per questo motivo su questa Costituzione si cono concentrate le maggiori polemiche, che molto spesso impediscono, più che favorire, una corretta lettura del documento. Le opposte fazioni vi sovrappongono le proprie tesi preconcette e la Dignitatis humanae è spesso stata utilizzata come una bandiera o un terreno di lotta piuttosto che un autorevole documento da leggersi in continuità con la dottrina e la tradizione cattolica. Detta in altri termini: è il documento più “spinoso” del Vaticano II.
 
Pio IX si era sbagliato?
Ed in effetti, guardando solo alla lettera e facendone una lettura affrettata, sembra balzare agli occhi una notevole discontinuità con il passato. Il  diritto alla libertà religiosa era sempre stato negato dai Pontefici dell’Ottocento, perché sembrava contenere il “diritto all’errore”. Per proteggere i cittadini dall’errore, nell’Ottocento si assegnava allo Stato il dovere di difendere la vera religione nella forma dello Stato confessionale. La Dichiarazione Dignitatis humanae, invece, dice che «La persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Tale libertà consiste in questo: che tutti gli uomini devono restare immuni da costrizione da parte sia dei singoli, sia dei gruppi sociali e di qualsiasi autorità umana, così che, in materia religiosa, entro certi limiti, nessuno sia forzato ad agire contro la propria coscienza» (n. 2). Ripeto: apparentemente qualcosa di molto diverso da quanto si poteva leggere nell’enciclica Mirari Vos di Gregorio XVI o nella Quanta Cura di Pio IX.

Sotto a queste osservazioni c’è un grosso problema. Allora vuol dire che Gregorio XVI e Pio IX si erano sbagliati? Vuol dire che la Chiesa aveva negato i diritti umani? Ancor di più: vuol dire che dobbiamo vergognarci e condannare quanto la Chiesa ha detto e ha fatto prima del Vaticano II? Si tratta di domande importanti, perché è difficile credere in una Chiesa che “sbaglia”. Eppure queste idee sono circolate e circolano e così alimentano l’errata visione del Vaticano II come un “nuovo inizio” che rompe con il passato della Chiesa.
Benedetto XVI, nel discorso del 22 dicembre 2005 sulla interpretazione del Concilio, ha però condannato una visione del Vaticano II come “rottura”. Quindi vuol dire che la Dignitatis humanae ha detto delle cose in continuità anche con quanto affermato da Gregorio XI e Pio IX. Ma su questo tornerò tra breve.
 
Cosa dice la Dignitatis humanae
Tornando alla libertà di religione, vediamo cosa afferma di preciso la Dignitatis humanae.
Prima di tutto afferma che la libertà di religione va protetta “entro certi limiti”. Quali sono questi limiti? Si tratta del rispetto della legge morale naturale, dell’ordine pubblico, della pubblica moralità, del bene comune della società. Se una religione permette al marito di stuprare la moglie, oppure se prevede la poligamia, che non rispetta la dignità della donna, oppure se prevede mutilazioni fisiche o alte cose di questo genere non può vantare, su questi punti, il diritto alla pubblica libertà né l’appoggio dei pubblici poteri. Già qui si vede che la libertà di religione non mette tutte le religioni sullo stesso piano. Punto, questo, su cui dovremo tornare in seguito.

In secondo luogo, la Dignitatis humanae afferma che il diritto alla libertà religiosa si fonda sul “dovere di cercare la verità” ed è per questo che le convinzioni religiose non possono essere imposte o  impedite con la forza. La verità, infatti, si impone solo in virtù di se stessa, accolta nella libertà. E’ proprio l’assunzione di quei doveri che fonda la rivendicazione del diritto alla libertà religiosa. Questo punto è molto importante perché ci dice che la libertà di religione come la intende la Chiesa è diversa dalla libertà di religione come la intende il mondo. La prima ha alle spalle dei doveri e non è quindi assoluta, la seconda invece è assoluta. Non si fonda su un presunto diritto soggettivistico all’autodeterminazione, ma si fonda sulla natura della persona umana. Non è una concessione alle voglie individuali, ma il riconoscimento di un dovere (quello di cercare la verità), che per esercitarsi richiede un corrispettivo diritto.

In terzo luogo – e questo è il chiarimento più importante – la libertà di religione non nega che «l’unica vera Religione risieda nella Chiesa cattolica e apostolica” (n. 1) e «lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale degli uomini e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo» (n. 1). Si tratta di due affermazioni della Dignitatis humanae su cui spesso si sorvola, ma che danno senso a tutto il resto.
 
L’indifferenza alla verità religiosa
Nel post Concilio molti pensano che una religione vale l’altra. La libertà di religione, qui, è intesa come la libertà di comperare questo o quel prodotto al supermercato, secondo i propri desideri. Ma questo sarebbe in contrasto con il dovere di cercare la verità che fonda il diritto alla libertà religiosa. Ne nasce piuttosto l’indifferenza alla verità religiosa. Ed infatti oggi la maggioranza ritiene che le religioni non siano né vere né false, ritiene che non abbiano legami con la verità. Una simile visione della libertà religiosa non è cristiana perché presuppone che anche il Cristianesimo sia privo di verità, una religione come le altre. Ne nasce il relativismo religioso che impedisce la missione e l’annuncio. C’è un’unica vera religione, quella cattolica, anche se semi di verità sono sparsi anche nelle altre religioni. La libertà di religione non può contraddire questo punto. Solo che la verità della religione cattolica non può essere imposta, ma, come ogni verità, deve essere liberamente accolta.
 
I doveri delle società verso la religione vera
Nei confronti della religione vera c’è però un dovere degli uomini e della società. Questo è un punto molto discusso. Il fatto che questo dovere debba essere liberamente assunto e non imposto non diminuisce la sua forza. Gli uomini e le società non possono essere indifferenti verso le religioni considerandole tutte uguali e, se usano bene le risorse della ragione e del buon senso, vedono la verità dell’una rispetto alle altre. Lo Stato confessionale proteggeva una religione specifica. In questo modo, però, non rispettava la libertà di religione che però proprio i cristiani, davanti all’Imperatore di Roma, avevano rivendicato. Il rifiuto dello Stato confessionale, prima che dalle correnti di pensiero moderne, deriva dalla testimonianza dei martiri cristiani. Ma questo non significa che la religione cattolica sia come tutte le altre, significa solo che la sua utilità per il bene pubblico deve emergere dalla sua verità liberamente accolta e non imposta.
 
Applicazioni nuove, non principi nuovi
Benedetto XVI, nel discorso del 22 dicembre 2005, non ha negato che nel Vaticano II siano emerse delle “discontinuità”. Ha precisato però che non si tratta di discontinuità come rottura, ma discontinuità apparenti o di fatto. Cosa significa? Le discontinuità come rottura mettono in crisi i principi, le discontinuità di fatto non mettono in questione i principi ma riformano le applicazioni, sempre però nella logica dello stesso principio. Il principio della verità della fede cattolica e della sua utilità per il bene pubblico rimane.
Nell’Ottocento si applicava questo principio con la formula dello Stato confessionale. In questo modo però non si rispettava la libertà di religione come era stata rivendicata per primi dai martiri cristiani all’epoca delle persecuzioni dell’Imperatore romano. Allora era stata proprio la religione cristiana a rivendicare la libertà di religione, dimostrandosi, anche in questo, religione vera. Nessun’altra religione lo aveva fatto. Oggi questo non solo non è più possibile ma non è nemmeno più opportuno. Oggi il principio della verità della fede cattolica e della sua utilità per il bene pubblico lo si fa tramite la diffusione e la realizzazione della Dottrina sociale della Chiesa e mediante una presenza non qualunquista dei fedeli laici sulla scena pubblica. Con ciò né la verità della fede cattolica né la sua utilità - e addirittura indispensabilità - per la vita pubblica risultano diminuite.


********************

[SM=g1740733] riflessione:

Mi spiegate però perchè nessuno cita mai i TESTI originali?

l'errore di questi testi del Concilio fu anche che NON portarono come spiegazione i testi del Magistero....
ecco la prova di come doveva e deve essere INTERPRETATA la vera LIBERTA' RELIGIOSA

GREGORIO I MAGNO (3 Settembre 590 - 12 Marzo 604)
Lettera "Qui sincera"
al vescovo Pascasio di Napoli, nov. 602
Testo originale latino
.........................................................................
De tolerantia persuasionis religiosae aliorum

Qui sincera intenzione extraneos ad christianam religionem, ad fidem cupiunt rectam adducere, blandimentis debent, non asperitatibus, studere, ne quorum mentem reddita piana ratio poterat provocare, pellat procul adversitas. Nam quicumque aliter agunt et eos sub hoc velamine a consueta ritus sui volunt cultura sospendere, suas illi magis quam Dei probantur causas attendere.
Iudaei siquidem Neapolim habitantes questi Nobis sunt asserentes, quod quidam eos a quibusdam feriarum suarum solemnibus irrationabiliter nitantur arcere, ne illis sit licitum, festivitatum suarum solemnia colere, sicut eis nunc usque et parentibus eorum longis retro temporibus licuit observare vel colere.
Quod si ita se veritas habet, supervacuae rei videntur operam adhibere. Nam quid utilitatis est, quando, etsi contra longum usum fuerint vetiti, ad fidem illis et conversionem nihil proficit? Aut cur Iudaeis, qualiter caeremonias suas colere debeant, regulas ponimus, si per hoc eos lucrari non possumus? Agendum ergo est, ut ratione potius et mansuetudine provocati sequi nos velint, non fugere, ut eis ex eorum Codicibus ostendentes quae dicimus ad sinum matris Ecclesiae Deo possimus adiuvante convertire.
Itaque fraternitas tua eos monitis quidem, prout potuerit Deo adiuvante, ad convertendum accendat et de suis illos solemnitatibus inquietari denuo non permittat, sed omnes festivitates feriasque suas, sicut hactenus ... tenuerunt, liberam habeant observandi celebrandique licentiam.

Traduzione

Tolleranza dell'altrui convinzione religiosa
Coloro che con sincera intenzione desiderano portare alla retta fede quanti sono lontani dalla religione cristiana, debbono provvedere con (parole) attraenti, e non aspre, che un sentire ostile non allontani coloro la cui mente avrebbe potuto essere stimolata dall'adduzione di una chiara motivazione. Infatti chiunque agisca diversamente e li voglia con questo pretesto allontanare dal culto consueto del loro rito, dimostra di impegnarsi maggiormente per i propri interessi che per quelli di Dio.
Alcuni giudei appunto, che abitano a Napoli, si sono lamentati presso di Noi, asserendo che qualcuno si sforza irrazionalmente di impedire loro la celebrazione di alcune loro feste, che ad essi (cioè) non sia permesso di celebrare le loro feste come finora a loro e in tempo lontano addietro ai loro antenati era lecito osservare e celebrare.
Se la verità sta in questo modo, evidentemente prestano opera per una causa totalmente inutile. Infatti che cosa porta di utilità impedire un'antica usanza, se ciò a loro non giova nulla per la fede e la conversione? O perché stabilire per i giudei regole come debbano celebrare le loro festività, se con ciò non possiamo guadagnarli (alla fede)? Si deve perciò piuttosto agire in modo che, provocati dalla ragione e dalla mansuetudine, vogliano seguirci, non fuggire, affinché, mostrando loro dai loro Scritti ciò che noi affermiamo, li possiamo con l'aiuto di Dio convertire (portandoli) nel grembo della madre chiesa.
Perciò la tua fraternità, per quanto con l'aiuto di Dio potrà, li sproni con moniti alla conversione e non permetta che vengano di nuovo disturbati per via delle loro festività, ma abbiano la libera concessione di osservare e di celebrare tutte le loro ricorrenze e feste, come finora ... hanno fatto.

______________________________


secondo documento:
 ALESSANDRO II Papa (1° Ottobre 1061 - 21 Aprile 1073)

Lettera "Licet ex"
al principe Landolfo di Benevento, anno 1065

In latino

Licet ex devotionis studio non dubitamus procedere, quod nobilitas tua Iudaeos ad christianitatis cultum disponit adducere, tamen quia id inordinato videris studio agere, necessarium duximus, admonendo tibi litteras nostras dirigere.
Dominus enim noster Iesus Christus nullum legitur ad sui servitium violenta coëgisse, sed humili exhortatione, riservata unicuique proprii arbitrii libertate, quoscumque ad vitam praedestinavit aeternam non iudicando, sed, proprium sanguinem fundendo ab errore revocasse. ...
Item beatus Gregorius, ne eadem gens ad fidem vioientiâ trahatur, in quadam sua epistola interdicit."

TRADUZIONE

Quantunque noi non dubitiamo affatto che proceda dal fervore della pietà il tuo nobile proposito di condurre i giudei al culto della cristianità, tuttavia poiché sembra che tu lo faccia con disordinato fervore, abbiamo ritenuto necessario indirizzarti la nostra lettera a modo di ammonizione.
Si legge, infatti, che il Signore nostro Gesù Cristo non ha ridotto con la violenza nessuno al suo servizio, ma con l'umile esortazione, avendo lasciato a ciascuno la libertà del proprio arbitrio, non giudicando ma effondendo il proprio sangue, ha distolto dall'errore tutti coloro che ha predestinato alla vita eterna. ...
Così pure il beato Gregorio in una sua lettera proibisce che questo stesso popolo sia condotto alla fede con la violenza.

________________


[SM=g1740771]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740758] Recensioni. Un’illustre bocciatura della “Gaudium et spes”

Postato in General il 19 giugno, 2013

colombo

Il cardinale Giovanni Colombo fu arcivescovo di Milano dal 1963 al 1979. “È stato l’ultimo dei grandi ambrosiani”, ha scritto di lui il cardinale Giacomo Biffi, in implicita polemica con i successori Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi (su Angelo Scola il giudizio resta sospeso). E di Giovanni Colombo è appena uscito in libreria, edito da Jaca Book, il volume “Il Concilio Vaticano II. Discorsi e scritti”, che raccoglie i suoi testi, alcuni inediti, concomitanti e successivi alla grande assise.

Nella prefazione il teologo milanese Inos Biffi (nessuna parentela ma una grande amicizia con il cardinale omonimo) riporta dei giudizi interessanti sia di Giovanni Colombo che di Giacomo Biffi e di altri uomini di Chiesa su quello che anche Joseph Ratzinger riteneva il documento meno riuscito del Vaticano II: la costituzione “Gaudium et spes” sulla Chiesa nel mondo.

Ecco il brano “ad hoc” della prefazione:

“Tra i documenti approvati e promulgati nell’ultima sessione del concilio vi è la costituzione ‘Gaudium et spes’. Colombo ritiene che ‘il documento più che a una costituzione assomiglia a una lettera stesa a cuore aperto, a eloquio effuso’. Dunque, come si vede, un elogio della costituzione. Anche se, di fronte all’espressione ‘eloquio effuso’ della penna di Colombo, è legittimo qualche sospetto.

“Giacomo Biffi nelle sue memorie ricorda l’osservazione di Hubert Jedin: ‘Questa costituzione fu salutata con entusiasmo, ma la sua storia posteriore ha già dimostrato che allora il suo significato e la sua importanza erano stati largamente sopravvalutati e che non si era capito quanto profondamente quel ‘mondo’ che si voleva guadagnare a Cristo fosse penetrato nella Chiesa’.

“Anche Karl Barth, ricorda sempre Giacomo Biffi, aveva notato che il concetto di ‘mondo’ della ‘Gaudium et spes’ non era quello del Nuovo Testamento.

“Quanto al cardinale Colombo, Giacomo Biffi riferisce la risposta che l’arcivescovo, ‘acuto e libero come sempre’, aveva dato a monsignor Carlo Colombo, soddisfatto del risultato di tante discussioni: ‘Quel testo ha tutte le parole giuste; sono gli accenti a essere sbagliati’. ‘Purtroppo – conclude Biffi – il postconcilio è stato influenzato e ammaliato più dagli accenti che dalle parole’”.

Sempre nella prefazione al volume, Inos Biffi ricorda come Colombo mettesse in guardia i suoi fedeli contro i resoconti della stampa sulle discussioni conciliari.

In una delle sue lettere dal Concilio ai fedeli dell’arcidiocesi di Milano, Colombo scrisse:

“Una di queste sere, guardando da piazza San Pietro, scorgevo, bassa sul cielo in fondo a via della Conciliazione, una luna piena, così strana e buffa che simile non avevo mai vista: bislunga, di colore arancione fosco, sembrava un uovo enorme, ripieno di brace fumosa che trasparisse attraverso il guscio. Tanto al mio sguardo la luna appariva deformata dai densi vapori del tramonto d’ottobre. Così, pensavo non senza tristezza, il Concilio viene spesso sfigurato agli occhi degli uomini dalle nebbie della stampa…”

Il libro:

Giovanni Colombo, “Il Concilio Vaticano II. Discorsi e scritti”, Jaca Book-Centro Ambrosiano, Milano, 2013, pp. 312, euro 25.

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[SM=g1740733]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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La Dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae e la "Libertà di Religione".

 
 
 
La Dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae riguarda il tema della libertà di religione. Di per sé non è il documento più importante del Vaticano II, però è senz’altro quello che maggiormente è stato assunto a simbolo della presunta “svolta” attuata dal Concilio rispetto al passato. Coloro che interpretano il Concilio non in continuità ma come una svolta si rifanno sempre e principalmente alla Dignitatis humanae. Per questo motivo su questa Costituzione si cono concentrate le maggiori polemiche, che molto spesso impediscono, più che favorire, una corretta lettura del documento. Le opposte fazioni vi sovrappongono le proprie tesi preconcette e laDignitatis humanae è spesso stata utilizzata come una bandiera o un terreno di lotta piuttosto che un autorevole documento da leggersi in continuità con la dottrina e la tradizione cattolica. Detta in altri termini: è il documento più “spinoso” del Vaticano II.
 

Pio IX si era sbagliato?

 
Ed in effetti, guardando solo alla lettera e facendone una lettura affrettata, sembra balzare agli occhi una notevole discontinuità con il passato. Il diritto alla libertà religiosa era sempre stato negato dai Pontefici dell’Ottocento, perché sembrava contenere il “diritto all’errore”. Per proteggere i cittadini dall’errore, nell’Ottocento si assegnava allo Stato il dovere di difendere la vera religione nella forma dello Stato confessionale. La Dichiarazione Dignitatis humanae, invece, dice che «La persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Tale libertà consiste in questo: che tutti gli uomini devono restare immuni da costrizione da parte sia dei singoli, sia dei gruppi sociali e di qualsiasi autorità umana, così che, in materia religiosa, entro certi limiti, nessuno sia forzato ad agire contro la propria coscienza» (n. 2). Ripeto: apparentemente qualcosa di molto diverso da quanto si poteva leggere nell’enciclica Mirari Vos di Gregorio XVI o nella Quanta Cura di Pio IX. 
 
Sotto a queste osservazioni c’è un grosso problema. Allora vuol dire che Gregorio XVI e Pio IX si erano sbagliati? Vuol dire che la Chiesa aveva negato i diritti umani? Ancor di più: vuol dire che dobbiamo vergognarci e condannare quanto la Chiesa ha detto e ha fatto prima del Vaticano II? Si tratta di domande importanti, perché è difficile credere in una Chiesa che “sbaglia”. Eppure queste idee sono circolate e circolano e così alimentano l’errata visione del Vaticano II come un “nuovo inizio” che rompe con il passato della Chiesa. 
 
Benedetto XVI, nel discorso del 22 dicembre 2005 sulla interpretazione del Concilio, ha però condannato una visione del Vaticano II come “rottura”. Quindi vuol dire che la Dignitatis humanae ha detto delle cose in continuità anche con quanto affermato da Gregorio XI e Pio IX. Ma su questo tornerò tra breve.
 

Cosa dice la Dignitatis humanae

 
Tornando alla libertà di religione, vediamo cosa afferma di preciso la Dignitatis humanae. 
Prima di tutto afferma che la libertà di religione va protetta “entro certi limiti”. Quali sono questi limiti? Si tratta del rispetto della legge morale naturale, dell’ordine pubblico, della pubblica moralità, del bene comune della società. Se una religione permette al marito di stuprare la moglie, oppure se prevede la poligamia, che non rispetta la dignità della donna, oppure se prevede mutilazioni fisiche o alte cose di questo genere non può vantare, su questi punti, il diritto alla pubblica libertà né l’appoggio dei pubblici poteri. Già qui si vede che la libertà di religione non mette tutte le religioni sullo stesso piano. Punto, questo, su cui dovremo tornare in seguito.
 
In secondo luogo, la Dignitatis humanae afferma che il diritto alla libertà religiosa si fonda sul “dovere di cercare la verità” ed è per questo che le convinzioni religiose non possono essere imposte o impedite con la forza. La verità, infatti, si impone solo in virtù di se stessa, accolta nella libertà. E’ proprio l’assunzione di quei doveri che fonda la rivendicazione del diritto alla libertà religiosa. Questo punto è molto importante perché ci dice che la libertà di religione come la intende la Chiesa è diversa dalla libertà di religione come la intende il mondo. La prima ha alle spalle dei doveri e non è quindi assoluta, la seconda invece è assoluta. Non si fonda su un presunto diritto soggettivistico all’autodeterminazione, ma si fonda sulla natura della persona umana. Non è una concessione alle voglie individuali, ma il riconoscimento di un dovere (quello di cercare la verità), che per esercitarsi richiede un corrispettivo diritto. 
 
In terzo luogo – e questo è il chiarimento più importante – la libertà di religione non nega che «l’unica vera Religione risieda nella Chiesa cattolica e apostolica” (n. 1) e «lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale degli uomini e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo» (n. 1). Si tratta di due affermazioni della Dignitatis humanae su cui spesso si sorvola, ma che danno senso a tutto il resto.
 

L’indifferenza alla verità religiosa

 
Nel post Concilio molti pensano che una religione vale l’altra. La libertà di religione, qui, è intesa come la libertà di comperare questo o quel prodotto al supermercato, secondo i propri desideri. Ma questo sarebbe in contrasto con il dovere di cercare la verità che fonda il diritto alla libertà religiosa. Ne nasce piuttosto l’indifferenza alla verità religiosa. Ed infatti oggi la maggioranza ritiene che le religioni non siano né vere né false, ritiene che non abbiano legami con la verità. Una simile visione della libertà religiosa non è cristiana perché presuppone che anche il Cristianesimo sia privo di verità, una religione come le altre. Ne nasce il relativismo religioso che impedisce la missione e l’annuncio. C’è un’unica vera religione, quella cattolica, anche se semi di verità sono sparsi anche nelle altre religioni. La libertà di religione non può contraddire questo punto. Solo che la verità della religione cattolica non può essere imposta, ma, come ogni verità, deve essere liberamente accolta.
 

I doveri delle società verso la religione vera

 
Nei confronti della religione vera c’è però un dovere degli uomini e della società. Questo è un punto molto discusso. Il fatto che questo dovere debba essere liberamente assunto e non imposto non diminuisce la sua forza. Gli uomini e le società non possono essere indifferenti verso le religioni considerandole tutte uguali e, se usano bene le risorse della ragione e del buon senso, vedono la verità dell’una rispetto alle altre. Lo Stato confessionale proteggeva una religione specifica. In questo modo, però, non rispettava la libertà di religione che però proprio i cristiani, davanti all’Imperatore di Roma, avevano rivendicato. Il rifiuto dello Stato confessionale, prima che dalle correnti di pensiero moderne, deriva dalla testimonianza dei martiri cristiani. Ma questo non significa che la religione cattolica sia come tutte le altre, significa solo che la sua utilità per il bene pubblico deve emergere dalla sua verità liberamente accolta e non imposta.
 

Applicazioni nuove, non principi nuovi

 
Benedetto XVI, nel discorso del 22 dicembre 2005, non ha negato che nel Vaticano II siano emerse delle “discontinuità”. Ha precisato però che non si tratta di discontinuità come rottura, ma discontinuità apparenti o di fatto. Cosa significa? Le discontinuità come rottura mettono in crisi i principi, le discontinuità di fatto non mettono in questione i principi ma riformano le applicazioni, sempre però nella logica dello stesso principio. Il principio della verità della fede cattolica e della sua utilità per il bene pubblico rimane. Nell’Ottocento si applicava questo principio con la formula dello Stato confessionale. In questo modo però non si rispettava la libertà di religione come era stata rivendicata per primi dai martiri cristiani all’epoca delle persecuzioni dell’Imperatore romano. Allora era stata proprio la religione cristiana a rivendicare la libertà di religione, dimostrandosi, anche in questo, religione vera. Nessun’altra religione lo aveva fatto. Oggi questo non solo non è più possibile ma non è nemmeno più opportuno. Oggi il principio della verità della fede cattolica e della sua utilità per il bene pubblico lo si fa tramite la diffusione e la realizzazione della Dottrina sociale della Chiesa e mediante una presenza non qualunquista dei fedeli laici sulla scena pubblica. Con ciò né la verità della fede cattolica né la sua utilità - e addirittura indispensabilità - per la vita pubblica risultano diminuite.
 
 
Ecco il testo del Documento DIGNITATIS HUMANAE.

Read more: http://sursumcorda-dominum.blogspot.com/2013/06/la-dichiarazione-conciliare-dignitatis.html#ixzz2YrfL9Uww


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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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11/04/2015 17:32
 
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  La cristologia della Dei Verbum. Due espressioni bibliche sono decisive per parlare di Gesù secondo il Concilio: Cristo è il mediatore e la pienezza della rivelazione, di Andrea Lonardo



Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /04 /2015 - 

     
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Per una presentazione della Dei verbum, cfr. La Dei Verbum: la novità di un approccio personalistico alla rivelazione. I cinque punti nodali di un magnifico documento, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (7/4/2015)

La Dei Verbum non parla solo dell'utilizzo della Scrittura, ma la "utilizza" anche, prediligendo alcuni testi biblici che i padri conciliari ritennero decisivi per una presentazione della fede cristiana agli uomini del nostro tempo.

La cristologia biblica di Dei Verbum è incentrata sulla presentazione di Gesù come “mediatore” e come “pienezza” di tutta intera la rivelazione (DV 2).

Mostrare che Gesù è il mediatore vuol dire sottolineare che l’uomo non è mai stato in grado di conoscere l’amore di Dio ed il suo volto con le sue forze, ma solo attraverso la mediazione di Cristo. Lo annunziano, fra gli altri testi:

-Mt 11,27 Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo (in questa espressione della fonte Q è già presente tutta la contemplazione biblica del Vangelo di Giovanni).

-Gv 1,18 Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

-Gv 14,5-7 Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me

-Gv 15,15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.

-1 Tm 2,5 Uno solo è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù

-Eb 8,6 Ora il Cristo ha avuto un ministero tanto più eccellente quanto migliore è l’alleanza di cui è mediatore, perché è fondata su migliori promesse.

-Eb 9,15 Per questo Cristo è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa.

-Eb 12,24 Vi siete accostati a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.

Santa Teresa d’Avila ha parole che mostrano la “mediazione” di Cristo, poiché solo la carne di Gesù è la via certa per conoscere Dio:  «Ho sempre riconosciuto e tuttora vedo chiaramente che non possiamo piacere a Dio e da lui ricevere grandi grazie, se non per le mani della sacratissima umanità di Cristo, nella quale egli ha detto di compiacersi. Ne ho fatto molte volte l'esperienza, e me l'ha detto il Signore stesso. Ho visto nettamente che dobbiamo passare per questa porta, se desideriamo che la somma Maestà ci mostri i suoi grandi segreti. Non bisogna cercare altra strada, anche se si è raggiunto il vertice della contemplazione, perché per questa via si è sicuri» (Santa Teresa di Gesù; Opusc. "Il libro della vita",cap. 22, 6-7, 14)

L’altra espressione biblica che la Dei Verbum predilige è quella di Gesù Cristo “pienezza” della rivelazione che Dio fa nella storia di se stesso. DV 2 quando afferma che Gesù Cristo è “il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione” sta citando:

-Col 2,9 È in Cristo Gesù, il Signore, che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità.

-Gv 1,16 Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.

-Ef 3,19 Perché siate in grado di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio.

-Col 1,19 È piaciuto a Dio che abiti in lui tutta la pienezza.

-Col 2,3 In lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della conoscenza.

De Lubac ha sottolineato che per la fede cristiana la pienezza della rivelazione di Dio e del suo amore non si trova in un libro – a differenza dell’Islam, ad esempio, che è una "religione del Libro" – bensì nell’Incarnazione, nel farsi carne della Parola, in Gesù Cristo. Lui è la pienezza di Dio presente in mezzo a noi:

«[Cristo,] sì, Verbo abbreviato, “abbreviatissimo”, “brevissimum”, ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. [...] Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. 
Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti “hanno scritto di lui”.
Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove.
La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, “in maniera tale che la si vede e la si tocca”
: Parola “viva ed efficace”, unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. 
Il cristianesimo non è la “religione biblica”: è la religione di Gesù Cristo”» (da H. de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, I, Paoline, Roma 1972, pp. 344; 353-354).






La Dei Verbum: la novità di un approccio personalistico alla rivelazione. I cinque punti nodali di un magnifico documento, di Andrea Lonardo

Scritto da Redazione de Gli scritti: 04 /08 /2013 - 

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Riprendiamo sul nostro sito un breve studio di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (4/8/2013)

È possibile sintetizzare il messaggio della Dei Verbum in cinque punti.

1/ Innanzitutto i padri del Concilio scelsero di presentare la Parola di Dio in chiave personalistica: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso»[1]. Dio non ha rivelato agli uomini innanzitutto delle verità di fede e nemmeno degli eventi storici particolarmente rilevanti. Infatti, al cuore della rivelazione non ci sono primariamente dei dogmi e nemmeno il dispiegarsi della storia biblica, bensì molto più profondamente il Dio che si rivela perché per amore vuole essere conosciuto.

Il desiderio di tutti i secoli e di tutte le culture, il desiderio di ogni uomo di vedere Dio, ha finalmente trovato soddisfazione. Come dice l’evangelista Giovanni: «Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio è lui che lo ha rivelato»[2].

Proprio nella discussione che avrebbe portato alla Dei Verbum il Concilio conobbe la svolta che gli permise poi di portare frutto. Il documento preparatorio portava il titoloDelle due fonti della rivelazione e si occupava solo della Scrittura e della Tradizione, avendo come scopo quello di chiarire la relazione tra di esse. Esso venne ritenuto giustamente troppo angusto e la sua prospettiva limitata: un terzo dei votanti lo rifiutò. Fu papa Giovanni XXIII ad avere il coraggio di appoggiarsi a costoro per chiedere ad una commissione apposita di elaborarne una stesura totalmente nuova.

Il nuovo testo si indirizzò nella giusta direzione, inserendo in apertura un capitolo sulla rivelazione stessa, sul Dio che parla prima che sulla Parola di Dio.

Ecco allora la prima grande novità della Dei Verbum: ciò che conta innanzitutto è la bellezza di Dio che vuole rivelarsi, di Dio che per amore mostra finalmente il suo volto. In una storia d’amore umana si introduce l’amato a conoscere la propria intimità: così è piaciuto fare a Dio con gli uomini.

2/ La secondo novità della Dei Verbum consiste nella chiarezza con cui Gesù Cristo viene riconosciuto come il cuore stesso della rivelazione: «Cristo è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la rivelazione»[3].

In questa maniera appare subito evidente che il cristianesimo non è una “religione del libro”, ma è la fede nel Dio fattosi carne. La Parola di Dio, conseguentemente, non è primariamente la Scrittura, bensì il Verbum Dei è Gesù Cristo.

I due termini che specificano nella Dei Verbum il significato di Cristo sono “mediatore” e “pienezza” della rivelazioneSolo da un punto di vista superficiale può apparire che un rapporto immediato con Dio sia più vero di quello mediato da Cristo. Nello stupore che si prova dinanzi a Cristo, l’uomo si accorge che solo attraverso la mediazione della carne di Gesù può abbandonare tutte le false immagini della divinità che si è creato nei secoli. Come insegnava Teresa d’Avila l’unica via certa per giungere a Dio è la carne di Gesù.

Ma Cristo non è solo il mediatore necessario per giungere a Dio, dato che l’uomo è incapace di “bucare le nubi” per giungere a vedere il volto di Dio. Gesù è anche la pienezza della rivelazione. In Lui Dio si è mostrato totalmente al punto che, contemplando la sua vita, noi arriviamo a dire: «Dio è amore» (1Gv 4,8). Perché Dio è totalmente presente in Lui. Come dice San Paolo: «È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9).

Al di fuori della fede cristiana, il massimo che possa accadere è che un uomo venga mandato da Dio per recapitarci un libro a nome dell’Altissimo. Nel cristianesimo i libri biblici sono scritti perché si giunga alla Parola di Dio piena che è Gesù Cristo.

Cristo così eccede la Scrittura, perché solo in Lui Dio parla in maniera piena e definitiva[4].

3/ La Dei Verbum, dopo aver chiarito che cosa è la rivelazione e che essa si compie in Gesù Cristo, può allora passare ad affrontare il rapporto fra Bibbia e Tradizione. Esse non sono più viste dal Concilio come due fonti, perché l’unica fonte è la rivelazione stessa di Dio. Scrittura e Tradizione sono piuttosto i due modi con cui la rivelazione, compiutasi una volta per sempre, si perpetua nel tempo.

Per un certo aspetto la Tradizione ha un valore infinitamente più alto della Scrittura. Infatti, nella celebrazione liturgica la Parola di Dio è talmente viva che quando il sacerdote pronuncia le parole «Questo è il mio corpo», Cristo si dona totalmente a chi riceve quel pane. In quelle parole è talmente presente la Parola stessa di Dio che realmente chi mangia dell’Eucarestia riceve Cristo stesso. Una lettura ripetuta ed approfondita della Scrittura non sarebbe mai in grado di offrire alla Chiesa la presenza eucaristica.

Per un altro aspetto, la Scrittura ha una qualità infinitamente grande che la Tradizione non ha: avendo Dio ispirato ogni minuzia di quel testo, ecco che esso è la «regola suprema della fede»[5]. La Tradizione, senza un continuo rapporto con le Scrittura, si inaridirebbe e perderebbe il contatto con il vero Gesù trasmesso dalla tradizione apostolica.

La Tradizione e la Scrittura non possono così stare l’una senza l’altra, anzi «poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine […], ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza»[6].

4/ La Dei Verbum passa poi ad illuminare quale debba essere il giusto modo di accostarsi al testo sacro. I padri del Concilio accolsero con riconoscenza i nuovi studi biblici che, attraverso la ricerca storica, permettevano di comprendere sempre meglio il senso originario delle parole bibliche[7]. Al contempo il documento ricorda che l’esegesi deve essere guidata dallo stesso Spirito che ha ispirato le Scritture e, per questo, sottolinea alcuni importantissimi criteri spirituali quali l’unità della Scrittura - si veda la tipologia che caratterizza la liturgia -, la viva tradizione della Chiesa (cui è da aggiungere, come fanno i documenti successivi, il concorso dell’esegesi ebraica) e l'analogia della fede[8].

L’allora cardinale Ratzinger ricordò in un suo intervento[9] che a modello di questa compresenza del metodo storico e del metodo spirituale nell’interpretazione biblica potevano essere prese le meditazioni del cardinale Carlo Maria Martini, che era capace di radicare la sua riflessione nel dato filologico del testo, ma insieme ne sapeva manifestare il significato attingendo sia al continuo rimando dei brani dall’Antico al Nuovo Testamento, sia allo splendore dell’interpretazione che i rabbini ed i padri della Chiesa ne avevano fornito.

In particolare la Dei Verbum seppe confermare la Chiesa, grazie all’intervento di papa Paolo VI che richiese l’inserimento di tale espressione nel testo, che «i quattro Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza»[10]. I padri conciliari sottolinearono che, qualunque sia stata la storia redazionale degli scritti neotestamentari, essi «sono di origine apostolica»[11], rispecchiano cioè effettivamente quanto Gesù manifestò ai Dodici.

5/ Infine la Dei Verbum desidera ardentemente che i fedeli si nutrano dei tesori della Parola di Dio, affermando: «Il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo” (San Girolamo, Commento ad IsaiaPrologo). Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi […]. Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l'uomo; poiché “quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini”»[12].

In questo paragrafo finale meritatamente famoso tutto quanto la Dei Verbum ha già espresso viene riletto dal punto di vista del dialogo personale di ogni credente con il Signore.Dio che si è rivelato in persona vuole entrare in comunione con ogni uomo e vuole parlargli ancora oggi, tramite la Sacra Scrittura e la viva Tradizione della Chiesa espressa particolarmente, ma non solo, dalla liturgia. È un dono d’amore, una proposta da non rifiutare.

Note al testo

[1] DV 2.

[2] Gv 1,18.

[3] DV 2.

[4] «La Parola di Dio precede ed eccede la Bibbia. È per questo che la nostra fede non ha al centro soltanto un libro, ma una storia di salvezza e soprattutto una Persona, Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne» (dal discorso tenuto da papa Francesco nell’udienza ai membri della Pontificia Commissione Biblica il 12/4/2013).

[5] DV 21.

[6] DV 9.

[7] DV 12 e, per il Nuovo Testamento, DV 19.

[8] DV 12.

[9] J. Ratzinger, Un instancabile maestro della “lectio divina”, in Carlo Maria Martini da 15 anni sulla cattedra di Ambrogio, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1996, pp. 101-103.

[10] DV 19.

[11] DV 18.

[12] DV 25.



[Modificato da Caterina63 11/04/2015 17:33]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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30/11/2015 19:26
 
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La Pontificia Università Gregoriana ha organizzato in collaborazione con la Congregazione per la Dottrina della Fede tre giornate di studio dedicate alle Dei Verbum che si sono aperte con la conferenza “Ascoltare la Parola di Dio – vedere il mondo alla luce della fede” del cardinale Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione.


di Angela Ambrogetti (23-11-2015)


Il 2015 è un anno molto appropriato per la riflessione sui documenti del Concilio Vaticano II. Molti infatti furono promulgati esattamente 50 anni fa, nelle ultime sessioni conciliari e gli studiosi in questo anno che sta per concludersi stanno approfittando del giubileo conciliare per riflettere sui testi più significativi.



La scorsa settimana la Pontificia Università Gregoriana ha organizzato in collaborazione con la Congregazione per la Dottrina della Fede tre giornate di studio dedicate alle Dei Verbum che si sono aperte con la conferenza “Ascoltare la Parola di Dio – vedere il mondo alla luce della fede” del Card. Gerhard Ludwig Müller, il Prefetto della Congregazione.


Una riflessione che parte dalla interpretazione del Concilio e di un supposto “spirito del Concilio” fon troppo malinteso. “Negli ultimi cinquantʼanni- spiega il cardinale- tante cose, che non avevano niente a che fare con il Concilio, vennero confuse con esso, lette in chiave selettiva e interpretate, mentre per lʼermeneutica si scelsero criteri non inerenti al Concilio stesso. Alcuni brani e documenti isolati furono favoriti e citati, altri invece silenziosamente ignorati.


Avvenne tra lʼaltro, che lʼideale teorico-scientifico di un testo stilisticamente e intellettualmente uniforme di un singolo autore, fu più considerato rispetto al risultato di un lungo, spesso faticoso, ma comune sforzo del Concilio, il quale non deve cercare soltanto una comunicazione sincronica, ma vuole collocarsi anche diacronicamente allʼinterno della corrente della tradizione. Testi conciliari che portano sempre anche lʼimpronta di questo sforzo, esito di vari correnti e sviluppi, vennero diffamati da alcuni teologi come “compromessi della disonestà reciproca”, nati – così si sostenne – da una sorta di “commercio” tra le forze conservatrici e progressiste, che avrebbero tradito lo “spirito” di ciò che era invece voluto dai Padri conciliari. Questo verdetto venne emesso soprattutto in merito alla Costituzione sulla divina Rivelazione, che oggi si colloca al centro della nostra riflessione. E in verdetti del genere dilagava unʼermeneutica sbagliata e fatale.”


Ma negli ultimi anni in cui sono stati ricordati tanti “giubilei” di documenti conciliari molte cose sono state chiarite. Ed ora è il momento della Dei Verbum. Per il porporato sono cinque i momenti di impatto della Costituzione conciliare nella storia.


Si inizia con il tema della Rivelazione come “illuminazione” tramite Dio, la fede come luce, recuperando la parola “illuminismo” e sottraendola al razionalismo. Cristo è il Verbo eterno che illumina tutti gli uomini.


E la Rivelazione che si attua tramite la dottrina ma tramite la liturgia: “La liturgia non è un lusso che la Chiesa si permette, finalizzato alla sua autorappresentazione, in modo da poterla plasmare a nostro piacimento, secondo le sole leggi della plausibilità e dellʼattrattiva. Anzi, la liturgia è un locus theologicus, in cui il popolo rende presente la dimensione indescrivibile della fedeltà e della presenza di Dio, al di là di quanto possa essere contenuto in una dottrina”.


C’è poi la unità della Rivelazione nella Creazione e nella storia: “la più recente risonanza di questa visione si trova nellʼenciclica Laudato si‘ di Papa Francesco, dove egli insiste sul legame intrinseco che esiste tra natura e Rivelazione, tra Creazione e redenzione” spiega Müller.


La Scrittura è poi “anima della teologia”, e inoltre “la Dei Verbum ha messo nuovamente in evidenza la consapevolezza dellʼunità intrinseca della Sacra Scrittura composta da Antico e Nuovo Testamento.”


Interessante la relazione tra Rivelazione e misericordia. Spiega il cardinale: “la divina misericordia non è soltanto un qualche isolato atto di perdono dei nostri peccati (lo è anche), ma si colloca nel più intimo della comunicazione di Dio stesso. La Rivelazione è fondamentalmente misericordia divina proprio perché non è unʼinteressante rivelazione di verità soprannaturali, ma lʼavvenimento della comunicazione tra Dio e il suo popolo”.


Ma la De Verbum deve anche affrontare delle sfide oggi. Lo sfondo è quello della teologia pluralista delle religioni. E oggi “la critica che la Rivelazione biblica rivolge alle religioni e ai loro dei, è ritenuta responsabile per lʼindisturbato assorbimento tecnologico della natura; la chiara professione dellʼunico vero Dio, propria del monoteismo, viene accusata di intolleranza e violenza intrinseca”.


Una sfida che arriva soprattutto dal mondo occidentale che “parte dal presupposto che Dio rimanga un mistero e che non esista religione in grado di nominarlo e mostrarlo in toto. Il giudaismo e il cristianesimo – e cioè le forme istituzionalizzate della fede biblica sin dai tempi di Abramo – vengono poi sussunti come due forme delle tante “religioni” esistenti. In questo modo, si tralasciano soprattutto le affermazioni della teologia della Rivelazione, che la Dei Verbum riporta in modo sistematico”.


Altra sfida è la questione della “realtà della vita” come locus theologicus. Il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede spiega che “il cristianesimo non è una religione del Libro, come si ama definirlo, ma Rivelazione divina nella storia del popolo che Egli ha scelto a questo scopo. Per questa ragione, il principio della sola scriptura non è mai stato sufficiente per trovare una misura per una vita di fede. La teologia cattolica invece ha coniato la formula “Scrittura e tradizione”, che, essendo fondamentalmente niente di nuovo, significava soltanto lʼapplicazione di quel principio che fece parlare già nel giudaismo di una tradizione scritta e di una tradizione orale”.


Una delle questioni aperte è che “oggi la tradizione della Chiesa – anche quella che ha conosciuto un vivido progresso – viene spesso e volentieri compresa come “principio generale” e “dottrina astratta”, oppure caratterizzata come “ideale” irraggiungibile, che non avrebbe alcuna “capacità di connessione con le odierne costellazioni mondane“ e perciò nessuna rilevanza per lʼuomo nella sua situazione concreta”. Ma “la visione che contrappone la dottrina della Chiesa, la sua tradizione e la verità vissuta dagli uomini del nostro tempo, quasi fossero delle alternative reciproche, è errata. La Dei Verbum ci indica unʼaltra direzione”. E aggiunge: “Le indicazioni ci dicono che la “realtà della vita” per noi rilevante non è una qualsiasi realtà che ha a che fare con la vita; non è compito della statistica o dell’opinione riportata dalla stampa, ma si tratta della realtà della vita in obbedienza alla fede pienamente realizzata e vissuta (cfr. Rm 1,5), oppure – cristologicamente parlando – della sequela di Cristo. È vero: bisogna prendere sul serio le biografie degli uomini con i loro progressi, le loro crepe. Poiché anche noi cristiani non dobbiamo farci un’immagine illusoria della nostra vita. Dobbiamo affrontare la nostra realtà. E non lo facciamo fabbricando di essa una norma su come Dio dovrebbe vedere noi e il mondo, ma confrontando la nostra debole, fragile vita con il disegno divino, collocandola allʼinterno della “luce della fede” che nonostante non sappia tutto, sa illuminare tutto”.


In conclusione la Dei Verbum è un invito all’ascolto della Parola per la Chiesa e per gli uomini con con quel desiderio che i Padri espressero 50 anni fa: “che il tesoro della Rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre di più il cuore degli uomini”.




EDITORIALE

Concilio Vaticano II

 

Ricorre oggi il cinquantesimo anniversario della pubblicazione della Costituzione pastorale Gaudium et spes con cui, di fatto, si è concluso il Concilio Vaticano II. È stato il testo più combattuto del Concilio e quello più usato per ispirare teologie "umaniste" discutibili. Eppure l'allora cardinale Ratzinger nel 2000 aveva chiarito il criterio teocentrico con cui leggerla.

di Stefano Fontana

Ricorre oggi il cinquantesimo anniversario della pubblicazione della Costituzione pastorale Gaudium et spes con cui, di fatto, si è concluso il Concilio Vaticano II. Era stata discussa, dopo un iter redazionale lungo e controverso, dal 21 settembre all’8 ottobre 1965 e approvata il 6 dicembre con 2111 placet e 251 non placet. Porta la data del 7 dicembre 1965. Il giorno successivo Paolo VI avrebbe chiuso il Concilio.

 

La Gaudium et spes, insieme con la Costituzione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, è stato il testo più combattuto del Concilio, quello maggiormente utilizzato a simboleggiare la “svolta” conciliare e più frequentemente citato come espressione dello spirito del Concilio e, quindi, anche quello su cui si scontrano di più entusiasti e perplessi, convinti e titubanti. Un testo dalla vicenda non ancora conclusa. Sulla sua eredità vera la discussione è ancora aperta.

 

La Gaudium et spes fu il frutto più evidente della scelta pastorale fatta da Giovanni XXIII fin dal discorso di apertura Gaudet Mater Ecclesia. Chi, però, pensava che si trattasse di tenere intatta la dottrina e di rivedere solo la pastorale si illudeva. Il Vaticano II, allo scopo di aggiornare la pastorale, dovette ripensare anche la dottrina. Non la ripensò però tutta, in quanto proprio per motivi pastorali fece delle omissioni e delle riduzioni. Data la scelta pastorale, il Concilio avrebbe dovuto ripensare tutta la dottrina ed essere addirittura ancor più dottrinale dei concili precedenti che della dottrina si occupavano di alcuni aspetti dottrinali e basta, ma contemporaneamente non poteva esserlo fino in fondo per non pregiudicare l’aggiornamento relativo all’apertura al mondo. La pastoralità ha richiesto la dottrina ma poi l’ha anche limitata.

 

Anche nella Gaudium et spes questo è evidente. C’è il ripensamento dottrinale, per esigenze pastorali, del rapporto Chiesa-Mondo, ma del mondo viene messa in evidenza soprattutto la valenza positiva; c’è il ripensamento del rapporto tra Chiesa e modernità, ma si evita di parlare del comunismo, senza del quale la modernità è difficilmente comprensibile. Questo è stato osservato da molti, dal cardinale Giacomo Biffi al “Contadino della Garonna” Jacques Maritain e quindi, come si dice, ormai appartiene agli atti.

 

Non che con questo il problema sia risolto. Con la Gaudium et spes la Chiesa ha accettato il mondo moderno? Difficile rispondere sulla base della sola Gaudium et spes. Per rispondere bisogna prendere il Catechismo, frutto maturo del Concilio, voluto da Giovanni Paolo II e, in quella luce, leggere la Gaudium et spes. Purtroppo, però, si è fatto spesso il contrario.

 

Appellandosi alla Gaudium et spes sono nate le più svariate teologie. Segno che questa Costituzione manifesta un bisogno di interpretazione autentica, a cui il Magistero successivo non si è sottratto. Ciò è dovuto anche al suo linguaggio non definitorio ma narrativo ed esistenziale. Un linguaggio suggestivamente pastorale – come per esempio il poetico incipit -  che però doveva veicolare contenuti dottrinali. Un problema non da poco. Capita così che alcune frasi della Gaudium et spes per essere correttamente interpretate, abbiano bisogno di altre frasi dello stesso documento, o di altri documenti del Concilio o del Catechismo della Chiesa Cattolica. 

 

Nella Gaudium et spes si dice che la persona è “principio, soggetto e fine della società” e che “l’attività umana come deriva dall’uomo così è finalizzata all’uomo”. Frasi simili, prese da sole, potrebbero far pensare che l’uomo abbia sostituito Dio. C’è bisogno, allora, di riferirsi ad altri punti del documento, come quando si dice che “la ragione principale della dignità umana consiste nella chiamata dell’uomo alla comunione con Dio” oppure che “senza il Creatore la creatura viene meno”. Per altri punti bisogna completare il quadro anche cercando al di fuori della Gaudium et spes.

 

Con ciò abbiamo toccato il punto fondamentale. Molti hanno letto la Gaudium et spes come la rinuncia della Chiesa alla centralità di Dio nella costruzione del mondo secolare e l’accettazione di una posizione almeno paritetica della Chiesa e del mondo. In una famosa lezione del 2000, tenuta in occasione del Giubileo per il nuovo millennio, il cardinale Joseph Ratzinger aveva sostenuto che lo scopo dei Padri Conciliari era stato di ribadire la centralità di Dio. Il Concilio non era stato antropocentrico, né ecclesiocentrico, ma teocentrico. Dopo cinquant’anni molte letture della Gaudium et spes, anzi oggi forse più di ieri, non seguono queste indicazioni dell’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Continua ad essere diffusa l’idea della “svolta antropologica” della Gaudium et spes. E’ invece facilmente argomentabile, anche per questo documento conciliare, che Ratzinger aveva ragione. Il paragrafo 36 che parla dell’autonomia delle realtà terrene si affretta a precisare che “la creatura viene ottenebrata se dimentica Dio”. Il paragrafo 40, secondo cui la Chiesa “cammina con tutta l’umanità” dice anche che essa “diffonde su tutto il mondo il riflesso della sua luce”. Nel 41, ove si parla del progresso umano, viene detto che questo movimento dev’essere impregnato di spirito del Vangelo e protetto contro ogni specie di falsa autonomia”.

 

La storia della Gaudium et spes non è finita. Essa va restituita a se stessa, così come il Concilio va restituito a se stesso. Cosa difficile, però, se della Gaudium et spes si citano solo e sempre le prime righe, per di più dimenticando l’avverbio “veramente” prima dell’aggettivo “umano”: “La gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia degli uomini d’oggi, soprattutto dei poveri e di tutti i sofferenti, sono anche la gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia dei discepoli di Cristo, e non c’è nulla di veramente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Senza Dio, quell’avverbio cade.



 




[Modificato da Caterina63 09/12/2015 13:37]
Fraternamente CaterinaLD

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