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Ultimo Aggiornamento: 03/11/2016 00:20
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08/01/2009 18:14
 
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GESU' NEL TALMUD

Nelle fonti ebraiche rabbiniche troviamo alcuni accenni a Gesù. Il passo più interessante è riportato nel Talmud e, sebbene alcuni vi vedano riferimenti ad un personaggio diverso da Gesù, la maggioranza degli studiosi non ha dubbi che ci si riferisca a lui:
Viene tramandato: Alla vigilia (del ðabbât e) della pasqua si appese Jçðu (han-n? srî = il nazareno). Un banditore per quaranta giorni andò gridando nei suoi confronti: “Egli (Ješu han-nôsrî) esce per essere lapidato, perché ha praticato la magia e ha sobillato [hissit] e deviato [hiddia h] Israele. Chiunque conosca qualcosa a sua discolpa, venga e l'arrechi per lui”. Ma non trovarono per lui alcuna discolpa, e lo appesero alla vigilia del (ðabbât e) della pasqua.
Ulla [un rabbino del IV secolo] disse: “Credi tu che egli (Jçðu han-n? srî) sia stato uno, per il quale si sarebbe potuto attendere una discolpa? Egli fu invece un mesît [uno che conduce all'idolatria] e il Misericordioso ha detto: Tu non devi avere misericordia e coprire la sua colpa [Dt 13,9]!”: Con Jçðu fu diverso, poiché egli stava vicino al regno [malkut] (Talmud Babilonese Sanhedrin 43a).
 


Il testo conferma la datazione evangelica della passione (Gv 19, 14. 31), alla vigilia della Pasqua, che in quella circostanza cadeva di sabato. L'accusa è quella di "magia" (riferimento negativo alla pretesa dei miracoli) e di incitamento alla deviazione dalla retta fede. "Appendere", una parafrasi del verbo "crocifiggere" è usata, come in alcuni passi del NT, ad indicare la crocifissione.


Il bando di 40 giorni, chiaramente non fondato storicamente, potrebbe essere un tentativo di ribattere ad accuse sulla brevità e rapidità del processo a Gesù a Gerusalemme. Il passaggio dalla lapidazione, proposta inizialmente, alla crocifissione finale suppone un passaggio dalla giustizia ebraica a quella romana.


Un secondo brano ci riporta alla polemica con i cristiani:

Abbahu dice: “Se qualcuno ti dice “Io sono Dio ('anî' el)”, egli è un mentitore; (se ti dice) “Io sono il figlio dell'uomo ('anî ben-'a dâm)”, alla fine egli dovrà pentirsene; (se ti dice) “Io ascenderò al cielo”, lo dice e non lo può fare” (Talmud Palestinese, Ta'anit II, 1, 65b).


  Abbahu è un rabbino vissuto a Cesarea nel III secolo. Il testo riporta in chiave polemica affermazioni sulla identità di Gesù.


Un terzo brano ci fa intravedere una discussione sulla interpretazione della Torah:
Rabbi Eliezer disse: una volta camminavo al mercato superiore di Sefforis e incontrai uno dei discepoli di Gesù il Nazareno (Ješu han-nôsrî), chiamato Giacobbe del villaggio di Sekhanja. Egli mi disse: “Nella vostra Torah è scritto: “Non porterai il denaro di una prostituta nella casa del Signore” (Dt 23,19). Com'è? Non si può con esso costruire un cesso per il sommo sacerdote?”. Io non gli risposi. Ed egli mi disse: “Così mi ha insegnato Gesù il Nazareno: “Fu raccolto a prezzo di prostitute e in prezzo di prostitute tornerà” (Mi 1,7); da un luogo di sozzura è venuto e in un luogo di sozzura andrà”. La parola mi piacque; perciò io fui arrestato a motivo di eresia (minut) (Talmud B abilonese Ab. Zarâ 16b).


R. Eliezer ben Hyrkanos, maestro del famoso R. Aqiba, è scomunicato per un certo tempo dalla sinagoga, perché apprezza una interpretazione troppo libera della Torah data da un cristiano a Sefforis, vicino Nazareth.

Furono gli Ebrei a "scomunicare" i Cristiani.....[SM=g7574]

L'ALLONTANAMENTO DEI CRISTIANI DALLE SINAGOGHE [SM=g7831]

Il Talmud babilonese (TB Ber. 28b-29a) ci attesta che la preghiera ebraica delle "Diciotto Benedizioni" fu composta a Jamnia verso la fine del I secolo d.C. La primitiva recensione palestinese di questa preghiera ebraica ci da testimonianza della cosiddetta "scomunica" verso i cristiani, della quale troviamo, forse, traccia anche in alcuni versetti neotestamentari (Gv 9, 22: "Infatti i Giudei avevano già stabilito che se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga").

E' la Birkat ham-minim ("benedizione dei minim"), dodicesima delle "Diciotto Benedizioni":
"Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell'orgoglio; e periscano in un istante i nazareni e gli eretici ("minim"): siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano iscritti. Benedetto sei tu, Yahweh, che pieghi i superbi!" [SM=g7564]


L'apologeta cristiano Giustino, alla metà del II secolo, nel "Dialogo con il giudeo Trifone" ne conferma l'esistenza affermando:
"Voi nelle vostre sinagoghe maledite coloro che si son fatti cristiani" (Dial. 96 e 107).


L'importanza dell'uso di questa formula è attestato da un altro passo del Talmud babilonese:
"Se qualcuno commette un errore in una qualunque benedizione, lo si lasci continuare; ma se si tratta della benedizione dei "minim", lo si richiama al proprio posto, poiché lo si sospetta di essere lui steso un "min" (TB Ber. 29 a).


  L'espressione "min" (plurale "minim") vuol dire letteralmente "quelli di un genere a parte". Probabilmente include le posizioni di più gruppi ritenuti eterodossi dal giudaismo rabbinico, ma comprende sicuramente anche i cristiani, chiamati nella "benedizione" i "nazareni".


Questo lo si evince anche da un midrash a Gen 1, 26 che, riferendosi all'interpretazione cristiana primitiva che vede nel plurale della creazione dell'uomo "facciamo" l'opera delle tre persone della Trinità della Trinità, così afferma:
"Quando Mosè scrivendo la Torah arrivò (a questo passo) esclamò: Signore dell'Universo, quale argomento dai ai "minim"! E l'Eterno gli rispose: Continua a scrivere; e quelli che si ingannano, peggio per loro" (midrash di Gen. R. su Gen 1, 26).

http://www.santamelania.it/



Giornalista e studioso di religioni comparate dedicò la vita al riavvicinamento tra il popolo di Israele e la Chiesa


Ben Chorin, l'ebreo
che elogiò l'Eucaristia


di Cristiana Dobner

Uno sguardo ebraico su Gesù, Maria e Paolo non era proprio abituale nella seconda metà del secolo scorso. Un giornalista e studioso di religioni comparate seppe gettarlo e configurarlo in una trilogia che successivamente raggiunse i lettori tedeschi rispettivamente nel 1967, 1970 e 1971, e successivamente tradotta in varie lingue, che costituisce l'espressione di un pensiero completo, quasi a tutto tondo, su Gesù, la madre Maria e Paolo apostolo delle genti.


Chi ne è l'autore? Ogni pensiero infatti affonda le sue radici nel terreno particolare della vita di ciascuno e ne è espressione ed emanazione. L'autore fu un personaggio che giocò la sua vita sull'utopia del dialogo ebraico cristiano, credendoci e non soltanto seguendo una moda, magari momentanea, investendo tempo ed energie per conoscere, apprezzare e confrontare le due religioni. Fritz Rosenthal nacque a Monaco di Baviera nel 1913 in una famiglia di commercianti ebrei assimilati, dopo il ginnasio studiò all'università lettere e religioni comparate. All'incombere della furia nazista nel 1933 il giovane universitario fu a più riprese arrestato dalla Gestapo, decise perciò di seguire il suo maestro Martin Buber e di "salire" a Gerusalemme.

Qui cambiò il suo nome e divenne Shalom Ben Chorin ("Pace figlio della libertà"). Praticò il giornalismo fino al 1970, mentre successivamente fu docente a Gerusalemme, Tubinga e Monaco. Fondò nel 1958 la prima Comunità ebraica liberale, ancora oggi guidata dal figlio Tovia, la Congregazione 'Or Hadash, la prima sinagoga riformata in Israele, presente anche in Austria.


Superando pregiudizi e fraintendimenti, in un clima in cui gli echi del nazismo ancora non si erano spenti, e sempre attento alla sua patria d'origine e alla sua lingua tedesca, lo studioso, facendo suo un detto di Alfred Kerr "che cosa è una casa, una patria? È infanzia, la nenia, la forzatura della lingua e la costrizione del ricordo", privò il termine della pretta appartenenza politica, che tanto fu devastante per l'Europa e il mondo con la sua connotazione di nazionalsocialismo, ed aderì nel 1975 all'Unione di Scrittori di lingua tedesca d'Israele, diventandone uno dei quindici membri fondatori.


Shalom Ben Chorin, vivendo appassionatamente quanto il suo nome significava riuscì, conclusa la guerra, a dimostrarsi uno dei "pontieri", uno dei grandi costruttori di ponti, precursori in quello che, abitualmente, viene definito il dialogo ebraico-cristiano. Egli fu membro infatti del gruppo di lavoro ebraico-cristiano del Consiglio della Chiesa protestante di Germania. Lavoro di costruzione da pontieri e lavoro di smistamento di rovine smantellate:  bisognava eliminare il tentativo sempre sospettato, quasi sotteso, di una missione verso o contro gli ebrei.


La produzione letteraria e teologica di Shalom Ben Chorin - in una prosa dinamica e ricca di battute - tradotta in varie lingue, gli valse molti riconoscimenti, fra cui la laurea honoris causa dalle università di Monaco (1988) e di Bonn (1993). Si spense a Gerusalemme nel 1999.
Nel 1922 Joseph Gedaliah Klausner aveva pubblicato il volume Jeshu ha-nozri, Gesù il nazareno, che segnò una svolta nella considerazione da parte del mondo ebraico di Colui che i cristiani considerano il Messia, il Figlio di Dio. È ben noto infatti quanto si trova scritto nel Talmud.


Il volume dedicato a Paolo, apostolo delle genti contiene la riflessione su Paolo, l'apostolo delle genti, e si snoda in nove capitoli ancorati alla conoscenza della problematica e ruotanti sul perno di Gesù Risorto nel contesto storico delle grandi città Gerusalemme, Atene, Roma che costituiscono il fondale della vita di Saul, divenuto Paolo, che "annuncia Gesù di Nazaret come il Cristo della sua esperienza di Damasco". Quindi la risurrezione per l'autore è considerata significante in primo luogo partendo da Paolo, mentre storicamente è dubbiosa. Gesù è altro, "è per me un fratello eterno; non solo fratello nell'umanità, fratello nell'ebraismo. Io sento la sua mano fraterna che mi prende perché io lo segua, una mano umana, quella che porta i segni del più grande dolore (...) È la mano di un grande testimone di fede in Israele; la sua fede, la sua incondizionata, la sua assoluta fiducia in Dio Padre, la sua prontezza ad umiliarsi completamente sotto la volontà di Dio, è l'atteggiamento che Gesù ha vissuto per noi e che può unirci, ebrei e cristiani, la fede di Gesù ci unisce (...), ma la fede in Gesù ci divide".


Ben Chorin accostando i Vangeli con "l'intuizione", che non significa fantasia ma frequentazione assidua e familiarità con i testi dalla propria sensibilità e tradizione religiosa, priva però di pregiudizi, avverte come sia la fede ebraica a vivere in Gesù; è un ebreo perseguitato ed infine ucciso che nella sua vita richiama al Regno di Dio, un profeta come Elia ed Eliseo.


Non solo è un maestro della legge come i tannaiti (maestri ebrei dei primi secoli dell'era cristiana), che prediligevano le parabole. La peculiarità di Gesù è il suo rivolgersi agli am ha-arez, agli incolti, cioè al popolo della terra. Al centro della sua predicazione splende l'amore, a sua volta centro della Torah, della legge, con molte analogie alla linea della scuola farisaica di Hillel.


Paolo, ebreo della diaspora da Tarso Cilicia, fariseo e civis Romanus, si muove in tre mondi e con tre lingue:  l'ebraico, il greco e il latino e in frontiere geografiche precise, patisce le pressioni storiche e politiche del clima esasperato del primo secolo:  Paolo ebreo è in polemica con gli ebrei.


Shalom Ben Chorin ritiene che Paolo paghi un altissimo prezzo per annunciare il "Servo di Jahweh" (Isaia 49, 6):  riconoscendolo in Gesù Cristo, rinuncia proprio al cuore dell'ebraismo, alla Legge. Paolo stando "fra Israele e i pagani" e volendo unire "spesso operò separando". Ne seguirono fraintendimenti che pesarono sulle vicende storiche delle due religioni e sui loro rapporti. Soltanto chiarendoli ed eliminandoli sarà possibile ottenere "uno sguardo libero" gettato su entrambi:  Israele e la Chiesa.


L'approfondimento quindi di questo pensatore/pontiere può oggi, dopo tanto cammino percorso insieme e tanti incontri significativi, segnare una pietra miliare. Lo aveva intuito e dimostrato Bernard Dupuy nella sua presentazione in un'edizione francese cogliendo l'ottica dell'autore, per il quale gli scritti di Paolo si possono leggere solo a partire dai profeti d'Israele e gli appelli lanciati agli ebrei suoi contemporanei emergono, in qualche modo, dalla profezia. L'audacia di Paolo fu somma in tempo di profezia chiusa e suscitò stupore e reazioni vive nelle autorità; proponeva opinioni umane, pur tuttavia affondate nella Scrittura. Paolo richiama che, nella Bibbia, è Dio che parla e agisce, non possiamo catturare Dio a nostro profitto, come neppure possiamo comprenderlo e tentare di circoscriverlo, c'è sempre un istante in cui bisogna cedere davanti a Lui, nessuna autorità può interporsi.


Shalom Ben Chorin viveva in sintonia con Gesù Cristo che "ha incontrato Paolo davanti a Damasco. Sempre e sempre lo incontro, sempre e sempre dialoghiamo, avendo in comune l'origine ebraica e la speranza ebraica del regno. E da quando io dall'Europa cristiana sono venuto a risiedere nell'ebraico Israele, mi è venuto ancora più vicino, perché io vivo nella sua terra e tra il suo popolo, e i suoi detti e le sue parabole mi sono così vicini e pieni di calore umano come se tutto ciò fosse accaduto qui, oggi".


L'apostolo delle genti Paolo di Tarso altro non ha mai voluto dopo l'incontro con Gesù Cristo Risorto sulla via di Damasco. "Quando io nel banchetto pasquale sollevo il calice e spezzo il pane non lievitato" osservava Ben Chorin nel Seder Pesach, "allora faccio quel che egli ha fatto, e so di essergli più vicino di qualche cristiano che celebra il mistero dell'Eucaristia in modo del tutto staccato dalla sua origine ebraica".


Una visione nuova la si può costruire solo conoscendo e conoscendoci. Shalom Ben Chorin è perfettamente consapevole che, dopo la Shoah "la consolazione non può mai più risolversi nel dolce alone di parole confortanti, deve sussistere nel mantenimento delle contraddizioni".


Il ramo di mandorlo che troviamo nel profeta Geremia, però, veglia e si distende sui rapporti ebraico-cristiani. Shalom Ben Chorin non lo affermò in un momento in cui le offensive belliche si erano placate ma nel 1942, il tragico anno per il popolo di Israele colpito dall'infuriare della Shoah, ed è, ancor oggi, un invito a perseverare nei momenti bui e difficili rivolto da una persona che ne visse la catastrofe e ne fu testimone:


Amici, che il ramo di mandorlo
di nuovo fiorisca e germogli
non forse è un segno
che l'amore rimane?
Che la vita non finisca
anche se il molto sangue grida
non conta poco
in questo torbidissimo tempo
Migliaia ne calpesta la guerra
un mondo scompare
Allora la vittoria fiorita della vita
lieve oscilla nel vento
Amici, che il ramo di mandorlo
oscilli fiorito,
rimane per noi un segno: 
la vita vince



(©L'Osservatore Romano - 31 maggio 2008)

OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II 
NELLA CELEBRAZIONE IN RICORDO DI 
ABRAMO, "PADRE DI TUTTI I CREDENTI"

23 febbraio 2000

1. "Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese... In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abràm: Alla tua discendenza io do questo paese dal fiume d'Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate" (Gn 15, 7. 18)

Prima che Mosè udisse sul monte Sinai le note parole di Jahvé: "Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù" (Es 20, 2), il Patriarca Abramo aveva già sentito queste altre parole: "Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei". Dobbiamo, pertanto, dirigerci col pensiero verso tale luogo importante nella storia del Popolo di Dio, per cercarvi i primordi dell'alleanza di Dio con l'uomo. Ecco perché, in quest'anno del Grande Giubileo, mentre risaliamo col cuore agli inizi dell'alleanza di Dio con l'umanità, il nostro sguardo si volge verso Abramo, verso il luogo dove egli avvertì la chiamata di Dio e ad essa rispose con l'obbedienza della fede. Insieme con noi, anche gli ebrei e i musulmani guardano alla figura di Abramo come ad un modello di incondizionata sottomissione al volere di Dio (cfr Nostra aetate, 3).


L'autore della Lettera agli Ebrei scrive: "Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava" (11, 8). Ecco: Abramo, nominato dall'Apostolo "nostro Padre nella fede" (cfr Rm 4,11-16), credette a Dio, si fidò di Lui che lo chiamava. Credette alla promessa. Dio disse ad Abramo: "Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione... in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra" (Gn 12, 1-3). Stiamo forse parlando del tracciato di una delle molteplici migrazioni tipiche di un'epoca in cui la pastorizia era una fondamentale forma di vita economica? E' probabile. Sicuramente, però, non si trattò solo di questo. Nella vicenda di Abramo, da cui prese inizio la storia della salvezza, possiamo già percepire un altro significato della chiamata e della promessa. La terra, verso la quale si avvia l'uomo guidato dalla voce di Dio, non appartiene esclusivamente alla geografia di questo mondo. Abramo, il credente che accoglie l'invito di Dio, è colui che si muove nella direzione di una terra promessa che non è di quaggiù.


2. Leggiamo nella Lettera agli Ebrei: "Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In Isacco avrai una tua discendenza che porterà il tuo nome" (11,17-18). Ecco l'apogeo della fede di Abramo. Abramo viene messo alla prova da quel Dio nel quale aveva riposto la sua fiducia, da quel Dio dal quale aveva ricevuto la promessa concernente il lontano futuro: "In Isacco avrai una tua discendenza che porterà il tuo nome" (Eb 11, 18). E' chiamato, però, ad offrire in sacrificio a Dio proprio quell'Isacco, il suo unico figlio, a cui era legata ogni sua speranza, conforme del resto alla divina promessa. Come potrà compiersi la promessa che Dio gli ha fatto di una numerosa discendenza, se Isacco, l'unico figlio, dovrà essere offerto in sacrificio?


Mediante la fede, Abramo esce vittorioso da questa prova, una prova drammatica che metteva in questione direttamente la sua fede. "Egli pensava infatti - scrive l'Autore della Lettera agli Ebrei - che Dio è capace di far risorgere dai morti" (11, 19). In quell'istante umanamente tragico, in cui era ormai pronto ad infliggere il colpo mortale a suo figlio, Abramo non cessò di credere. Anzi, la sua fede nella promessa di Dio raggiunse il culmine. Pensava: "Dio è capace di far risorgere dai morti". Così pensava questo padre provato, umanamente parlando, oltre ogni misura. E la sua fede, il suo totale abbandono in Dio, non lo deluse. Sta scritto: "per questo lo riebbe" (Eb 11, 19). Riebbe Isacco, poiché credette a Dio fino in fondo e incondizionatamente.


L'Autore della Lettera sembra esprimere qui qualcosa di più: tutta l'esperienza di Abramo gli appare un'analogia dell'evento salvifico della morte e della risurrezione di Cristo. Quest'uomo, posto all'origine della nostra fede, fa parte dell'eterno disegno divino. Secondo una tradizione, il luogo dove Abramo fu sul punto di sacrificare il proprio figlio, è lo stesso sul quale un altro padre, l'eterno Padre, avrebbe accettato l'offerta del suo Figlio unigenito, Gesù Cristo. Il sacrificio di Abramo appare così come annuncio profetico del sacrificio di Cristo. "Dio infatti - scrive san Giovanni - ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (3, 16). Il Patriarca Abramo, nostro padre nella fede, senza saperlo introduce in un certo qual senso tutti i credenti nel disegno eterno di Dio, nel quale si realizza la redenzione del mondo.


3. Un giorno Cristo affermò: "In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono" (Gv 8, 58), e queste parole destarono lo stupore degli ascoltatori che obiettarono: "Non hai ancora cinquant'anni e hai visto Abramo?" (Gv 8, 57). Chi reagiva così, ragionava in modo meramente umano, e per questo non accettò quanto Cristo diceva. "Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?" (Gv 8, 53). Ad essi Gesù replicò: "Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò" (Gv 8, 56). La vocazione di Abramo appare completamente orientata verso il giorno di cui parla Cristo. Qui non reggono i calcoli umani; occorre applicare la misura di Dio. Solo allora possiamo comprendere il giusto significato dell'obbedienza di Abramo, che "ebbe fede sperando contro ogni speranza" (Rm 4, 18). Sperò di diventare padre di numerose nazioni, ed oggi sicuramente gioisce con noi perché la promessa di Dio si compie lungo i secoli, di generazione in generazione.


L'aver creduto, sperando contro ogni speranza, "gli fu accreditato come giustizia" (Rm 4, 22), non soltanto in considerazione di lui, ma anche di noi tutti, suoi discendenti nella fede. Noi "crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore" (Rm 4, 24), messo a morte per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione (cfr Rm 4, 25). Questo, Abramo non lo sapeva; mediante l'obbedienza della fede, egli tuttavia si dirigeva verso il compimento di tutte le promesse divine, animato dalla speranza che esse si sarebbero realizzate. Ed esiste forse promessa più grande di quella compiutasi nel mistero pasquale di Cristo? Davvero, nella fede di Abramo Dio onnipotente ha stretto un'alleanza eterna con il genere umano, e definitivo compimento di essa è Gesù Cristo. Il Figlio unigenito del Padre, della sua stessa sostanza, si è fatto Uomo per introdurci, mediante l'umiliazione della Croce e la gloria della risurrezione, nella terra di salvezza che Dio, ricco di misericordia, ha promesso all'umanità sin dall'inizio.


4. Modello insuperabile del popolo redento, in cammino verso il compimento di questa universale promessa, è Maria, "colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,45).

Figlia di Abramo secondo la fede oltre che secondo la carne, Maria ne condivise in prima persona l'esperienza. Anche Lei, come Abramo, accettò l'immolazione del Figlio, ma mentre ad Abramo il sacrificio effettivo di Isacco non fu richiesto, Cristo bevve il calice della sofferenza sino all'ultima goccia. E Maria partecipò personalmente alla prova del Figlio, credendo e sperando ritta accanto alla croce (cfr Gv 19,25).


Era l'epilogo di una lunga attesa. Formata nella meditazione delle pagine profetiche, Maria presagiva ciò che l'attendeva e nell'esaltare la misericordia di Dio, fedele al suo popolo di generazione in generazione, esprimeva la propria adesione al suo disegno di salvezza; esprimeva in particolare il suo "" all'evento centrale di quel disegno, il sacrificio di quel Bimbo che portava in grembo. Come Abramo, accettava il sacrificio del Figlio.


Noi oggi uniamo la nostra voce alla sua, e con Lei, la Vergine Figlia di Sion, proclamiamo che Iddio si è ricordato della sua misericordia, "come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo ed alla sua discendenza, per sempre" (Lc 1,55).



[SM=g1740750] [SM=g7182]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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