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Pregare per gli Ebrei è un dovere Cristiano

Ultimo Aggiornamento: 14/09/2011 00:36
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15/01/2009 14:28
 
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Ennesima discussione sullaPreghiera verso gli Ebrei!



L'attacco contenuto in un editoriale per il mensile dei gesuiti "Popoli"
"Sulla preghiera per la conversione degli ebrei sono mancate le risposte della Cei"

Papa, l'accusa del rabbino di Venezia
"Con lui cancellati 50 anni di dialogo"

                                               
 
ROMA - Con Benedetto XVI, la Chiesa sta cancellando i suoi ultimi "cinquanta anni di storia" nel dialogo tra ebraismo e cattolicesimo: a lanciare la critica è il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, che - in un editoriale per il mensile dei gesuiti "Popoli", ha spiegato i motivi che hanno portato il rabbinato italiano a non partecipare alla prossima Giornata sull'ebraismo, indetta per il 17 gennaio dalla Conferenza espiscopale.

Il rabbino di Venezia ricorda innanzitutto la decisione di Benedetto XVI di reintrodurre, con il messale pre-conciliare, la preghiera del Venerdì Santo per la conversione degli ebrei. Il rabbinato italiano - riferisce Richetti - ha chiesto spiegazioni ed un ripensamento: con risposte ufficiose, "una risposta della Conferenza episcopale, sia pure sollecitata, è mancata", e la Chiesa - afferma l'esponente ebraico - ha fatto presente che "gli ebrei non hanno niente da temere", in quanto "la speranza espressa dalla preghiera 'Pro Judaeis' è 'puramente escatologica', è una speranza relativa alla 'fine dei tempi' e non invita a fare proselitismo attivo".

"Queste risposte - osserva tuttavia Richetti - non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano. Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identità. Non si tratta, quindi, di ipersensibilità: si tratta del più banale senso del rispetto dovuto all'altro come creatura di Dio".

"Se a ciò aggiungiamo - aggiunge Richetti - le più recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perchè in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana, è evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant'anni di storia della Chiesa".


Poi la conclusione, durissima: "In quest'ottica, l'interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità".

(13 gennaio 2009)
FONTE REPUBBLICA


Si riapre dunque la polemica...[SM=g1740730]

Il contributo dell'amio Daniele:

Siamo alla follia pura: secondo il rabbino, credere e pregare che l'adesione alla verità sia presupposto di salvezza implica non rispettare le persone di altra religione. Il che, trasposto nella quotidianità, equivale a dire: se io ritengo che un mio amico sia in errore, consigliare o desiderare che si corregga è un'offesa nei suoi confronti.

Naturalmente questo principio è valido a senso unico, cioè solo da parte dei cattolici, perché gli Ebrei, nella loro dottrina (per chi ancora la professa) dicono senza problemi il contrario. Anche ammesso che le preghiere ebraiche non si riferiscano ai cristiani, esse, seguendo il ragionamento del rabbino, sarebbero ingiuriose nei confronti degli "adoratori degli idoli", quindi, per esempio, degli induisti o degli animisti.
O si vogliono fare, come sembra, due pesi e due misure? Dovremmo forse pensare che ebraismo e cristianesimo sono equivalenti dal punto di vista della salvezza? Ma in questo caso il sacrificio di Cristo e la nostra fede sarebbe vana! Ciò che mi stupisce non è questo, ma il fatto che una rivista cattolica ospiti interventi di questo genere, ingiuriosi verso la persona del Santo Padre e deliranti sul piano delle argomentazioni, oltre che pervasi di spirito anticristiano. Se non che, se tenessi bene a mente la deriva dei Gesuiti negli ultimi anni, probabilmente non mi stupirei più.


C'era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l'affidò a dei vignaioli e se ne andò. Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l'altro lo uccisero, l'altro lo lapidarono. Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo. Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: 'Avranno rispetto di mio figlio!' Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: 'Costui è l'erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l'eredità'. E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l'uccisero. Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli?". Gli rispondono: "Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo". E Gesù disse loro: "Non avete mai letto nelle Scritture:

    La pietra che i costruttori hanno scartata
    è diventata testata d'angolo;
    dal Signore è stato fatto questo
    ed è mirabile agli occhi nostri?

Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare. Chi cadrà sopra questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà". Udite queste parabole, i sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro e cercavano di catturarlo; ma avevano paura della folla che lo considerava un profeta.

(Mt. 21, 33-45)

L'interpretazione di questa parobola è talmente evidente che né i discepoli né la folla chiedono spiegazioni e il Vangelo non ne fornisce. Il padrone è Dio. La vigna potremmo identificarla con il suo messaggio, la sua verità, il suo regno sulla terra. I vignaioli cui viene affidata in un primo momento la vigna sono il popolo ebraico. I servi sono i profeti dell'antico Testamento, che furono da esso respinti, derisi o uccisi. Il figlio è il Messia, cioè Gesù Cristo. Dopo la sua uccisione (che viene compiuta non tanto per ignoranza quanto per malizia, allo scopo cioè di mantenere per sé la vigna, ossia, fuor di metafora, lo status di popolo eletto), la vigna viene tolta ai vignaioli omicidi e consegnata a un popolo che lo farà fruttificare, vale a dire la santa Chiesa, nella quale si compiono e si realizzano le profezie universalistiche di cui è permeato l'antico Testamento.

Di conseguenza, pensare, come purtroppo mostrano di fare alcuni cattolici, che l'antica alleanza non è mai stata revocata oppure che la religione ebraica e la religione cristiana sono equivalenti in ordine alla salvezza (sul piano oggettivo, ovviamente) significa non solo ignorare la secolare dottrina della Chiesa, ma anche mettersi contro l'esplicito senso del Vangelo.[SM=g1740722]

mercoledì 14 gennaio 2009

Pregare perchè gli ebrei trovino il Messia non è peccato.

San Paolo predica agli ebrei nella sinagoga di Damasco - mosaico XII sec.Sorpreso e stupefatto del ragionamento espresso su POPOLI dal rabbino capo di Venezia, persona non solo intelligentissima ed erudita (ma pensavo anche maggior conoscitore della nostra religione cristiana) per giustificare il ritiro da parte ebraica dalle celebrazioni del 17 gennaio.
Invece di denunciare problemi "politici" sul papa Tedesco, la sua difesa per Pio XII che tanto infastidisce, e la sua volontà di visitare Israele, ma senza dargli alcun aiuto nella attuale guerra (anzi esprimendo il suo rammarico e sgomento per quanto avviene a Gaza), ecco che si riesuma la questione della preghiera del Venerdì Santo.
Incredibile ma vero. Ci si attacca al cavillo liturgico per non parlare di ben altri, e ben più concreti problemi a livello di dialogo.
Non ci siamo proprio, e ora cerchiamo di spiegarci.

1) Che i cristiani preghino perchè i fratelli ebrei possano trovare il Messia, non mi pare per nulla uno scandalo. Gli stessi ebrei continuano a pregare perchè il Signore mandi il Messia atteso. Fin qui nulla di strano.

2) Il Messia per i cristiani ha un nome: Gesù, il Cristo, appunto. La loro fede impone loro di sperare che tutti gli uomini lo riconoscano, non solo escatologicamente, ma anche storicamente, ebrei compresi, perchè possano giungere alla pienezza della verità.

3) Questo non è un insegnamento dettato da proselitismo o passibile di revisione da parte di qualsivoglia Concilio o Papa: è un insegnamento neotestamentario, esplicitamente citato dalle lettere di San Paolo, che per tutti i cristiani di ogni confessione sono parte della Rivelazione fondante.
Ecco solo una sintesi dei capp. 9-11 della Lettera ai Romani, che mostra la teologia di Paolo (e il suo amore) per il Popolo della prima Alleanza:

Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen. (Rm 9,1-5)

Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera sale a Dio per la loro salvezza. (Rm 10,1)

Ora, il termine della legge è Cristo, perché sia data la giustizia a chiunque crede. (Rm 10,4)

Dice infatti la Scrittura: Chiunque crede in lui non sarà deluso. Poiché non c'è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che l'invocano. Infatti: Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. (Rm 10,11-13)

Io domando dunque: Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anch'io infatti sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio. (Rm 11,1-2)

Ora io domando: Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale!
Pertanto, ecco che cosa dico a voi, Gentili: come apostolo dei Gentili, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?
(Rm 11,11-15)

Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! (Rm 11,28-29)

Come si può notare, non è questione di cambiare una preghiera, ma ci si chiede di far finta che le pagine dell'Apostolo siano "sorpassate".

4) Quando mai - mi chiedo - Paolo VI, che ha certo reiterato il divieto di imporre il cristianesimo (cosa vietata fin dall'inizio) avrebbe proibito di proporre la fede a chiunque, ebrei compresi, che anzi sono di diritto i primi destinatari dell'annuncio? (Proprio lui, l'autore di Evangelii Nuntiandi!).

5) A parte la preghiera del Venerdì Santo "mediaticamente sovraesposta", vorrei segnalare ben altre e numerose preghiere per la conversione degli ebrei presenti nella liturgia cattolica. Non solo nelle preghiere dei fedeli della Messa nell'Orazionale, ma soprattutto nella Liturgia delle Ore, la preghiera che tutta la Chiesa recita quotidianamente.


Per es. :

a) Intercessioni vespri della Trasfigurazione: Hai voluto accanto a te Mosè ed Elia come testimoni della Trasfigurazione, - illumina il popolo dell'antica alleanza perché giunga alla pienezza della redenzione.

b) 29 dicembre lodi, invocazioni: Per la gloria del tuo Figlio, atteso dai patriarchi e dai profeti, desiderato da tutte le genti, - salva il popolo dell'antica alleanza.

c) 31 dicembre lodi, invocazioni: Cristo, Uomo-Dio, Signore e figlio di Davide, che hai dato compimento alle parole dei profeti, - fa' che il popolo d'Israele riconosca in te il Messia e Salvatore.

d) Domenica di Risurrezione (Pasqua del Signore), intercessioni: Il popolo ebraico riconosca in te il Messia atteso e sperato, - tutta la terra sia piena della tua gloria.

e) Ugualmente nella III domenica di Pasqua, II vespri, intercessioni: Il popolo ebraico riconosca in te il Messia atteso e sperato, - tutta la terra sia piena della tua gloria.

Ce ne saranno altre ma queste sono sufficienti. Più chiaro di così!
Lasciamo stare la povera preghiera del Venerdì Santo, che si è davvero ridotta nel messale di Paolo VI all'ombra di se stessa, ma è risuscitata in una quantità di preghiere figlie, ben più esplicite, frutto della riforma tanto lodata in questi anni post-conciliari di dialogo.
 

Le preghiere citate non le ha fatte papa Benedetto. E allora finiamola di cavalcare la liturgia per mostrare i "passi indietro" nel dialogo interreligioso.
Suvvia, Rav Richetti, non si dispiaccia se come cristiani aneliamo all'unità con il popolo che il Signore ha scelto per primo e mai revocato.
Noi, dopotutto, non possiamo esistere senza di voi e senza pensare continuamente a quello che da Israele abbiamo ricevuto.

                                                     [SM=g1740720]

 



[SM=g1740750] [SM=g7182]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Tre errori sulla preghiera per gli ebrei del Venerdì Santo


Spiegazione di padre Remaud, esperto di studi ebraici


di Anita S. Bourdin


ROMA, venerdì, 23 gennaio 2009 (ZENIT.org).- La preghiera per gli ebrei del Venerdì Santo secondo il rituale di Giovanni XXIII non dice “preghiamo per la conversione degli ebrei”, ma “preghiamo per gli ebrei”, sottolinea a ZENIT padre Michel Remaud, direttore dell'Istituto Cristiano di Studi Ebraici e di Letteratura Ebraica di Gerusalemme.


In occasione della Settimana di Preghiera per l'Unità dei Cristiani, dal 18 al 25 gennaio, la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ha istituito una giornata di dialogo con l'ebraismo il 17 gennaio. I rabbini italiani non hanno partecipato a causa dell'approvazione papale di questa preghiera.


Il testo dell'Ufficio della Passione del Venerdì Santo in latino, autorizzato per il suo uso “straordinario” da Benedetto XVI e utilizzato per la prima volta nella preghiera universale del Venerdì Santo del 2008, non dice “Oremus pro conversione Judæorum”, ma “Oremus et pro Judæis”, dopo la soppressione della parola “perfidis”, quasi cinquant'anni fa, da parte di Papa Giovanni XXIII.

“In un terreno così delicato” come quello dei rapporti tra cristiani ed ebrei, padre Remaud raccomanda di “essere rigorosi”.


Per il sacerdote, la questione è la seguente: “il cristiano che esprime la propria fede utilizzando le formule del Nuovo Testamento deve essere accusato di volontà di conversione quando dialoga con gli ebrei?”.

L'esperto sostiene inoltre l'importanza di tener conto degli elementi liturgici del dibattito. In questo senso, afferma, i giornali hanno spesso commesso tre errori.


Non è una questione legata alla Messa in latino


In primo luogo, non è una questione legata alla “Messa in latino”, perché anche questa si celebra secondo il rituale successivo al Concilio Vaticano II, approvato da Paolo VI.

E' una versione che si usa molto nelle assemblee internazionali, a Lourdes e a Roma, ad esempio. Non si tratta, dunque, di scegliere tra la “Messa in latino” e quella nella lingua nazionale. Questa, osserva padre Remaud, è una falsa pista.

“Per definire il rituale anteriore alla riforma del 1969 – sottolinea il sacerdote –, i giornalisti hanno creato l'espressione, comoda ma inadeguata, di 'Messa in latino'”.

In realtà, avverte, ciò che distingue l'antico rituale non è l'uso del latino, “perché il Messale promulgato in applicazione della riforma conciliare è redatto originariamente in latino, e si usa contemporaneamente alle sue traduzioni nelle lingue vive”.


Non è una questione legata alla Messa


Non è nemmeno un problema di “Messa”, aggiunge, perché nel giorno del Venerdì Santo non si celebra la “Messa”, ma l'Ufficio della Passione. Ecco, quindi, un'altra falsa pista.

Quando non si celebra la Messa, la liturgia introduce, tra le altre, una preghiera per i nostri “fratelli maggiori”, secondo la formula usata da Giovanni Paolo II nella sinagoga di Roma il 13 aprile 1986.

“E' una preghiera 'universale' per tutta l'umanità – spiega padre Remaud –. L'ufficio proprio di quel giorno include una lunga serie di preghiere in cui si raccomandano a Dio tutte le categorie dei credenti (e anche i non credenti) che compongono l'umanità”.


“Fino al 1959 – aggiunge – si pregava, tra le altre intenzioni, in latino, 'pro perfidis judæis'”, ma “anche dopo la soppressione dell'aggettivo 'perfidis' da parte di Giovanni XXIII, la preghiera ha continuato a impiegare formule che potevano ferire gli ebrei”.

“Perfidi” non aveva in latino il senso dispregiativo che ha poi assunto nelle lingue volgari. Letteralmente deriva da “per” e “fides”, ossia colui che resiste o rimane nella sua fede.


La formula “è caduta in disuso alcuni anni dopo con la promulgazione del Messale cosiddetto di Paolo VI”, in parte a causa del significato peggiorativo assunto.

Giovanni Paolo II, nel 1984, ha autorizzato l'uso dell'antico Messale per i seguaci dell'Arcivescovo Marcel Lefebvre che erano tornati alla comunione con Roma.

L'antica formula, quindi, è stata usata per 24 anni da alcune comunità cattoliche senza che nessuno protestasse, sottolinea padre Remaud.


Il motu proprio Ecclesia Dei rimanda alla lettera
Quattor Abhinc Annos, che dice letteralmente: “Il Santo Padre, nel desiderio di andare incontro anche a codesti gruppi, offre ai Vescovi diocesani la possibilità di usufruire di un indulto, onde concedere ai sacerdoti insieme a quei fedeli che saranno indicati nella lettera di richiesta da presentare al proprio Vescovo, di poter celebrare la S. Messa usando il Messale Romano secondo l'edizione del 1962 ed attenendosi” a quattro norme, tra cui il fatto che “queste celebrazioni devono essere fatte secondo il Messale del 1962 ed in lingua latina”.


Prima di dare la sua autorizzazione, Benedetto XVI ha chiesto un'altra modifica, “proibendo anche a quanti usano a titolo eccezionale il Messale anteriore al Concilio di tornare a utilizzare queste espressioni”.

“Paradossalmente – fa notare l'esperto –, è proprio la decisione di correggere una formula giudicata inaccettabile e utilizzata da un numero molto ristretto di cattolici [una volta all'anno] ad aver suscitato tanta indignazione”.


Non esiste la parola conversione


C'è un'ultima “falsa pista” nata nel dibattito sulla preghiera: la parola “conversione”.

Padre Remaud sottolinea che “tutto il dibattito suscitato da questa decisione si è concentrato su una parola che non figura nel testo, la 'conversione'”, e che “chiedere a Dio di illuminare i cuori è una cosa, esercitare pressioni sulla gente per cercare di convincerla è un'altra. La differenza è più che nella sfumatura”.

Per questo, pone una domanda “più fondamentale”: se il cristiano considera Gesù “il Salvatore di tutti gli uomini” ed esprime questa convinzione nella sua liturgia, gli si può impedire il dialogo con quanti non condividono la sua fede?”.


[Il testo integrale della preghiera modificata da Benedetto XVI nel 2008: “Preghiamo per gli Ebrei. Il Signore Dio Nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini. Dio Onnipotente ed eterno, Tu che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo”]


[SM=g1740750] [SM=g7182] [SM=g1740720]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/09/2009 18:01
 
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Ogni tanto si riaccendono i lumini delle ambiguità...sembra che qualcuno si diverta a tirarle in ballo...questa volta però è stato il cardinale Bagnasco a dire una frase che suona ambigua e getta confusione sul concetto dell'evangelizzazione per altro ribadita da un recente Documento....

ergo, ringraziando l'amico Daniele, Cattolico Romano, per averlo riportato in Famiglia Cattolica, riporto qui la questione, la sua riflessione e la mia risposta...


EBREI: BAGNASCO INCONTRA RABBINI, RIPRENDE DIALOGO CON CHIESA

Incontro questa mattina tra il presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, il presidente dell'Assemblea Rabbinica Italiana, rabbino Giuseppe Laras, e il Rabbino capo della Comunita' ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, per ricucire dopo lo strappo che aveva portato alla non partecipazione da parte ebraica alla della Giornata di riflessione ebraico-cristiana del 17 gennaio scorso. Gli ebrei erano infatti preoccupati per il nuovo testo della preghiera ''pro iudaeis'' della messa preconciliare liberalizzata da papa Benedetto XVI.

Bagnasco, si legge in un
comunicato della Cei ha chiarito che, ''nel modo piu' assoluto'', non c'e' ''alcun cambiamento nell'atteggiamento che la Chiesa Cattolica ha sviluppato verso gli Ebrei, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II'' e che ''non e' intenzione della Chiesa Cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei''. ''Durante l'incontro - - il Cardinale ha ribadito la sua stima personale e quella dei Vescovi della Conferenza Episcopale nei confronti delle Comunita' ebraiche italiane. Il Cardinale ha anche compreso le reazioni di preoccupazione manifestate in relazione a talune espressioni del testo liturgico, e ha comunque ribadito quanto gia' il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, aveva espresso con chiarezza nella Lettera al Rabbinato di Israele circa le intenzioni del Santo Padre dopo la pubblicazione dell''Oremus et pro Iudaeis'''. Bagnasco ha anche ''manifestato la sua preoccupazione per quei focolai di antisemitismo e di antigiudaismo che, di tempo in tempo, continuano ad apparire, ribadendo la necessita' di un'attenta vigilanza, auspicando che i legami gia' profondi tra le due parti si stringano ancor piu'. Con la crescita dell'amicizia e della stima reciproca - ha aggiunto - sara' piu' facile sradicare quegli elementi che possono favorire atteggiamenti antiebraici''. Dopo l'incontro e' stato deciso ''di comune accordo'' di riprendere la celebrazione comune della Giornata di riflessione ebraico-cristiana: ''E' stata comune la convinzione che la ripresa di tale Celebrazione aiutera' la comprensione reciproca e rendera' piu' fruttuosa la collaborazione per la crescita dell'amore verso Dio e il prossimo''.

© Copyright Asca

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Personalmente sono deluso dalle parole di Bagnasco, evidentemente dimentica il suo vero ruolo che non è quello di piacere a tutti, ebrei inclusi, ma di predicare il Vangelo a tutti, ebrei inclusi, egli dimentica il mandato che ha ricevuto: Predicate il Vangelo ad ogni creatura...iniziando da GERUSALEMME fino ai confini del mondo...
Un mandato che ha dato Cristo e che la Chiesa non può esimersi dal compiere, ne prima ne adesso ne in futuro!
Bagnasco dice: ''alcun cambiamento nell'atteggiamento che la Chiesa Cattolica ha sviluppato verso gli Ebrei, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II''

A quale atteggiamento si riferisce?
Forse che il Concilio Vaticano II dica di non predicare il Vangelo agli Ebrei? E questo che intende Bagnasco?
Se sua eccellenza intende questo allora dovrei annoverarlo tra coloro che interpretando male il Concilio ne ha, insieme a tanti altri, frenato lo sviluppo e i frutti di tal Concilio!
Il Concilio non ha MAI affermato tale stupidaggine, ne ha mai detto come dice Bagnasco:  ''non e' intenzione della Chiesa Cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei''. (!!!!)

Questo è andare contro lo Spirito del Vangelo che dice espressamente: (Dio) il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità.
Qual'è la Verità se non Cristo e il Suo Vangelo?
Dimentica forse che lo stesso San Paolo avrebbe dato se stesso per la conversione degli Ebrei suoi concittadini??
E' da poco passato l'Anno Paolino e di già Bagnasco ne ha dimenticato l'insegnamenti Paolini, se fra coloro che dovrebbero incoraggiarci a seguire l'esempio di Paolo non lo seguono, come si può pretendere che i fedeli lo facciano?
E tramite tali messaggi, come si può pretendere di combattere il relativismo, quando parole di questo tipo nascono da un certo relativismo?

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La mia risposta:


Caro Daniele...anch'io in un primo momento sono rimasta senza parole...ma come è mia abitudine (dono immeritato), ho cercato di chiedermi cosa intendesse dire...e cosa dice la Chiesa di sempre...

provo ad analizzare i due punti centrali: ATTEGGIAMENTO E OPERARE ATTIVAMENTE:

 
si legge in un comunicato della Cei ha chiarito che, ''nel modo piu' assoluto'', non c'e' ''alcun cambiamento nell'atteggiamento che la Chiesa Cattolica ha sviluppato verso gli Ebrei, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II'' e che ''non e' intenzione della Chiesa Cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei''.


 Sorriso per prima cosa mi son chiesta:  è inaccettabile?
..."imporre" la nostra fede non è mai stato ordinato dal Magistero della nostra Chiesa bimillenaria, tutto a sta a comprendere il senso di queste parole nella CONTINUITA' del Magistero...

Come è possibile ciò?

Il Concilio Vaticano II NON ha modificato la dottrina verso gli Ebrei, ma L'ATTEGGIAMENTO...la Chiesa ha sviluppato, cioè, una atteggiamento diverso con gli Ebrei associato NON al Concilio Vaticano, ma come spiegò Ratzinger in una omelia di Natale del 2000: "A CAUSA DEGLI EVENTI LEGATI ALL'OLOCAUSTO"....qualcuno li chiama SENSI DI COLPA...comunque li si vogliano chiamare, questi atteggiamenti NON intaccano la dottrina sugli ebrei ben espressa da san Paolo nel capo. 11 della Lettera ai Romani... Occhiolino

l'altra frase che mi sconcerta è questa:

''non e' intenzione della Chiesa Cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei''

la parola stonata è in quel "ATTIVAMENTE"....benissimo, allora sono andata a cercarmi degli esempi concreti di Santi che si recavano, prima del Concilio,  A CASA DEGLI EBREI a convertirli...naturalmenti NON li ho trovati... Ghigno

Perfino san Francesco è partito in Terra Santa si, ma per convertire i musulmani non gli Ebrei... Occhiolino

Allora ho pensato a questo: la Chiesa NON si è MAI prodigata ATTIVAMENTE per la conversione degli Ebrei...dopo la costruzione del Ghetto a Roma, ai predicatori era vietato andarvi a predicare... Occhiolino
Il rapporto, o meglio, l'insegnamento della Chiesa è sempre stato che il predicatore, spesso nelle piazze principali, predicava a chiunque volesse ascoltarlo...la conversione, dottrinalmente parlando è sempre stata una questione PERSONALE semmai da condividere dopo attraverso il catecumenato, il Battesimo e gli altri Sacramenti....quanti Conversi ebrei sono stati accolti dai Conventi? Tantissimi...

Ergo, occorre non spezzare con il passato della Chiesa il concetto di "operare attivamente" Bagnasco avrebbe potuto aggiungervi semmai: ''non e' intenzione della Chiesa Cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei....COSì COME E' DA INTENDERSI, OSSIA CHE NON HA MAI OBBLIGATO GLI EBREI ALLA CONVERSIONE'' ma si sa....LE PAROLE PESANO e si teme di "GRIDARE DAI TETTI LA VERITA'" rischiando semmai di dipingere sempre la Chiesa DEL PASSATO come Colei che operasse attivamente CONTRO la coscienza di qualche individuo...e di cui oggi pentirsene Occhi al cielo

Abbiamo invece un OBBLIGO che nessun Papa nessun Cardinale e nessun Vescovo può vietare: L'EVANGELIZZAZIONE...chiariti i modi per come portarla avanti, chi vuole ascolti, chi non vuole sono affari suoi....non ci resta che PREGARE per chi rifiuta il Cristo.....se mi girasse potrei andare anche davanti al Portico d'Ottavia a predicare....basta che non sia con spirito di provocazione e di sfida....ma se è fatto con spirito vero, sarò semmai passata per pazza... Felice e potrebbero rinchiudermi da qualche parte...o chissà, farmi saltare per aria....e allora? non fu forse crocifisso Gesù per aver ANNUNCIATO LA BUONA NOVELLA a cominciare dagli Ebrei?

Le parole del card. Bagnasco sono così ambigue e molto pericolose...andrebbero spiegate perchè in fondo non dicono una cosa errata, ma nel contesto in cui siamo potrebbero suonare come una resa, il contrario di quanto ci è stato richiesto proprio dal recente Documento sull'Evangelizzazione, che dice:


Il dovuto rispetto per la libertà religiosa
[32] e la sua promozione «non devono in alcun modo renderci indifferenti verso la verità e il bene. Anzi lo stesso amore spinge i discepoli di Cristo ad annunciare a tutti gli uomini la verità che salva»[33].

e nel testo non si dice mai che gli Ebrei sono esclusi dalla Verità o dal riceverla, essa NON CI APPARTIENE, il card. Bagnasco se pensasse a questo contraddirebbe non soltanto la sua missione ma anche quella della Chiesa intera....non ci dimentichiamo che le sue parole possono essere prese solo IN COMUNIONE CON L'INSEGNAMENTO DELLA CHIESA....

Interessante anche il monito di mons. Inos Biffi dalle pagine dell'O.R. di una settimana fa, quando parlando proprio dell'evangelizzazione dice:

Ma forse occorre chiarire che annunziare il Vangelo significa proclamare che soltanto in esso, e nella sua accoglienza, è possibile la salvezza. Le parole di Gesù sono perentorie:  "Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; ma chi non crederà sarà condannato" (Marco, 16, 16).

Pensare diversamente significherebbe rendere superfluo Gesù Cristo o annoverarlo tra altri "salvatori":  né basterebbe, tra questi stessi, riconoscergli un primato.


Egli è assolutamente l'unico. Secondo le parole di Pietro:  "In nessun altro c'è salvezza:  non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati" (Atti degli Apostoli, 4, 12):  anche questo è un passo biblico che non appare oggi molto citato.

In ogni caso, secondo la fede cristiana, non ci sono, né mai ci poterono essere, religioni aventi in sé una grazia salvifica, a prescindere da Gesù Cristo.




Preghiamo piuttosto per avere vescovi martiri IN ITALIA....di questi si che siamo carenti...



SI LEGGANO ULTERIORMENTE I SEGUENTI LINK:

Chiarimenti sulla questione delle LEGGI RAZZIALI

La Chiesa Cattolica NON fu MAI antisemita!

GRAVISSIMO APPELLO DEL PATRIARCA DI GERUSALEMME (fate conoscere)

TEOLOGIA DELLA SOSTITUZIONE: chiariamo il concetto

Vecchia Alleanza, Ant. Testamento o Prima Alleanza? Theologically correct

Il Papa tende la mano ai Rabbini, ma il Talmud è stato ripulito dalle offese?


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/09/2009 18:34
 
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Grazie Tea per questi interessanti testi, alcuni li porterò nel mio forum, nel frattempo ti incollo la mia risposta che ti ho già dato nel mio forum:

Cara Tea, condivido quanto dici, ma permettimi di dire che le parole di Bagnasco sono molto ambigue, non do per scontato che egli sti implicitamente dicendo di non evangelizzare gli Ebrei, difatti la mia risposta non è affermativa ma è posta come domada a dei dubbi che francamente mi sono immediatamente posto leggendo quanto bagnasco ha detto, specialmente dopo le parole di alcuni rabbini in Israele durante il viaggio di Benedetto XVI dove sostenevano che il Vaticano II dicesse che non c'era bisogno che gli Ebrei si convertissero, segue il testo:

"In occasione della sua visita in Israele vorrei cogliere questa occasione per darle il benvenuto, onorevole ospite, Papa Benedetto XVI.
Prego che lei continui l'opera iniziata dal suo predecessore, Giovanni XXIII e da Giovanni Paolo II, ed esprima la sua amicizia per il popolo ebraico e lo Stato di Israele. Vedo nella sua visita in Terra Santa una dichiarazione che attesta la sua intenzione di continuare una politica ed una dottrina che si riferisce al mio popolo come ai "nostri fratelli maggiori" e al "popolo scelto da Dio", con il quale Egli è entrato in una eterna alleanza. Abbiamo molto apprezzato questa dichiarazione. Vi è una lunga, dura e dolorosa storia del rapporto tra la nostra gente, la nostra fede, e la Chiesa cattolica e la sua leadership - una storia di sangue e lacrime. È difficile parlare di questa relazione senza ricordare i secoli della persecuzione degli ebrei da parte della Chiesa. Ma una nuova era è stata inaugurata con la cancellazione della teoria della sostituzione. Nel Concilio Vaticano II e nel documento Nostra Aetate, è stato chiarito che non sarebbero stati più compiuti dalla Chiesa cattolica sforzi per convertire gli ebrei.
Piuttosto, il popolo ebraico deve continuare la fede dei suoi antenati, come espresso nella Bibbia e nella letteratura rabbinica. Il popolo ebraico resta un popolo del patto di Dio, un popolo scelto da Dio per dare al mondo la Bibbia.
In parole povere, la Chiesa cattolica ha accettato il principio teologico che gli ebrei non hanno bisogno di cambiare la loro religione per meritare la redenzione. Spero che lei avrà la possibilità, durante la sua visita in Israele per ribadire questo fatto."

Beh, il dubbio viene, anche perchè nessun prelato all'epoca rispose, mica si può andare avanti così...

Inoltre, sappiamo benissimo che la Chiesa non ha mai insegnato la conversione forzata, non c'era bisogno nemmeno che lo dicesse il Vaticano II, questo è un concetto ribadito da Cristo e dalla Chiesa da duemila anni oltre a essere un concetto naturale dell'uomo.

San Francesco mica andò in Medio Oriente per gli Ebrei ma per incontrare il sultano musulmano, quindi è ovvio che non predicò il Vangelo agli Ebrei.

Il Concilio Vaticano II NON ha modificato la dottrina verso gli Ebrei, ma L'ATTEGGIAMENTO...la Chiesa ha sviluppato, cioè, una atteggiamento diverso con gli Ebrei associato NON al Concilio Vaticano, ma come spiegò Ratzinger in una omelia di Natale del 2000: "A CAUSA DEGLI EVENTI LEGATI ALL'OLOCAUSTO"....qualcuno li chiama SENSI DI COLPA...comunque li si vogliano chiamare, questi atteggiamenti NON intaccano la dottrina sugli ebrei ben espressa da san Paolo nel capo. 11 della Lettera ai Romani...



L'atteggiamento, giusto, condivido, ma anche in passato l'atteggiamento non era diverso, tranne qualche caso particolare, ma il problema sta nelle frasi da te scritte, sensi di colpa, ma di cosa? E' stata la Chiesa l'artefice dell'olocausto? No!
Anzi, i cattolici sono stati tra i più proliferi a cercare di salvare gli Ebrei!
Noi non dobbiamo avere nessun senso di colpa perchè non abbiamo commesso alcun reato verso loro, è un immagine errata della storia.
E non dobbiamo nemmeno aver paura che evangelizzando potremo essere accusati di antisemitismo, poichè è una idiozia.
E questo lo dico con il massimo rispetto verso gli Ebrei, anzi proprio perchè li rispetto e li amo, dico loro che quel Rabbino, citato prima, vi inganna e che senza Cristo non c'è salvezza.

Poi non ho capito perchè si dovrebbe togliere dal messale pre-conciliare la preghiera per gli Ebrei.
Forse loro toglierebbero in segno di rispetto e riconciliazione gli insulti a Maria e Gesù contenuti nel Talmud?

Mah!
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23/09/2009 12:07
 
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Caro Daniele....il dubbio c'è sempre... la situazione che stiamo vivendo è diversa dal passato ed occorrono dunque NUOVE STRATEGIE che possiamo anche NON comprendere, ma che il tempo ci dirà se erano giuste o sbagliate...
Il Patriarca di Gerusalemme dice che alla situazione attuale, la strada bonaria intrapresa dalla Chiesa dal Concilio NON ha portato buoni risultati...e che i Cristiani in Terra Santa stanno scomparendo, dice letteralmente che "abbiamo sbagliato tattica...." e più che affermarlo se lo pone come domanda...confermando piuttosto che viviamo in tempi OSCURI...

Il testo da te riportato è stato, dissero i commentatori in quei giorni, una provocazione del Gran Rabbinato alla temuta Riforma di Benedetto XVI e collegata anche alla questione della Preghiera per gli Ebrei del Venerdì Santo e collegata alla questione infamante contro Pio XII....

la risposta del Papa tuttavia fu ben diversa, egli rispose così:

La fiducia è innegabilmente un elemento essenziale per un dialogo effettivo. Oggi ho l’opportunità di ripetere che la Chiesa Cattolica è irrevocabilmente impegnata sulla strada decisa dal Concilio Vaticano Secondo per una autentica e durevole riconciliazione fra Cristiani ed Ebrei. Come la Dichiarazione Nostra Aetate ha chiarito, la Chiesa continua a valorizzare il patrimonio spirituale comune a Cristiani ed Ebrei e desidera una sempre più profonda mutua comprensione e stima tanto mediante gli studi biblici e teologici quanto mediante i dialoghi fraterni. I sette incontri della Commissione Bilaterale che già hanno avuto luogo tra la Santa Sede e il Gran Rabbinato possano costituirne una prova! Vi sono così molto grato per la vostra condivisa assicurazione che l’amicizia fra la Chiesa Cattolica e il Gran Rabbinato continuerà in futuro a svilupparsi nel rispetto e nella comprensione.



Se facciamo attenzione ai due discorsi il Gran Rabbinato poneva la questione come ATTO DOVUTO, il Papa NO, dice chiaramente che ciò può avvenire...mediante gli studi biblici e teologici quanto mediante i dialoghi fraterni....lo studio e il dialogo vanno di pari passo, basta togliere uno dei due ingrediente e avremo la frittata...Quanto al valorizzare ciò che abbiamo in COMUNE è la verità, è quanto ha insegnato sempre la Chiesa...ciò si basa su quella fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe che entrambi condividiamo, siamo, ossia LA MEDESIMA RADICE DI QUEL PROGETTO DIVINO che per noi in Cristo ha avuto il compimento, per gli Ebrei NO...ma non possiamo usare questo "NO" per muoverci guerra...al contrario, dice il Papa, dobbiamo usare ciò che abbiamo in comune per guardarci CON FIDUCIA...

QUI I TESTI

TUTTI I PONTEFICI per esempio, nei loro Documenti ufficiali NON hanno MAI perseguitato gli Ebrei, san Pio V era così amico del Rabbino di Roma che questi alla fine si convertì come è accaduto con Pio XII...ma ne potremo citare altri...
 Nel 1247, a Valreas, nuova accusa di omicidio rituale per gli ebrei: gli ebrei si appellano al Papa Innocenzo IV  condanna la falsa accusa in termini precisi con una Bolla papale. Papi come Innocenzo IV, Gregorio IX, Gregorio X, Martino V e Niccolò V si opposero espressamente alla falsa credenza nell'omicidio rituale e non esiste alcun Pontefice che abbia sostenuto il contrario...

Con l'arrivo della peste in Europa nasce il secondo mito: sono gli ebrei che diffondono la malattia. Fin dalla primavera del 1348 il percorso della peste è accompagnato dalle sollevazioni popolari contro gli ebrei. La Chiesa, con Clemente VI, condanna con molta forza, nel luglio del 1348 e nell'ottobre dello stesso anno, anche questa falsa credenza....e potremo continuare, ma appare evidente che molti  NON conoscono la storia della Chiesa o peggio, la boigottano...e spesso si fanno apparire le parole del Pontefice come un atteggiamento anticattolico....
La Shoah, altro esempio, NON è un dogma di fede, è solo un problema etico e morale che non può essere usato per dividere i fedeli...il Papa in Terra Santa infatti, l'ha trattato come un problema MORALE tanto che ha ricevuto critiche da alcuni gruppi ebraici (perchè sono spaccati anche fra di loro) che pretendevano di più dal Papa...


Ma dirò di più....

Un esempio? stamani sull'OR c'è la notizia che Israele sta pensando di attaccare l'Iran....ecco che sotto questo aspetto posso comprendere LA SCELTA PRUDENTE DELLA CHIESA di evitare ogni attrito che possa comprottere il bene comune...Posso anche NON essere d'accordo su questa scelta, ma se il rischio di una terza guerra mondiale può dipendere anche dal nostro atteggiamento, allora non ci resta che agire per un bene più grande ed essere di fronte a Dio coloro che hanno fatto di tutto per evitare la guerra...
Tanto se le cose stanno così questa guerra scoppierà lo stesso...ma non si potrà dire, nè si dovrà mai dire, che a provocarla fu la Chiesa...
Occhiolino

La Chiesa NON deve promuovere guerre...il combattere la Buona Battaglia è indirizzato al nostro essere e non verso altri popoli....dal canto mio e nostro questo non compromette affatto la Dottrina solo che questa va applicata nel nostro tempo con i modi che ci sono propri OGGI....pensare di applicare la Dottrina con gli stessi modi di 2mila o 400 anni fa è impensabile...è qui che dimostriamo che la Chiesa è davvero UN CORPO ED E' VIVA....nella capacità di saper trasmettere LA VERITA', usando il linguaggio che ci è proprio, come fece Gesù e che per questo infatti , scandalizzò i farisei.... Ghigno


Gli errori interpretativi del Concilio saranno e verranno corretti, ci vuole solo tempo e pazienza...e magari anche qualche VESCOVO MARTIRE IN ITALIA....Non è facile per Benedetto XVI correggere DA SOLO 40 anni di APOSTASIA....non serve a nulla che noi lo contestiamo o lo critichiamo...anche se, attenzione, ESSERE CONTRARI ALLA POLITICA SCELTA DALLA SANTA SEDE E' LEGITTIMO E NON COMPROMETTE LA NOSTRA COMUNIONE CON PIETRO (cfr Galati 2) L'IMPORTANTE E' NON USARE QUESTE SCELTE COME UNO SCOLLAMENTO DELLA DOTTRINA...
se è appunto nel Magistero che si esprime bene ed infallibilmente il Pontefice, bene, applichiamo quanto dice LASCIANDO LA POLITICA agli altri....NESSUNO PUO' IMPEDIRMI DI ELEVARE SUPPLICHE PER LA CONVERSIONE DEGLI EBREI....l'importante è che io stessa preghi prima di tutto PER LA MIA CONVERSIONE...e che viva una fede coerente....e che non usi la mia fede o la stessa Chiesa per muovere guerra ad un popolo...

Infatti ecco le parole usate nel discorso al presidente israeliano, impossibile NON condividerle:

Oggi desidero assicurare a Lei insieme al suo Governo appena formato, come pure a tutti gli abitanti dello Stato di Israele, che il mio pellegrinaggio ai Luoghi Santi è un pellegrinaggio di preghiera in favore del dono prezioso dell’unità e della pace per il Medio Oriente e per tutta l’umanità. In verità, ogni giorno prego affinché la pace che nasce dalla giustizia ritorni in Terra Santa e nell’intera regione, portando sicurezza e rinnovata speranza per tutti.
 
La pace è prima di tutto un dono divino. La pace infatti è la promessa dell’Onnipotente all’intero genere umano e custodisce l’unità. Nel libro del profeta Geremia leggiamo: “Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza” (29,11). Il profeta ci ricorda la promessa dell’Onnipotente che “si lascerà trovare”, che “ascolterà”, che “ci radunerà insieme”. Ma vi è anche una condizione: dobbiamo “cercarlo”, e “cercarlo con tutto il cuore” (cfr ibid. 12-14).

*********************

c'è dunque UNA CONDIZIONE, sottolinea il Papa, che NON dipende dalla politica o da altro, MA DAL CUORE....questo si che è compito del Pontefice...spingere la gente ad usare il Cuore per TROVARE la vera Pace....

Infine, nella Sala della Rimembranza dello Yad Vashem, il Papa ha detto:

La Chiesa Cattolica, impegnata negli insegnamenti di Gesù e protesa ad imitarne l’amore per ogni persona, prova profonda compassione per le vittime qui ricordate. Alla stessa maniera, essa si schiera accanto a quanti oggi sono soggetti a persecuzioni per causa della razza, del colore, della condizione di vita o della religione – le loro sofferenze sono le sue e sua è la loro speranza di giustizia. Come Vescovo di Roma e Successore dell’Apostolo Pietro, ribadisco – come i miei predecessori – l’impegno della Chiesa a pregare e ad operare senza stancarsi per assicurare che l’odio non regni mai più nel cuore degli uomini. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio della pace (cfr Sal 85,9).



Grazie a te per avermi dato l'opportunità di approfondire l'argomento...
Oggi è san Padre Pio, chiediamogli di intercedere affinchè possano sorgere VESCOVI SANTI E MARTIRI...
Amen!



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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....dal Blog amico: CANTUALE ANTONIANUM

mercoledì 23 settembre 2009

Ma Gesù rispose: "Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele" (Mt 15,24)

La nota del 22/09/2009 della Conferenza Episcopale Italiana attribuisce al Card. Bagnasco il seguente pensiero che sarebbe stato espresso in occasione dell'incontro del presidente della CEI con i Rabbini di Roma e Milano Di Segni e Laras:
"Non c’è, nel modo più assoluto, alcun cambiamento nell’atteggiamento che la Chiesa Cattolica ha sviluppato verso gli Ebrei, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II. A tale riguardo la Conferenza Episcopale Italiana ribadisce che non è intenzione della Chiesa Cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei"

Ora, stiamo attenti alle parole e interpretiamole in modo corretto, altrimenti, come certo faranno i giornali, si potrebbe pensare che il Cardinale esorta a disubbidire al mandato apostolico universale affidato da Cristo alla sua Chiesa. Cosa che evidentemente neanche il Papa potrebbe fare. Certo - si deve ammettere - questa dichiarazione rischia di essere ambigua, politicamente cesellata per dire una cosa gradita alla controparte, pur senza contraddire il chiaro dettato evangelico. La questione è complessa, ma va distinta la ragion politica dalla ragion teologica. La nota nasce per le esigenze di ricucire uno strappo nelle relazioni tra il rabbinato italiano e la Chiesa Cattolica. Gli ebrei sono - giustamente- suscettibili su alcuni tasti e l'episcopato del nostro paese deve rassicurare che nessun cattolica attenta all'esistenza di Israele, né su può prendere a pretesto il passato per accusare la Chiesa di oggi di perseguitare gli ebrei. D'altra parte non si può pretendere che la visione della fede cristiana e la "destinazione universale" della grazia in Gesù Cristo subisca coartazione di sorta.

Innanzitutto vediamo cosa dice il Concilio Vaticano II sugli ebrei. Il testo della Nota citata accenna al paragrafo 4 della Dichiarazione conciliare Nostra, ritenendolo sempre valido:

La religione ebraica

Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo.

La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti.

Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede (Cf. Gal 3,7), sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i gentili (Cf. Rm 11,17-24.). La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso (Cf. Ef 2,14-16). Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell'apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua razza: « ai quali appartiene l'adozione a figli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine.

Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo.

Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata (Cf. Lc 19,44.); gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione (Cf. Rm 11,28.). Tuttavia secondo l'Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento (Cf. Rm 11,28-29; CONC. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium: AAS 57 (1965), p. 20 [pag. 151ss]). Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e «lo serviranno sotto uno stesso giogo» (Sof 3,9) (Cf. Is 66,23; Sal 64,4; Rm 11,11-32).

Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo.

E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo (Cf. Gv 19,6.), tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo.

E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo.

La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. In realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come segno dell'amore universale di Dio e come fonte di ogni grazia.

--------------

Ho messo in evidenza alcuni passi, per mostrare che:

1) L'ebraismo conosce già e adora già il vero Dio, che il Dio d'Israele. Quindi - dal punto di vista teologico - chi già crede nel Dio di Mose e accoglie le Scritture del Primo Testamento non ha tecnicamente bisogno di convertirsi. Qui non si intende questo termine nell'accezione morale, ma nel senso di passare dalla non-fede (o dall'idolatria) al riconoscimento di Dio.
L'ebreo osservate, come San Paolo mostra con la sua vita, non ha bisogno di questa conversione. E noi cristiani provenienti dalle genti, cioè di ascendenza pagana, dobbiamo riconoscere che Dio si è scelto il popolo di Israele e ad esso ha deciso di rivelarsi: questo è vero da Mosè fino a Gesù compreso. Da Israele e dall'ebreo Gesù e dagli apostoli (tutti ebrei) tutti i popoli hanno imparato ad adorare il Vero Dio.

2) Agli ebrei e a tutti gli altri popoli Dio ha voluto rivelare in Gesù il Messia promesso. Egli l'incarnazione stessa di Dio, il Redentore, colui che riscatta non solo il suo popolo (prima di tutto il suo popolo) ma anche ogni altro uomo. Questa definitiva rivelazione è stata annunciata prima di tutto agli israeliti, che sono e rimangono i primi destinatari dell'annuncio evangelico. Su questo non può esserci alcun dubbio. Che quindi, anche gli ebrei, come tutti gli uomini di questo mondo, siano chiamati da Dio a riconoscerlo in Gesù Cristo, non può essere messo in discussione da nessun cristiano.

3) Nel Nuovo Testamento, soprattutto negli Atti degli Apostoli, è evidente come il problema della prima Chiesa apostolica era se si doveva annunciare il vangelo ai pagani, non se si doveva farlo nei confronti degli ebrei. Era e rimane ovvio che essi sono i primi destinatari dell'annuncio di Gesù Cristo, Messia e Figlio di Dio. Nel vangelo di Matteo (10,5.-6) troviamo addiritura questa formulazione del primo mandato missionario: «Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: "Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele».

4) Non è quindi corretto pensare o attribuire al Card. Bagnasco l'idea che egli non voglia che gli ebrei riconoscano in Gesù il vero Dio al quale sono da sempre rivolti (= convertiti).

5) La nota precisa che non sarebbe intenzione della Chiesa "operare attivamente" per la conversione degli ebrei. Questa frase è evidentemente di natura politica: si intende rassicura gli ebrei che nessuna opera di coercizione nei loro confronti può essere tollerata (come purtroppo è accaduto in passato) da parte dei cristiani. Non possono essere oggetto di attività proselitistica come pagani da ricondurre al vero Dio, ma non si intende che non si preghi e non si continui ad esporre loro (come la Chiesa fa con tutti gli uomini indistintamente) l'appello di Gesù Cristo. Sarebbe ridicolo chi solo lo pensasse!

Papa Benedetto, nel ritoccare la preghiera per gli ebrei inserita nel Messale del Beato Giovanni XXIII così la formula: «Il Signore illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini».
Se Cristo è il Salvatore di TUTTI gli uomini, lo è innazitutto dei suoi fratelli secondo la carne, cioè dei discendenti di Abramo, i quali devono essere liberi di riconoscerlo e aderire a lui, senza essere fatti oggetto di discriminazione o di pressioni indebite.

6) Chi estrapolasse dalle parole di Bagnasco la teoria per cui gli ebrei - secondo la teologia cristiana - non avrebbero bisogno della Salvezza operata da Cristo, di cui invece hanno bisogno tutti gli altri uomini per salvarsi, sarebbe ovviamente e completamente fuori strada. Come lo sarebbe chi interpretasse la frase del Cardinale come invito a non accogliere nella chiesa chiunque, ebreo o proveniente dalle nazioni, chiedesse di essere battezzato dopo aver creduto in Cristo. Lo ribadisco, la Chiesa non vuole convertire gli ebrei perchè essi, a differenza di tutti gli altri uomini, sono già nell'alleanza con Dio per la benevolenza di Dio manifestata ad Abramo e alla sua discendenza. Ma la Chiesa, che è il popolo di Dio composto di uomini e donne provenienti dall'ebraismo e dal paganesimo, aspetta sempre e prega per il ritorno di tutti gli Israeliti, perchè possano riconoscere Gesù come Messia e riprendere il posto d'onore che ad essi compete nell'universale assemblea dei Credenti.

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Ho affrontato da altre angolazioni la stessa questione in alcuni post del passato:


Fraternamente CaterinaLD

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24/09/2009 16:37
 
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«Sugli Ebrei: così, serenamente»
Brunero Gherardini

PER IL TESTO ORIGINALE E COLLEGAMENTI
CLICCATE QUI


Mons. Brunero Gherardini è nato a Prato il 10 febbraio 1925 ed è stato ordinato Presbitero il 29 giugno 1948 a Pistoia per la Diocesi di Prato. Dopo un lungo servizio presso la Santa Sede, prima come officiale dell'allora Sacra Congregazione dei Seminari, poi come professore ordinario d'ecclesiologia nella Facoltà Teologica (di cui è stato anche decano) della Pontificia Università Lateranense, è canonico della patriarcale Basilica di S. Pietro, Consultore della Congregazione delle Cause dei Santi e membro della Pontificia Accademia S. Tommaso d'Aquino. È il postulatore della causa di beatificazione del Beato Papa Pio IX. Dal 2000 dirigo la Rivista internazionale "Divinitas".
Autore del libro: Mons. B. Gherardini: Conc.Ecum Vat. II Un discorso da fare (pref. del vescovo Oliveri)





La questione ebraica si riaccende spesso e non di rado divampa, assumendo toni d'intolleranza intimidatoria e ricattatoria, per colpa di qualche cattolico estremista, o dei c.d. gruppi fondamentalisti, ma anche - e più frequentemente di quel che si creda - per colpa degli stessi Ebrei.

Sull'argomento intervengo con la stessa serenità con cui, a suo tempo, presi posizione favorevole alla tesi di R. Martin-Achard(1) circa «l'universalismo» d'Israele(2), e con lo stesso spirito che, ancor prima, da prete novello, m'inclinò verso un'associazione internazionale di preghiere per il mondo ebraico e successivamente verso l'«Amicizia ebraico-cristiana». Spero che tali precedenti allontanino del tutto dalla mia persona il sospetto della prevenzione.

Ovviamente, non intervengo sulla complessità ed i vari aspetti della questione ebraica: non ne ho la competenza, né dispongo dello spazio necessario per un compito di sì vasto respiro. M'auguro pure che nessuno, ragionevolmente dissentendo da quanto sto per dire, veda nella mia posizione un ennesimo rigurgito d'antisemitismo: sarebbe un non-senso, sia perché semitismo ed antisemitismo attengono all'aspetto razziale della questione - al quale mi sento assolutamente estraneo - sia perché l'interesse teologico, l'unico dal quale son mosso, trascende i limiti della razza e perfino della stessa natura: "Non est Judaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus neque femina" (Gal 3,28).

L'aspetto della questione ebraica che desidero metter a fuoco ha due lati: l'uno si ricollega direttamente alla morte di Cristo, l'altro alla continuità/discontinuità tra sinagoga e Chiesa, o meglio tra religione ebraica e Cristianesimo.

- Gli Ebrei e la morte di Cristo -

Da quando il mondo intero poté assistere al film The Passion di Mel Gibson, è passato del tempo: quel tanto ch'era necessario per parlarne liberi dal forte impatto emotivo che la pellicola ebbe sulle coscienze dei vari spettatori. Tra le reazioni più intransigenti, ed in qualche caso anche scomposte, emersero quelle di provenienza ebraica. La ragione di esse discendeva dalla sostanziale aderenza del film ai dati storici del Nuovo Testamento. E poiché codesti medesimi dati collegano la crocefissione di Cristo alla parte in essa sostenuta dagli Ebrei, dal mondo ebraico si sollevarono, e tuttora si sollevano, alte proteste.

Televisioni giornali e riviste di tutto il mondo, a più riprese, ne misero in evidenza i momenti salienti. In uno di questi era visibile in primo piano un cartello con la seguente scritta: The Passion is a lethal Weapon against Jews
(3).

L'impressione, ampiamente confermata da tali reazioni, è che l'Ebreo d'oggi veda un po' in tutti, dovunque ed in tutte le direzioni attacchi letali all'immagine dell'Ebraismo. È poi un fatto innegabile che si è ben al di là dell'impressione dinanzi all'accusa lanciata contro la pellicola di Mel Gibson dall' "Anti-Defamation League" - un organismo operante ormai dal 1913 all'ombra e per iniziativa della potentissima B'nai B'rîth(4). L'accusa si fonda sulla negazione della storicità degli Evangeli, fonte primaria di Mel Gibson, nonché sul presunto ripudio da parte cattolica sia di Nostra aetate, erroneamente definita enciclica, sia della "dottrina papale degli ultimi decenni"(5).

Gravissima è la parte dell'accusa che destituisce gli scritti neotestamentari di validità storica. Ancor più grave è che cattolici più o meno rappresentativi se ne faccian difensori e portavoce. Costoro dimenticano - voglio sperare che non lo faccian di proposito - le conseguenze deleterie che ne deriverebbero sul dogma cattolico in genere, ed in specie sui dogmi dell'incarnazione, della rivelazione e dell'ispirazione biblica(6). Sta di fatto, però, che all'umile confessione si preferisce la deriva del patrimonio dogmatico sopra accennato e con esso, di conseguenza, della stessa fede cattolica. La ragione? Una sola: non urtare la suscettibilità del mondo ebraico.

L'editrice Ancora ha diffuso una Guida alla lettura del film "La Passione secondo Mel Gibson"(7). Nell'introduzione alla quarta parte si legge: "È vero che gli Evangelisti nel raccontare la Passione insistono unilateralmente (il corsivo è mio) sulla responsabilità dei Capi giudaici (c.s.) nella condanna di Gesù e tendono ad assolvere (c.s.) i Romani. Ma la loro posizione risente d'un particolare momento storico. Mentre scrivevano, gli Evangelisti facevano parte d'una comunità che doveva tenersi buoni i dominatori romani, mentre era spesso perseguitata dai Giudei che non vedevano bene l'espandersi della prima comunità cristiana"(8). Un tal modo di ragionare, non privo - e lo si costaterà subito - d'inesattezze storiche in antitesi alla testimonianza delle fonti, è l'eco fedele di quello diffuso ad arte in atmosfera conciliare e postconciliare, al seguito di Nostra aetate. L'ecumenismo parve un'esigenza primaria e divenne un "molok" al quale si sacrificò molto, se non proprio tutto.

Si volle creare e stabilizzare un'atmosfera nuova in vista di più amichevoli rapporti tra Ebraismo e Cristianesimo. Si doveva rimuovere la coltre dei vecchi rancori e dissipar i secolari contrasti, addensatisi subito dopo l'esecuzione capitale di Cristo. A tal fine, una re-interpretazione del testo sacro che ne espungesse o devalorizzasse i riferimenti antigiudaici, parve un'urgenza senz'alternative. Ricordo bene come s'espresse a tale riguardo il card. J. Willebrands - ormai "alla verità", come si dice in Toscana dei defunti - nella sua veste di responsabile dell'organismo vaticano per la riunificazione dei cristiani: andando ben oltre la delimitazione "cristiana" del suo compito istituzionale, s'improvvisò storico ed esegeta biblico, confondendo antisemitismo e giudizio critico nei riguardi d'Israele. Il 14 marzo del 1985, infatti, a Oxford, nel quadro d'un incontro ecumenico, indicò com'espressione della reazione cristiana all'ostilità degli Ebrei contro Cristo e la sua Chiesa le parole del Nuovo Testamento che "hanno avuto conseguenze antisemitiche e contribuito ad una visione negativa dei Giudei e del giudaismo"(9).

Una tale esegesi, figlia naturale della Formgeschichtliche Methode e pertanto sostanzialmente avversa alla storicità ed ispirazione dei testi sacri, fu ripresa in tutti gl'incontri tra Ebrei e Cristiani, per dar una spiegazione storicistica ai passaggi neotestamentari non favorevoli agli Ebrei stessi. Identica spiegazione ritroviamo oggi anche negli atti ufficiali del mondo cattolico. Per l'emozione ch'esso suscitò, molti - immagino - hanno ancora presente il documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoa, del 16.03.2005. Il par. 3 di esso è frutto della suddetta esegesi, la quale affiora pure nel par. 5. Vi si leggono, infatti, parole eversive insieme della storia e dei racconti evangelici: "Gruppi esagitati di Cristiani... assalivano... le sinagoghe, non senza subire l'influsso di certe erronee interpretazioni del Nuovo Testamento concernenti il popolo ebraico nel suo insieme... Tali interpretazioni... (che) son circolate per troppo tempo, generando sentimenti d'ostilità nei confronti di questo popolo,... sono state totalmente e definitivamente rigettate dal Concilio Vaticano II"(10).

È indiscutibile che, se i primi Cristiani o i loro posteri misero a ferro e fuoco le sinagoghe ebraiche, non son degni di memoria storica che non sia un'aperta condanna. Ma che le interpretazioni di testi, oltretutto d'evidenza cristallina, debban considerarsi "erronee" solo perché ne rilevano il contenuto non molto lusinghiero per il mondo ebraico, è ingiustificabile per più d'una ragione.

Anzitutto, non è affatto vero che l'insistenza sulle responsabilità ebraiche della crocefissione di Cristo sia da attribuire "unilateralmente" agli Evangelisti. Chiunque lo sostenga, o è prevenuto o non è informato. Anche un modesto cultore di storia e di filosofia conosce Rabbi Moses Ben Maimon (o Maimonide, 1135-1204), il più rinomato pensatore giudaico del Medioevo, studioso e commentatore accurato del Talmúd(11). E proprio Maimonide, cioè un ebreo (e quale ebreo!) dichiarò apertamente che "gli Ebrei ebbero davvero un ruolo determinante nella morte di Gesù e che ne avevano tutte le ragioni"(12). Son le ragioni che si leggono nel Talmúd, un commento ufficiale, nella sua definitiva configurazione verificatasi attorno al 500 d.C., della Legge mosaica(13); più esattamente, un commento che "si occupa degli innumerevoli aspetti della legge ebraica, ma lascia aperte le conclusioni mandatórie... È in se stesso un rituale, un'opera di sacro intellettualismo"(14). E come tale, della condanna a morte di Cristo ad opera dei capi d'Israele dà la seguente giustificazione, poi ripresa da Rabbi Maimonide: "praticò magia, seduzione e corruzione corruziones"(15).

Non sussiste alcun dubbio, in effetti, sul fatto che le fonti del pensiero ebraico e le sue ufficiali spiegazioni, cioè la Mishnah ed il Talmúd, riconoscono pienamente legittima la condanna a morte di Cristo, in base ai "suoi crimini" d'empietà e di magia; e riconoscono pure inevitabile che, per tali crimini, i capi pronunciassero la detta condanna. Oggi lo rileva anche, con estrema correttezza, D. Klinghoffer, uno scrittore ebreo al di sopra d'ogni sospetto(16).

Chi, pertanto, ha definito "unilaterale" il racconto evangelico che addebita ai capi ebraici la morte in croce di Cristo, rinnega la storia e - ne son certo, in buona fede - accredita il falso.

Chi poi limita codesto addebito ai soli capi, cade in una seconda inesattezza. È vero, infatti, che la responsabilità dell'uccisione di Cristo ricade in buona parte sulla coscienza dei capi d'Israele. È vero, cioè, che "principes sacerdotum et omne consilium quaerebant falsum testimonium contra Jesum" (Mt 26,29; cf 27,1) e che, in una spasmodica ricerca dei capi d'accusa, sobillavano accanitamente la plebaglia contro Gesù e subornavano le autorità romane. Quando poi fu posta l'alternativa tra Gesù e Barabba, "principes sacerdotum et seniores persuaderunt populis ut peterent Barabbam, Jesum vero perderent" (Mt 27,20).

Che dunque "principes sacerdotum et seniores - et omne consilium" - abbian la propria parte di responsabilità e non certo l'ultima, nessuno può onestamente negarlo. Ma non si può negare nemmeno che i capi non furon gli unici responsabili. Ad un certo punto, l'intera popolazione insorse. In realtà, venuto il momento cruciale, s'assiste al coinvolgimento di "tutti" in una responsabilità comune. Gesù, colui ch'era passato in mezzo ai contemporanei facendo del bene a tutti (Act 10,38), viene ora sputacchiato schiaffeggiato deriso flagellato e coronato di spine; lo spettacolo è toccante e potrebbe indurre non pochi alla resipiscenza.

Se non che, mentre "pontifices et ministri clamabant, dicentes: Crucifige, crucifige eum" (Gv 19,6), si leva pure il grido della folla sobillata: "Omnes dicunt: crucifigatur" (Mt 27,22). Quel grido si fa presto parossistico: non questa o quella persona, ma "universus populus dixit: Sanguis eius super nos et super filios nostros" (Mt 27,25)
(17).

È un grido d'una drammaticità sconvolgente. I benefici ricevuti e l'esaltazione del trionfale ingresso in Gerusalemme son di punto in bianco cancellati. La folla non ha più fame e sete della Parola di Dio, né dei miracoli che Dio aveva tante volte operato attraverso Cristo, e non ricorda più d'essere stata anche recentemente da Lui sfamata: improvvisamente ciecamente satanicamente ne invoca la morte ed auspica di venir presto irrorata, insieme con i propri figli, dal sangue di Lui.

Il quadro è d'una trasparenza indiscutibile. Nessuno, perciò, può sentirsi autorizzato a modificarlo tanto nella sostanza, quanto nei particolari. Nessuno, cioè, può parlare d'unilateralità degli Evangeli nel sottolineare le responsabilità giudaiche della morte di Cristo, per la semplice ragione che gli Evangeli si limitano a registrare la notizia di tali responsabilità, comuni ai capi e all'intero popolo ebraico.

C'è una terza inesattezza, al seguito delle precedenti: quella degli Evangeli che scaricano sul mondo ebraico il peso morale dell'esecuzione mortale di Cristo, per metter un velo sulla parte che vi ebbero i Romani. La giustificazione addotta è veramente puerile offensiva ed ingiusta, riguardando uomini,che, intrepidi e a testa alta, "ibant gaudentes...quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati" (Act 5,41). L'accennata giustificazione concerne un non confessato tentativo di tener buono l'invasore Romano per non urtarne la suscettibilità, come a dire, un accarezzar il lupo per il verso del pelo. Che all'alba del Cristianesimo ci siano stati dei "lapsi" perché incapaci di fronteggiare la prospettiva del martirio, si sa e non è uno scandalo: anche i primi cristiani erano degli uomini e non tutti gli uomini son degli eroi. Ma che gli agiografi neotestamentari, tutti testimoni di Cristo fin allo spargimento del proprio sangue, abbian tentato d'ammansire la giustizia romana, potrebb'esser sostenuto soltanto in base a sicuri documenti. Ci sono? Dove? Quali? È evidente che quando la storia vien ricostruita non quale ci fu consegnata dalle fonti, ma quale si vorrebbe che le fonti ci consegnassero, alla fantasia ed alla prevenzione non ci son limiti.

2 - I testi incriminati

- Innanzi tutto li passerò in rassegna; quindi tenterò di coglierne il senso genuino.

Si tratta dei testi riguardanti le premesse della sentenza capitale a carico di Gesù, nonché la sua esecuzione. Nel prenderli in esame, specie là dove si disponga di testi paralleli, sceglierò l'una o l'altra redazione, non senza segnalarne tutto il contesto per la completezza dell'informazione. Ecco, dunque, i testi relativi alle premesse.

Inizio da Mt 22,15: "Pharisaei consilium inierunt ut caperent eum (Jesum) in sermone". Altrettanto, ma non senza qualche piccola variante, si legge in Mc 12,12; in Lc 20,20; in Gv 8,6. Dal punto di vista letterario, la formula indicante il riunirsi dei capi ebraici con lo scopo di discutere la colpevolezza di Cristo e di condannarlo, compare non una volta sola. E chiarissimo è il suo senso. La predicazione di Gesù, ora direttamente ora indirettamente, aveva colpito in pieno petto specialmente i Farisei. Questi, che non eran certamente degli stupidi, s'eran resi conto d'esser il bersaglio preferito del biondo Rabbi Nazareno e per tale motivo corsero ai ripari: un pretesto, colto dalle sue stesse labbra, per accusarlo. Oltretutto, non era la prima volta che si comportavan in tal modo; Mc 3,6 lo documenta chiaramente, e s'era appena agl'inizi della vita pubblica di Gesù: "Pharisaei statim cum Herodianis consilium faciebant adversus eum quomodo eum perderent". La conferma viene da Mt 12,14: "consilium faciebant adversus eum, quomodo perderent eum".

Persistendo nel loro atteggiamento inquisitorio e preoccupati del fatto che Gesù avesse ridotto al silenzio i Sadducei in tema di risurrezione (Mt 22,23-33; Mc 12,18-27; Lc 20,27-40; Act 23,6.8), continuarono ad interrogarlo mediante un loro legisperito, alla ricerca d'un pretesto accusatorio (Mt 22,34-36; Mc 12,28-31; Lc 20,25-28). Dal canto suo, Gesù dava l'impressione, con disinvolta e coraggiosa parrhesìa, di voler offrire lui stesso il desiderato pretesto: prima infatti invitò le turbe a metter in pratica l'insegnamento degli Scribi e dei Farisei (Mt 23,3: "Omnia quaecumque dixerint vobis, servate et facite"), ma subito aggiunse: "Secundum opera vero eorum, nolite facere": non seguitene l'esempio, non l'incoerenza tra il dire ed il fare, non l'ambizione e l'ipocrisia, non la cecità spirituale, le rapine, le immondezze, le persecuzioni contro i profeti e la loro soppressione (Mt 23,4-39, e numerosi passi paralleli). Le posizioni vennero così ribaltate: l'accusato si fece freddo e deciso accusatore.

Il tramare nell'ombra, però, continuava. Mt 26,3 lo documenta: "Tunc congregati sunt principes sacerdotum et seniores populi in atrium principis sacerdotum, qui dicebatur Caiphas; et consilium fecerunt ut Jesum dolo tenerent et occiderent. Dicebant: non in die festo, ne forte tumultus fieret in populo" (Mc 14,1.2; Lc 22,1.2; 20,18).

Da rilevare quel "dolo" del testo mattaico: in esso son riconoscibili i tratti della cospirazione, poi esaltati dal tradimento: un apostolo mercanteggia il Maestro con i principi dei sacerdoti e pattuisce le modalità della consegna, presto esattamente rispettate (Mt 26,14-16; Mc 14,10.11; Lc 22,3-6). Da rilevar pure quanto sia insistente e reiterata l'indicazione dei capi ebraici: l'attenzione è tutta proiettata verso il loro comportamento. Che, peraltro, in qualche caso sa anche dissimularsi. Quando, nel Tempio, Gesù rivendica l'origine divina della sua dottrina, chiede ai Giudei: "quid me quaeritis interficere"? Essi gli danno dell'indemoniato ed osservano: "quis te quaerit interficere"? (Gv 7,20) E rinnoveranno l'accusa d'indemoniato anche in seguito (Gv 8,48.52; 10,20).

Da Mt 26,57-58 si vien a sapere che, arrestato Gesù, la turba lo condusse da Caifa "principem sacerdotum, ubi Scribae et seniores convenerant". Ciò significa che il collegio giudicante s'era ufficialmente ed istituzionalmente riunito. Mancando però l'oggetto del giudizio, "quaerebant falsum testimonium contra Jesum, ut eum morti traderent" (Mt 26,59). Lo scopo ch'era stato ripetutamente dichiarato, fu ancor una volta la molla dalla quale le trame dei capi venivan mosse: si voleva la morte di Cristo. A tal fine, anche due soli falsi testimoni eran più che sufficienti (Mt 26, 61). La seduta si chiuse con una scena drammatica: dopo che Cristo s'era autoproclamato Figlio di Dio, "princeps sacerdotum scidit vestimenta sua, dicens: blasphemavit; quid adhuc egemus testibus? ...audistis blasphemiam: quid vobis videtur? At illi respondentes dixerunt: reus est mortis" (Mt 26,65-66; Mc 14,52ì3-72; Lc 22,54-71; Gc 18,12-27). Non si trattò affatto d'una farsa. Per la mentalità ebraica e per la Legge, Gesù, proclamandosi Dio, era davvero un bestemmiatore meritevole della pena capitale. II tribunale poté solo trarne le conseguenze.

Il cap. 27 di Mt s'apre portando nuovamente in primo piano "principes sacerdotum et seniores populi adversus Jesum, ut eum morti traderent" (Mt 27,1; Lc 22, 66; Gv 18,28). D'improvviso, però, il tribunale ebraico - quel medesimo tribunale che in Gv 19,7 rivendicherà l'urgenza della Legge, sentenziando: "nos legem habemus et secundum legem debet mori" - riversò sul tribunale romano la responsabilità della sentenza: "Et vinctum adduxerunt eum et tradiderunt Pontio Pilato praesidi" (Mt 27, 2; Lc 23,1; Gv 18,31-32). II tribunale romano, sensibile alla ragion di stato quanto gli Ebrei alla bestemmia, iniziò la sua indagine. Chiese, per bocca del suo presidente, se Gesù fosse re, ponendolo sotto il fuoco incrociato dell'accusa di cui i capi l'imputavano (Gv 10,33: "quia tu, homo cum sis, facis teipsum Deum") e della domanda che Pilato, geloso custode della sovranità romana, gli rivolgeva (Lc 23,3: "Tu es rex Judaeorum"? Gv 19,37) 1 capi, intanto, e la turba dai medesimi sobillata gridavano: "Qui se regem facit, contradicit Caesari!...non habemus regem, nisi Caesarem" (Gv 19,12.15). E Gesù, dopo un pacato "tu dicis" in risposta affermativa alla domanda di Pilato sulla sua regalità, né a lui, né alle grida provocatorie della folla aggiunse una parola. L'attesta Mt 27,14: "Non respondit ei (Pilato) ad ullum verbum"; poco sopra leggiamo: "Et cum accusaretur a principibus sacerdotum et senioribus, nihil respondit" (Mt 27,12).

Non ci volle molto perché Pilato si convincesse dell'innocenza di Gesù, com'egli dichiara apertamente in Gv 18,38 (19,4; Lc 23,22): "Causam (mortis) invenio in eo nullam". Evidenti furon pure i suoi tentativi di liberarlo. Quando però s'accorse della loro inutilità e del tumulto che andava crescendo, "lavit manus coram populo, dicens: innocens ego sum a sanguine iusti huius; vos videritis". In quel momento la folla invocò il sangue di Cristo su di sé ed i propri figli (Mt 27,24-25; 23,35; Act 5,38).

Forse, in Pilato prevalse anche il timore che un'eventuale liberazione di Cristo mettesse in dubbio la sua fedeltà a Cesare; ed alla folla che proprio questo gli rinfacciava, cedette rassegnato. Fece quindi fustigare Gesù e lo consegnò poi nelle mani dei capi e della folla stessa, perché secondo la loro Legge lo mettessero in croce (Mt 27,25-26; Gv 19,15-16).

E così fu.

Dopo il racconto della crocefissione, ha inizio un secondo gruppo di passi neotestamentari, dei quali qualche cenno, a puro titolo esemplificativo, ho anticipato nella parte iniziale di questo scritto: sono quelli riguardanti, direttamente o no, la parte avuta dagli Ebrei nella morte di Gesù.

Appena cominciaron a diffondersi i primi indizi della sua risurrezione, l'insieme del mondo ebraico unitamente ai suoi capi ritornò in primo piano. Alla scoperta del sepolcro vuoto, "quidam de custodibus venerunt in civitatem et nunciaverunt principibus sacerdotum omnia quae facta fuerant" (Mt 28,11). L'Evangelista mette subito in evidenza la doppiezza di quei capi, i quali, per non piegarsi né all'evidenza del sepolcro vuoto, né al racconto delle pie donne che giuravano d'aver visto il Risorto e parlato con Lui, inventarono la storiella del trafugamento del cadavere: "Dicite quia discipuli eius nocte venerunt et furati sunt eum, nobis dormientibus" (Mt 28,12-13). La loro falsità è resa più grave dal denaro ("pecuniam copiosam") con cui la sostennero e dall'apparente zelo con cui richiesero a Pilato una sorveglianza speciale "ne forte veniant discipuli eius et furentur eum" (Mt 27,64). Raffinata doppiezza, che passerà poi emblematicamente nel nome stesso di Fariseo.

Una circostanza fa riflettere. In Gv 7,13 s'avverte l'atmosfera che già prima dell'esecuzione capitale di Cristo s'era largamente diffusa: "Nemo palam loquebatur de illo propter metum Judaeorum". Questo medesimo timore, ad esecuzione compiuta, imprigionò i discepoli nel cenacolo, che i medesimi sprangarono accuratamente sempre "propter metum Judaeorum" (Gv 20,19). Evidentemente, le reticenti esigenze del dialogo eran ancora di là da venire e la paura che il trattamento usato con Cristo fosse esteso anche ai cristiani, per un verso tenne costoro alla larga dagli Ebrei, per un altro non impedì che la ricostruzione storica fosse fedele alla realtà dei fatti.

Nello sbarrato cenacolo, dunque, s'eran nascosti i Dodici, unitamente a Maria e alle pie donne, "perseverantes unanimiter in oratione" (Act 1,14). In occasione della Pentecoste successiva alla morte e risurrezione di Gesù, ripieni di Spirito Santo usciron all'aperto. In Gerusalemme, con gli Ebrei c'eran "viri religiosi ex omni natione quae sub caelo est" (Act 2,5); essi avevano ascoltato gli Apostoli ciascuno nella propria lingua (Act 2,8). Rivolto direttamente agli Ebrei, Pietro non nascose la verità dei fatti dietro parole di comodo; fu perentorio: "Jesum Nazarenum...per manus iniquorum affligentes, interemistis" (2,22.23). Con la consapevolezza del testimone oculare, continuò: "Hunc Jesum resuscitavit Deus, cuius omnes nos testes sumus...certissime sciat ergo omnis domus Israel, quia Dominum eum et Christum fecit Deus, hunc Jesum, quem vos crucifixistis" (Act 2,29.32.36).

Contrariamente a quanto oggi avviene, i destinatari delle parole di Pietro né le rifiutarono, né s'inalberarono, ma umilmente chiesero che cosa dovessero fare: fu un implicito riconoscimento delle proprie responsabilità. "Poenitentiam agite - rispose subito Pietro - et baptizetur unusquisque vestrum in nomine Jesu Christi in remissionem peccatorum vestrorum: et accipietis donum Spiritus Sancti. Vobis enim est repromissio, et filiis vestris, et omnibus qui longe sunt, quoscumque advocaverit Dominus Deus noster" Act 2,37-39. Sulla questione della "repromissio" dovrò ritornar in seguito; per ora, sarà sufficiente leggerne attentamente testo e contesto.

Pietro aveva appena risanato lo zoppo che chiedeva l'elemosina presso la Porta Speciosa del Tempio (Act 3,1-10), quando arringò la gente colà riunitasi, dicendo: "Viri Israelitae, ... Deus...glorificavit filium suum Jesum, quem vos tradidistis et negastis ante faciem Pilati, iudicante illo dimitti. Vos autem sanctum et justum negastis et petistis virum homicidam donari vobis : auctorem vero vitae interfecistis, quem Deus suscitavit a mortuis, cuius nos testes sumus...Poenitemini igitur et convertimini, ut deleantur peccata vestra" (Act 3,13-15.19; Mt 27,20.21.22). II giorno dopo, i principi dei sacerdoti, gli anziani del popolo e gli Scribi di Gerusalemme vollero indagare ancora sul miracolo verificatosi presso la Porta Speciosa; sotto l'azione dello Spirito Santo, Pietro fece loro osservare che ciò era avvenuto "in nomine Domini nostri Jesu Christi Nazareni, quem vos crucifixistis, quem Deus suscitavit a mortuis...Hic est lapis qui reprobatus est a vobis aedificantibus" (Act 3,5-11).

Il testo che segue modifica alquanto l'orizzonte, passando dall'incriminazione degl'Israeliti per la morte di Cristo al coinvolgimento di vari responsabili: Erode e Ponzio Pilato, i quali in occasione della condanna di Cristo divennero amici, i Gentili, la popolazione israelitica (Act 427; Lc 23,12). Evidentemente l'enumerazione dei responsabili, anziché toglier il carico di responsabilità dalle spalle d'ognuno, lo sottintende e vi si richiama.

Dopo di che gli Apostoli vennero incarcerati e per intervento divino liberati. I capi ebraici riuniron il tribunale per decider il da farsi e protestarono perché gli Apostoli li consideravan responsabili della morte cruenta di Cristo: "vultis inducere super nos sanguinem hominis istius". Pietro e gli Apostoli, invece, rinnovaron l'accusa: "Deus patrum nostrorum suscitavit Jesum, quem vos interemistis suspendentes in ligno". Dopo l'accusa, il richiamo e l'evangelizzazione: "Hunc principem et salvatorem Deus exaltavit dextera sua ad dandam poenitentiam Israeli et remissionem peccatorum". Ma gli Ebrei non recedevano: "Haec cum audissent, dissecabantur et cogitabant interficere illos...(Apostoli) ibant gaudentes a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati" (Act 5,17-19.30-33.41-42).

Poco dopo, seguendo il filo narrativo degli Atti degli Apostoli, s'incontra il protomartire Stefano, un intrepido giovane che, al servizio della verità e con la forza di essa, polemizza vigorosamente con gli Ebrei, rievocando le loro responsabilità storiche: "Dura cervice et incircumcisis cordibus et auribus, vos semper Spiritui sancto resistitis, sicut Patres vestri ita et vos. Quem Prophetarum non sunt persecuti Patres vestri"? Il richiamo storico non era fine a se stesso; doveva introdurre l'attenzione dell'uditorio all'ultimo atto di codesta persecuzione, dominato dalla passione e morte di Cristo.

In effetti, "(Patres vestri) occiderunt eos qui praenunciabant de adventu lusti, cuius vos proditores et homicidae fuistis" (Act 7,50-53). Ne seguì non soltanto il martirio di Stefano, ma una "persecutio magna in Ecclesia" (Act 8,2). Gli Ebrei, in effetti, rifiutaron per la prima volta la memoria e la responsabilità della crocefissione di Cristo, disperdendo i cristiani con la speranza che anche il nome e il ricordo di Cristo venissero per sempre dimenticati; ma "qui dispersi erant pertransibant, evangelizantes verbum Dei" (Act 8,4).

Con l'evento sulla via di Damasco, ha poi inizio l'epopea di Paolo.

Rispetto a quello di Pietro, egli formula un kerygma diverso: non più direttamente rivolto ai correligionari ebraici, bensì ai pagani. Cambia il modo di presentare Cristo, non Cristo, non la sua storia, non la sua verità. Pietro, tuttavia, non scompare dalla scena degli Atti. Lo si ritrova presto accanto al Centurione Cornelio, ai suoi parenti ed amici, nell'atto d'evangelizzar loro Gesù e di render testimonianza "omnium quae fecit in regione Judaeorum et Jerusalem, quem occiderunt suspendentes in ligno" (Act 10,39). È una costante: il solo evocare gli Ebrei richiama alla mente dell'Apostolo la responsabilità da loro contratta nel mandar a morte il Signore.

Il pensiero di Paolo è più sfumato, ma sostanzialmente non diverso. Ad Antiochia di Pisidia, tuttavia, le sue parole son chiare: "Nullam causam mortis invenientes in eo, petierunt Pilato ut interficeret eum" (At 13,28). È vero che nel suo epistolario Paolo addita nei nostri peccati la causa proporzionata della morte di Cristo (1 Cor 15,2; Rm 4,25; 5,8.9.10) e mette in risalto lo spirito oblativo di Lui (Ef 5,2.25) nel darsi volontariamente e per puro amore alla morte:"Tradidit semetipsum pro nobis oblationem et hostiam Deo in odorem suavitatis.... dilexit Ecclesiam et seipsum tradidit pro ea"(Ef 5,2.25); "Dilexit me et tradidit semetipsum pro me" (Gal 2,20).

È vero pure che in Rm 8,32 Paolo collega direttamente la morte del Signore alla volontà del Padre "qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum". Tuttavia, per esser egli stesso israelita e della fazione farisaica, conosceva bene come fossero andate le cose. E se questo "come" non è esplicitamente denunziato nel suo epistolario, non significa che abbia voluto dissociarne i suoi ex-correligionari. Lo descrive anzi in una cornice prettamente ebraica: una condanna a morte, inflitta "fuori dalla porta" della città santa (Ebr 13,12), in piena aderenza alle disposizioni della Legge, ad un condannato che per ciò stesso, cioè per la croce, era da Dio maledetto e rinnegato dal suo popolo (Gal 3,13).

C'è poi un'altra ragione per la quale c'è reticenza sulle responsabilità del popolo ebraico: quella croce, che nel paganesimo contrassegnava d'infamia uno schiavo criminale e nell'ebraismo sommergeva nell'ignominia il delinquente, in Paolo diventa lo strumento d'una redenzione cosmica. Gli "arconti" o principi di questo mondo, identificabili nelle potenze angeliche (Ef 1,21; Col. 1,16) che provvedono all'ordine sociale al cui mantenimento è preposto Pilato per i Romani e il sinedrio per gli Ebrei, se avessero conosciuto la sapienza di Dio, che non è umana sapienza, ma il piano eterno della salvezza universale, "numquam Dominum gloriae crucifixissent" (1 Cor 2,6-8).


CONTINUA.........................

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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24/09/2009 16:44
 
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3 - Interpretazione dei suddetti testi -

Per non incorrere nel pericolo d'interpretazioni soggettive ai danni della Sacra Scrittura che, proprio perché tale e come tale affidata alla Chiesa, sfugge nettamente ai limiti del soggetto, m'affido ai criteri più volte determinati dal Magistero ecclesiastico, nonché alla sua dottrina. Ciò non comporta un'adesione indiscussa a tutto quanto si legge nella Dei Verbum del Vaticano II, sia perché ciò che di dogmatico il Vaticano II espose, appartiene per sua stessa confessione al magistero precedente, sia perché alcune novità della Dei Verbum lascian alquanto insoddisfatti. Essa, pur senza dichiararlo esplicitamente, rinunzia di fatto alla dottrina classica dell'assoluta inerranza biblica e limita l'inerranza stessa alla sola "verità salutare"
(18).

Se si pensa che l'inerranza assoluta della Sacra Scrittura non è soltanto una tra le varie premesse d'ogni lavoro esegetico, ma è anche una verità della fede cattolica, a più riprese almeno implicitamente confermata dal Magistero ecclesiastico e dalla tradizione scolastica
(19), s'intravede per quale motivo abbia poco sopra definito non soddisfacenti alcune novità della Dei Verbum; esse suscitano - a dir il vero - non poche perplessità. Per uscire dalle quali, sarà bene che l'esegeta cattolico si lasci guidare dai capisaldi del Magistero, in special modo dalla "Providentissimus Deus" di Leone XIII e dalla "Divino afflante Spiritu" di Pio XII: l'una infatti stabilisce un'esatta nozione d'ispirazione biblica, nozione che chiamerei teologica in quanto ripugna alla dissociazione della fede dall'ispirazione stessa e dall'inerranza; l'altra mette in evidenza e richiama la varietà dei generi letterari presenti nella Scrittura, le regole per la loro interpretazione ed il senso letterale che ne discende(20).

La tendenza odierna è, invece, per il superamento dei due accennati capisaldi, dando, proprio per questo, la fondata impressione di staccarsi direttamente dall'ambito autenticamente cattolico. Si tratta d'un ambito determinato non da scelte soggettive, ma dalla fedeltà alla linea segnalata dal Magistero.

A tale linea è certamente fedele il Vaticano II, specie con la sua formulazione d'un criterio indiscutibile: "in lumine fidei - sub Ecclesiae Magisterii ductu"
(21). Questo, e non la tendenza sopra accennata, sarà dunque anche il mio criterio.

Prima però di riprender il discorso sul significato dei passi neotestamentari riguardanti il mondo ebraico, mi permetto - per i non addetti ai lavori - qualche parola sui sensi biblici. Anzitutto, due son quelli relativi a tutta la Scrittura in quanto umano-divina: il senso letterale e quello tipico. Padri, Dottori, Sommi Pontefici e tutti gli Autori classici invitano alla ricerca del senso letterale attraverso testo-contesto-passi paralleli-scienze ausiliarie, come quello che maggiormente chiarisce il pensiero d'un determinato passaggio. Il senso tipico è quello dell'Antico Testamento che allude al Nuovo e lo prepara. Fondamentale per determinare con chiarezza l'intenzione divina, quale fu percepita dall'agiografo sotto ispirazione, è il senso letterale in tutte le sue forme e figure stilistiche (metafore, parabole, allegorie, simboli); non appartengono, ovviamente, ad esso il c.d. senso accomodatizio - vi ricorre talvolta la Liturgia - nonché i non-sensi ed i controsensi, in quanto offensivi della verità rivelata(22).

La conseguenza da trarre è che anche i passi del Nuovo Testamento non favorevoli al mondo ebraico debbano esser interpretati in senso letterale: la qual cosa comporta un'interpretazione delle parole secondo il loro valore, stabilito o ricuperato:

a. attraverso l'esame interno del testo e del suo contesto;

b. attraverso la filologia, la semantica, la storia, l'archeologia, l'orientalistica, cioè con l'ausilio di tutte le scienze ausiliarie,

c. ferma però restando la base dogmatico-teologica d'ogni interpretazione neotestamentaria, cioè l'origine apostolica e la storicità dei quattro Evangeli.

Alla luce di ciò, è a dir poco strano il modo sbrigativo e solo apparentemente storico-scientifico di chi, dinanzi al ripetuto "quem vos crucifixistis, vos interemistis", se n'esce con la trovata d'una mentalità antiebraica che avrebbe contraddistinto i primi cristiani, e non è nemmeno sfiorato dall'evidenza d'un testo, dal quale trasuda la mentalità anticristiana che portò alla crocefissione di Cristo. Del resto, tutt'era stato previsto dallo stesso Gesù: "...Filius hominis tradetur principibus sacerdotum et Scribis, et condemnabunt eum morte, et tradent eum Gentibus ad illudendum et fagellandum- et crucifigendum" (Mt 20,18-19).

I responsabili della crocefissione son qui segnalati ancor prima ch'essa venga messa in atto:

1. i grandi sacerdoti e gli Scribi, cioè i capi del popolo ebraico, il quale consegnerà loro Gesù perché venga condannato a morte;

2. i Gentili, vale a dire il rappresentante dell'impero romano, Pilato, ed i suoi soldati.

Sulla diversa colpevolezza di questi due gruppi, è ancora Gesù a far luce: "Qui me tradidit tibi - dice a Pilato - maius peccatum habet" (Gv 19,11). Ora, dal racconto evangelico emergono, senza possibilità d'errore, i responsabili di codesta consegna: Caifa e tutte le autorità ebraiche, sostenute dalla folla esacerbata (Gv 11,49-53; 18,14), nonché Giuda iscariota, che di fatto eseguì la consegna (Gv 18,2.5; cf 6,71; 13,2.11.21)(23).

Analizzando, dunque, i contesti, se ne deduce che, seppur condivisa con quella d'altri soggetti (Giuda ed i Romani)(24), la responsabilità degli Ebrei è fuori discussione: non solo "i grandi sacerdoti e gli anziani persuasero il popolo a chiedere (la salvezza di) Barabba e la morte di Gesù" (Mt 27,20), ma la folla stessa, qui chiamata "popolo-Xaòg", urla che "il sangue di Lui ricada su di noi ed i nostri figli" (Mt 27,25)(25). E quando Pilato "se ne lava le mani" e si dichiara "innocente" del sangue di Cristo, rimette ogni decisione alla discrezione degli Ebrei: "Pensateci voi" (Mt 27,24). Il loro verdetto è allora "Crucifigatur"(Mt 27,23)!

L'interpretazione letterale, attenta a tutte le sfumature del testo e del suo contesto immediato e remoto, non può esser altro che univoca: la responsabilità ebraica della crocefissione non è certo inferiore rispetto a quella romana ed a quella personale di Giuda.

Ciò nonostante, specie dopo che Nostra aetate rifiutò formalmente l'espressione "popolo deicida" e l'accusa di deicidio contro il popolo ebraico, s'è assistito alle grandi manovre per attenuar o addirittura negare le gravi responsabilità di questo popolo.
Come se il quarto Evangelista fosse il solo ad insistere sulle dette responsabilità, s'è preteso di vedere il racconto del quarto evangelista nell'ottica delle sue categorie spirituali e di leggerlo quindi secondo i suggerimenti del senso tipico. Ed un primo suggerimento sarebbe quello di veder simboli e sensi traslati in tutto quello che riguarda le responsabilità ebraiche della crocefissione di Cristo26. Cioè, in pratica una destoricizzazione del testo, con un benservito se non all'origine apostolica dell'intero messaggio neotestamentario, almeno alla storicità di quella parte del quarto Evangelo che riguarda il popolo ebraico ed i suoi capi nel decidere l'esecuzione capitale di Cristo. Come se, quanto a storicità e senso letterale, non si disponesse dell'evidenza critica nei Sinottici e negli Atti, e ciò non trovasse conferma anche nell'epistolario paolino.

È possibile, pertanto, cioè tenendo presenti i testi "incriminati" ed i criteri esegetici con cui è doveroso interpretar il Libro Sacro, pervenire ad ineludibili conclusioni. I fatti son noti: dopo l'ultima Cena, durante la quale Cristo suggella con il suo Sangue, sacramentalmente reso presente e disponibile, l'Alleanza nuova predetta dai profeti (Mt 26,26-28; 1Cr 11,23-25), si sottopone alla tremenda notte della sua agonia nell'Orto degli Olivi (Gv 18,1-27 e luoghi paralleli). Qui vien arrestato dalle orde scomposte di Giuda, il traditore prezzólato dai capi ebraici. In quella medesima notte, sul far dell'alba, si riunisce ufficialmente il Sinedrio e condanna Gesù come bestemmiatore; s'era infatti autoproclamato Figlio di Dio (Mt 26,63-66; Gv 10,33; Act 7,56).

La condanna è formalmente ineccepibile: una volta stabilita la veridicità dell'accusa, la condanna diventava un adempimento dovuto. Poiché Pilato, al quale spettava il diritto di vita e di morte, poteva rimaner poco convinto da un delitto di "lesa maestà divina" - e di fatto se ne uscì con un "vedetevela voi" (Mt 27,24) per trarsi fuori dalle strettoie del discorso teologico o semplicemente religioso -, il Sinedrio, con abilità luciferina, portò l'attenzione del procuratore romano sul piano politico, insinuando a carico di Gesù la colpa di "lesa maestà imperiale" (Lc 23,2). Vista insufficiente anche codesta insinuazione, l'attenzione fu concentrata sulla vera ed unica causale: Gesù è un bestemmiatore, soggetto come tale al giudizio del supremo tribunale ebraico, che Pilato, secondo la legge romana, deve rigorosamente rispettare.

Se non che Pilato non solo non riconosce alcuna colpevolezza in Gesù, ma, al contrario, si convince sempre più della sua innocenza e cerca di salvarlo. Giuridicamente parlando, il suo comportamento non è affatto esemplare: rimette Gesù al giudizio di Erode, poi ne propone l'alternativa con il malfattore Barabba, infine pensa di placare l'odio giudaico contro l'innocente decretandone la flagellazione. Il Sinedrio e la plebaglia né s'accontentano né demordono. Pilato, allora, ancor meno correttamente, fa propria la condanna già formulata dalle autorità ebraiche (Mt 27,24-25), ma se ne lava le mani.

Sempre dal punto di vista giuridico, non han rilevanza gli strani prodigi che accompagnano la crocefissione di, Cristo e scuotono non poche coscienze (Mt 27,51-54). L'ha tutta, invece, il fatto che, alle tre del pomeriggio del venerdì dopo l'ultima Cena, in mezzo a due ladroni, "lesus... iterum clamans voce magna, emisit spiritum" (Mt 27,50).

La condanna e l'esecuzione, basate sull'accusa di "blasphemia", portano una chiara impronta di provenienza ebraica. Nostra aetate 41f tenta però di sollevar il popolo ebraico da ogni responsabilità. Vi si legge, sì, un piccolo riconoscimento, introdotto da una proposizione concessiva - "Etsi auctoritates Judaeorum cum suis asseclis mortem Christi urxerunt" - , ma il seguito è tutto a discolpa degli Ebrei: "quae in passione eius perpetrata sunt, nec omnibus indistinte Judaeis tunc viventibus, nec Judaeis hodiernis imputari possunt". La proposizione concessiva, nonostante la sua solida base neotestamentaria, perde quasi tutto il suo valore storico in conseguenza della proposizione principale, che dichiara innocenti gli Ebrei d'allora e di oggi. Seguono anche altre dichiarazioni che riguarderanno il prossimo paragrafo, e che, per il momento, non prendo in esame.

Accennando alla larga base neotestamentaria, mi riferivo ai testi sopra riportati ed esaminati. Nessuno poteva, né può ignorarli; nemmeno il decreto conciliare Nostra aetate. Esso, però, volle indebolirne o negarne la forza testimoniale. Da qui la distinzione tra gli Ebrei d'allora e quelli d'oggi, tutti ugualmente discolpati. C'è qui un'incongruenza neanche troppo latente: se "auctoritates" sintetizza le espressioni neotestamentarie già incontrate, come "principes sacerdotum et seniores populi", chi se non il popolo è sottinteso in "cum suis asseclis"? E vero che, solo in regime democratico, dietro la sentenza d'un tribunale c'è tutto il popolo, in nome del quale quel tribunale opera; ma il popolo non è affatto assente neanche nell'operato del tribunale teocratico d'Israele che condanna Gesù per bestemmia. Le autorità stesse, infatti, s'appellano al popolo, lo interrogano, lo sobillano, lo coinvolgono nell'uccisione di Cristo e ne precostituiscono le gravissime responsabilità storiche. Pertanto, la distinzione tra gli Ebrei d'ieri e quelli d'oggi avrebbe un senso, se alludesse agli Ebrei che allora rifiutarono Cristo e quelli che oggi l'hanno riconosciuto e lo confessano. Non c'è senso, invece, nell'aver fatto d'ogni erba un fascio.

Più grave ancora è il tentativo, in atto prima e dopo il decreto conciliare, di non riconoscere realtà di popolo alla massa che grida sulla piazza contro Cristo. Poche centinaia, si dice, non sono il popolo, non lo rappresentano, non ne esprimono la volontà27. Come se il popolo ,fosse la somma di determinati individui. "Ciò che caratterizza in primo luogo un popolo è la condivisione di vita e di valori, che è fonte di comunione a livello spirituale e morale"28. Quanti durante il processo a Cristo gridavano: "sia crocefisso...il suo sangue scenda su di noi e sui nostri figli", non eran certamente tutti gli Ebrei, ma eran gli Ebrei presenti nella Città santa per la festa di Pasqua, abbarbicati fin a rimanerne accecati ai loro valori di razza e di religione, individuati come Ebrei proprio da codesti valori, in nome dei quali si sgolavano dinanzi al Sinedrio ed a Pilato perché Gesù venisse dichiarato reo di morte. Rivendicando l'osservanza dei detti valori, essi stessi si riconoscono popolo ed agiscono come popolo. E quando Caifa, il sommo pontefice di quell'anno, rimprovera ai suoi colleghi di non aver capito nulla non avendo considerato che "expedit ut unus moriatur homo pro populo (?.aoi)" (Gv 11,50), riconosce realtà di popolo a quanti stanno reclamando l'esecuzione capitale di Cristo.

Nostra aetate 4/f vuole che "Judaei neque ut a Deo reprobati neque ut maledicti exhibeantur". Il discorso è d'estrema delicatezza; lo riprenderò unitamente a quello sul popolo deicida nell'ultimo paragrafo. Per ora mi si permetta di richiamare la connessione di Mt 27,25 con Mt 23,31-39 dove Gesù denuncia le gravi responsabilità storiche delle "guide cieche" d'Israele e ne preannuncia le conseguenze: la crocefissione del Salvatore come ultimo anello delle dette responsabilità e l'abbandono della "vostra casa", chiara allusione a Ger 12,7 (22,5; Ez 10,18-19; 11,22-23) che predice l'allontanarsi di Jahvèh da Gerusalemme.

Per concludere, mi sembra innegabile, alla luce del senso letterale di quei testi sacri che ne costituiscono la fonte storica, quanto segue:

a. il popolo ebraico passò dall'"osanna" al "crucifige" sotto l'azione perversa dei suoi capi;

b. questi infatti tutto fecero pur di mandar ad effetto la loro volontà di "perdere" Gesù;

c. lo fecero come "capi" nel rispetto della Legge e quindi dei valori riguardanti l'intero popolo israelitico, il quale ne assecondò gl'intenti;

d. e rimasero, per questo, i primi - anche se non gli unici - responsabili del drammatico evento.

4 - Il popolo dell'Alleanza -

Nonostante il loro coinvolgimento in esso, Nostra aetate 4/b-c attesta non solo gl'inizi della Chiesa dal popolo ebraico, ma anche la continuità tra l'Alleanza antica e la nuova. Chiama infatti i "Christifideles, Abrahae filios secundum finem", dai quali la Chiesa ebbe la "Revelationem Veteris Testamenti" ed ai quali appartiene, secondo l'Apostolo (Rm 9,4-5) "l'adozione a figli, la gloria ed i patti d'Alleanza, la Legge, il culto e le promesse". Dai figli d'Abramo, cui "appartengono i Padri, nacque Gesù secondo la carne".

Il testo, forse per dir troppo in breve, risulta un po' confuso, ma non inintelligibile. La chiave interpretativa dovrebb'esser la distinzione tra "secondo la fede" e "secondo la carne". L'averla spesso dimenticata ha prodotto giudizi infondati e quindi insostenibili, come quello della continuità tra l'antica e la nuova Alleanza. O come quello degli Ebrei destinatari ancor oggi e detentori delle promesse salvifiche.

"Secondo la carne" si dà indubbiamente una continuità di razza tra gli Ebrei antichi e gli attuali; può considerarsi eccezione, secondo la carne, qualche convertito all'ebraismo appartenente ad altre stirpi. Ma anche costui ha diritto, non "secondo la carne", bensì "secondo la fede", ad esser considerato ebreo a tutti gli effetti. La religione ebraica lo costituisce tale(29).

"Secondo la fede" non tutti gli Ebrei posson considerarsi spiritualmente legati alla Chiesa, nel senso inteso da Nostra aetate 4/a, che sottolinea il vincolo "quo populus Novi Testamenti cum stirpe Abrahae spiritaliter coniunctus est".

A parte il fatto che la Chiesa voluta e fondata da Cristo nel segno della cattolicità non può legarsi a nessuna stirpe
(30) senza cessare d'esser se stessa, è doveroso affermare fortemente che l'unico legame esistente tra la Chiesa ed Abramo è "secundum fidem": nasce dalla fede e la esprime. È la fede d'Abramo, da Gesù stesso chiamato "vostro padre" per indicare non la continuità fra Israele e la Chiesa, ma il legame di stirpe tra il capostipite e la sua discendenza; quel "vostro", infatti, restringe il legame alla discendenza carnale, del tutto estranea alla cattolicità della Chiesa. Tuttavia, al di là e al di sopra della stirpe, un legame di fede è dato dal rapporto che lo stesso Abramo stabilì con Cristo: "...exultavit ut videret diem meum; vidit et gavisus est" (Gv 8,56). Questo medesimo legame congiunge ancor oggi in perfetta unità la Chiesa e quei discendenti d'Abramo, i quali accettarono ed accettano Cristo, poiché "qui ex fide sunt, benedicentur cum fideli Abraham" (Gal 3,9). Non quindi i discendenti "secondo la carne", membri di quel popolo che si lasciò gravemente coinvolgere nella crocefissione di Cristo, lo rifiutò come Messia e Figlio di Dio e continua tuttora a rifiutarlo; ma solo i discendenti "secondo lo spirito".

Han quindi perfettamente ragione coloro(31) che distinguon il giudaismo in quello antico ed in quello talmudico postcristiano (o giudaismo rabbinico). Nel primo determinante è non già il fatto razziale ma l'attesa del Messia e la preparazione alla sua venuta; nel secondo è la stirpe che conta e la stessa religione ha connotazioni razziali. Tra l'uno e l'altro si colloca Cristo, Figlio di Dio, incarnatosi per l'umana salvezza, attorno al quale si stringe il "piccolo resto d'Israele" costituito da Maria, dagli Apostoli, dai discepoli e dai primi convertiti: tutti provenienti da Israele, ma ormai al di là d'Israele, essendo i primi credenti in Cristo. È questo l'evento con cui coincide l'esordio della Chiesa; e mentre nel giudaismo rabbinico continua il rifiuto radicale di Cristo, il "piccolo resto" d'ieri e d'oggi mantien il suo legame e la sua continuità con la fede d'Abramo attraverso la Chiesa stessa.

Tre sono allora le questioni che ne discendono:

a. se l'attuale popolo ebraico sia davvero da Dio rifiutato e maledetto;

b. se mantenga ancora le antiche promesse;

c. se sia ancora "il popolo dell'Alleanza ".

Il nocciolo della questione ebraica sta tutto in tali domande, alle quali rispondo per quel tanto che ne so e che mi consente di mantenere la serenità preannunciata nel titolo.

a. Bisogna partire dall'elezione per dar un'adeguata risposta alla prima domanda. La parola (bahar, rad. bhr) richiama il concetto di b'rîth e con esso l'assoluta libertà con cui Dio si sceglie Israele come popolo suo, riversando su di esso la sua misericordiosa e non dovuta hesēdh. In conseguenza dell'elezione, Israele, a differenza d'ogni altro popolo e grazie a circostanze diverse nelle quali lo stesso Jahvèh gli rivela la sua predilezione, diventa il popolo eletto. Prima in Abramo e nella sua posterità (Gn 12,1-3; 22,15-18; 26,4; Es 41,8; Neh 9,7), poi al momento dell'esodo sotto la guida di Mosè (Ex 3,7-10; Dt 6,21-23; Ps 105,26). Il Dt fa capire la natura sovranamente libera di siffatta scelta: non perché sia il popolo più numeroso, essendo anzi il più piccolo (Dt 7,7); non perché sia il più giusto, essendo anzi "di dura cervice" (Dt 9,4-6); ma perché l'amore di Dio è libero. In libertà "Egli ha scelto te" (Dt 7,6) e non viceversa. L'ha fatto per aver al proprio servizio un popolo santo, e santo in forza di tale servizio; un popolo che si diversifichi dagli altri popoli per rinomanza onore e gloria (Dt 26,19) facendo in sé rifulgere la grandezza e la santità d'Jahvèh (Dt 7,-6).

Appare fuori discussione che, per quella medesima libertà, con la quale Jahvèh elegge, possa anche abbandonare l'eletto, qualora questi non si comporti con la dovuta fedeltà; la hesēdh di Dio (Dt 7,9.12) esige infatti la hesēdh dell'uomo (Dt 6,4; 11.1) e non tollera che venga meno: "Tra tutte le famiglie della terra io non ho conosciuto che voi; ma per tutte le vostre iniquità, io vi punirò" (Am 3,2). Risuona qui l'lo sovrano di Colui che, presceltosi un popolo, non permette ch'esso dimentichi l'amore preferenziale da cui fu innalzato a "popolo di Dio" e trascuri la missione alla quale fu eletto e destinato (Am 4; 9,7-8). Sullo sfondo oscuro di tali trascuratezze ed infedeltà, si staglia il rifiuto da parte di Dio e verso tale rifiuto Geremia, unitamente ad altri profeti, mantiene sveglia l'attenzione dei suoi correligionari. È una spada di Damocle (cf 2Re,23,27) sulla sorte d'Israele che, per la pervicacia delle proprie colpe, da popolo di Dio decade a popolo da Dio condannato e respinto (Gr 6,30; 7,29; 14,19; 31,37), così come Giuda era stato eletto dopo che Efraim era stato rifiutato (Ps 78,67) e la sposa amata ed infedele era stata ripudiata in attesa della sua conversione, secondo il drammatico racconto d'Osea.

Non è stata dunque la Chiesa a parlar arbitrariamente ed infondatamente di rifiuto; essa lo ha letto nella divina rivelazione e ne ha tratto le conseguenze. Né s'è mai soffermata sul momento dei rifiuto stesso, perché la rivelazione stessa le ricordava che l'ira di Dio non è per sempre e che il rifiuto sarebbe stato alla fine seguito da una "nuova elezione di Gerusalemme" (Zac 1,17; 2,16). La Chiesa ha sempre visto in essa la prospettiva del nuovo Israele al quale Is 41, 8 (43,20; 44,2; 45,4) riserva ancora l'antico e significativo titolo: "il mio eletto".

Il ripudio d'Israele, dunque, pur non essendo assoluto, è un dato di fatto; riguarda solo il giudaismo che in Gesù non riconobbe, né riconosce il Messia. Quel rifiuto durerà tanto quanto l'atteggiamento negativo degli Ebrei nei confronti di Cristo. Con "la nuova elezione", tuttavia, resta aperta e luminosa la prospettiva del ricupero(32). Un tale ripudio comporta anche una maledizione? È davvero maledetto quel popolo che fu il popolo dell'elezione? Il popolo benedetto?

Non si parla di maledizione se non sulla base della benedizione. Dio stesso prospetta l'una e l'altra al suo popolo (Dt 11,26-28) non perché sia nella libertà del popolo la scelta della benedizione o della maledizione, ma perché esso conosca che la sua benedizione non è assoluta. E infatti ancorata alla sua fedeltà all'amore di Dio e all'osservanza dei suoi comandamenti (Dt 11,28; 30,15-18). Se ne ha un riflesso neotestamentario, di grande rilievo, in Mt 25,41-46: Dio non si diverte a maledire perché esprime il suo amore nella benedizione, e tuttavia maledice chi rifiuta Cristo.

Chi parla di "popolo maledetto" non dà un segnale d'antisemitismo; il significato di "maledizione" è rigorosamente delimitato al rifiuto di Cristo; del resto la parola è d'uso biblico: in Gn 3,14 è maledetto il serpente; in Gn 4,11, Caino. Spesso colpisce chi va contro Dio e la sua Legge (Nm 22,6; 23,8; 2Re 2,24; Lam 3,65). Se, rovesciando le posizioni, colpisce Dio, costituisce il grado più alto dell'infedeltà dell'uomo (Lv 24,11.15; Job 2,9). II Nuovo Testamento esclude che il liberato dalla maledizione possa a sua volta maledire (Lc 6,28; Mat 5,44; Rm 12,14) , ma è addirittura Colui che ci libera dalla maledizione a farsi per noi maledetto (Gai 3,13). In breve, può certamente apparire di cattivo gusto il dir agli Ebrei che son da Dio maledetti, ma nessuno dovrebbe dimenticare che ciò può esser detto soltanto in ottica biblica, in base a criteri dell'Antico e del Nuovo Testamento ed, in ultim'analisi, in base ad un unico criterio che, esplicito o implicito, riassume tutti gli altri: il rifiuto di Cristo.

b. Nell'attuale condizione di popolo ripudiato, è lecito allora affermare che Israele mantien ancora le antiche promesse? che è ancora titolare dell'Antica Alleanza? Nostra aetate 4/b non si pronunzia chiaramente; si limita a dire che Dio, "ex ineffabili misericordia sua, antiquum Foedus finire dignatus est" con Israele, il popolo da Lui eletto, dal quale la Chiesa ebbe poi la rivelazione veterotestamentaria. Un po' più chiaramente s'esprime in 41d, dove, pur ricordando l'opposizione ebraica a Cristo, non ha dubbi sul fatto che "Judaei Deo, cuius dona et vocatio sine poenitentia sunt, adhuc carissimi manent propter patres". Questa giustificazione fa pensare alla continuità delle promesse e dell'Alleanza: quei lontani padri che ebbero da Dio le une e l'altra, son per gli Ebrei d'oggi la garanzia sicura del loro coinvolgimento nelle stesse promesse e nella stessa Alleanza che resero ieri i Padri e rendono oggi i figli "a Dio carissimi". Tuttavia, ciò che rimase tra le righe del decreto conciliare, venne presto reso esplicito da interventi di teologi cattolici e di responsabili dei rapporti tra Chiesa cattolica e mondo ebraico. Perfino la Liturgia del Venerdì Santo, facendo piazza pulita di quel "pro perfidis Judaeis" nel quale i destinatari avvertivano un senso offensivo, l'ha semplificato in "pro Judaeis", aggiungendo la preghiera ch'essi possan "in sui (Dei) nominis amore et in sui foederis fidelitate proficere".

Qui l'Alleanza è un dato di fatto, innegabile; si chiede che la fedeltà ad essa da parte ebraica non solo non venga mai meno, ma cresca. E perché l'orizzonte ideale della nuova Liturgia poss'apparire ancora più terso, la preghiera ricorda le "promissiones" concesse da Dio "Abrahae eiusque semini" e si chiude implorando "ut populus acquisitionis prioris ad redemptionis mereatur plenitudinem pervenire".

Quell' "eiusque semini" rivela un'intenzionalità non criptata, vuoi far capire che le promesse d'Jahvèh non si bloccaron sull'Israele della primissima ora, ma s'estendono ai suoi attuali discendenti. Quali? Quelli "secondo la stirpe" o quelli "secondo la fede"? La risposta è ovvia e trasparente nel richiamo alla redenzione. Non avrebbe senso, infatti, quell'"ad redemptionis pienitudinem pervenire", con riferimento ad un popolo che si definisca pervicacemente per il suo rifiuto del Redentore; sarebbe un nonsenso non solo storico-teologico, ma anche semplicemente logico, non essendo possibile che raggiunga la pienezza della redenzione chi si tiene alla larga dalla redenzione stessa.

Mantengo un rispettoso silenzio su discorsi e scritti ufficiali che assicurano la permanenza degli Ebrei nell'Alleanza salvifica, la prima e mai revocata (?) Alleanza, anzi l'unica che, in quanto tale, non sarebbe né antica né nuova, e che, pertanto, è ugualmente via di salvezza per il mondo ebraico e per quello cristiano. La ragione addotta, vale a dire l'irrevocabilità delle promesse e dell'Alleanza, tien conto del fatto che "i doni di Dio sono irrevocabili", ma ignora un altro fatto e cioè che tali doni posson esser rifiutati. Israele li rifiutò rifiutando Cristo e la sua redenzione, continua anzi a rifiutarli, dunque non li possiede, dunque non è "a Dio carissimo" se l'esser cari a Dio presuppone ed esige la piena ed incondizionata adesione al suo progetto salvifico in Cristo.

Mi permetto d'esprimer il mio dissenso, sereno e sommesso ma senza tentennamenti, dai colleghi che, certo in buona fede, han ripreso la tesi d'Israele destinatario ancor oggi delle antiche promesse e titolare dell'Alleanza(33). Nessuno mette in dubbio la realtà scritturisticamente incontestabile d'israele-popolo-delle promesse ed ogni buon teologo conosce l'immutabilità di Dio, il quale "non è un uomo per mentire né un figlio d'Adamo per ritrattarsi" (Nm 23,19). Egli infatti non abbandona nessuno se non ne è abbandonato; ed anche in questo caso è come il padre del figliol prodigo, con le braccia aperte a colui che ritorna al suo cuore di padre.

La questione, biblicamente storicamente teologicamente, è questa.

Essa vede al centro della storia del popolo eletto il dato incontestabile dell'Alleanza e delle promesse, prima ai patriarchi, poi a David, infine, quando cioè Israele non ha più dignità di popolo, avendo perso re, tempio, onore e capitale, alla Gerusalemme nuova, "madre d'una discendenza innumerevole" (Is 54,3; 60,4) e "casa di preghiera per tutt'i popoli" (Is 56,7). Quando ciò si verifica, Israele non è più monolitico: l'Israele che accoglie e continua la fede d'Abramo, è da questa destinato a collegarsi con una discendenza senza fine e ad esser casa di preghiera per tutt'i popoli: la sua fede in Cristo l'assimilerà alla "creazione nuova" e gli darà di questa il respiro universale. Al contrario, l'Israele che chiude le porte a Cristo, costituisce il punto di rottura rispetto al passato e all'avvenire. Non avrà "una discendenza innumerevole", non sarà "casa di preghiera per tutt'i popoli", perché non sarà più portatore dell'Alleanza e delle promesse. La sua condizione storica ne è rimasta alterata. Tutto s'è in lui progressivamente modificato ed inaridito. L'eredità che l'arricchiva gli è scivolata di mano; l'Alleanza che lo caratterizzava è stata rivolta ad altri (cf Mt 21,41). Si parla ormai d'un'Alleanza nuova, perché quella antica ha perso valore ed efficacia. Ed a parlarne, non è questo o quel dottore privato, non un antisemita di nuovo o vecchio conio, ma l'autore dell"‘Epistola agli Ebrei", un testo canonico contenente la rivelazione cristiana. Eccolo: "Dicendo autem novum, veteravit prius. Quod autem antiquatur et senescit, prope interitum est" (Ebr 8,13).

Che tale evento si sia ormai verificato, l'attesta Ebr. 8,6 rivelando che la funzione mediatrice di Cristo è tanto più elevata, quanto più nobile ed efficace, perché fondata su nuove e definitive promesse, è l'Alleanza di cui Egli è mediatore. II Sacro Testo ci mette di fronte ad una sostituzione: un'altra economia salvifica al posto della precedente, dichiarata caduca e ormai alla fine. Nuova e definitiva ormai è l'altra (δευτέρας in 9,6 e 10,9)(34).

Se, dunque, il Sacro Testo ha - come ha - ancor un valore, il solo porlo in discussione insospettisce; il trascurarlo, e peggio ancor il riferirsi ad esso per sostener esattamente il contrario di quanto rivela, squalifica chi se ne rende colpevole. E quanto il Sacro Testo rivela, riguarda promesse ed Alleanza che gli Ebrei un giorno ebbero graziosamente da Dio e che non avrebbero mai dovuto rifiutare; cosa che nemmeno oggi dovrebbero fare(35), non essendone capaci. La rinuncia alle antiche promesse ed all'Alleanza è implicita nel rifiuto del loro epilogo in Cristo. Anche per questo, dunque, oltre che per il trasferimento dell'Alleanza da un popolo ad un altro, gli Ebrei secondo la carne non ne son più i legittimi titolari. E non posson, perciò, rinunciare a ciò di cui non dispongono più.

c. Il terzo quesito se il popolo ebraico sia ancor il popolo dell'Alleanza, trova una risposta indiretta in quanto precede. Se si tratta degli Ebrei che costituirono "il resto d'Israele" e lo continuano nel tempo, costoro son ancor il popolo dell'Alleanza: non in quanto razza ebraica e discendenza carnale dal loro capostipite, ma in quanto acquisiti per la fede alla redenzione di Cristo.

Se invece si tratta di quel popolo ebraico che si configura in termini etnico-religiosi secondo l'ebraismo talmudico e postcristiano, continuando a definirsi in base alla sua secolare ripulsa di quel Cristo sul quale già s'appuntavano le antiche promesse, la risposta non può esser che negativa. L'Alleanza antica è stata sostituita e Cristo è il mediatore unico della nuova (cf Ebr 12,24).



CONTINUA.....................

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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24/09/2009 16:55
 
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5 - Conclusione -

In fondo al percorso che m'ero prefisso, m'accorgo che potrei dir ancora tante cose, sulle quali, invece, taccio per non eccedere nell'uso del tempo mio ed altrui.

Continuando un'osservazione iniziale sulla totale estraneità di quanto esposto alla ricorrente accusa d'antisemitismo, non nego che l'antisemitismo ci sia; se ne vedono spesso le manifestazioni e le conseguenze. Dico solo che un sereno e serio discorrere su dati biblico-teologici riguardanti gli Ebrei non ha nulla che fare con l'antisemitismo. E nemmeno con i piani egemonici degli apocrifi Protocolli dei Savi di Sion, e con le biliose ritorsioni antitedesche di provenienza giudaica, di cui in Occhio per occhio di John Sack(36).

Non è facile capire in che cosa l'antisemitismo consista: evidentemente il suo significato s'evince dal prefisso "anti" che precede il sostantivo "semitismo". Ma ciò solo in parte fa luce su un concetto che di per sé non è di facile comprensione. Quando Pio XI dichiarò che siamo tutti semiti, non disse un assurdo: semiti furono infatti Maria, Giuseppe, gli Apostoli e, nella sua umanità, lo stesso Gesù. Tuttavia, ad avvalorare la sua asserzione, Pio XI la precisò con l'avverbio "spiritualmente" e con il riferimento alla fede: quanto ad essa, infatti, tutti discendiamo da Abramo che, per la fede, vide i giorni del Signore Gesù e ne gioì (Gc 8,56). L'antisemitismo significa, allora, un comportamento o un indirizzo avverso al popolo ebraico? Nessun biblista e nessuno storico risponderanno di sì senza ma e senza se.

Semita infatti non ha un significato univoco, pur rimandando a Sem ed ai suoi discendenti (Gn 10,21), la cui complicatissima classificazione, peraltro, segue criteri culturali, storici e geografici, più che caratteristiche etniche. Sembra infatti che, assai più d'altre ragioni, sian le lingue di varie popolazioni e la loro corrispondenza reciproca ad unificarne il raggruppamento sotto il nome di Semiti.

E l'analisi delle lingue ha portato alla conclusione che furon certamente Semiti:

a) gli Accadi della Mesopotamia al tempo dei Sumeri;

b) gli Amorrei della valle del Tigri e dell'Eufrate fino al Golfo Persico;

c) gli Aramei del deserto siro-arabico e dintorni dei Golfo d'Alessandretta;

d) Cananei della zona tra il Libano, la Siria, la Palestina, la depressione tra il Mar Rosso, il Golfo d'Aqaba ed i territori tra il Mediterraneo ed il deserto siro-arabico. Cananei son pure i Fenici, gli Ammoniti, i Moabiti (cf Gn 19,3038), gli Idumei (da Esaù=Edom) e gli Ebrei (da Giacobbe=Israele).

e) Sono infine di discendenza semitica anche gli Etiopi e gli Arabi(37).

Se il mio scritto nascesse da spirito antisemitico, sarei curioso di sapere contro quale delle popolazioni sopra indicate sarebbe rivolto. E se per caso fossero gli Ebrei a sentirsene colpiti, la curiosità aumenterebbe per capire come e perché essi unifichino su se stessi dei rilievi storico-teologici che, in teoria, potrebbero riguardare tutti gli altri Semiti.

Sarà solo una mia impressione, ma a me par eccessivo ed un po' puerile il cedere acriticamente alla moda ormai largamente diffusa di veder un po' dovunque non solo un antisemitismo che risolleva la testa, ma che la volge, oltraggioso ed impudente, in direzione antiebraica. A tale riguardo, sarà opportuno chiarir l'idee.

Fermo restando che antisemita non significa soltanto antiebreo, il "soltanto" dovrà esser espunto da ogni esposizione critico-scientifica. Riconosco, peraltro, che al detto significato limitativo fu riservata un'accoglienza pressoché unanime in seguito a persecuzioni scatenate da motivi razziali, economici, sociali, politici, nelle quali il dato religioso era preminente.

Con l'accusa d'antisemitismo, tuttavia, sono state impropriamente bollate, qualche volta - ed oggi in particolare -, quelle espressioni di senso negativo nei confronti degli Ebrei, che affiorano lungo la storia dei rapporti giudeo-cristiani
(38). Non mi pare criticamente corretto il metter tutto sullo stesso piano. Che si sia ecceduto nei toni, è indubbio ed è deprecabile, soprattutto quando ad eccedere fu un testimone della religione dell'amore, magari ai vertici del governo ecclesiastico; ma torno a ripetere che non si trattò d'antisemitismo, puerilmente ancorato all'accusa d'omicidi rituali(39), di pozzi avvelenati(40) e d'ostie profanate(41). La causa dell'opposizione cristiana e segnatamente cattolica era di natura rigorosamente religiosa e, come tale, non riconducibile né ad una ragione razziale, né a contrapposizioni politiche.

Sull'altra sponda, infatti, c'era il ripudio di Cristo, della sua rivelazione, della sua Chiesa; da questa matrice, squisitamente religiosa, insorgeva l'accusa di "maledizione" e di "deicidio".

Sulla prima di esse ho già detto molto di quanto pensavo che dovesse esser detto, sulla seconda mi permetterò tra breve qualche osservazione. Su ambedue, peraltro, mi si permetta d'insistere per sottolineare l'acriticità del peso che P. Demann addebita ali' "assurdità teologica" e alla "carica dell'odio"(42).

È assurdo teologicamente - l'avverbio indica un ben determinato settore dello scibile ed esclude il valore assoluto dell'asserto - ciò che contraddice alla sacra rivelazione, alla realtà dei fatti ai quali essa si riferisce, alla dottrina della Chiesa che su di essa si fonda. Ora, l'equivoco della "mai revocata Alleanza" in base alla "irrevocabilità dei doni di Dio" può aver indotto a giudicare assurdo, teologicamente parlando, anche ciò che tale non è. Ma, appunto, si tratta d'un equivoco. In Gal 3,14-15 si legge che "Christus nos redemit de maledicto legis...ut in Gentibus benedictio Abrahae fieret...per fidem".

Qui tutt'è chiaro. La benedizione antica, l'Antica Alleanza, i doni che Dio aveva elargito al popolo eletto son passati, mediante la fede, ai pagani. Chiunque creda in Cristo cessa d'esser ebreo o romano o greco, perché diventa una "creazione nuova". E nuova grazie a quella benedizione il cui destinatario, ieri, era il popolo ebraico ed oggi è chiunque, da qualunque popolo, confessi in Cristo il Figlio di Dio, l'unico mediatore, il proprio salvatore (cf 1Tm 2,5; ct 4,12; 10,43; 1Cr 1,30; Rm 5,9-10; Gv 3,18; 10,9; Mc 16,15). Lo stato di popolo eletto si concluse con il no a Cristo; ciò che lo costituiva eletto è passato ad altri: "veniet et perdet colonos et dabit vineam aliis", si legge in Mc 12,9. Quel "perdet" mette in evidenza la riprovazione e la condanna.


È, dunque, teologicamente assurdo non il trarre, "in lumine fidei, sub ductu Ecclesiae", le dovute conseguenze dalla rivelazione neotestamentaria; bensì, il contrario. Ma l'accusa di "deicidio "rientra nel teologicamente assurdo o nel teologicamente corretto?

La questione, in questi termini, e soprattutto se la si fondi sul presunto parallelismo della maternità divina(43), è mal posta. Maria ha diritto al titolo di "Madre di Dio" sia perché generò Colui che è l'Unigenito del Padre e, come tale, Dio egli stesso, sia perché le spiegazioni che ebbe dall'Angelo al momento dell'Annunciazione la misero in condizione d'emettere un "sì" pienamente responsabile e di totale adesione al progetto di Dio. Nell'uccisione di Cristo non si riscontra questa medesima coincidenza di causalità materiale e formale. Chi ,lo mise a morte uccise, sì, il Figlio di Dio, non perché proprio il Figlio di Dio volesse uccidere, bensì colui che, definendosi tale, aveva bestemmiato e meritato l'esecuzione mortale. La causale unica dell'uccisione di Cristo fu una bestemmia: "Pur essendo uomo, s'è detto Dio". Gesù, dunque, fu messo in croce non perché era Dio, ma perché si diceva Dio. Il deicidio, pertanto, è qui solo "materialiter" presente, ma "formaliter" è del tutto assente.

È vero che in Act 3,14-17 l'apostolo Pietro rimprovera agli Ebrei d'aver tradito e rinnegato dinanzi a Pilato "il Santo ed il Giusto", cioè il Figlio poi risuscitato dal Padre, e d'avergli preferito un omicida. Ma non accenna per nulla alla consapevolezza degli Ebrei che Gesù fosse davvero Figlio di Dio, né alla loro conseguente determinazione d'ucciderlo per tale ragione : "Santo e Giusto" non significano "Dio" né "Figlio di Dio". Anzi, la responsabilità del deicidio è almeno implicitamente espunta da Pietro là dove osserva: "Scio quia per ignorantiam fecistis"(44).

Che la questione sia mal posta si deduce anche da un altro motivo. Quasi sempre, alla liberazione degli Ebrei dall'accusa di deicidio si fa seguire un richiamo al coinvolgimento di tutti i peccatori, d'ogni tempo e luogo, nella morte di Gesù. In effetti, già Is 53,5.6 aveva sottolineato ch'Egli sarebbe "stato trafitto a causa dei nostri peccati, ...e dei nostri delitti". Inoltre, una tradizione ininterrotta porta attraverso i secoli la voce della Chiesa, la quale ne ripete il contenuto e lo raccoglie nel Catechismo della Chiesa Cattolica, dove confluisce a sua volta l'insegnamento del Catechismo Romano, ispirato al Concilio di Trento e come tale approvato nel 1566(45): "La Chiesa, nel magistero della sua fede e nella testimonianza dei suoi santi, non ha mai dimenticato che «ogni singolo peccatore è realmente causa e strumento delle sofferenze» del divino Redentore... La Chiesa non esita ad imputare ai cristiani la responsabilità più grave nel supplizio di Gesù, responsabilità che troppo spesso essi hanno fatto ricadere unicamente sugli Ebrei".
Questione mal posta, perché trasferita dal piano storico-giuridico a quello morale-teologico. Su questo piano si sa, per l'attestazione che ne dà la stessa rivelazione in 1 Cor 2,8, che gli Ebrei "non avrebbero mai crocefisso il Re della Gloria" se come tale l'avessero conosciuto. Sta di fatto, però, che furon gli artefici della sua crocefissione.

La conseguenza da trarre è che:

a) sul piano storico, la loro responsabilità è innegabile, così come innegabile è il concorso d'altri soggetti;

b) sul piano teologico, manca nel modo più assoluto la formalità che configuri l'esecrando delitto di deicidio, nonostante che la vittima crocefissa fosse proprio il Figlio di Dio.

A mio modesto parere, anche la non estensibilità della responsabilità suddetta ai membri attuali del popolo ebraico presta il fianco a qualche riserva. Nessuno, sia ben chiaro, intende sostenere la non pertinenza personale delle colpe: chi le ha commesse, ne porta la responsabilità e le conseguenze. Ciò, tuttavia, non autorizza a chiudere gli occhi su una qualche loro continuità. La stessa Scrittura avverte a tale riguardo che, come di generazione in generazione si diffonde la lode del Signore (Ps 78,13), così Egli rimprovererà l'iniquità commessa fino alla terza e alla quarta generazione (Es 20,5; Nm 14,18).

C'è una solidarità di fondo, infatti, alla quale nessuno sfugge. E la solidarità che stringe ogni singolo uomo nell'unità del genere umano, ma anche quella che fa di determinati individui un unico e medesimo popolo. All'interno di esso, ovviamente, agiscono i capi, ma impersonando il popolo e spesso in suo nome.

Fu certamente dei capi d'Israele la responsabilità della crocefissione di Gesù, ma il popolo non se ne dissociò, anzi la fece propria e l'invocò. Ne consegue che, se gli Ebrei d'oggi - e l'esser ebreo, per confessione degl'interessati
(46), è il collegamento a due valori costitutivi, la religione e la nazione, i quali trascendono gl'individui d'ieri d'oggi e di domani - non commisero personalmente il misfatto della crocefissione, non per questo non ne condividono moralmente la responsabilità ed il peso. Per la misteriosa solidarità che li congiunge nell'unità del popolo ebraico, son anch'essi, che pure a quel misfatto non parteciparono personalmente, solidali con esso in quanto Ebrei(47).

Un'ulteriore conseguenza riguarda la decisione dei Padri conciliari, nella fase preparatoria di Nostra aetate, d'appoggiare la loro benevola presa di posizione nei riguardi d'Israele a Rm 11,28-29 non senza un uso piuttosto libero del testo sacro. Esso dice: "Secundum Evangelium quidam, inimici propter vos: secundum electionem autem, carissimi propter Patres. Sine poenitentia enim sunt dona et vocatio Dei". Il testo approvato è il seguente: "Secundum Apostolum, Judaei Deo, cuius dona et vocatio sine poenitentia sunt, adhuc carissimi manent propter Patres" (NAe 4/d).

Che l'uso del testo fosse piuttosto libero fu chiaro agli stessi Padri conciliari, come risulta dalla Expensio modorum. Ma è ancor più chiaro in sede esegetica. L'Apostolo scrive a cristiani provenienti dal paganesimo, contro i quali gli Ebrei sono spesso in disaccordo. Egli intende metterne a fuoco le peculiari posizioni e presenta agli etnico-cristiani la reale situazione degli Ebrei: "invisi a Dio" in quanto nemici dell'Evangelo ed a Lui cari in considerazione dei loro Padri. Essendo stati gratificati da Dio con la scelta del Messia dai loro ranghi ed avendone per primi ascoltato l'Evangelo, per primi avrebbero anche dovuto accoglierne la parola e metterla in pratica. La rifiutarono. Il rifiuto è tuttora in atto. Perciò non son più amici di Dio. Discendono però dai Padri, attraverso i quali venne loro assicurata l'elezione che li rende a Dio carissimi: dunque, non in quanto Ebrei che rifiutano Cristo - sotto questo aspetto sono anzi "invisi" -, ma in quanto eredi di quei Padri che predissero Cristo e la sua salvezza, ed in quanto chiamati, essi pure, alla conversione per la gloria eterna.

L'elezione - e con essa le promesse, la benedizione, l'Alleanza - ha la sua continuità nella "creazione nuova" operata da Cristo, il quale pertanto si pone dinanzi a tutti, Ebrei compresi, come l'unico Salvatore. Non avrebbe senso, altrimenti, il continuo ripetere da parte della Chiesa che l'unico Salvatore è Cristo, se non lo fosse anche per gli Ebrei.

In questa luce è da interpretare Rm 11,29: "i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili". Lo sono, certamente, ma secondo l'eterno progetto salvifico di Dio, realizzato da Cristo. Lo si capisce anche grammaticalmente parlando: infatti, la presenza dell'articolo determinativo (τά ed η) individua non doni generici o comuni, ma quegli specialissimi doni che si concentrano nell'Alleanza di Dio col suo popolo: l'antico ed il nuovo Israe(48).

Ad esso son chiamati anche gli Ebrei. In esso, con la tensione amorosa del Padre verso il figliol prodigo (Lc 15,11-32), Dio ne attende e ne vuole l'integrazione.


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NOTE

1 Israél et les nations. La perspective missionnaire de l'Ancien Testament, Delachaux & Niestlé, Neuchatel-Parigi 1959.

2 ...on doit reconnaitre qu'en théorie...le Talmúd émettait des principes de franc universalisme», J. BONSIRVEN, Talmúd, in DThC XV, Parigi 1946, c. 22.

3 Da notare che "Lethal Weapon" è il titolo d'un altro film di Mel Gibson: un accostamento senza dubbio intelligente.

4 E. RATIER, Misteri e segreti del (sic!) B'nai B'erîth. La più importante organizzazione ebraica internazionale, tr. it. dal fr., Verrua Savoia 1998, p. 198-207; cf. EPIPHANIUS, Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia, volume di 545 pagine, privo d'altre indicazioni (editore, luogo e data d'edizione), p. 476-489.

5 Dal "Dossier sul Film La Passione", pubblicato da "Sodalitium" XX/4 (2004) 4-18.

6 Tra le moltissime introduzioni all'Antico e al Nuovo Testamento scelgo C. ZEDDA, Introduzione ai Vangeli, Roma 1957 (volume prezioso, informato ed aggiornato sulla produzione scientifica del suo tempo, e proprio per questo ancor valido) e "Bible de Jérusalem", Parigi 1974, p. 1407-1413.

7 Con testi di R. Royal, L. Baugh e G. Bertagna, Milano 2004.

8 Ivi, p. 84.

9 Cf. B. GHERARDINI, Coscienza cattolica e cultura contemporanea, Roma 1987, p. 208.

10 La Passione, cit. p. 86.

11 Per opportune notizie si veda E. COHEN, Maimonides, in RGG, IV. Tubinga 19603, c. 611-612; H. BAMBERGER, Das System des Maimonides, Berlino 1935; E. GILSON, La Philosophie au Moyen Age, Parigi 19722, p. 373ss.

12 La Passione, cit. p. 22.

13 R. S. HIRSCH, Ueber die Beziehung des Talmuds zum Judentum und zu der sozialen Stellung seiner Bekenner, Francoforte s.M. 1884, p. 5, dove si sostiene che il Talmúd "è l'unica sorgente dell'attuale Giudaismo, il suo fondamento, l'anima vivente che l'ha modellato e consacrato". Si veda anche il cit. J. BONSIRVEN, DTHC XV, c. 9-30; A. STEINSALZ, The Talmúd, A reference guide, New York 1989; I. SHALAK, Storia ebraica e Giudaismo. Il peso di tre millenni, Verrua Savoia 20002, p. 69-99.

14 A. STEINSALZ, cit. da I. SHALAK, Storia, cit. p. 98. In realtà, non è facile sintetizzar in breve che cosa sia il Talmúd. Basti dire ch'esso è duplice: quello babilonese, la vera autorità del mondo giudaico, e quello palestinese, in funzione supplementare. Consta della Mishnah e della Gemara. L'una, in lingua ebraica, è un codice di leggi in sei volumi, redatti dal 200 dell'era volgare in poi; l'altra, molto più voluminosa della prima e scritta per lo più in lingua aramaica, "è un'esegesi della Mishnah e dei libri biblici" con una parte babilonese (tra il 200 e il 500) ed una palestinese (tra il 200 e prima del 500).

15 J BONSIRVEN, Talmúd, cit., c. 26: "...expliquant comment le fondateur du Christianisme fut mis à mort en punition de ses crimes d'hérésie et de magie". Le accuse infamanti contro Gesù e sua madre Maria vennero poi riprese nel IX sec., dall'autore del satanico pamphlet Toledot Jesu.

16 D. KLINGHOFFER, in "Los Angeles Time" 1 gennaio 2004. Cf. La Passione, cit. p. 22.

17 È interessante quanto al riguardo scrive un Autore che pur indulge all'interpretazione storicizzata delle Scritture, J. MCKENZIE, Il Vangelo secondo Matteo, in E. R. BROWN - J. A. FITZMEYER - R. E. MURPHY, Grande commentario biblico, Brescia 1973, p. 965: "Togliere i capi giudaici dalla scena del racconto della Passione equivale in pratica a negare qualsiasi carattere storico del racconto ...Ma il racconto è indubbiamente storico, anche se a carattere popolare". Se dunque è storico, lo è non per i soli capi, ma anche per tutto il popolo, che gridò ad una sola voce: sia crocefisso e il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli!

18 Dei Verbum 12: "...Scripturae libri veritatem, quam Deus nostrae salutis causa Litteris Sacris consignari voluit, firmiter, fideliter et sine errore profitendi sunt". Il testo, quarto e definitivo lungo l'iter della sua formulazione, s'appoggia all'autorità di Sant'Agostino, di San Tommaso, del Tridentino, di Leone XIII e di Pio XII. Sarebbe certo interessante una verifica a tale riguardo, ma difficilmente contenibile in poco spazio. È significativo ricordare che la quarta stesura della Dei Verbum soppresse ogni riferimento all'inerranza biblica, per poter sostenere che esente da errore nella Bibbia, e specificamente nel Nuovo Testamento, è tutto ciò che riguarda il messaggio della salvezza. Cf. DACQUINO P., L'ispirazione dei libri sacri e la loro interpretazione, in AA.VV. La Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, 3. vol collana "Magistero Conciliare", Torino-Leuman 19673, p. 297-304.

19 CONC. OECUM. VATIC. I, Constit. Dogm. "Dei Filius", 3: De Fide, can. 4, DS 3029; Cf. NICOLAU V. M., Sacrae Theologiae Summa, Madrid 1962, p. 1064ss.; J. RENIÈ, Manuel d'Exégèse Biblique, 1.Lione-Parigi 19496, p. 58-61; G. PERRELLA - L. VAGAGGINI, Introduzione generale, 1.Torino 19603, p. 10-72; A. ROMEO, Ispirazione biblica, in AA.W., Il Libro Sacro; Padova 1958, p. 55-189; H. HOEPFL, Introductio generalis in Sacram Scripturam, Roma-Napoli 19586, p. 19-118.

20 LEONE XIII, Ep. Encicl, Providentissimus Deus, 18 nov. 1893, in ASS 26 (1893/94) 278ss., e DS spec. 3291-3294; Pio XII, Ep. Encicl. Divino afflante Spiritu, 30 settem. 1943, in ASS 35 (1943) 309ss. e DS spec. 3826-3831.

21 Decr. "Optatam totius" 16/a; "Dei Verbum" 24; "Lumen gentium" 25; Pio XII, Ep. Encici. Humani generis, 12 ag. 1959, in AAS 42 (1950) 567-569; Alloc. Si diligis, 31 mag. 1954, in AAS 46 (1954) 314; PAOLO VI, Alloc. 12 mar. 1964, in AAS 56 (1964) 364.

22 Cf. J. V. BAINVEL, Les contresens bibliques, Parigi 19062; G. Riccioni, Bibbia e non Bibbia, Brescia 19474.

23 Cf. Bible de Jérusalem, Parigi 19742, p. 1559, nota f: Les chefs juifs et spécialement Caiphe, 11,51s; 18,14, mais aussi Judas qui l'a livré à ceux-ci, 6,71; 13,2.11.21; 18,2.5.

24 R. LAURENTIN, Conferenza tenuta a Roma, in Nostra Signora di Sion, nel nov. del 1965, in Bilan du Concile, Parigi 1966, p. 133-135.

25 Su questa frase non si deve insistere troppo, perché era una frase corrente, più volte ripetuta dalla Sacra Scrittura (Lv 20,9; Gios. 2,19; 1Sam 1,16; 1Re 2,33), sembra anzi che lo sia tuttora in Oriente, ed abbia solo il senso d'indicare un reo meritevole di morte.

26 Cf. G. BAUM, Les Juifs et l'Evangile, Parigi 1965, p. 165ss.; ID., Declaration of Vatican II on the relation of the Church to the non-Christian Religions, in Center for Biblical and Jewish Studies, 8 (1966) sp. p. 4; A. BEA, La Chiesa e il popolo ebraico, Brescia 1966, p. 141-162. Sarà opportuno notare che il c.d. senso tipico può riscontrarsi, propriamente parlando, tra Vecchio e Nuovo Testamento, e precisamente là dove l'uno prelude in alcuni episodi e personaggi ad episodi e personaggi dell'altro, oppure là dove, da come Dio si comportò in alcune situazioni descritte dalla Scrittura, s'arguisce pure il suo comportamento in situazioni analoghe (cf. 1Cr 10,1-11). Un ricorso al senso tipico che, al di là di tali limiti, può risolversi in un puro e semplice soggettivismo, già venne escluso dall'Ep. Encicl. Humani generis (AAS 42/1950/568-570). Il senso tipico deve infatti risultare dalla stessa rivelazione e solo allora può addursi a prova d'una verità cristiana, la quale, peraltro, s'affida ordinariamente ed insuperabilmente al senso letterale ed ai passi espliciti del testo rivelato, Cf. SAN TOMMASO, STh I, 1, 10 ad 1; Quodl 7, 14 ad 4.

27 F. LovsKI, Antisémitisme et mystère d'Israél, Parigi 1955, p. 226. Va notato che le comunità ebraiche, fiorenti al tempo di Gesù in Mesopotamia, in Egitto, in Asia minore, a Roma e in tutto il bacino mediterraneo, nulla detraggono a danno della realtà e condizione di popolo, proprie degli Israeliti rimasti in patria; anzi, opponendosi quasi ovunque al messaggio di Cristo, ne seguon l'esempio e ne partecipano le responsabilità.

28 PONT. CONSIGLIO GIUSTIZIA E PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Città del Vaticano 20043, n. 386, p. 211.

29 Cf. E. TOAFF, Essere ebreo, Milano 1994, p. 13: "Ebreo è un popolo che ha una religione. I due concetti sono inscindibili. L'identità ebraica è costituita soprattutto dall'appartenenza al popolo ebraico".

30 Anzi, con Cristo ed in Cristo le stirpi stesse vengono meno: Gal 3,27-29: "Quicumque enim in Christo baptizati estis, Christum induistis. Non est Judaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus neque femina. Omnes enim vos unum (eU maschile) estis in Christo"; Rm 10,12: "Non enim est distinctio Judaei et Graeci".

31 P. es., A. RAVENNA, L'ebraismo postbiblico, Brescia 1958; D. JUDANT, Jalons pour une théologie chrétienne d'Israél, Parigi 1975; G. Ricciotti, Storia d'Israele, 1.Torino 1932, p. 139-338; P. HEINISH, Geschichte des Alten Testaments, Bonn 1950, p. 39-153. Non mi pare però che la distinzione sia da questi ed altri Autori scavata in tutta la sua intelligibilità.

32 Di tutt'altro parere è B. HUSSAR, La religione giudaica, in AA.VV., Le religioni non cristiane nel Vaticano Il, Torino-Leumann 19672, p. 252-261 secondo il quale gli Ebrei non sono dei riprovati per la semplice ragione che la riprovazione non ebbe mai luogo. A mio modesto avviso, questo è un grave errore, dovuto alla mancata distinzione tra il giudaismo talmudico e il giudaismo del "resto d'Israele", l'uno indubbiamente ripudiato da Dio che non poteva approvarne il rifiuto di Cristo, l'altro da Dio costituito in continuità con le antiche promesse per la sua fede in Cristo.

33 Alludo specialmente ai relatori del Simposio storico-teologico del 30 ottobre-1 novembre 1997, i cui Atti figurano in Radici dell'antigiudaismo in ambiente cristiano. Colloquio internazionale, Città del Vaticano 2000, con particolare attenzione per M. Dubois, P. Beauchamp, I.-M. Garrigues. Rimando poi a A. BEA, Il popolo ebraico nel piano divino della salvezza, in Civiltà Cattolica, 6.11.1965, p. 209-229; P. BEAUCHAMP, L'Église et le peuple juif, in Etudes, 321 (1964) 249-268; Gr. BAUM, Les Juifs et l'Évangile, Parigi 1965; BR. HUSSAR, Destinée d'lsraél et destinée du Chrétien, in La vie spirituelle, 100 (1959) 595-622; ID., Réflexions sur le Mystère d'lsraél, in Bible et Terre Sainte, gennaio 1966; W. D. MARSCH-K. THIEME, Christen und Juden. lhr Gegenúber vom Apostelkonzil bis heute, Magonza-Gottinga 1961; J. DE MENASCE, Quand lsraél alme Dieu, Parigi 1931; N. LOHFINK, L'Alleanza mai revocata. Riflessioni esegetiche per il dialogo tra cristiani ed ebrei, Brescia 1991.

34 Un grande, forse il più grande commentatore dell'"Ep. agli Ebrei", C. Spico, L'Epítre aux Hébreux, Parigi 19532, p. 244, scrive al riguardo: "Le mot important de l'oracle prophétique est KaLVtj; sa portée est plus grande qu'il ne paraît. On aurait pu concevoir que Dieu allait rajeunir, modifier, améliorer une alliance qui semblait faite pour durer toujours. Non point. Dès là qu'il annonce une SLae1K11 KcLV, il rend irrémédiablement vieille (cf. le parfait) la précédente; celle-ci n'est plus seulement ancienne, mais périmée et caduque. ‘Nouvelle' doit donc s'entendre au sens d'innovation qui remplace purement et simplement un ancien ordre de choses".

35 Cf. LOHFINK N., L'Alleanza mai revocata, cit. p. 17-18.

36 SACK, Occhio per occhio. Polonia 1945: la storia della vendetta ebraica contro i nazisti, Milano 1995.

37 Si veda G. LEVI DELLA VIDA, Les Sémites, Parigi 1938; S. MOSCATI, Storia e civiltà dei Semiti, Bari 1949 (10552); W. VON SODEN, Semiten, in RGG3 V. Tubinga 1961, c. 1690-1693; E. HAMMERSHAIMB, Semitiche Sprachen, ivi c. 1694-1696.

38 Se ne ha una documentazione storica, forse un po' troppo "gridata", in Autori come FR. LOVSKI, Antisémitisme, cit. p. 146-148.196-198.305-308; L. POLIAKOV, Du Christ aux Juifs de cour, Parigi 1955, p. 64-65. 72-80

39 L. POLIAKOV, Du Christ, cit. p. 72-80.

40 Ivi p. 115.

41 FR. LOVSKI, Antisémitisme, cit. p. 197.

42 P. DEMANN, Les Juifs sont-ils-maudits? in Cahiers Sioniens, luglio,1948, p.277.

43 Cf. al riguardo P. BEAUCHAMP, L'Église et le peuple juif, in Etudes, sett. 1964, p. 265ss.

44 C'è un bel testo in SANT'AGOSTINO, Enarr. in Ps. LXV,5 PL 36,5 dove l'accusa di deicidio vien allontanata dagli Ebrei crocefissori di Cristo, perché, "se l'avessero saputo, non avrebbero crocefisso il Signore della Gloria" (1Cor 2,8).

45 CCC (Libr. Editr. Vatic. 1992) 598; Cat. Rom., I, 5, 11 (Ed. BAC Madrid 1956, p. 124).

46 Cf. E. TOAFF, Essere ebreo, cit. p. 13.

47 Cf. J. MARITAIN, Le mystère d'Israèl et autres essais, Parigi 1965, p. 34-37 che insinua una colpa nazionale e parla di "castigo-avvenimento"; la parola di Maritain è tanto più probante in quanto egli appartiene al folto gruppo dei favorevoli ad Israele e condanna con essi l'antisemitismo.

48 Interessantissimo a tale riguardo Rm 11,30-32 che costituisce un po' l'interpretazione dei due precedenti versetti. L'Apostolo parla sempre ai cristiani dell'Urbe, convertiti dal paganesimo, e dice: Anche voi, un tempo, foste a Dio ribelli (ribellarsi-ribellione, cf. Rm 11,10.21); oggi però che la mancata obbedienza degli Ebrei fu l'occasione della vostra conversione, siete voi ad aver ottenuto la misericordia di Dio. Ma la misericordia da voi conseguita è ora all'origine della ribellione ebraica. La relazione s'è invertita: la misericordia che Dio ha rivolto a voi è un dativo che i grandi esegeti considerano causale) è ordinata alla (ίνα, finale) conversione degli Ebrei. Dio, in effetti, tutti chiuse nella disobbedienza, per aprir a tutti, pagani ed Ebrei, la sua misericordia.


Rivista Fides Catholica, N 1/2008



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CLICCATE QUI




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Dopo la visita del Papa alla Sinagoga di Roma, clccate qui per il testo e le foto:
17.1.2010 Benedetto XVI in visita alla Sinagoga di Roma


leggiamo come si snoda il dialogo.....


Perché l'ortodossia ebraica deve accettare il dialogo

I cattolici ci porgono la mano
sarebbe insensato non afferrarla


Pubblichiamo un articolo dell'ambasciatore d'Israele presso la Santa Sede scritto per il numero di febbraio di "Pagine ebraiche", il mensile dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane diretto da Guido Vitale.

di Mordechay Lewy


L'ebraismo si fonda sul riconoscimento dell'unità del genere umano, dell'aderenza ai principi morali e della verità, che regnano supreme sopra ogni uomo, a prescindere dalla razza o dalla religione. I Giusti non sono tali in virtù dei propri natali.

I gentili possono aspirare a divenire Giusti come gli ebrei, secondo quanto citato nel Tosefta, Sanhedrin, 13, "I giusti tra i Gentili hanno il loro posto nel mondo a venire". Nel Levitico "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (19, 18), si applica a ogni essere umano. Quei principi sono riconducibili a un rispettoso trattamento dell'"altro". Nonostante le mutate condizioni di vita in Europa, le fonti rabbiniche medievali mostrano rispetto verso le altre religioni. Non solo Maimonide, ma anche Rabbi Menachem Hameiri di Perpignan (1249-1315) riconobbe nel suo commento al Talmud Beit Habechira che i musulmani e i cristiani meritano onestà nelle transazioni economiche, come "popoli definiti dai modi della religione" (commenti sui trattati Baba Metzia, 27a e Baba Kama, 113b).

Rabbi Moshe de Coucy nel XIII secolo proibiva "di ingannare sia l'ebreo che il gentile" (Semag, 74). Rabbi Joseph Caro (1488-1575) nello Shulchan Aruch dichiara che "i gentili di oggi non sono considerati idolatri in riferimento alla restituzione degli oggetti perduti e di altre questioni" (Hoshen Mishpat, 266). Rabbi Moses Rivkes (1600-1684), autore di un commento sullo Shulchan Aruch, scrisse nella Beer Hagolah che i cristiani "credono nella creazione del mondo, nell'Esodo, nella Rivelazione sul  Sinai  e  pregano  per  il  Creatore" (7, 7).

Rabbi Jacob Emden (1698-1776), in una lettera alla comunità ebraica polacca, si appella ai cristiani per trattare i sabbatiani come apostati, "Poiché è riconosciuto che anche il Nazzareno e i suoi discepoli, in particolar modo Paolo, hanno ammonito sulla Torah degli Israeliti a cui tutti i circoncisi sono legati. E se sono veri Cristiani, essi osservano la loro fede con la verità e non permettono tra i loro confini questo nuovo messia inadatto (...) Sabbatai Zevi (...) Invero, anche secondo gli scrittori dei Vangeli, ad un ebreo non è permesso di lasciare la sua Torah". Questo passaggio è tratto da un'appendice al Seder Olam Raba di Emden (Hamburg, 1757, p. 33).

Nel suo commento, Lechem Shamajim sul Mishna Tractate Avot (Amsterdam 1751, p. 41), Emden loda la dottrina musulmana e cristiana:  "I saggi di Edom e gli Ismaeliti parlano in nostro favore (...) grazie al comune insegnamento divino che condividono (...) Benché alcuni stolti abbiano quasi cercato di annientarci (...) I saggi tra di loro sono stati forti come leoni contro i malvagi, specialmente i saggi cristiani che seguono sempre la verità (...) Essi sono stati i nostri protettori e ciò sarà considerata un'azione caritatevole da parte loro".

L'ortodossia ebraica, un tempo pluralistica nel suo approccio verso i cristiani, dopo la Shoah è divenuta, a dir poco, meno flessibile. Nonostante ciò, dei tre atteggiamenti prevalenti verso i cristiani, solo l'attitudine degli Charedim ultraortodossi può considerarsi completamente negativa. Questa corrente è guidata dallo Psak Halacha (verdetto halachico) del 1967, del Rabbino Moshe Feinstein (1895-1985). Questo verdetto, pubblicato nel Igrot Moshe, Yore Dea (3, 43) proibiva perfino gli incontri con i preti.

Per il momento, l'attitudine degli Charedim, che delegittimizzano persino altre denominazioni ebraiche ortodosse, persiste. La corrente principale dell'ebraismo ortodosso esprime il suo atteggiamento attraverso Rabbi Joseph Ber Soloveitchik (1903-1993) e il suo articolo programmatico Confrontation ("Tradition. A Journal of Orthodox Thought", 1964) viene considerato una risposta alle riflessioni precedenti a Nostra aetate. Benché egli neghi la possibilità del dialogo religioso, che considera dottrinale per natura, suggerisce una piattaforma comune di azione concertata nella sfera pubblica secolare.

I parametri di Soloveitchik sono:  1) Il raggio d'azione ebraico-cristiano per il bene comune è ristretto alla sfera secolare, come Dio ha comandato all'umanità nella Genesi:  "riempite la terra e rendetevela soggetta" (1, 28). 2) Relazioni rispettose tra le religioni necessitano di una rigorosa non interferenza. Ci si dovrebbe astenere dal suggerire alle altre fedi cambiamenti relativi ai rituali o emendamenti ai testi.

Quaranta anni di dialogo ebraico-cattolico dopo Nostra aetate sono stati un periodo di prove ed errori reciproci in cui si è sviluppato un proprio dinamismo. L'emergente ortodossia moderna si è spinta oltre i confini delineati da Soloveitchik, diventando il nucleo delle correnti ebraiche ortodosse che portano il messaggio del dialogo attuale.

Uno dei loro celebri portavoce, Rabbi David Rosen, ha spiegato le ragioni fondamentali del dialogo con i cattolici in questo modo: 
1) L'ignoranza genera il pregiudizio e pertanto minaccia il benessere delle comunità, specialmente per le minoranze. Attraverso il dialogo, le barriere dei pregiudizi e degli stereotipi vengono rimosse e si incoraggia il rispetto reciproco.
2) Una base ulteriore per le relazioni interreligiose è la percezione di una "agenda comune", poiché nessuna religione è un'isola. Tutte le religioni dell'Occidente sono diventate delle minoranze in un mondo sempre più secolarizzato.
3) Ogni religione è uguale davanti a Dio con la sua propria verità. La rivendicazione del monopolio sulla verità equivale a limitare l'incontro con il Divino.
( su questo non siamo affatto d'accordo... la Chiesa insegna che è la dignità di ogni UOMO ad essere uguale davanti a Dio, qualunque sia la sua fede, al contrario una fede che RINNEGHI O LIMITI IL RICONOSCIMENTO DI CRISTO NON E' UNA VERITA' non possono esistere verità avverse o che si contraddicano o rinneghino il Cristo, inoltre è palesemente dimostrato con i Padri della Chiesa che è dalla Chiesa che s'irradia nel mondo LA LUCE DELLA VERITA'... - nota mia!)
4) L'identità del cristianesimo è legata in maniera unica alla storia ebraica e alla rivelazione, nonostante le nostre differenze fondamentali. Poiché l'ebraismo ci insegna che è un nostro dovere testimoniare la presenza di Dio e santificare il Suo nome nel mondo, abbiamo l'obbligo di lavorare insieme.

I cristiani e gli ebrei guardano indietro a duemila anni di traumatico passato comune. Dopo la Shoah la Chiesa cattolica ha avviato negli anni Sessanta un cambiamento radicale nei riguardi degli ebrei. La conversione è bandita a un orizzonte escatologico distante e sconosciuto. La capacità di sopravvivenza dell'ebraismo è garantita dalla fondazione dello Stato Ebraico. I cattolici ci porgono la mano. Sarebbe insensato non afferrarla, a meno di non voler ipotecare il nostro futuro con una costante animosità con il mondo cattolico. I primi duemila anni non legittimano una ripetizione. Entrambi meritiamo di meglio.


(©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010)

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A colloquio con il rabbino Jacob Neusner

Il Papa in sinagoga? Un evento grandioso


E Benedetto XVI ha confidato all'amico ebreo di avere terminato il secondo volume su Gesù

di Andrea Monda

Non c'era persona più adatta del rabbino Jacob Neusner - uno dei maggiori conoscitori e studiosi viventi del giudaismo - per dialogare con l'arcivescovo e teologo cattolico Bruno Forte sul Discorso della montagna. La serata d'eccezione ha avuto luogo il 18 gennaio a Roma nella Sala Petrassi dell'Auditorium. Non per nulla questo dialogo si è svolto il giorno dopo la storica visita del Papa nella sinagoga di Roma, né casuale è stata la scelta del relatore di parte ebraica, operata dalla Fondazione Marilena Ferrari-Fmr, organizzatrice dell'evento "Imago Christi". Questo è anche il titolo del libro d'arte realizzato da Nicola Saporì e contenente il Discorso della montagna, letto dall'attore Luca Zingaretti.

"Grazie a questo testo ho imparato ad amare Gesù" diceva Gandhi, come ha ricordato, in apertura, monsignor Forte. Un testo che è come la carta d'identità di Cristo e quindi anche del cristiano. Nessuno più adatto a riflettere su questo straordinario "documento d'identità" di Jacob Neusner proprio perché è quanto il rabbino statunitense sta facendo da oltre vent'anni, quando iniziò il dialogo a distanza con il cardinale Joseph Ratzinger.

Nel 1993 Neusner aveva pubblicato negli Stati Uniti un libro dedicato proprio al Discorso della montagna:  A Rabbi talks with Jesus. Un libro in cui egli immagina di trovarsi lì, sul monte dove Gesù pronuncia le Beatitudini e di ascoltarlo come se fosse la prima volta. La scommessa di Neusner è quella di mettersi in ascolto di Cristo cancellando tutte le pre-comprensioni e i pregiudizi inevitabilmente accumulatisi in duemila anni di storia del cristianesimo.

Prima dell'inizio del dialogo l'anziano rabbino di Hartford (Connecticut) ci ha raccontato la storia di quel libro:  "Quando stava per uscire proposi al mio editore di chiedere un giudizio, da inserire nelle note di copertina, al cardinale Ratzinger, che era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Egli mi diede del pazzo perché secondo lui il porporato non avrebbe mai accettato. Facemmo una scommessa e la vinsi:  Ratzinger definì, tra l'altro, il mio saggio "il più importante uscito nell'ultimo decennio per il dialogo ebraico-cristiano" e aggiunse:  "L'assoluta onestà intellettuale, la precisione dell'analisi, il rispetto per l'altra parte unito a una radicale lealtà verso la propria posizione caratterizzano il libro e lo rendono una sfida, specialmente per i cristiani, che dovranno riflettere bene sul contrasto tra Mosè e Gesù". Quando poi nel 2007 Benedetto XVI ha scritto il suo primo volume su Gesù di Nazaret ha avuto la finezza di riprendere il dialogo tra noi due dedicando diverse pagine a quel mio saggio del 1993".

Conosce bene il libro di Neusner anche monsignor Forte, che durante il dialogo pubblico più volte lo ha elogiato sottolineandone ora l'originalità, che "sta nel fatto che l'autore si immagina contemporaneo del Maestro galileo e intavola con lui una discussione serrata. Nella prospettiva rabbinica questo è un atto di profondo rispetto e di forte tensione spirituale"; ora la leale franchezza con cui è stato scritto:  "L'ebraicità di Gesù è dunque fuori discussione, e si deve essere grati a chi - come Neusner - la rivendica con onestà e rispetto". Con la stessa franchezza l'arcivescovo ha poi precisato le ragioni del cristianesimo, soffermandosi proprio sui punti più controversi in cui il rabbino nel suo saggio ha mostrato le maggiori perplessità:  il rispetto della Torah e in particolare del  terzo  e  del  quarto  comandamento.

Citando Jeremias, il teologo cattolico ha ricordato che il Discorso della montagna non è una legge contrapposta alla mosaica, bensì un vangelo, il lieto annuncio dell'amore di Dio che non abbandona l'uomo, ma incarnandosi in Cristo gli dona la forza per raggiungere quelle vette apparentemente impossibili rappresentate dalle Beatitudini, magna charta del cristianesimo. L'aspetto più avvincente del dialogo tra monsignor Forte e il rabbino Neusner è stato l'autenticità; un confronto gentile nei modi, ma schietto e aperto nella sostanza; un confronto leale che insieme agli incontri di questi giorni tra ebrei e cattolici ha contribuito ad accrescere la reciproca conoscenza.

Un altro indice indiscutibile di questo dialogo è stata l'udienza privata che il Papa ha riservato lunedì 18 gennaio a Jacob Neusner e a sua moglie Suzanne. In tale occasione il rabbino ha regalato a Benedetto XVI una copia dell'edizione tedesca del saggio del 1993 - che Ratzinger all'epoca lesse nell'originale edizione americana - insieme a una copia dell'edizione italiana del saggio sul Talmud (per le edizioni San Paolo che lo hanno anche ripubblicato col titolo Un rabbino parla con Gesù). Doni molto graditi dal Papa che si è soffermato con il suo amico d'oltreoceano per quasi venti minuti:  "Il tempo sufficiente - spiega Neusner - per un bell'incontro tra due professori. Ho sempre stimato lo studioso Joseph Ratzinger per la sua onestà e lucidità ed ero molto interessato a incontrare e conoscere l'uomo. Ora che sono venuto qui a Roma per lo storico incontro nella sinagoga e per discutere con monsignor Forte ho ricevuto questo grande dono di incontrarmi col Papa". Neusner non trova quasi le parole per esprimere la gioia di quella visita:  "Abbiamo parlato dei nostri libri e lui mi ha confidato di aver finito di scrivere il secondo volume su Gesù".

Neusner però è di poche parole e va dritto all'essenziale; del resto è questa la virtù per cui i due "professori" si stimano vicendevolmente:  "La cosa che più mi ha colpito sono stati i suoi occhi penetranti. Egli ti guarda attraverso. E poi i suoi modi da gentleman, pieno di gentilezza e umiltà". È questo tratto umano del Pontefice che ha toccato il rabbino, lo stesso tratto che egli ha visto nel Papa durante la visita di domenica nella sinagoga di Roma:  "Un evento grandioso, con una partecipazione enorme, tesa e commossa da parte di tutti, che mi fa ben sperare per il futuro. Il problema dell'oggi - e il Papa lo ha ben compreso - è che si vive nell'oblio, si dimentica la storia e le tradizioni religiose da cui si proviene.

Per questo è importante lo studio della storia. Penso a una questione controversa come quella della figura storica di Pio xii. Secondo me è ancora troppo presto per giudicare e invece sento spesso giudizi trancianti, in un senso o in un altro. Ho come la sensazione che ci sia qualcuno che si agita distruttivamente, che non è interessato al cattolicesimo, né al giudaismo, né, tantomeno, al dialogo tra queste due grandi tradizioni. È triste, perché poi, nella realtà concreta - lo posso vedere nella mia vita quotidiana negli Stati Uniti - i rapporti tra ebrei e cristiani sono ottimi. Se si ignora il passato ci si condanna a riviverlo; lo studio da questo punto di vista è essenziale. Insieme al senso di responsabilità:  ogni generazione ha la responsabilità per il futuro e ce l'ha oggi, qui e ora".


(©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2010)
[Modificato da Caterina63 19/01/2010 23:54]
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17/03/2010 09:23
 
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Necessità e natura della Conversione degli Ebrei  un grazie a Messainlatino e a don Alfredo Morselli

La nuova preghiera Pro conversione Iudaeorum per la forma straordinaria del rito romano: un tentativo di analisi teologica.


I parte

Necessità e natura della Conversione degli Ebrei


1. Lo Status quaestionis.

Le difficoltà maggiori del dialogo inter-religioso tra la Chiesa Cattolica e gli Ebrei non riguardano né la negazione della Shoah - che nessun cattolico sano di mente nega -, né il riconoscimento dello Stato di Israele – il cui stato di fatto, pur unito a riserve sui trattamenti riservati talvolta ai palestinesi cristiani e non, oggi nessuno contesta -, né le critiche al Pontificato di Pio XII (più conseguenza che causa di dissapori).

La difficoltà maggiore è data dalla questione se il Cattolicesimo e l’Ebraismo possano essere considerate due vie parallele di salvezza o meno; se per un cattolico gli Ebrei si debbano convertire o arrivare al Cattolicesimo, oppure possano o debbano rimanere nella loro religione.

La scelta della seconda soluzione comporterebbe la fine della missio ad Hebreos.


In questi termini, in riferimento al problema teologico, si esprimeva già - non so con quali auspici di soluzione - il Cardinale Etchegaray, presidente emerito del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (e recentemente tornato agli onori della cronaca per la frattura al femore durante l’aggressione al Papa la sera del 24 dicembre 2009):

"Fino a quando la teologia non avrà risposto in modo chiaro e sereno al problema del riconoscimento da parte della Chiesa della vocazione permanente del popolo ebraico, il dialogo ebraico-cristiano rimarrà superficiale ed amichevole, pieno di restrizioni mentali” [1].

Il Rabbino Riccardo Di Segni poneva, qualche anno fa, la stessa questione in questo modo:

“Il dato che segnalo, è che a 39 anni dalla Nostra aetate (…) non mi è parso di vedere - e sarei lieto se qualcuno mi potesse contraddire - un solo articolo di un cattolico dove si dicesse che i tempi sono cambiati e che un rabbino che si converte al cristianesimo non è più un obbiettivo e un ideale per la Chiesa Cattolica”[2].

E ancora, recentemente, Il Card. Kasper ribadiva il medesimo concetto

“Con questo si affronta la questione teologica più fondamentale dell'attuale dialogo ebraico-cristiano: c'è una sola alleanza o ci sono due alleanze parallele per ebrei e cristiani?”[3]

Dunque il vero problema è il seguente: se oggi incontriamo un nuovo Ratisbonne, che viene a chiedere il Battesimo, gli dobbiamo dire: “Bravo, vieni che ti battezzo”, oppure: “Torna pure alla Sinagoga; dopo il Concilio abbiamo capito che puoi rimanere tranquillamente Ebreo”? E, ammesso che giustamente desideriamo che il maggior numero possibile di Ebrei entri nella Nuova Alleanza, dobbiamo darci da fare anche per cercare di convincere gli Ebrei stessi, annunciare loro Gesù Cristo, oppure dobbiamo limitarci ad una silenziosa testimonianza?

Il problema è acuito dalla forte pressione, esercitata tanto da Ebrei quanto da sedicenti cattolici, per una soluzione che vada in quest’ultimo senso: così scriveva qualche giorno fa Riccardo Cascioli:

“Lunedì 18, ad esempio, nel Giornale Radio di Radio 2 alle 7.30, lo storico Alberto Melloni ha affermato che il fatto più importante della visita è la chiara rinuncia alla conversione degli ebrei da parte della Chiesa, cosa che discenderebbe dalla affermazione della irrevocabilità dell’Alleanza tra Dio e il popolo di Israele. Il giorno successivo è toccato al presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, chiedere – come ulteriore passo nel cammino di avvicinamento tra ebrei e cristiani – una rinuncia esplicita alla conversione degli ebrei che, secondo lui, è già implicita”[4].


2. La risposta nei documenti ufficiali.


Benché la pressione mediatica presenti come dominante l’idea che Ebraismo e Cristianesimo siano due vie parallele di salvezza, i documenti ufficiali parlano chiaro:

“Chiesa ed ebraismo non possono essere presentati dunque come due vie parallele di salvezza e la chiesa deve testimoniare il Cristo redentore a tutti”[5].

Né si può far risalire al Concilio la teoria delle due vie parallele; una retta oggettiva interpretazione del testo conciliare ci viene proprio dal rabbino Di Segni:

“C’è una frase nella Nostra aetate che non viene quasi mai citata, ma rivela il nodo del problema: "E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio..." dice il documento. È in qualche modo una ripresa dell’antico tema del verus Israel, che nella sua formulazione conciliare lascia aperto il problema: se "nuovo" popolo di D. significa che il vecchio non lo è più, o se insieme vecchio e nuovo hanno un ruolo nella salvezza. Il card. Bea, coraggioso difensore del documento conciliare, (…) non aveva dubbi su questo punto: spiegava che "naturalmente è vero che il popolo ebraico non è più il popolo di D. nel senso di istituzione di salvezza per l’umanità"”[6]

Inoltre il rabbino capo di Roma fa notare come anche l’allora Card. Ratzinger sembrava anche lui “seguirne la dottrina (…) quando afferma che:


“Nell’Antico Testamento [il popolo di D.] era il popolo d’Israele, da Cristo in avanti il nuovo popolo è quello dei suoi seguaci”[7].


D’altronde, il Cardinale Ratzinger stesso si era espresso in modo inequivocabile prima di essere eletto Papa: dopo aver ribadito che “Israele ha ancora un tratto di cammino da compiere”, alla domanda “Questo significa che gli Ebrei devono o dovrebbero riconoscere il Messia ‘?”, il futuro pontefice rispondeva “Noi crediamo di sì”[8].



3. Ancora lo scontro tra le “due ermeneutiche”.

Benedetto XVI si trova, anche per quanto riguarda la teologia dell’ebraismo, a dover dare energici colpi di timone per raddrizzare la rotta che l’ermeneutica della rottura vuole vanamente far prendere alla Chiesa.

I problemi di questa correzione di rotta sono enormi: da un lato un Pontefice romano non può che confermare i suoi fratelli ribadendo la verità, senza sconti; da un altro però bisogna non urtare la sensibilità degli Ebrei, al fine di non pregiudicare il dialogo con essi. Per un ebreo, la conversione dall’ebraismo ad altra religione è cosa gravissima[9].

Con l’espressione dialogo da non pregiudicare non intendo cedimento dottrinale, ma la realizzazione di quanto lo stesso Benedetto XVI si auspicava nel Discorso tenuto nella Sinagoga di Colonia:


“Infine, il nostro sguardo non dovrebbe volgersi solo indietro, verso il passato, ma dovrebbe spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di domani. Il nostro ricco patrimonio comune e il nostro rapporto fraterno ispirato a crescente fiducia ci obbligano a dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico per la difesa e la promozione dei diritti dell'uomo e della sacralità della vita umana, per i valori della famiglia, per la giustizia sociale e per la pace nel mondo. Il Decalogo (cfr Es 20; Dt 5) è per noi patrimonio e impegno comune”[10].

4. La verità senza sconti.


Il papa ha parlato chiaro; ermeneutica della Riforma non vuol dire assolutamente ritorno al passato, ma progredire senza rotture con lo stesso passato.

E allora, insieme a tanta pazienza e carità mostrata dal Papa in varie circostanze, il termine conversione, riferito agli Ebrei, è riapparso in un documento del magistero.

Infatti, ancor prima della tanto contestata preghiera “pro Iudeis” per la forma straordinaria del rito romano - preghiera a cui non è stata tolta l’indicazione rubricale Pro conversione Iudeorum[11] -, il Papa diceva:

”Con la loro stessa esistenza i Dodici - chiamati da provenienze diverse - diventano un appello a tutto Israele perché si converta e si lasci raccogliere nell'alleanza nuova, pieno e perfetto compimento di quella antica”[12].


La benefica influenza di questa impostazione comincia anche a vedersi nei documenti di alcuni episcopati.

Non si possono che valutare positivamente le ultime prese di posizione - quasi una metamorfosi - dei Vescovi statunitensi.

Se nelle “riflessioni cattoliche” del documento congiunto del 12-8-2002 Reflections on Covenant and Mission[13] si arrivava a dichiarare che “gli Ebrei già si trovano in una situazione di alleanza salvifica con Dio” [14], abbiamo, quasi sette anni dopo (19-6-2009) - meglio tardi che mai - una Nota dottrinale importantissima dello stesso episcopato nord-americano: A Note on Ambiguities Contained in «Reflections on Covenant ond Mission».

In questo documento si dichiara che, sebbene la partecipazione cristiana al dialogo inter-religioso “non include normalmente l’esplicito invito al Battesimo e all’entrata nella Chiesa, l’interlocutore cattolico offre sempre la testimonianza per la sequela di Cristo, alla quale tutti sono implicitamente invitati”; e ancora viene detto che alcune affermazioni del documento in questione “porterebbero erroneamente a trarre la conclusione che gli Ebrei hanno l’obbligo di non diventare Cristiani e che la Chiesa avrebbe un corrispondente obbligo di non battezzare gli Ebrei”[15].

La recente affermazione del Card. Bagnasco, secondo cui “la Conferenza Episcopale Italiana ribadisce che non è intenzione della Chiesa Cattolica operare attivamente per la conversione degli ebrei”[16], va intesa - se vogliamo salvarne l’ortodossia - non in senso assoluto; ma nel senso che non si deve fare proselitismo in modo scorretto; oppure nel senso delle dichiarazioni dei Vescovi statunitensi, che distinguono il dialogo inter-religioso dall’invito al Battesimo, senza però dichiararli incompatibili.

5. La nuova preghiera pro Iudeis.


E adesso, dopo aver visto la cornice in cui si colloca la nuova preghiera pro Iudeis, entriamo finalmente in medias res. E cominciamo proprio dal titolo rubricale Pro conversione Iudeorum.

Che importanza dare a un titolo rubricale? Niente di più di ciò che è, ma neppure niente di meno, considerando che nel Messale del 1965 il titolo era stato tolto[17], cosa che non viene fatta nella prima riforma che il Messale del 1962 subisce in quanto tale.


6. In che senso si deve parlare di Conversione degli Ebrei ?

Certamente l’espressione conversione è pertinente agli Ebrei, e rimane ancora valida in sé, perché in questo senso è propria della Tradizione della Chiesa ed è presente nella S. Scrittura.

“Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto”[18].


Però dobbiamo ben intendere questa parola, perché la conversione degli Ebrei non è della stessa specie della conversione di un peccatore in generale o di un pagano o di un eretico: si tratta una conversione differente rispetto alla conversione da altre specie di incredulità[19].

La parola conversione indica comunque l’abbandono di una strada sbagliata, e l’ingresso in una via giusta.

Qual è dunque il costitutivo formale dell’incredulità degli Ebrei, cioè il terminus a quo della loro conversione?

Lasciamo la parola a San Tommaso d’Aquino: troviamo una magnifica risposta a questa domanda nella Somma Teologica, I-II, q. 104, art. 4, co.; il titolo dell’articolo è il seguente: Se dopo la passione di Cristo si possano osservare le cerimonie legali senza peccato mortale (… de duratione caeremonialium praeceptorum … utrum sit peccatum mortale observare ea post Christum). Esaminiamo ora il corpo dell’articolo:

“Tutte le cerimonie sono altrettante professioni di quella fede, che costituisce il culto interiore di Dio. Ora, l'uomo può professare la sua fede interiore con gli atti e con le parole: e in entrambi i casi, se professa della falsità, pecca mortalmente. E sebbene la fede che noi abbiamo del Cristo sia identica a quella che di lui avevano i Patriarchi, tuttavia poiché essi precedettero il Cristo, mentre noi siamo a lui posteriori, la medesima fede viene espressa con verbi differenti. Essi infatti dicevano: "Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio", usavano cioè verbi al futuro: invece noi ci serviamo del passato nell'esprimere la stessa cosa, dicendo che "concepì e partorì". Allo stesso modo, le cerimonie dell'antica legge indicavano il Cristo che doveva ancora nascere e patire: mentre i nostri sacramenti lo indicano già nato e immolato. Perciò, come peccherebbe mortalmente chi adesso, nel professare la fede, dicesse che Cristo deve nascere, cosa che gli antichi invece dicevano con tutta pietà e verità; così peccherebbe mortalmente chi osservasse ancora le cerimonie che gli antichi osservavano con pietà e con fede. Ciò corrisponde a quanto scrive S. Agostino: "Ormai non c'è più la promessa che Cristo deve nascere, patire e risorgere, come quei sacramenti in qualche modo ricordavano; ma c'è l'annunzio che egli è nato, ha patito ed è risorto, come dichiarano apertamente i sacramenti usati dai cristiani"[20].

Innanzi tutto notiamo che l’Aquinate afferma che la fede che noi abbiamo del Cristo è identica a quella che di lui avevano i Patriarchi; e questo non si può dire di nessuna altra forma di incredulità: e per questo che la conversione degli Ebrei è una conversione specifica.

Allora da che cosa è necessaria la conversione? Dal dichiarare come ancora da venire gli eventi salvifici che si sono già realizzati nella storia.

Altrove lo stesso Aquinate – citando S. Agostino, afferma che l’antico popolo dell’Alleanza era tutto prefigurativo: “la vita stessa di quel popolo era profetica, e figurativa del Cristo”[21]: l’incredulità, da cui è necessaria la conversione, è il misconoscere che il tutto essere prefigurativo del popolo dell’Antica Alleanza si è ora compiuto in Gesù Cristo.

In base a quanto detto, parafrasando il testo di San Tommaso pecca mortalmente – e quindi necessita, oggettivamente, di una vera e propria conversione - chi adesso, nel professare la fede, dice che Cristo deve nascere (anziché è nato), cosa che gli antichi ebrei invece dicevano con tutta pietà e verità.

Dopo aver visto il terminus a quo della conversione degli Ebrei, vediamo ora il terminus ad quem.

Questo termine è indicato nella nuova preghiera pro Iudeis: “ut agnoscant Iesum Christum salvatorem omnium hominum”; la preghiera è perfettamente conforme con quanto afferma San Tommaso, nel commentare 2 Cor 3,16 (“ma quando ci sarà la conversione al Signore, quel velo sarà tolto”):

“affinché questo [velo] sia tolto, non resta altro da fare che convertirsi, ed è quanto egli dice: «quando ci sarà la conversione», ossia di qualcuno di loro a Dio mediante la fede in Cristo, con la stessa conversione «quel velo sarà tolto»”[22].


7. Conversione o compimento?

Dopo aver affermato la giustezza e la liceità dell’espressione conversione degli Ebrei, vediamo ora se, in alcuni casi, non sia meglio dire che gli Ebrei devono arrivare a Gesù Cristo; cioè se, talvolta, il riconoscimento soggettivo di Gesù Cristo da parte di un singolo ebreo non sia piuttosto un compimento e un coronamento che una conversione.

Queste espressioni (compimento e un coronamento) risalgono al … Vaticano I, seppure non compaiano in un decreto ufficiale (sì avete letto bene Vaticano I e non Vaticano II).
Si tratta del Postulatum pro Hebreis, cioè una petizione che i sacerdoti Augustin e Joseph Lémann (due dei più illustri ebrei convertiti francesi del XIX secolo, che dedicarono poi la loro vita per la conversione del loro popolo), presentarono ai padri conciliari perché la sottoscrivessero[23]: il postulatum chiedeva al Santo Padre e al Concilio di rivolgersi agli Ebrei con un invito del tutto paterno (paterna quadam invitatio), perché questi credessero in Gesù Cristo. Questo testo raccolse l’adesione di ben cinquecentodieci Padri conciliari: i fratelli Lémann non andarono oltre nella raccolta, per non superare il numero delle firme di coloro che richiedevano la proclamazione del dogma dell’infallibilità papale (cinquecentodiciotto). Pio IX fu entusiasta dell’iniziativa e promise che sarebbe stata messa in agenda per la successiva sessione del Concilio (che non poté tuttavia proseguire, a causa dell’invasione dei Piemontesi).

Ecco alcuni stralci del postulatum:

“I sottoscritti Padri, con umile e pressante preghiera, chiedono al Sacro Ecumenico Sinodo Vaticano che si degni di compiere un primo passo, con un invito del tutto paterno, nei confronti del sofferentissimo popolo ebreo: cioè di esprimere l’auspicio che essi, stremati da una lunga e vana attesa, si appressino infine, sollecitamente, al Messia Salvatore nostro, veramente promesso ad Abramo e preannuziato da Mosé: in questo modo non mutando, ma compiendo e coronando la religione Mosaica”[24].

Quanto sottoscritto dalla totalità dei Padri del Vaticano I, corrisponde ai sentimenti di Eugenio Zolli, ex rabbino capo di Roma: scrive a proposito Judith Cabaud:

«Quando gli chiedevano perché aveva rinunciato alla Sinagoga per entrare nella Chiesa, [Zolli] rispondeva: "Ma io non vi ho rinunciato. Il cristianesimo è il compimento della Sinagoga. La Sinagoga infatti era una promessa e il cristianesimo è il compimento di questa promessa. La Sinagoga indicava il cristianesimo; il cristianesimo presuppone la Sinagoga. Vedete, dunque, che l'una non può esistere senza l'altra. In realtà io mi sono convertito al cristianesimo vivente"»[25].

Dobbiamo quindi tenere presente che se, oggettivamente parlando, le cose stanno esattamente come le ha spiegate l’Angelico (cioè la negazione del compimento delle promesse antiche costituisce una colpa grave), non possiamo dire che tutti gli Ebrei dopo la venuta di Gesù Cristo siano nello stato soggettivo di peccato.

Per capire questi concetti, pensiamo a quegli Ebrei che frequentavano la sinagoga dopo la Resurrezione di Cristo, e ai quali Paolo insegnava nelle sinagoghe, argomentando che Gesù era il Cristo. L’Ebreo che aveva solo vagamente sentito parlare di Gesù Cristo e, soppesando le argomentazioni di San Paolo, accettava il Battesimo, non si è propriamente convertito (a differenza dei neofiti pagani), cioè non è passato da una falsa religione a quella vera, ma ha compiuto e coronato la sua religione.

Ma ora leggiamo un brano dagli Atti degli Apostoli:

“Percorrendo la strada che passa per Anfìpoli e Apollònia, giunsero a Tessalònica, dove c'era una sinagoga dei Giudei. Come era sua consuetudine, Paolo vi andò e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture, spiegandole e sostenendo che il Cristo doveva soffrire e risorgere dai morti. E diceva: "Il Cristo è quel Gesù che io vi annuncio". Alcuni di loro furono convinti e aderirono a Paolo e a Sila, come anche un grande numero di Greci credenti in Dio e non poche donne della nobiltà.”[26].

Ora, soggettivamente, ciò che accadde a Tessalonica pochi anni dopo la Resurrezione di Gesù, può accadere anche oggi.

Mi si potrebbe obiettare: “Ma sono duemila anni che gli Ebrei conoscono Gesù Cristo; ormai ne hanno sentito parlare abbastanza”.

Ricordiamo che è dottrina tradizionale che l’obbligo di assentire alla vera fede c’è quando la singola persona è in condizioni soggettive – conosciute solo da Dio – di poter emettere il cosiddetto giudizio di credendità, cioè quando, come direbbe San Tommaso, vede che deve credere[27].

Non basta, per dovere credere, che una persona conosca la verità, ma è necessario che questa verità sia credibile per lui: cioè la credibilità gli deve essere evidente di certezza morale[28]. La grazia soprannaturale, causa radicale dell’atto di fede, non può che appoggiarsi questa certezza.
L’acquisizione di questa certezza è quasi sempre il termine di un lungo cammino. E la buona teologia ci dice che quando c’è la retta intenzione ci si può salvare in virtù della fede implicita, facendo parte dell’”anima della Chiesa”.
Ciò non significa affermare che automaticamente e necessariamente tutti gli Ebrei misconoscono Gesù Cristo senza colpa: come ogni cristiano può rendere vana per lui la grazia di Dio, anche un ebreo può perderla.
D'altra parte, sempre secondo san Tommaso - che ben riformula un adagio teologico medioevale -, “Dio non nega la grazia a chi, mosso da Dio stesso, fa tutto quello che può”[29].
E solo Dio ha le bilance per scrutare i cuori di ciascuno, Ebrei, Cristiani e chi altro; quindi solo Dio sa se un singolo ebreo rifiuta Cristo con o senza colpa. Solo se una verità viene infatti conosciuta come credibile, può e deve essere creduta. E, benché la Verità Cattolica sia oggettivamente credibile, possono esistere condizioni soggettive (la storia personale di ognuno) per cui essa è incolpevolmente rifiutata.

Scriveva Giovanni Paolo II:

“È evidente che, oggi come in passato, molti uomini non hanno la possibilità di conoscere o di accettare la rivelazione del vangelo, di entrare nella chiesa. Essi vivono in condizioni socio-culturali che non lo permettono, e spesso sono stati educati in altre tradizioni religiose.
Per essi la salvezza di Cristo è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo: essa permette a ciascuno di giungere alla salvezza con la sua libera collaborazione”[30].

Queste sono le premesse delle teologia cattolica, che hanno ispirato anche Dante, quando scriveva:

“Ma vedi molti gridan «Cristo Cristo!»
che saranno in giudizio assai men prope
a lui che tal che non conosce Cristo”[31].

E tra questi, chi può dire che non ci siano tanti Ebrei?

Conclusione.


Alla luce di quanto detto, possiamo dire che la conversione degli Ebrei è sempre necessaria ed è una categoria della teologia cattolica. Ma ciò che è vero sul piano oggettivo, da un punto di vista soggettivo può essere un arrivo anziché un cambiare strada, un andare avanti anziché tornare indietro (come invece, etimologicamente, il termine conversione significa)

Nella valutazione morale soggettiva della singola persona, il crinale del passaggio dalla prima alla seconda fase della vera religione rivelata non è - quasi meccanicamente - il momento in cui si è squarciato il velo del tempio, ma il momento in cui un ebreo è in grado di compiere il giudizio di credendità, cioè quando è in condizione di vedere che bisogna credere.

L’ebreo peccherebbe se impugnasse la verità conosciuta: cosa che Gesù ha rimproverato ad alcuni scribi e farisei del suo tempo (Cf. Gv 9): allora sì che sarebbe necessaria una conversione dalla cecità spirituale e dall’aver professato colpevolmente come ancora da realizzarsi i misteri della nostra salvezza già realizzati.

E qui bisogna da un lato evitare una teoria simil-cristiani-anonimi applicata agli Ebrei: cioè dire che ogni Ebreo è trascendentalmente credente in Cristo anche se non lo sa o se non ne vuole sapere mezza. D’altra parte bisogna evitare di dire che tutti gli Ebrei che oggi rifiutano il Cristianesimo e non riconoscono Gesù come Messia sono – ipso facto – in stato di colpa grave.

E questa non è una novità post-conciliare: non basta sapere che Cristo c’è per essere obbligati a credere in lui, ma bisogna avere tutti gli elementi, anche soggettivi, per potere e quindi dover credere. Tanti Ebrei convertiti hanno riconosciuto Gesù al termine di un lungo cammino, e non si può dire che non fossero uniti a Cristo se non al momento materiale del Battesimo.

È evidente che la prima pietra del dialogo inter-religioso è la convinzione che l’interlocutore sia animato da buone intenzioni (anche se è chiaro che solo Dio sa questo), e che egli sta facendo quello che san Tommaso definisce quod in se est, tutto quello che può da parte sua.

E allora un ebreo di oggi, a cui viene rivolto l’annuncio cristiano, si trova in un stato di sincronia con l’ebreo della sinagoga a cui San Paolo annunciava il Vangelo “potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco”[32]. E nel caso un ebreo riconosca Gesù Cristo, nelle fede, come salvatore di tutti gli uomini, in primis non si converte, ma corona la sua fede.

Quanto affermo è ben lontano dalle affermazioni secondo le quali non deve essere annunciato il Vangelo agli Ebrei. D’altra parte possiamo vedere quanto danno arrechi alla battaglia della Tradizione un antisemitismo stupido da duri e puri, che considera tutti gli Ebrei di oggi maledetti, decidi etc.

Vorrei citare alcune parole rivolte ad un ebreo non ancora convertito, da parte di San José Maria Escriva de Balaguer (che ha sempre detto la Messa di San Pio V, anche dopo la riforma liturgica):

“Io amo moltissimo gli Ebrei, perché sono follemente innamorato di Gesù, che è Ebreo; non dico era, ma è: Iesus Christus heri et hodie, ipse et in saecula. Gesù Cristo è vivo ed è un ebreo proprio come te. E il secondo amore della mia vita è una donna ebrea, Maria Santissima, la Madre di Gesù; perciò rivolgo lo sguardo verso di te con grande affetto”[33].


* * *

La prossima tappa del nostro cammino di approfondimento della nuova preghiera per la conversione degli Ebrei sarà chiederci quando dobbiamo sperare questa medesima conversione. Si può sapere qualcosa di quando accadrà? Sarà solo contemporanea alla seconda venuta di Gesù Cristo, oppure avverrà nelle ultime fasi del tempo della storia che stiamo vivendo? E del piccolo resto d’Israele, che continuamente arriva nella Chiesa, dai tempi della predicazione di San Paolo nelle sinagoghe fino ai giorni nostri, quale cura pastorale si deve avere?

A Dio piacendo, proverò a pubblicare qualcosa prossimamente.

Don Alfredo Morselli
Stiatico di San Giorgio di Piano,
15 marzo 2010.


[1] A. Cagiati. ( a c. di), La salvezza viene dagli ebrei (Gv.4,22). Prospettive cristiane di dialogo. Carucci
 ed. 1987, p. 15, cit. in Lea Sestrieri, «50 anni di dialogo ebraico cristiano», www.nostreradici.it/50anni_dialogo.htm, sito visitato il 26 gennaio 2010.

[2] Riccardo Di Segni, «Percorsi fatti e questioni aperte 
nei rapporti ebraico cristiani oggi», Roma, 19 ottobre 2004, 5 Cheshwan 5765, presso la Pontificia Università Gregoriana, www.nostreradici.it/dialogo-DiSegni.htm.

[3] W. Kasper, «La discussione sulle recenti modifiche della preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei», L’Osservatore Romano, 10-4-2008, nota 5.

[4] R. Cascioli, “La conversione degli ebrei è ancora attuale?”, in tinyurl.com/y8eugkk; sito visitato il 1 marzo 2010.

[5] Segretariato per l'Unione dei Cristiani (Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo), Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi cattolica (24 giugno 1985), I, 7.

[6] Riccardo Di Segni, Ibidem.

[7] Il Tempo, 27-2-2004, pag. 7.

[8] J. Raztinger, Dio e il mondo: Essere cristiani nel nuovo millennio, in colloquio con Peter Seewald, Cinisello Balsamo: San Paolo, 2001, p. 133.

[9] Cf. ad esempio, R. Di Segni, “Problemi culturali delle conversioni”, in tinyurl.com/ykc8jj4, visitato il 1 marzo 2010. In occasione visita alla Sinagoga di Roma (13-1-1986) da parte di Giovanni Paolo II fu posta da parte ebraica la condizione che non fosse presente nessun convertito dall’Ebraismo: cf. R. Neudecker, I vari volti del Dio unico, Genova: Marietti, 1990, p. 54. Inoltre, lo stesso Di segni ha dichiarato che “Su questo mutamento del testo tutti i rabbini del mondo hanno dichiarato la loro preoccupazione, seppur con diversi livelli di allarme”. «Ebrei e cattolici. Dialogo o conversione?» Colloquio di Lia Tagliacozzo con Riccardo Di Segni, in tinyurl.com/ygcrl9t, visitato il 14 marzo 2010.
[10] 19 agosto 2005.

[11] La Nota della Segreteria di Stato riguardante le nuove disposizioni del Santo Padre Benedetto XVI per le celebrazioni della liturgia del venerdì santo (4-2-2008), dispone la sostituzione del testo della preghiera, e non dei titoli rubricali, di cui non si fa alcuna menzione e che perciò rimangono immutati. Cf. tinyurl.com/yb5x846, visitato l’ 8 marzo 2010.

[12] Benedetto XVI, Udienza Generale, Piazza San Pietro,
 Mercoledì, 15 marzo 2006

[13] Reflections on Covenant and Mission, Consultation of The National Council of Synagogues and The Bishops Committee for Ecumenical and Interreligious Affairs, USCCB, August 12, 2002. Un timido comunicato di pochi giorni dopo smentiva che le riflessioni cattoliche fossero una presa di posizione dell’intera Conferenza Episcopale degli Stati Uniti: “Press Release from the USCCB Office of Communications, August 16, 2002 [...] Cardinal Keeler, the U.S. Bishops' Moderator for Catholic-Jewish relations, said that the document, entitled Reflections on Covenant and Mission, does not represent a formal position taken by the United States Conference of Catholic Bishops (USCCB) or the Bishops' Committee for Ecumenical and Interreligious Affairs (BCEIA). The purpose of publicly issuing the considerations which it contains is to encourage serious reflection on these matters by Jews and Catholics in the U.S.” Cf. tinyurl.com/nxu4gl, visitato il 1 marzo 2010.

[14] “Thus, while the Catholic Church regards the saving act of Christ as central to the process of human salvation for all, it also acknowledges that Jews already dwell in a saving covenant with God”.

[15] "Though Christian participation in interreligious dialogue would not normally include an explicit invitation to baptism and entrance into the Church, the Christian dialogue partner is always giving witness to the following of Christ, to which all are implicitly invited"; e ancora “since this line of reasoning (alcune affermazioni del documento “Reflections on Covenant ond Mission") could lead some to conclude mistakenly that Jews have an obligation not to become Christian and that the Church has a corresponding obligation not to baptize Jews”; il corsivo è nostro.

[16] “22-9-2009, cf. tinyurl.com/yzfvelf, visitato il 14 marzo 2010.

[17] Variationes in Ordinem hebdomadae sanctae inducendae, (9 marzo e 19 marzo 1965).

[18] 2 Cor 3, 15-16: ἀλλ' ἕως σήμερον ἡνίκα ἂν ἀναγινώσκηται Μωϋσῆς κάλυμμα ἐπὶ τὴν καρδίαν αὐτῶν κεῖται: ἡνίκα δὲ ἐὰν ἐπιστρέψῃ πρὸς κύριον, περιαιρεῖται τὸ κάλυμμα.

[19] “… si infidelitas attendatur secundum comparationem ad fidem, diversae sunt infidelitatis species et numero determinatae”; San Tommaso d’Aquino, S. Th., IIª-IIae q. 10 a. 5 co.

[20] [38138] Iª-IIae q. 103 a. 4 co. 
Respondeo dicendum quod omnes caeremoniae sunt quaedam protestationes fidei, in qua consistit interior Dei cultus. Sic autem fidem interiorem potest homo protestari factis, sicut et verbis, et in utraque protestatione, si aliquid homo falsum protestatur, peccat mortaliter. Quamvis autem sit eadem fides quam habemus de Christo, et quam antiqui patres habuerunt; tamen quia ipsi praecesserunt Christum, nos autem sequimur, eadem fides diversis verbis significatur a nobis et ab eis. Nam ab eis dicebatur, ecce virgo concipiet et pariet filium, quae sunt verba futuri temporis, nos autem idem repraesentamus per verba praeteriti temporis, dicentes quod concepit et peperit. Et similiter caeremoniae veteris legis significabant Christum ut nasciturum et passurum, nostra autem sacramenta significant ipsum ut natum et passum. Sicut igitur peccaret mortaliter qui nunc, suam fidem protestando, diceret Christum nasciturum, quod antiqui pie et veraciter dicebant; ita etiam peccaret mortaliter, si quis nunc caeremonias observaret, quas antiqui pie et fideliter observabant. Et hoc est quod Augustinus dicit, contra Faustum, iam non promittitur nasciturus, passurus, resurrecturus, quod illa sacramenta quodammodo personabant, sed annuntiatur quod natus sit, passus sit, resurrexerit; quod haec sacramenta quae a Christianis aguntur, iam personant.

[21] “… vita illius populi prophetica erat, et Christi figurativa”: Summa Theologiae, Iª-IIae q. 100 a. 12 co. Ecco il testo esatto di S. Agostino (Contra Faustum, 22, 24), citato a senso da S. Tommaso: “Qua in re hoc primum dico, illorum hominum non tantum linguam, verum etiam vitam fuisse propheticam; totumque illud regnum gentis Hebraeorum, magnum quemdam, quia et magni cuiusdam, fuisse prophetam. Quocirca quod ad eos quidem attinet, qui illic erant eruditi corde in sapientia Dei, non solum in iis quae dicebant, sed etiam in iis quae faciebant; quod autem ad caeteros ac simul omnes illius gentis homines, in iis quae in illis vel de illis divinitus fiebant, prophetia venturi Christi et Ecclesiae perscrutanda est. Omnia enim illa, sicut dicit Apostolus: Figurae nostrae fuerunt” (trad.: Su tale argomento, dico in primo luogo che di quegli uomini fu profetica non solo la lingua, ma anche la vita, e che l'intero regno del popolo ebraico fu in qualche modo un grande profeta, in quanto profetizzò qualcuno di grande. Riguardo dunque a coloro che lì avevano il cuore istruito nella sapienza di Dio, bisogna cercare la profezia di Cristo che stava per venire e della Chiesa non solo in ciò che dicevano, ma anche in ciò che facevano; riguardo invece agli altri e ai componenti di quel popolo presi nell'insieme, essa va cercata nei fatti che per volere di Dio accadevano fra loro o rispetto a loro. Tutte quelle cose, infatti, come dice l'Apostolo, avvennero come figure per noi”.

[22] Super II Cor., cap. 3 l. 3 “Et ideo, ad hoc ut removeatur, nihil restat, nisi quod convertantur, et hoc est quod dicit cum autem conversus fuerit, scilicet aliquis eorum ad Deum per fidem in Christum, ex ipsa conversione auferetur velamen”.

[23] Storia e testi di questa vicenda in: Joseph et Augustin Lémann, La cause des restes d'Israel introduite au concile oecuménique du Vatican sous la bénédiction de S.S. le pape Pie IX, Lyon: Vitte, 1912. Per la storia dei fratelli Lémann, vedi Théotime de Saint Just, Les frères Lémann. Juifs Convertis, Paris, 1937.

[24] “A Sacra œcumenica Synodo Vaticana infra scripti Patres humillima instantique postulant prece ut et miserrimam Hebreorum gentem paterna quadam invitatione dignetur prœvenire : scilicet votum exprimere, ut tandem longissima inutilique expectatione lassati, ad Messiam Salvatorem nostrum vere promissum Abrahae et a Mose praenuntiatum festinent accedere : sic perficientes coronantesque religionem Mosaicam, non mutantes”. Cf: Ibidem, pp. 91-92.

[25] Judith Cabaud, Il rabbino che si arrese a Cristo. La storia di Eugenio Zolli, rabbino capo a Roma durante la seconda guerra mondiale, prefazione di Vittorio Messori, Cinisello Balsamo (MI): San Paolo, 2002, p. 98.

[26] At 17,1.

[27] "…non enim crederet nisi videret ea esse credenda"; S. Th. II-II, 1, 4, 2.


[28] Scrive Cajetanus “Stat enim unum et idem dictum, ab un videri in ratione credibilis, et ab alio non: ex eo enim quod evidentia ista non convenit credibili ex parte rei semper, sed quandoque ex parte nostri, ideo variatur in diversi set exigit aliquam conditionem objecti relative ad nos”. Cit. da A. Gardeil, in «Credibilité», Dictionnaire de Théologie Catholique, III/2, col. 2284.

[29] “… facienti quod in se est - secundum quod est motus a Deo - Deus non denegat gratiam”; cf S. Th. Iª-IIae q. 109 a. 6 ag 2 e ad 2.

[30] Lettera Enciclica Redemptoris Missio, 10.

[31]Paradiso, XIX, 106-108.

[32] Rom 1, 16.


[33] Testo estratto da un video; vedi www.opusdei.us/art.php?p=24902.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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19/03/2010 13:55
 
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La santa speranza della conversione degli Ebrei. un grazie a Messainlatino e a don Alfredo Morselli

La nuova preghiera Pro conversione Iudaeorum per la forma straordinaria del rito romano: un tentativo di analisi teologica.


Parte II


La santa speranza della conversione degli Ebrei.


Non temere, perché io sono con te;
dall'oriente farò venire la tua stirpe,
dall'occidente io ti radunerò.
Dirò al settentrione: “Restituisci”,
e al mezzogiorno: “Non trattenere;
fa' tornare i miei figli da lontano
e le mie figlie dall'estremità della terra”


(Is 43, 5-6)


Ritornano a sera (Sal 58,7)


Verrà un mattino in cui saranno saziati col pane di vita e di sapienza, quando tutte le genti saranno entrate e tutto Israele sarà salvato. Alla fine del mondo infatti Israele si convertirà: il salmista parla di questa conversione quando dice “Ritorneranno a sera”. La “sera” qui è la fine del mondo, che diverrà mattino per i Giudei convertiti, illuminandoli coi primi raggi della grazia.


(Baldovino di Ford )[1]




1. Lo status quaestionis.


Dopo aver visto che è necessario credere che gli Ebrei si debbano convertire, e che cosa intende con il termine conversione degli Ebrei stessi, ci chiediamo ora quando dobbiamo sperare che questa conversione accada.

Non pretendo certo di indicarne con precisione i modi e il momento: in questo sottoscrivo in pieno quanto diceva l’allora Card. Joseph Ratzinger, nei suoi colloqui con Peeter Seewald:




“... il come e il quando dell’unificazione di Ebrei e pagani, della ricostituzione di un unico popolo di Dio, sta nella mani di Dio”[2].



Il problema sorge dal fatto che non mancano tentativi tendenti ad escatologizzare la conversione degli Ebrei; cioè a differirla in tempi finali oltre i tempi di questa storia, che, invece, come diceva S. Giovanni Apostolo è già “l’ultima ora”[3], e, come spiegava S. Agostino: “un'ora assai lunga ma è pur sempre l'ultima”[4].




2. Le affermazioni del Card. Walter Kasper


Mi riferisco ad alcune affermazioni del Card. Walter Kasper, in un articolo sull’Osservatore Romano, pubblicato nel 2008.
Ci sono due asserti che meritano di essere presi in esame.


Il primo, nel corpo dell’articolo, suona:




“Solo Colui che ha indurito la maggior parte d'Israele, può anche scioglierne l'indurimento. Lo farà, quando «il liberatore» uscirà da Sion ([Rom]11, 26). Costui, secondo il linguaggio paolino (cfr 1 Tessalonicesi, 1, 10), non è nessun altro se non il Cristo che ritorna. Ebrei e pagani, infatti, hanno lo stesso Signore (10, 12)”[5].



Il Card. Kasper si riferisce a Rom 11, 26-27, dove viene detto:




"Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto:
Da Sion uscirà il liberatore,
egli toglierà l'empietà da Giacobbe.
Sarà questa la mia alleanza con loro
quando distruggerò i loro peccati "(Is 59, 20-21).



Secondo Kasper, il liberatore è Gesù Cristo alla sua seconda venuta: e questa è un’affermazione in parte non provata, e in parte errata.


L’affermazione è non provata perché è tutto da dimostrare che il liberatore sia Gesù Cristo: in San Paolo, il verbo ruesthai (liberare con forza, da cui il liberatore, o ruomenos) viene usato sia con Gesù Cristo (1 Ts 1, 10; 2 Ts 3,29) che con Dio (2 Cor 1, 10; Col 1, 13).


Inoltre, molto probabilmente qui con il liberatore si deve intendere Dio per mezzo di Gesù Cristo: cf. Rom 2, 16 (“Dio giudicherà i segreti degli uomini … per mezzo di Cristo Gesù”) e 7, 24-25 (“Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!”).


La affermazione è errata perché l’ipotesi di un liberatore escatologico per l’Israele etnico va contro una condizione imprescindibile perché i rami di olivo recisi (gli Israeliti infedeli) siano re-innestati: che non permangano nella incredulità, cioè che accettino Gesù Cristo come Messia: leggiamo infatti poco prima, in Rom 11, 23:




“Anch'essi, se non persevereranno nell'incredulità, saranno innestati; Dio infatti ha il potere di innestarli di nuovo!”



Non perseverare nell’incredulità significa avere fede, e la fede non è cosa da evento escatologico, ma da tempo prima dell’evento escatologico; la fede è solo dell’uomo viatore, perché dopo o c’è la visione beatifica, o la dannazione.


Anche gli Ebrei dovranno mettere olio nella lampada prima che si chiudano le porte[6]!


Ma ancora più discutibile è una seconda affermazione dello stesso Card. Kasper, offerta in una nota del medesimo articolo:




“Nel senso dell'apostolo Paolo si dovrebbe piuttosto dire che la salvezza della maggior parte degli ebrei viene comunicata attraverso Cristo, ma non attraverso l'entrata nella Chiesa. Alla fine dei giorni, quando il Regno di Dio si realizzerà definitivamente, non ci sarà più una Chiesa visibile. Si tratta quindi del fatto che alla fine dei giorni l'unico Popolo di Dio composto di ebrei e pagani divenuti credenti sarà di nuovo unito e riconciliato”[7].



Che dire: che ci vuole un bel coraggio a pensare che San Paolo possa disgiungere Cristo dalla Chiesa!


Inoltre il Card. Kasper si arrampica sugli specchi dicendo che non ci sarà più una Chiesa visibile, ma poi parla di ebrei e pagani divenuti credenti.


I credenti sono solo in questa vita e in questa storia, perché dopo non c’è più la fede: quando la Chiesa non sarà più visibile, ma sarà sotto la specie di Gerusalemme celeste, non ci saranno più credenti, ma comprensori!


Come spiegare le suddette affermazioni del Card. Kasper? Egli aveva dichiarato nel 2001:




“La sola cosa che desidero dire è che il documento Dominus Iesus non afferma che tutti debbano diventare Cattolici per essere salvati da Dio. Al contrario, dichiara che la grazia di Dio - che, secondo la nostra fede, è la grazia di Gesù Cristo - è a disposizione di tutti. Di conseguenza, la Chiesa crede che l'Ebraismo, cioè la risposta fedele del Popolo ebreo all'alleanza irrevocabile di Dio, è per esso fonte di salvezza, perché Dio è fedele alle sue promesse”[8].



e nel 2002:




“Questo non significa che gli Ebrei per essere salvati devono diventare cristiani: se questi seguono la loro coscienza e credono nelle promesse di Dio e le comprendono nelle loro tradizioni, essi sono il linea con il piano di Dio, che per noi perviene al suo compimento storico in Gesù Cristo”[9].



È evidente come il Cardinale Kasper simpatizzi per la tesi della duplice via di salvezza; e allora escatoligizzando, spingendo fuori dalla storia - da questa pur lunga ma ultima ora - la conversione degli Ebrei, cerca vanamente di far rientrare dalla finestra quello che la nuova preghiera pro Iudeis ha cacciato dalla porta.




3. La speranza della conversione degli Ebrei


Essendo debitori della carità nei confronti dei chiunque, Ebrei compresi, la carità ci spinge a sperare nella loro conversione prima della seconda venuta di Gesù Cristo.


Scrive San Tommaso:




“... la speranza riguarda direttamente il proprio bene, non già quanto può interessare altri. Però, presupposta l'unione affettiva con altri, uno può desiderare e sperare qualche cosa per essi come per se medesimo. In tal senso uno può sperare ad altri la vita eterna, in quanto è unito ad essi con l'amore. E come è identica la carità con la quale uno ama Dio, se stesso e il prossimo, così è identica la virtù della speranza con la quale si spera per sé e per altri”[10].






4. “Allora tutto Israele sarà salvato”


È comune sentire della tradizione della Chiesa che gli Ebrei si convertiranno prima della fine del mondo, e allora ci sarà ciò che San Paolo chiama Tutto Israele.


Scrive S. Agostino:


“È assai ricorrente nelle parole e nei sentimenti dei fedeli che i Giudei, nell'ultimo tempo prima del giudizio, crederanno nel Cristo vero, cioè nel nostro Cristo...”[11]


Quanto scrive il grande Vescovo di Ippona non è altro che l’interpretazione più semplice e corretta dei capitolo XI della lettera ai Romani, dove ci viene rivelato il mistero del sapiente e misericordioso piano di Dio per cui, prima della fine del mondo, tutto Israele sarà salvato[12].


Cosa significa questa espressione? Vale la pena cercare di spiegarla, anche perché viene usata nella nuova preghiera pro Iudeis.


Diamo ora una breve explicatio terminorum:


Israele etnico: i discendenti di Giacobbe; quelli, per intenderci, di cui San Paolo diceva:




“Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne”[13].



A questo Israele sono state fatte le promesse irrevocabili:




“Essi sono Israeliti e hanno l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; 5a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen”[14].



Il resto di Israele: una minoranza rispetto a tutto l’Israele etnico, che ha creduto in Gesù Cristo: la Madonna, gli Apostoli, i primi discepoli giudeo-cristiani: di questi San Paolo dice:




"E quanto a Israele, Isaia esclama:
Se anche il numero dei figli d'Israele
fosse come la sabbia del mare,
solo il resto sarà salvato"[15].



Questo resto continua ad esistere come tale:




“Così anche nel tempo presente vi è un resto, secondo una scelta fatta per grazia”[16].



Questo resto è formato dal numero relativamente piccolo degli Ebrei che continuamente si convertono: Zolli, Edith Stein, Padre Liebermann, Ratisbonne, i fratelli Lémann, etc. etc.


Israele tout-court: i credenti in Cristo, provenienti tanto dall’Israele etnico, quanto dalla gentilità: di questi l’Apostolo dice: “Infatti non tutti i discendenti d'Israele sono Israele”[17] e “i figli della promessa sono considerati come discendenza”[18]. L’Israele tout-court comprende dunque il relativamente piccolo resto dell’Israele etnico che ha creduto e i figli della promessa.


Tutto Israele: prima della fine del mondo l’Israele etnico, non perseverando nell’incredulità, verrà reinnestato e allora avremmo Tutto Israele, cioè quella totalità a cui mira il piano salvifico di Dio: tutto Israele sarà salvato



5. Un primo bilancio.


Adesso siamo già in grado di comprendere la profondità teologica della nuova preghiera


Oremus et pro Iudaeis


Ut Deus et Dominus noster illuminet corda eorum...


Viene ribadita la necessità della grazia che illumini i cuori degli Ebrei, senza parlare di accecamento, e quindi togliendo dei termini che potrebbero dispiacere agli Ebrei stessi. Si tratta forse di ipocrisia? No, perché anche noi pagani ci consideriamo ciechi e bisognosi di luce. Il cieco nato del Vangelo di San Giovanni è figura dei pagani. Siamo assieme racchiusi sotto il peccato per ottenere misericordia.

Baldovino di Ford (1120-1190), abate di Ford e poi successore di San Tommaso Beckett a Canterbury, descrive mirabilmente l’illuminazione del cuore degli Ebrei al momento della loro conversione: si tratta di un commento al versetto “Ritornano a sera” (Sal 58,7); viene quasi da pensare che chi ha redatto la preghiera potesse avere in mente questo brano:




“Verrà un mattino in cui saranno saziati col pane di vita e di sapienza, quando tutte le genti saranno entrate e tutto Israele sarà salvato. Alla fine del mondo infatti Israele si convertirà: il salmista parla di questa conversione quando dice “Ritorneranno a sera”. La “sera” qui è la fine del mondo, che diverrà mattino per i Giudei convertiti, illuminandoli coi primi raggi della grazia”[19].



... ut agnoscant Iesum Christum salvatorem omnium hominum.


Vengono così escluse le vie parallele di salvezza: tutti si salvano riconoscendo Gesù come Cristo Salvatore. Non si prega solo perché gli Ebrei siano salvati da Gesù Cristo: se fosse così si lascerebbe aperte una pur ingiustificata seconda via; ma si prega proprio perché gli Ebrei riconoscano Gesù Cristo. E sarebbe assurdo pregare perché lo conoscano solo alla fine e non adesso.


Oremus. Flectamus genua. Levate.


Omnipotens sempiterne Deus, qui vis ut omnes homines salvi fiant et ad agnitionem veritatis veniant...


Una altro passo di San Paolo che esclude le due vie parallele di salvezza: Dio vuole che non solo gli uomini siano salvi, ma che giungano alla conoscenza della verità[20], secondo la preghiera di Gesù: Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo[21].


E come potrebbe il buon Dio predisporre positivamente un piano di salvezza alternativo in cui alcuni fratelli verrebbero lasciati in uno stato di non conoscenza della verità?


... concede propitius, ut plenitudine gentium in Ecclesiam Tuam intrante omnis Israel salvus fiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen.


Ecco la richiesta finale: il Corpo di Cristo che ha raggiunto - secondo il beneplacito divino - la sua pienezza, che comprende tutti i popoli, di cui nessuno si può vantare davanti a Dio, ma tutti sono salvi per la sua sola misericordia.



4. Le ragioni di questa speranza
Come è possibile sperare nella conversione degli Ebrei, quando umanamente parlando, sembra che ciò sia tra le cose più improbabili di questo mondo?


Tra o possibili argomenti, ne vorrei menzionare due: il primo è la conversione di San Paolo, avvenuta proprio nel suo massimo slancio persecutorio nei confronti della Chiesa.
Dio conosce il momento favorevole per tutti, Ebrei compresi.




5. L’Alleanza mai revocata

Il secondo argomento è, niente meno, quello che viene usato dai sostenitori delle due vie parallele per suffragare le loro tesi: la cosiddetta Alleanza mai revocata: i sostenitori delle due vie si fanno forza anche delle parole di Giovanni Paolo II, in particolare dell’espressione “Vecchio Testamento, da Dio mai denunziato” (Mainz, 17-11-1980) e di Alleanza “mai revocata” (Miami, 11-9-1987).


Il giro mentale di tutti coloro che sostengono le due vie è il seguente: visto che l’antica Alleanza non è stata mai revocata, allora gli Ebrei possono vivere in questa alleanza, giacché essa ha sempre un suo valore.


In realtà il contenuto del concetto ”Alleanza mai revocata” non è la permanenza di ciò che con Cristo è “prossimo a scomparire” (Eb 8, 13)[22], trovando compimento in Cristo stesso “termine della legge” (Rom 10, 4); ma sono le promesse di Dio all’Israele etnico, le quali, siccome “la parola di Dio non è venuta meno” (Rom 9, 6), permangono.


Il Messia è offerto prima all’Israele etnico (Cf. Rom 1, 16), e questa offerta da parte di Dio rimane nonostante il rifiuto della maggior parte dell’Israele etnico stesso. Questa tensione verso Gesù che l’Israele etnico ha ricevuto da Dio nella Antica Alleanza, inerisce a tal punto nello stesso Israele che, prima della fine del mondo, esso riconoscerà il Messia e formerà con tutti i credenti in Cristo un unico “tutto Israele”.


Una promessa di Dio, anche se non accolta, non sparisce: San Tommaso, commentando la lettera ai Romani, circa le promesse di Dio di reinnestare l’Israele etnico, dice a questo proposito:




“Ciò che Dio promette, già lo dà in qualche modo: e coloro che sceglie, già in qualche modo li fa oggetto di vocazione”[23].



Quindi Dio mantiene l’Israele etnico relazionato a Gesù Cristo, in attesa di poterlo “reinnestare di nuovo” (cf. Rom 11,23), nonostante l’attuale rifiuto: in questo senso l’Alleanza “non è revocata”.

E non si può affermare che l’Antica Alleanza in quanto tale può essere ora una via di salvezza, perché se è vero l’Antica Alleanza non è mai stata revocata, non si può dire che non è mai stata rifiutata: giacché, siccome “Cristo è fine della legge” (Rom 10, 4), chi rifiuta Cristo di fatto rifiuta tutta la legge. E non può essere una via di salvezza il sostanziale rifiuto della Antica Alleanza, che, se non fosse rifiutata, sfocerebbe inevitabilmente nella fede in Gesù Cristo.



6. Due argomenti portati da San Tommaso


L’Aquinate offre, nella sua Lectiones sopra l’Epistola ai Romani, diversi argomenti per poter sperare nella salvezza degli Ebrei. Non è possibile trattarne in breve (ci vorrebbe uno studio apposito), e quindi rimando il lettore ad attingere direttamente ai testi del Dottore Angelico.
Tuttavia ritengo utile riportare due frasi che mostrano come il principio dell’Alleanza mai revocata è un motivo per sperare nella conversione degli Ebrei e non l’argomento che possa giustificare una via di salvezza parallela.

La prima frase è questa:


“se sono carissimi al Signore è ragionevole che siano salvati”[24].


Per spiegare la portata di questa affermazione, faccio un esempio: i giansenisti avevano coniato il concetto di gratia actualis parva: si tratterebbe di grazia che da un lato non è così efficace da vincere la concupiscenza dell’uomo e quindi non gli permette di compiere l’atto salutare; però questa grazia tutelerebbe Dio da qualsiasi forma di accusa di essere ingiusto, perché questa grazia in sé sarebbe sufficiente, e l’uomo condannato niente potrebbe obiettare alla giustizia di Dio. Che Dio ci liberi da queste grazie!

Ho fatto questo esempio perché la sostanza della tesi tomista è che le promesse di Dio fatte ai Padri non sono grazie da nulla, tipo le grazie attuali parvae dei giansenisti. La rivelazione ci dice che quella grazia particolarissima e abbondantissima costituita dalle promesse ai Padri comunque porterà frutto: “se sono carissimi al Signore è ragionevole che siano salvati”.


Ma non basta agli Ebrei essere carissimi a Dio per essere salvati; l’Alleanza mai revocata non esime gli Ebrei dall’atto fede in Gesù Cristo. E così siamo giunti a una seconda affermazione dell’Aquinate:




“lo stesso dono temporale di Dio e la vocazione temporale di Dio non vengono ad essere indisponibili per un mutamento di Dio che si pente, ma per il mutamento del’uomo che trascura la grazia di Dio”[25].



Nel nostro caso, il mutamento del’uomo che trascura la grazia di Dio è rifiuto di Cristo da parte degli Ebrei: bisogna quindi che gli Ebrei non permangono in questo loro mutamento (la cosiddetta via parallela), per poter essere nuovamente reinnestati.


Conclusione


Il Cristiano, come Paolo, sa che non potrà accogliere il Salvatore che “verrà a giudicare i vivi e i morti” se non finalmente riunito all’Israele etnico.
L’ultima invocazione “Maranatà” (“Vieni Signore nostro”), che farà la Chiesa prima della Parusia, sarà di “tutto Israele”.
Abbiamo visto che la carità ci porta a sperare, e quindi a darci da fare per la salvezza nostra e degli Ebrei insieme a noi, nel “Tutto Israele”; e il tutto cercando che ciò avvenga quanto prima.
L’Alleanza mai revocata non è motivo perché non ci diamo premura per gli Ebrei, ma è - al contrario - la ragione della speranza della loro conversione.
Se la salvezza appartiene alla fase escatologica della storia, le condizioni per acquistare la salvezza (la fede in Gesù Cristo), per tutto Israele (noi e loro), appartengono alla fase apocalittica della storia stessa, cioè a quest’ora, a questa lunghissima ma pur ultima ora. Non possiamo attendere, noi e loro, altro tempo per credere ed essere giustificati: Hic Rhodus, hic salta.



La prossima tappa di questo commento alla preghiera pro Iudeis del venerdì santo verterà sul tema della cossiddetta missio ad Haebreos: vale anche per gli Ebrei di oggi quanto San Paolo dice: “Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci?”[26]. E se bisogna annunciare Cristo agli Ebrei, in che modo?


Se Dio vorrà, presenterò, nei prossimi giorni, alcune altre riflessioni su questo blog.








[1] Baldovino di Ford, Tractatus de Sacramento altaris, S.C. 94, 423. cit in Dom Jean-Claude Nesmy (a c. di), I Padri commentano il Salterio della Tradizione, ed. it. a c. di Paolo Pinelli e Luisa Volpi, Torino 1983, p. 260.


[2] J. Ratzinger, Dio e il mondo: Essere cristiani nel nuovo millennio, in colloquio con Peter Seewald, Cinisello Balsamo: San Paolo, 2001, p. 134.


[3] 1 Gv 2, 18.


[4] “Ipsa novissima hora diuturna est; tamen novissima est”; In Ep. Johannis. 3, 3.


[5] W. Kasper, «La discussione sulle recenti modifiche della preghiera del Venerdì Santo per gli ebrei», L’Osservatore Romano, 10-4-2008.


[6] Cf. Mt 25, 1-13.


[7] Ibidem, nota 6.


[8] “The only thing I wish to say is that the Document Dominus Iesus does not state that everybody needs to become a Catholic in order to be saved by God. On the contrary, it declares that God’s grace, which is the grace of Jesus Christ according to our faith, is available to all. Therefore, the Church believes that Judaism, i.e. the faithful response of the Jewish people to God’s irrevocable covenant, is salvific for them, because God is faithful to his promises.” Walter KAsper, «Dominus Jesus» New York, 1 maggio 2001
, Sessione "Scambio d'informazioni" sulla Dominus Jesus. Testo reperito al sito: tinyurl.com/ycprvnk; trad it al sito tinyurl.com/yh4o8ba, visitati il vistato il 16 marzo 2010.


[9] “This does not mean that Jews in order to be saved have to become Christians; if they follow their own conscience and believe in God's promises as they understand them in their religious tradition they are in line with God's plan, which for us comes to its historical completion in Jesus Christ”. Walter Kasper, «The Commission for Religious Relations with the Jews: A Crucial Endeavour of the Catholic Church», conferenza preso il Boston College, 6-11-2002. Testo reperito al sito: tinyurl.com/yfzroj3, vistato il 16 marzo 2010.


[10] ”... spes directe respicit proprium bonum, non autem id quod ad alium pertinet. Sed praesupposita unione amoris ad alterum, iam aliquis potest desiderare et sperare aliquid alteri sicut sibi. Et secundum hoc aliquis potest sperare alteri vitam aeternam, inquantum est ei unitus per amorem. Et sicut est eadem virtus caritatis qua quis diligit Deum, seipsum et proximum, ita etiam est eadem virtus spei qua quis sperat sibi ipsi et alii” S. Th. IIª-IIae q. 17 a. 3 co..


[11] “...ultimo tempore ante iudicium Iudaeos in Christum verum, id est in Christum nostrum, esse credituros, celeberrimum est in sermonibus cordibusque fidelium...” De Civ. Dei, XX, 29.


[12] Rom 11, 26


[13] Rom 9, 3.


[14] Rom 9, 3.


[15] Rom 9,27.


[16] Rom 11, 5.


[17] Rom 9, 6.


[18] Rom 9, 8.


[19] Baldovino di Ford, Tractatus de Sacramento altaris, S.C. 94, 423. cit in Dom Jean-Claude Nesmy (a c. di), I Padri commentano il Salterio della Tradizione, ed. it. a c. di Paolo Pinelli e Luisa Volpi, Torino 1983, p. 260.


[20] 1 Tim 2, 4.


[21] Gv 17, 3.


[22] Eb 8,13: “Dicendo alleanza nuova, Dio ha dichiarato antica la prima: ma, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a scomparire”.


[23] “... quod Deus promittit, iam quodammodo dat: et quos elegit, iam quodammodo vocat”; Super Rom., cap. 11, l. 4, 926.


[24] “...Si autem sunt Domino charissimi, rationabile est quod a Deo salventur”; Super Rom., cap. 11 l. 4 (923).


[25] “Et tamen ipsum temporale Dei donum et temporalis vocatio, non irritatur per mutationem Dei quasi poenitentis sed per mutationem hominis, qui gratiam Dei abiicit”; Super Rom., cap. 11 l. 4 (926).


[26] Rom 10, 14.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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27/03/2010 09:08
 
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L’annuncio agli Ebrei di Gesù come Cristo
Un grazie a Messainlatino e a don Morselli [SM=g1740722]

"Tutto Israele"

Commento della nuova preghiera Pro conversione Iudaeorum per la forma straordinaria del rito romano

III parte


L’annuncio agli Ebrei di Gesù come Cristo
“i monti Sion” Sal 47 (48), 6.
“Sion è un solo monte, perché dunque parla di monti? Forse perché a Sion sono appartenuti anche coloro che sono giunti da diverse parti, per incontrarsi nella pietra angolare e divenire, essi che erano due pareti come due monti, uno della circoncisione, l'altro della incirconcisione; uno dei Giudei, l'altro dei Gentili; anche se distinti, perché provengono da diverse parti, ormai non più avversari perché riuniti nell'angolo? Perché egli è - dice - la nostra pace, colui che ha fatto di due uno.
[...] Infine anche il figlio maggiore, che non voleva banchettare, è entrato spinto dal padre; e così le due pareti, come quei due figli riuniti nel banchetto, hanno costituito la città del grande re”
S. Agostino, Enarr. in Ps. XLVII, 3.
1. Perché annunciare?
Se gli Ebrei, come tutti, dovranno credere in Gesù Cristo, è chiaro che bisogna che qualcuno glielo annunci, giacché non si può amare ciò che non si conosce.
Sia Gesù che gli Apostoli hanno rivolto la buona novella per primi agli Ebrei; e, poi, in una via in un certo modo subordinata, ai pagani.
Non si vede perché dobbiamo fare diversamente da quanto ha fatto Gesù o da quanto ha fatto San Paolo.
Inoltre, siccome gli Ebrei sono un popolo particolare, è necessario un annuncio particolare.
2. Proselitismo?
Innanzi tutto sgomberiamo il campo da possibili obiezioni con una buona explicatio terminorum.
La parola proselitismo ha assunto una connotazione negativa: siamo i primi a voler escludere ogni mancanza di rispetto, ogni forzatura nella conversione, ogni invadenza nella presentazione degli argomenti.
E questa non è una novità post-conciliare: è vero che, per via della mentalità di intere epoche e non solo dei Cristiani, possono essersi verificati eccessi nella predicazione del Cristianesimo agli Ebrei. Ma è anche vero, ad esempio, che nei tanti conventi dove si sono rifugiati gli Ebrei durante la II guerra mondiale, non è stato fatta nei loro confronti nessuna opera di persuasione: sono stai sempre rispettati al massimo, né è mai stata loro posta alcuna condizione per essere aiutati, e questo anche rischiando la vita.
Se proselitismo dovesse indicare un pur minimo allontanamento dai criteri che hanno ispirato una simile condotta, siamo i primi ad essere anti-proselitismo.
Se invece, nel desiderio che abbia il suo compimento la realizzazione storica del tutto Israele, con grande carità, proponessimo, in occasioni opportune e in modo gentile e garbato, ai nostri fratelli Ebrei di riflettere sulla persona di Gesù Cristo - collaborando nel frattempo su orizzonti che oggettivamente ci sono comuni (ad esempio difendendo i dieci comandamenti nelle legislazioni mondiali) -, non vedo nulla di male: anzi, per noi cristiani questo è un dovere.

3. Un annuncio particolare.
Posta la particolare forma di conversione che compete agli Ebrei, che non mutano, ma perfezionano e coronano la loro religione, anche l’annuncio deve essere specifico: non è certo una missio ad gentes.
Allora quale annuncio? Proverò a proporne un’icona e una linea teoretica.

 3.1 Un’icona dell’annuncio
Come icona di questo annuncio, mi sembra conveniente proporre - nel contesto della parabola del figliol prodigo[1] - la sollecitudine del buon Padre, che cerca di fare entrare nella festa il figlio maggiore; e faccio questo sulle orme si S. Agostino, che ci offre un’interpretazione meravigliosa del finale di questa parabola, nel commento al salmo 47.
Dapprima il vescovo di Ippona si chiede come mai, al versetto 3, si parla dei monti di Sion e non di un monte, come è nella realtà.
Ne conclude che i due monti sono gli Ebrei e i gentili uniti nell’unica pietra angolare:

“Sion è un solo monte, perché dunque parla di monti? Forse perché a Sion sono appartenuti anche coloro che sono giunti da diverse parti, per incontrarsi nella pietra angolare e divenire, essi che erano due pareti come due monti, uno della circoncisione, l'altro della incirconcisione; uno dei Giudei, l'altro dei Gentili; anche se distinti, perché provengono da diverse parti, ormai non più avversari perché riuniti nell'angolo? Perché egli è - dice - la nostra pace, colui che ha fatto di due uno”.


S. Agostino sente quasi già realizzato questo evento, a tal punto che vola alla parabola del figliol prodigo, modificandola:

“Infine anche il figlio maggiore, che non voleva banchettare, è entrato spinto dal padre; e così le due pareti, come quei due figli riuniti nel banchetto, hanno costituito la città del grande re”[2].


Perché modificandola? Perché S. Luca lascia la parabola incompiuta: essa termina con l’esortazione del Padre al figlio maggiore ad entrare nella festa; ma non ci dice se il figlio maggiore accoglie l’invito (secondo molti autori cristiani, particolarmente S. Agostino, il figlio maggiore rappresenta il popolo ebraico; il dissoluto e freddo calcolatore figlio rappresenta i popoli pagani).
Il Vescovo di Ippona, in un vero slancio di amore, vede già compiuta la speranza del buon Padre.
Gli elementi per vedere nella parabola del figliol prodigo un’allegoria dell’ingresso degli Ebrei nella nuova alleanza non mancano:

“Suo padre allora uscì...”:


Notiamo bene uscì, perché gli Ebrei non sono ancora dentro la Nuova Alleanza;

“... a supplicarlo ...”:


ecco il modello dell’annuncio agli Ebrei: una supplica amorevole e paziente.

“Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo...”:


l’alleanza antica non è revocata, tu sei sempre figlio, le promesse non ti sono tolte…

“… ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”:


... ma ormai la nuova alleanza è conclusa, la Vittima immolata, anche i pagani sono figli, perché il pagano è tuo fratello, affrettati ad entrare dove c’è la festa (la nuova Alleanza)”
Quale fine vede S. Agostino per la parabola?

“Infine anche il figlio maggiore, che non voleva banchettare, è entrato spinto dal padre”.


Tutto l’apostolato nei confronti degli Ebrei si può riassumere come la condivisione della sollecitudine e della misericordia del Padre nei confronti del Figlio maggiore, unita alla speranza mostrataci da S. Agostino.
3.2 Una linea teoretica.
La Rivelazione stessa ci mostra come annunciare Gesù Cristo agli Ebrei; vorrei esaminare, in un brano già preso in esame precedentemente, la condotta di San Paolo presso la Sinagoga di Tessalonica:

“Percorrendo la strada che passa per Anfìpoli e Apollònia, giunsero a Tessalònica, dove c'era una sinagoga dei Giudei. Come era sua consuetudine, Paolo vi andò e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture, spiegandole e sostenendo che il Cristo doveva soffrire e risorgere dai morti. E diceva: “Il Cristo è quel Gesù che io vi annuncio”. Alcuni di loro furono convinti e aderirono a Paolo e a Sila, come anche un grande numero di Greci credenti in Dio e non poche donne della nobiltà.”[3].


Riprendo questo brano perché il discorso di San Paolo nella sinagoga di Tessalonica è del tutto simile alla spiegazione della Sacra Scrittura che Gesù risorto svolge il giorno di Pasqua, prima ai discepoli di Emmaus e poi agli “undici e agli altri che erano con loro”[4].
3.2.1 Scholion: L’esegesi midrashica di Gesù modello dell’annuncio cristiano agli Ebrei[5].
È indispensabile, a questo punto del nostro studio, fare alcune considerazioni circa il midrash, cioè circa l'approccio culturale ebraico alla Sacra Scrittura[6].
Ai tempi di Gesù, era opinione che il significato della Scrittura non si limitasse al senso più ovvio, al significato immediato del testo: scrivono a questo proposito A.C. Avril - P. Lenhardt:

«È degno di nota il fatto che la tradizione di Israele, nell’epoca del nuovo testamento, non conosca la parola “senso”, ma solamente i termini mishma’ (“la cosa udita”) o shammua’ (“ciò che si ode”), i quali designano il senso della Scrittura in prima audizione. Non si tratta di ciò che noi chiamiamo il "senso letterale", vale a dire il senso che il testo ha per il suo autore. Il mishma’ è senza dubbio il senso più ovvio; ma proprio in quanto tale esso né viene considerato come il senso più sicuro, né come quello migliore. Esso appare al contrario come sospetto, o per lo meno come provvisorio e da sottoporre a verifica»[7]



«…si ammette che la Scrittura non possa limitarsi a dare un unico senso, ma richieda necessariamente una molteplicità di interpretazioni: solo attraverso una tale molteplicità - purché sempre compatibile con l’insieme della Verità rivelata - si può arrivare a cogliere l’infinita potenza ed efficacia rivelativa della Parola di Dio.»[8]


Alla luce di quanto sopra, appare chiaro che, per un ebreo, ciò che “si udiva” leggendo la S. Scrittura, doveva essere interpretato; era necessario “aprire” la S. Scrittura, ricercandone i molteplici significati[9]; il midrash non é altro che la “ricerca” che “apre” il senso della Scrittura.
Per meglio comprendere il significato dell’espressione “aprire [il senso del]le Scritture”, ci può essere utile esaminare Lc 24, 25-32:

"[25] [Gesù] disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! [26] Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». [27] E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. [28] Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. [29] Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. [30] Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. [31] Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. [32] Ed essi si dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava [lett. ci apriva][10] le Scritture?»".


In questa pericope, possiamo osservare come è Gesù stesso che fa il midrash, che "apre" il senso della S. Scrittura (ci apriva le Scritture). All’apertura del senso della Scrittura corrisponde l’apertura degli occhi (si aprirono loro gli occhi) e il riconoscimento di Gesù Cristo (lo riconobbero).
Possiamo constatare che l'oggetto del midrash non é soltanto la S. Scrittura, ma sono anche gli eventi storici, in particolare quelli concernenti Gesù; esaminiamo ora anche i versetti precedenti: Lc 24, 18-20:

" [18] uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». [19] Domandò: «Che cosa?». Gli risposero: «Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; [20] come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso»".


continua...........

[Modificato da Caterina63 27/03/2010 09:11]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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27/03/2010 09:12
 
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Se osserviamo le espressioni tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno al v. 19 e ciò che si riferiva a lui al v. 27, vediamo che l'esegesi del testo biblico operata da Gesù non è stata altro che mostrare come i fatti accaduti in Gerusalemme e conosciuti da tutti fossero già conte­nu­ti in tutto l’Antico Testa­men­to. Si vede chiaramente che non è la vita di Gesù che viene rivestita di un mito, ma è l'antico Testamento - con un processo diametralmente opposto a quello ipotizzato da Bultmann - che viene demitizzato: l'Antico Testamento aveva narrato - unico caso di un biografia scritta prima che il protagonista fosse nato - la vita di Gesù: come? La storia della salvezza è significativa della vita di Cristo.
Dice bene San Tommaso che:

"l'autore della sacra Scrittura è Dio. Ora, Dio può non solo adattare parole per esprimere una verità, ciò che può anche l'uomo; ma anche le cose stesse. Quindi, se nelle altre scienze le parole hanno un significato, la Sacra Scrittura ha questo in proprio: che le cose stesse indicate dalla parola, alla loro volta ne significano un'altra"[11].


Questo è il senso spirituale della Sacra Scrittura.
Nella Scrittura le cose, ovvero i fatti narrati cominciando da Mosé e dai profeti, significano Gesù Cristo: se vogliamo usare una bella espressione di Eliáde, secondo cui “il mito trasforma l'evento in categoria”[12], è l'Antico Testamento che sta dalla parte del mito, ove gli eventi sono in qualche modo categorie universali, contenendo principalmente Nostro Signore Gesù Cristo, sempre lo stesso ieri, oggi e nei secoli.
Non è dunque l'esperienza dei primi cristiani che crea arbitrariamente un fatto; ma la storia, a tutti nota e da tutti ritenuta certa, con tanto di testimoni[13], viene confrontata con l'Antico Testamento. Questo tipo di ermeneutica porta a constatare anche come Dio è fedele nel compiere le sue promesse.
Per usare un'espressione di San Paolo, il midrash cristiano é la ri­cer­ca, all’interno della S.Scrittura, confrontata con la vi­ta di Cristo, di come, in Gesù, tutte le promesse di Dio sono diventate "sì".[14]
Vorrei citare ora un brano di Sant'Agostino, che espone questo concetto da par suo:

"Sia viva l'anima vostra e si ridesti volgendosi a Dio! Sta di fatto che Dio ha stabilito il tempo per le sue promesse ed ha stabilito il tempo per adempiere ciò che aveva promesso. Il tempo delle promesse fu quello che va dai Profeti fino a Giovanni Battista; quello, invece, che di là procede in avanti fino alla fine, è il tempo dell'adempimento delle promesse. Ed è fedele Dio, il quale si è fatto nostro debitore, non perché ha ricevuto qualcosa da noi, ma perché a noi ha promesso cose tanto grandi. Gli parve poco la promessa, ed allora Egli volle vincolarsi anche con un patto scritto, come obbligandosi con noi con la cambiale delle sue promesse, perché, quando cominciasse a pagare ciò che aveva promesso, noi potessimo verificare l'ordine dei pagamenti. Dunque il tempo dei profeti era di predizione delle promesse.
Si doveva dunque preannunciare con profezie che l'unico Figlio di Dio sarebbe venuto tra gli uomini, avrebbe assunto la natura umana e sarebbe così diventato uomo e sarebbe morto, risorto, asceso al cielo, si sarebbe assiso alla destra del Padre; egli avrebbe dato compimento tra i popoli alle promesse e, dopo questo, avrebbe anche compiuto la promessa di tornare a riscuotere i frutti di ciò che aveva dispensato, a distinguere i vasi dell'ira dai vasi della misericordia, rendendo agli empi ciò che aveva minacciato, ai giusti ciò che aveva promesso. Tutto ciò doveva essere preannunziato, perché altrimenti egli avrebbe destato spavento. E così fu atteso con speranza perché già contemplato nella fede"[15].


I vangeli dunque non sono altro il confronto di fatti storici realmente accaduti con l'Antico Testamento e la constatazione della veridicità e del compimento delle promesse di Dio[16].
3.2.2 L’esegesi midrashica di San Paolo, modellata su quella di Gesù.
Nella Sinagoga di Tessalonica, San Paolo, parlando ad Ebrei, non fa altro, alla stregua di Gesù, che confrontare la Scrittura con la storia: gli scritti ispirati raccontano Gesù, il Cristo, che doveva morire e risorgere:
Confrontiamo, in uno schema sinottico, i versetti chiave dei brani esaminati:
Lc 24, 25-27 passim:

Disse loro: "... Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?". E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui


Lc 24, 44-48 passim:

“bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi". Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: "Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno... Di questo voi siete testimoni.


At 17, 1-3 passim:

“c'era una sinagoga dei Giudei. Come era sua consuetudine, Paolo vi andò e per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture, spiegandole e sostenendo che il Cristo doveva soffrire e risorgere dai morti. E diceva: “Il Cristo è quel Gesù che io vi annuncio”.


3.2.3 L’opinione di Jacob Neusner
A sostegno della tesi per cui nei vangeli – e quindi anche nella predicazione paolina - ritroviamo tutte le caratteristiche del più genuino midrash, riporto quanto afferma uno dei maggiori studiosi ebrei di questo fenomeno culturale, Jacob Neusner:

“Ciò che noi abbiamo in tutto il Nuovo Testamento, come pure nella biblioteca essena di Qumran, è un'esegesi del tutto peculiare: una lettura dei versetti dell'antica Scrittura alla luce di uno schema verificabile di eventi concreti: L'esegeta mette in relazione le Scritture dal passato a cose che sono successe nei suoi giorni. La sua forma [letteraria] serve a questo scopo”[17].


3.3.4 Una prima conclusione
Se ci chiediamo come annunciare Gesù come Cristo agli Ebrei, la rivelazione stessa ci dice di confrontare la storia con le profezie dell’Antico Testamento: queste si riassumono sostanzialmente in un unico enunciato: Cristo doveva soffrire e risorgere dai morti: Gesù è il Cristo.
San Paolo, ben lontano dall’aspettare che intervenga il buon Dio alla fine del mondo[18], fin da subito, nelle sinagoghe, predica la buona novella anche agli Ebrei.
E la Chiesa non può che seguire l’esempio del suo Divino Maestro e degli gli Apostoli.
4. Le difficoltà pratiche.
Non è sufficiente però dare una risposta teorica alla domanda che ci eravamo posti su come annunciare Gesù Cristo agli Ebrei. Mi si potrebbe obiettare che mai gli Ebrei accetterebbero il dialogo con chi dichiara apertamente di volerli convertire (il che per loro costituisce una apostasia).
Rispondo che già in partenza sappiamo che il dialogo è difficilissimo, in quanto l’articulum stantis aut cadentis è Gesù Cristo.
Allora come può andare avanti il dialogo?
In primo luogo bisogna tenere presente che il dialogo inter-religioso è cosa diversa dall’apostolato.
Una soluzione molto equilibrata è quella proposta dall’episcopato statunitense, dove viene distinto il dialogo inter-religioso dall’annuncio evangelico[19]. Senza negare che i cattolici hanno costituzionalmente nel cuore il desiderio che tutti gli uomini conoscano Gesù Cristo, non è obbligatorio per noi sempre e in ogni occasione proclamare formalmente il kerygma (anche se il buon esempio è già una forma di missione).
Posto dunque che i Cristiani credono in Gesù Cristo che è già venuto, e gli Ebrei lo aspettano ancora, senza nascondere o dimenticare questa differenza, non sarà possibile trovare tanti punti comuni e tanti obiettivi pratici da perseguire congiuntamente?
Riporto un passo del discorso di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma

“In questa direzione possiamo compiere passi insieme, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, ma anche del fatto che se riusciremo ad unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla chiamata del Signore, la sua luce si farà più vicina per illuminare tutti i popoli della terra. I passi compiuti in questi quarant'anni dal Comitato Internazionale congiunto cattolico-ebraico e, in anni più recenti, dalla Commissione Mista della Santa Sede e del Gran Rabbinato d'Israele, sono un segno della comune volontà di continuare un dialogo aperto e sincero”[20].


Una simile soluzione, consapevoli delle differenze che vi sono tra noi, è ben più dignitosa di un compromesso pasticciato - conversione sì ma alle calende greche - e di cui gli Ebrei stessi non sono entusiasti[21].
Nel frattempo si può progredire nella conoscenza e nella stima reciproca; fermo restando che una simile amicizia può realmente aiutare a togliere tra i cristiani ogni traccia di anti-semitismo e di anti-giudaismo (anticamera dell’antisemitismo). È chiaro che i cattolici non possono essere anti-giudaici, perché chi ama non è anti, ma pro.
5. Ciò che può cominciare ad unirci.
Una posizione cattolica nel dialogo tra ebrei e cristiani come descritta sopra, è assolutamente anti-relativista. Senza imporre niente a nessuno, pur fatto salvo il dovere di ogni uomo di cercare la verità, il presupposto è che la verità esiste e che può essere raggiunta dall’intelletto umano, in questa e nell’altra vita, con diversi gradi di evidenza.
Se il relativismo tenta di insinuarsi nella fede cattolica e cerca di spingere i cristiani verso un cristianesimo senza Cristo, non è forse vero che propone agli Ebrei un Ebraismo senza Mosè?
E il relativismo non è un buon alleato del popolo ebraico.
Ponzio Pilato, che si chiedeva, per conto di tutti i relativisti della storia, “che cos’è la verità?”[22], non è forse il rappresentate di quella Roma che ha sì condannato Gesù Cristo, ma che ha distrutto il secondo tempio (e la distruzione del tempio è – in un certo senso – un prologo della Shoa)?
Ancora adesso l’alleanza con il relativismo costituisce una tentazione per la Sinagoga.
È in atto anche in Italia una certa propaganda del noachidismo, che consiste nel proporre ai non ebrei l’osservanza di sette precetti[23], dati da Dio ad Adamo e a Noè - quindi prima dell’alleanza con Abramo e dell’elezione di Israele.
Non manca chi propone ai Cristiani una conversione a questa nuova mentalità noachica[24].
La propaganda del noachidismo potrebbe essere un punto di incontro con la pseudo-religiosità massonica e il suo ideale di religione universale basata su un minimo comune denominatore che unisca gli uomini nella tolleranza reciproca[25].
E infatti il Rabbino Di Segni, il 26 maggio 2003, in visita a Villa Medici, sede del Grand’Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, illustrò proprio “Il Patto Noachita”.
Giuseppe Abramo, Gran Segretario del Grande Oriente d’Italia, commentò così l’intervento del rabbino:

“non si può non nominare lo straordinario respiro cosmico dell’ebraismo, nel momento in cui questa dottrina, lungi dall’affermare l’esistenza di una religione giusta, che escluda le altre, promette salvezza a chiunque accetti spontaneamente e sinceramente i Sette Precetti dei Figli di Noè. È la stessa apertura alla tolleranza che, insieme al trinomio caro a noi Massoni (libertà, uguaglianza e fratellanza) guida e regola i lavori massonici”[26].


Ma è questa una via redditizia per gli Ebrei?
È molto meno rischioso per gli Ebrei confidare in chi avrà sempre l’obbligo immutabile, il supremo comandamento del Maestro, di dare la vita per loro, piuttosto di chi oggi li può considerare alleati (secolarizzati) e domani nemici da distruggere. Pilato docet.
In base a quanto detto, gli Ebrei devoti e non secolarizzati potranno trovare un punto di unione con i Cristiani, per difendersi dalla minaccia del relativismo.
6. Ciò che alla fine ci unirà.
Benedetto XVI, in visita ad Auschwitz, ha fornito l’interpretazione teologica cattolica dello sterminio degli Ebrei durante la seconda guerra mondiale:

“I potentati del Terzo Reich volevano schiacciare il popolo ebraico nella sua totalità; eliminarlo dall'elenco dei popoli della terra. Allora le parole del Salmo: "Siamo messi a morte, stimati come pecore da macello" si verificarono in modo terribile. In fondo, quei criminali violenti, con l'annientamento di questo popolo, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno. Se questo popolo, semplicemente con la sua esistenza, costituisce una testimonianza di quel Dio che ha parlato all'uomo e lo prende in carico, allora quel Dio doveva finalmente essere morto e il dominio appartenere soltanto all’uomo - a loro stessi che si ritenevano i forti che avevano saputo impadronirsi del mondo. Con la distruzione di Israele, con la Shoa, volevano, in fin dei conti, strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell'uomo, del forte”[27].


Alla luce di quanto il Papa afferma, se è dovere di noi cristiani ricordare la Shoa, anche gli Ebrei non possono esimersi dal considerare come i cristiani sono stati in passato e sono ancora oggi la comunità più perseguitata della terra, dalla fondazione della nostra santa religione fino alla fine del mondo.
In altre parole, insieme abbiamo sperimentato l’odio di satana e l’odio del mondo, che vogliono cancellare ogni “testimonianza di quel Dio che ha parlato all'uomo” e “strappare anche la radice, su cui si basa la fede cristiana, sostituendola definitivamente con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell'uomo, del forte”.
Vengono in mente le parole del Catechismo della Chiesa Cattolica, che descrive, con parole simili, i tempi dell’anticristo:

“Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzione che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il «mistero di iniquità» sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell'apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell'Anti-Cristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui l'uomo glorifica se stesso al posto di Dio e del suo Messia venuto nella carne”[28].


Come non vedere affinità tra “la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell'uomo, del forte” e “l’impostura religiosa ... in cui l’uomo glorifica se stesso al posto di Dio”?
Siccome “l’uomo nella prosperità non comprende”[29], non saranno forse i tempi di una comune e feroce persecuzione a farci riflettere e a farci deporre ogni pregiudizio?
Allora, quando “uscirà da Sion il liberatore”[30], incontrerà i pochi cristiani che non si saranno fatti trascinare dal’apostasia generale e gli Ebrei, che, a quel punto, nella totalità morale, riconosceranno Gesù Cristo e saranno reinnestati: e allora...

“Se la loro caduta è stata ricchezza per il mondo e il loro fallimento ricchezza per le genti, quanto più la loro totalità!”[31]


e così...

“Allora tutto Israele sarà salvato”[32].


7. Conclusioni generali
Ho cercato di commentare la nuova preghiera pro Iudeis, tendo conto del dibattito teologico su Israele in campo cattolico e dei problemi del dialogo inter-religioso ebraico cristiano.
La nuova preghiera è discreta, toglie alcune espressioni delle preghiere del passato che sono lecite, in quanto tratte dalla Scrittura, ma che potrebbero essere dure per l’interlocutore.
Pur con questa discrezione, la preghiera appare inconciliabile con la teoria delle due vie di salvezza parallele (teoria quantitativamente dominante presentata dai media come svolta conciliare), e si pone in continuità con il passato.
Viene richiamata la necessità che gli Ebrei riconoscano Gesù Cristo e che Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità: quindi si esclude una via di salvezza senza la conoscenza della verità, che per noi non è una teoria, ma una Persona: Gesù Cristo.
Il titolo rubricale Pro conversione Iudeorum, lasciato nella micro-riforma della Messa di San Pio V, sancisce l’attualità e la liceità della categoria teologica conversione degli Ebrei (anche se abbiamo visto come questa conversione ha una sua specificità e possa considerarsi, da un punto di vista soggettivo, un arrivo o un coronamento).
L’interpretazione del Card. Kasper, che sposta la conversione degli Ebrei oltre la fase apocalittica della rivelazione, appare come un arrampicarsi sugli specchi, e lascia gli Ebrei stessi insoddisfatti.
Oltretutto questa spiegazione lascia in una sorta di limbo il piccolo ma continuo numero di Ebrei che si convertono, che annovera già santi e martiri, e di cui San Paolo dice che “anche nel tempo presente vi è un resto, secondo una scelta fatta per grazia”[33].
È inaccettabile anche l’affermazione che agli Ebrei non va annunciato Gesù Cristo: gli Ebrei sono stati i primi destinatari del Vangelo - sia da parte di Nostro Signore, sia da parte degli Apostoli - e la Chiesa non può percorrere altre strade.
Quale dialogo possibile con queste premesse?
Senza nascondere il desiderio e l’auspicio che tutti gli uomini credano in Gesù Cristo, si può distinguere operativamente il dialogo inter-religioso dall’apostolato.
Rimangono molte cose nelle quali si può lavorare assieme; queste sono state descritte mirabilmente nell’ultimo discorso di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma. Il lavoro comune accrescerà la conoscenza e la stima reciproca, demolendo piano piano tanti pregiudizi.
Il discorso del Papa ad Auschwitz assume una certa valenza profetica: Ebrei e Cristiani sono oggetto di un feroce odio satanico che ha le caratteristiche dell’odio dell’anticristo. Constatare come siamo assieme perseguitati e per la stessa ragione (la diabolica volontà cancellare ogni “testimonianza di quel Dio che ha parlato all'uomo”) potrà far maturare cose meravigliose. Essendo la minaccia relativista la premessa di questi eventi, se la Sinagoga riuscirà a fuggire la tentazione dell’alleanza con la Loggia, già fin d’ora la difesa dal comune nemico (il relativismo) potrebbe dare a entrambi maggior consapevolezza del nostro misterioso stato di fratelli.
Prima di concludere, vorrei elogiare un Vescovo coraggioso, che non ha avuto timore di andare contro-corrente: si tratta di Sua Ecc.za Rev.ma Mons. Lugi Negri, Vescovo di San Marino - Montefeltro. Così il giornalista Riccardo Cascioli riassume un articolo dello stesso Mons. negri sulla rivista Studi Cattolici:

“Non si capisce perciò come alcuni cattolici possano sostenere che «la missione valga per tutti gli uomini meno che per qualche categoria (per esempio gli islamici e gli ebrei)». O che «la singolarità del rapporto tra Israele e Chiesa è quello del peculiare percorso salvifico ebraico, per cui rispetto all’ebraismo non può esserci missione istituzionalizzata da parte cristiana».
«Per un’autentica coscienza della fede – chiosa il vescovo di San Marino – questo risulta inconcepibile: come se ci fosse una via alla salvezza che prescinde dall’avvenimento di Cristo, dall’incontro con Lui, dalla sequela di Lui e dalla conversione a Lui, così come è presente misteriosamente, fino alla fine dei tempi, nella sua Chiesa che è il suo Corpo e il suo Sacramento»”[34].


Che Maria, Madre ebrea di Gesù ebreo, aiuti il dialogo tra i discepoli e i consanguinei del suo Figlio. Amen!
Don Alfredo Morselli, Stiatico di San Giorgio di Piano, 24-3-2010

NOTE

[1] Cf. Lc 15, 11-32; “La parabola del padre misericordioso, che invita il figlio maggiore ad aprire il suo cuore al prodigo, non suggerisce direttamente l'applicazione, che talvolta è stata fatta, alle relazioni tra ebrei e Gentili (il figlio maggiore rappresenterebbe gli ebrei osservanti, poco inclini ad accogliere i pagani, considerati peccatori). È possibile tuttavia ipotizzare che il contesto più ampio dell'opera di Luca lasci una possibilità a questa applicazione, a causa della sua insistenza sull'universalismo”: Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana (2001), § 74.
[2] S. Agostino, Enarr. in Ps. XLVII, 3.
[3] At 17, 1-4.
[4] Lc 24, 13-48.
[5] Riprendo qui alcune osservazioni già pubblicate nel mio libro La negazione della storicità dei Vangeli. Storia, cause e rimedi, Seriate 2006, p. 47.
[6] Cf. R. Le Déaut, “A propose d’une définition de midrash”, Biblica 50 (1969), 395-413, e A.C. Avril - P. Lenhardt, La lettura ebraica della scrittura, Magnano: Qiqaion, 1984.
[7]A.C. Avril - P. Lenhardt, La lettura ebraica, p. 63.
[8]A.C. Avril - P. Lenhardt, La lettura ebraica, p. 63.
[9]Ecco alcuni passi della Mishnah che chiariscono come un ebreo percepiva la pluralità dei significati della Scrittura: «Abbajé dice: Siccome la Scrittura dice: “Una cosa ha detto Dio, due ne ho udite; è questa la potenza di Dio” (Sal. 62.12), (se ne deve dedurre che) un solo passo scritturistico dà luogo a dei sensi molteplici…»; cf. b.Sanhedrin 34a, cit. in A.C. Avril - P. Lenhardt:, La lettura ebraica, p. 108; «Rabbì Jochana dice: Che cosa significa ciò che sta scritto: “Il Signore ha dato una parola, annunci per un’armata numerosa” (Sal. 68.12)? Ogni parola che usciva dalla bocca della Potenza sul monte Sinai si divideva in settanta lingue. É stato insegnato nella scuola di Rabbì Ishmael: “Non é forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roc­cia?” (Ger. 23.29). Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure ogni parola che usciva dalla bocca della Potenza si divideva in settanta lingue.»; cf. b.Shab­bat 88b, cit. in La lettura ebraica, p. 109.
[10] “ὡς διήνοιγεν ἡμῖν τὰς γραφάς”.
[11] "…auctor sacrae Scripturae est Deus, in cuius potestate est ut non solum voces ad significandum accommodet (quod etiam homo facere potest), sed etiam res ipsas. Et ideo, cum in omnibus scientiis voces significent, hoc habet proprium ista scientia, quod ipsae res significatae per voces, etiam significant aliquid", S. Th., Iª q. 1 a. 10 co.
[12] Cit. in: Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull'amore umano, Roma: Città Nuova - Libreria Editrice Vaticana, 1985, p. 36/1.
[13] Lc 24, 48: “Di questo voi siete testimoni”.
[14]Cf. 2 Cor. 1, 20.
[15] S. Agostino d'Ippona, Enarrationes in Psalmos, 109, 1. 3.
[16] A sostegno della tesi per cui nei vangeli ritroviamo tutte le caratteristiche del più genuino midrash, riporto quanto afferma uno dei maggiori studiosi ebrei di questo fenomeno culturale, Jacob Neusner: "Ciò che noi abbiamo in tutto il Nuovo Testamento, come pure nella biblioteca essena di Qumran, è un'esegesi del tutto peculiare: una lettura dei versetti dell'antica Scrittura alla luce di uno schema verificabile di eventi concreti: L'esegeta mette in relazione le Scritture dal passato a cose che sono successe nei suoi giorni. La sua forma [letteraria] serve a questo scopo" ("What we have in all of the New Testament Gospel, as in the Essene library of Qumran, is an entirely distinctive sort of exegesis: a reading of the verses of ancient Scipture in light of an avaible scheme of concrete events. The exegete relates Scriptures from the past to thing that have happened in his own day. His form serves that goal"); Jacob Neusner, What is a midrash?, Philadelphia: Fortress Press, 1987, p. 40.
[17] “What we have in all of the New Testament Gospel, as in the Essene library of Qumran, is an entirely distictive sort of exegesis: a reading of the verses of ancient Scipture in light of an avaible scheme of concrete events. The exegete relates Scriptures from the past to thing that have happened in his own day. His form serves that goal”; Jacob Neusner, What is a midrash?, Philadelphia: Fortress Press, 1987, p. 40.
[18] "Come purtroppo suggerisce indebitamente il Card. Kasper, stravolgendo San Bernardo: “Per sostenere quest'interpretazione ci si può riferire a un testo di san Bernardo di Chiaravalle, che dice che non siamo noi a doverci occupare degli ebrei, ma che Dio stesso se ne occuperà”.
[19] Cf. La Nota dottrinale della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti A Note on Ambiguities Contained in «Reflections on Covenant ond Mission», del 19-6-2009, precedentemente citata.
[20] Visita alla Comunità Ebraica di Roma, Parole del Santo Padre Benedetto XVI, Sinagoga di Roma , Domenica, 17 gennaio 2010; testo ripreso dal sito WEB della Santa Sede: tinyurl.com/ycb52o4.
[21] Riccardo di Segni, intervistato da Avvenire, alla domanda: “Tutto chiarito invece sulla questione della preghiera del venerdì santo alla quale lei accennava prima?”, ha risposto: “Sull'argomento direi che è stato raggiunto un armistizio "politico", più che una pace vera. Nel senso che è stato chiarito dalle più alte autorità della Chiesa che la conversione non si riferisce all'immediato, ma è trasferita alla fine dei tempi”; “Di Segni: «Indietro non si torna»”, Avvenire, 16 gennaio 2010, cf. tinyurl.com/yh9fqg7.
[22] Gv 18, 38.
[23] I precetti noachici sono: 1. Non adorare gli idoli
2. Non profanare il Nome
3. Non uccidere
4. Non commettere atti sessuali proibiti
5. Non rubare
6. Perseguire la giustizia
7. Non essere crudele con gli animali: per una prima infarinatura, vedi il Sito noachide, www.benenoach.info/dblog/articolo.asp?articolo=3.
[24] Scrive Marco Morselli: “Rav Elia Benamozegh in un’opera postuma pubblicata a Parigi nel 1914 scriveva: «La riconciliazione sognata dai primi cristiani come una delle condizioni della Parusia, o avvento finale di Gesù, il ritorno degli ebrei nel seno della Chiesa, senza di cui le diverse confessioni cristiane sono concordi nel riconoscere che l’opera della redenzione rimane incompleta, questo ritorno si effettuerà non come lo si è atteso, ma nel solo modo serio, logico e durevole, e soprattutto nel solo modo proficuo al genere umano. Sarà la riunione dell’ebraismo e delle religioni che ne sono derivate, e, secondo la parola dell’ultimo dei profeti, il sigillo dei veggenti, come i dottori chiamano Malachia, “il ritorno del cuore dei figli ai loro padri”» (Ml 3,24). Non vi è una Nuova Alleanza che si contrapponga a una Vecchia Alleanza, non vi è neppure un’unica Alleanza Vecchio-Nuova che costringerebbe gli ebrei a farsi cristiani o i cristiani a farsi ebrei. Vi è un’unica Torah eterna che contiene molte Alleanze, i molti modi in cui il Santo, benedetto Egli sia, rivela il suo amore per gli uomini e indica le vie per giungere all’incontro con Lui”. Il dialogo ebraico-cristiano da un punto di vista ebraico, conferenza del Prof. Marco Morselli pronunziata a Roma il giorno 10 marzo c.a. -Via Aurelia 476 - nell’Aula Magna dei Fratelli delle Scuole Cristiane; cf. tinyurl.com/y9x7yva, visitato il 24 marzo 2010.
[25] “l’alleanza noachide non prescrive nessuna cultura, nessuna religione, nessun mito, nessun rito, è compatibile con tutte le culture e con tutti i diversi modi di essere umani”; Ibidem.
[26] “Il rabbino capo Di Segni incontra il Grande Oriente”, Erasmo Notizie, bollettino di informazione del Grand’Oriente d’Italia, anno V - Numero 11 - 15 giugno 2003, p. 2. Inoltre negli scritti di Maimonide si trovano delle considerazioni, a proposito dei sette precetti noachici, che calzano a pennello con il pensiero massonico: egli dichiara che i non-Ebrei che osservano le sette leggi riconoscendone l'origine Divina sono chiamati Chasidei Umot HaOlam, ovvero "i Giusti tra le nazioni del mondo", mentre coloro che le osservano soltanto per motivi razionali, avendo riconosciuto la loro validità tramite l'intelletto, sono Chochmei Umot HaOlam, cioè uomini saggi. Hilchot Melachim 8:11, cit. in Informazioni e approfondimenti sui precetti Noachidi, tinyurl.com/ygm22gw, visitato il 24 marzo 2010.
[27] Benedetto XVI, Discorso durante la visita al campo di Auschwitz, 28 maggio 2006. Citazione dal sito WEB della Santa Sede: tinyurl.com/3cjqe4, visitato il 24 marzo 2010.
[28] CCC 675. Riporto anche il seguito, per comodità e giovamento del lettore:
“676 Questa impostura anti-cristica si delinea già nel mondo ogniqualvolta si pretende di realizzare nella storia la speranza messianica che non può essere portata a compimento se non al di là di essa, attraverso il giudizio escatologico; anche sotto la sua forma mitigata, la Chiesa ha rigettato questa falsificazione del regno futuro sotto il nome di millenarismo, soprattutto sotto la forma politica di un messianismo secolarizzato «intrinsecamente perverso».
677 La Chiesa non entrerà nella gloria del Regno che attraverso quest'ultima pasqua, nella quale seguirà il suo Signore nella sua morte e risurrezione. Il Regno non si compirà dunque attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male che farà discendere dal cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dell'ultimo giudizio dopo l'ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa”.
[29] Sal 49, 13.
[30] Is 59,20 cit. in Rm 11, 26.
[31] Rm 11, 12.
[32] Rm 11, 26.
[33] Rm 11, 5.
[34] R. Cascioli, “La conversione degli ebrei è ancora attuale?”, in tinyurl.com/y8eugkk ; sito visitato il 1 marzo 2010.
[35] Intervista di Giuseppe Rusconi a Roccardo di Segni; Il Consulente RE online, www.ilconsulentere.it/stampaArticolo.php?id=244, visitato il 23 marzo 2010.

blog.messainlatino.it/2010/03/lannuncio-agli-ebrei-di-gesu-c...
[SM=g1740722]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/11/2010 17:52
 
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 Il libro in questione, che trovate qui, offre un altro spunto su cui approfondire e lo fo attraverso il blog Messainlatino che ha pubblicato quanto segue....
e poichè alcuni animi si sono accesi.... ( i commenti li trovate cliccando sul titolo dell'articolo) mi permetto al termine del testo di fare alcune considerazioni....e far comprendere ancora una volta di fare attenzione alle false interpretazioni ed alle suggestioni delle nostre OPINIONI....



La conversione degli Ebrei. Da rinviare?



Abbiamo scritto nel precedente post che due punti delle anticipazioni dal libro-intervista di Benedetto XVI ci hanno colpito. Abbiamo già parlato di quello, sicuramente più 'mediatico', inerente i profilattici. Ora affrontiamo invece la posizione della Chiesa rispetto alla conversione degli Ebrei; tema che, diciamo subito, ci appare ancor più interessante (e perfino più importante) dell'altro. Ma, dobbiamo a malincuore riconoscerlo, un passaggio delle parole del Papa (come riportate dall'Osservatore romano odierno) ci suscita una certa inquietudine. Leggiamo tutto il brano:

Devo dire che sin dal primo giorno dei miei studi teologici mi è stata in qualche modo chiara la profonda unità fra Antica e Nuova Alleanza, tra le due parti della nostra Sacra Scrittura. Avevo compreso che avremmo potuto leggere il Nuovo Testamento soltanto insieme con ciò che lo ha preceduto, altrimenti non lo avremmo capito. Poi naturalmente quanto accaduto nel Terzo Reich ci ha colpito come tedeschi e tanto più ci ha spinto a guardare al popolo d'Israele con umiltà, vergogna e amore.

Nella mia formazione teologica queste cose si sono intrecciate ed hanno segnato il percorso del mio pensiero teologico. Dunque era chiaro per me - ed anche qui in assoluta continuità con Giovanni Paolo II - che nel mio annuncio della fede cristiana doveva essere centrale questo nuovo intrecciarsi, amorevole e comprensivo, di Israele e Chiesa, basato sul rispetto del modo di essere di ognuno e della rispettiva missione [...]

Comunque, a quel punto, anche nella antica liturgia mi è sembrato necessario un cambiamento. Infatti, la formula era tale da ferire veramente gli ebrei e di certo non esprimeva in modo positivo la grande, profonda unità fra Vecchio e Nuovo Testamento.

Per questo motivo ho pensato che nella liturgia antica fosse necessaria una modifica, in particolare, come ho detto, in riferimento al nostro rapporto con gli amici ebrei. L'ho modificata in modo tale che vi fosse contenuta la nostra fede, ovvero che Cristo è salvezza per tutti. Che non esistono due vie di salvezza e che dunque Cristo è anche il Salvatore degli ebrei, e non solo dei pagani. Ma anche in modo tale che non si pregasse direttamente per la conversione degli ebrei in senso missionario, ma perché il Signore affretti l'ora storica in cui noi tutti saremo uniti. Per questo gli argomenti utilizzati da una serie di teologi polemicamente contro di me sono avventati e non rendono giustizia a quanto fatto.

Naturalmente, le nostre perplessità si appuntano sulla frase che abbiamo sottolineata. Essa pare escludere la necessità, o perfino l'opportunità, di agire (o anche solo pregare) per la conversione attuale dei singoli ebrei, e sembra posporre a tempi escatologici, o comunque futuri, lo sforzo per la conversione, che riguarderà tutto il popolo ebreo. San Paolo (Rm., 11, 25-26), in effetti, scrive che quando "saranno entrate tutte le genti, allora tutto Israele si convertirà". Bene, ma nell'attesa? Il Papa nella frase immediatamente precedente dice che non esistono due vie di salvezza, e questa è un'affermazione da salutare con entusiasmo, perché respinge la tesi teologica, tanto diffusa quanto errata, del 'doppio binario' della salvezza, e appare un riconoscimento implicito della tradizionale teologia della sostituzione, secondo cui la Chiesa è il nuovo Israele (su questi temi, vi invitiamo caldamente a rileggere due articoli già pubblicati: necessità e natura della conversione degli Ebrei e teologia della sostituzione).

Ma se dunque, come scrive subito prima il Papa, ci si salva solo in Cristo, perché mai non si dovrebbe offrire in modo "missionario" la garanzia di quella salvezza a quegli ebrei che, vivendo oggi e morendo prima della futura conversione collettiva, rischiano grosso nel rifiutare di riconoscere in Gesù il Messia?


Enrico.


************************************************************************************

Embarassed  caro don Camillo.....alla don Camillo - ma scrivo anche a quanti credono che queste parole del Papa siano un cedimento - ti stai lasciando andare alle provocazioni gettate dal Peppone di turno.... quante volte il povero don Camillo dovette chiedere scusa al Crocefisso che gli parlava, PER AVER DUBITATO..... Laughing  
 
 Il Papa non ha fatto alcuna retromarcia, siamo NOI che abbiamo sbagliato e che con l'Olocausto ABBIAMO MODIFICATO IL CORSO DEGLI EVENTI....se non ci fosse stata quella INGIUSTA PERSECUZIONE AD INTERE FAMIGLIE CHE NON C'ENTRAVANO NULLA... la storia avrebbe preso un'altra piega, ed anche se la storia non si fa con i "se e con i ma" ma con i fatti,  perchè dunque non rimettiamo in discussione anche l'amicizia che il futuro san Pio V aveva quando era semplice frate con il Rabbino di Roma del suo tempo e che si convertì solo molti anni dopo quando, diventato Papa, gli seppe dimostrare LA RAGIONE DELLA SPERANZA CHE ERA IN LUI.... 
 
e dovresti rimettere in discussione anche questo fatto curioso:  
forse pochi sanno che san Pio X, quando venne eletto Vescovo, ricevette in dono l'anello da una famiglia DI EBREI.... Wink  anzi, del fatto si riporta, nella vita del santo, questo aneddoto:  
appena eletto Vescovo venne a fargli visita la madre di un senatore, famiglia ebrea di Salzano, molti amici del Sarto e perfino benefattori nonostante nessuno di loro si convertì mai al cristianesimo, nè richiesero mai il Battesimo.  
Quando don Giuseppe Sarto fu promosso vescovo, la buona signora con il figlio, avevano fatto dono di un magnifico anello pastorale, assai prezioso specialmente per un finissimo diamante incastonato, e la signora, baciandogli con riverenza l'anello, se ne compiaceva.  
Ma quando il Sarto se ne accorse, altrettanto amorevolmente disse:  
"Eh, signora, guardi bene, el xe solamente un fondo di goto: per me è un pezzo di vetro di bicchiere!"  
 
Insomma, una certa AMICIZIA con il mondo ebraico, all'interno della Chiesa ed anche in modo molto significativo, c'è sempre stata, il problema di fondo è venuto invece, ed è un paradosso, DOPO IL CONCILIO.... è come per la questione FEMMINILE: la Chiesa ha sempre MAGISTRALMENTE RISPETTATO ED ELEVATO LA DONNA, ma dopo il Concilio e con il problema del FEMMINISMO, i rapporti per certi aspetti sono peggiorati tanto che vediamo questa avanzata pretesa del sacerdozio femminile che in passato la Chiesa non dovette mai affrontare...  
 
Se infatti a qualcuno di voi risulta che in passato la Chiesa abbia scritto DIVERSAMENTE rispetto a queste parole del Papa:  
Che non esistono due vie di salvezza e che dunque Cristo è anche il Salvatore degli ebrei, e non solo dei pagani.  " allora le vostre preoccupazioni sarebbero fondate ma di fatto non è così Smile  insomma don Camì, il Papa l'ha detto chiaramente: CRISTO E' ANCHE IL SALVATORE DEGLI EBREI!! va da se che per avere questa Salvezza dovranno, COME I PAGANI E COME NOI, CONVERTIRSI.... ma che tale conversione per gli Ebrei avverrà in modo completo in tempi e modi diversi è lo stesso san Paolo che lo dice in Romani 11..."ESSI, dice l'apostolo, QUANTO AL VENGELO SONO NOSTRI NEMICI PER NOSTRO VANTAGGIO...."  

e poichè san Paolo lo descrive come UN MISTERO CHE SOLO DIO SVELERA' E RISOLVERA' ALLA FINE DEI TEMPI, dice a noi di non "insuperbirci" di questo PRIVILEGIO che ci è dato, ossia di CREDERE.... perchè PIACCIA O NON PIACCIA, ANCHE GLI EBREI ALLA FINE CREDERANNO, questa è la profezia di san Paolo....






Fraternamente CaterinaLD

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Un nuovo libro di don Morselli sulla conversione degli Ebrei


Alcuni circoli ebraici e alcuni organi di stampa fecero gran rumore in occasione della promulgazione del Motu proprio di Benedetto XVI che ripristinava la Messa antica, paventando la reintroduzione della preghiera per gli Ebrei, quella da cui Papa Giovanni XXIII aveva tolto l'aggettivo "perfidi". In questa temperie si colloca il commento dell'Autore di questo libro, sacerdote cattolico, alla nuova preghiera pro conversione Iudaeorum per la forma straordinaria del rito romano. Se dinanzi al sangue prezioso del suo Figlio il Padre ha volto lo sguardo alla povera umanità peccatrice e l'ha salvata, non deve questo essere annunziato a tutti, compresi "i nostri fratelli maggiori" affinché volgano con noi lo sguardo al Figlio Salvatore? Questo volgere lo sguardo è l'inizio della conversione, opera della Grazia Divina, che quest'opera vuole inaugurare.

L'Autore

Don Alfredo M. Morselli nasce a Bologna il 24 ottobre 1958. Nel 1980 interrompe gli studi universitari per entrare in seminario; viene ordinato sacerdote a Massa (MS) nel 1986. Nel 1991 consegue la licenza in Scienze Bibliche presso il Pontifico Istituto Biblico. L'obbedienza lo porta a svolgere il suo ministero principalmente in parrocchia, ma ha anche insegnato varie discipline teologiche e si dediça -quando possibile -alla predicazione degli Esercizi Spirituali di Sant'Ignazio. E stato tra i primi sacerdoti italiani ad avventurarsi nell'apostolato in internet, agli albori della storia di questo mezzo di comunicazione. Dopo la promulgazione del Motu Proprio "Summorum Pontificum», ha l'incarico -assieme ad altri confratelli -di celebrare la Santa Messa gregoriana a Bologna. Attualmente è parroco nella diocesi di Bologna, presso le parrocchie di S. Venanzio Martire, Stiatico di San Giorgio di Piano, e SS. Filippo e Giacomo Apostoli, in Casadio di Argelato. Tra le sue pubblicazioni, il libro La negazione della storicità dei Vangeli. Storia, cause e rimedi (2006).

INDICE DELL'OPERA


PREFAZIONE di Mons. Nicola Bux
Un po’ di storia
La Chiesa prega per la conversione di tutti gli uomini

PARTE I Necessità e natura della conversione degli Ebrei
1. Lo Status quaestionis
2. La risposta nei documenti ufficiali
3. Ancora lo scontro tra le “due ermeneutiche”
4. La verità senza sconti
5. La nuova preghiera pro Iudaeis
6. In che senso si deve parlare di conversione degli Ebrei?
7. Conversione o compimento?
8. Conclusione

PARTE II La santa speranza della conversione degli Ebrei
1. Lo status quaestionis
2. Le affermazioni del Card. Walter Kasper
3. La speranza della conversione degli Ebrei
4. “Allora tutto Israele sarà salvato”

PARTE III L‟annuncio agli Ebrei di Gesù come Cristo
1. Perché annunciare?
2. Proselitismo?
3. Un annuncio particolare
3.1 Un’icona dell’annuncio
3.2 Una linea teoretica
3.2.1 Scholion: L’esegesi midrashica di Gesù modello dell’annuncio cristiano agli Ebrei
3.2.2 L’esegesi midrashica di San Paolo, modellata su quella di Gesù
3.2.3 L’opinione di Jacob Neusner
3.3.4 Una prima conclusione
4. Le difficoltà pratiche
5. Ciò che può cominciare ad unirci
6. Ciò che alla fine ci unirà
7. Conclusioni generali
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10/08/2011 21:27
 
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A ciascuno il suo Kippur. La protesta della sinagoga di Roma

Il rabbino Di Segni accusa il Vaticano di voler imporre la croce di Gesù anche agli ebrei, al posto dello Yom Kippur. Denuncia la rottura del dialogo e mette in forse la sua presenza ad Assisi. I chiarimenti del cardinale Koch. Il pensiero di Ratzinger

di Sandro Magister





ROMA, 5 agosto 2011 – La polemica è stata poco notata, ma ha rischiato seriamente di mettere in forse la presenza degli ebrei alla "Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo" convocata da Benedetto XVI per il prossimo 27 ottobre ad Assisi.

La miccia è stato un articolo del cardinale Kurt Koch, presidente del pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, su "L'Osservatore Romano" del 7 luglio, ad illustrazione del senso della Giornata.

Nella parte finale del suo articolo, il cardinale Koch definiva la croce di Gesù "il permanente e universale Yom Kippur" e indicava in essa "il cammino decisivo che soprattutto ebrei e cristiani [...] dovrebbero accogliere in una profonda riconciliazione interiore".

Ecco con più esattezza che cosa scriveva il cardinale in quel suo articolo:

"Secondo la fede cristiana, la pace, a cui tanto anelano gli uomini di oggi, proviene da Dio, che ha rivelato in Gesù Cristo il suo disegno originario, ovvero il fatto di averci 'chiamati alla pace' (1 Corinzi 7, 15). Di questa pace, la lettera ai Colossesi dice che ci viene donata tramite Cristo, 'con il sangue della sua croce' (1, 20). Poiché la croce di Gesù cancella ogni desiderio di vendetta e chiama tutti alla riconciliazione, essa si erge sopra di noi come il permanente e universale Yom Kippur, che non riconosce altra 'vendetta' se non la croce di Gesù, come ha affermato Benedetto XVI con parole molto profonde, il 10 settembre 2006 a München: 'La sua vendetta è la croce: il no alla violenza, l’amore fino alla fine'.

"Come cristiani, non veniamo certamente meno al rispetto dovuto alle altre religioni, ma al contrario lo cementiamo, se, soprattutto nel mondo di oggi in cui violenza e terrore sono usati anche in nome della religione, professiamo quel Dio che ha posto di fronte alla violenza la sua sofferenza e ha vinto sulla croce non con la violenza, ma con l’amore. Pertanto, la croce di Gesù non è di ostacolo al dialogo interreligioso; piuttosto, essa indica il cammino decisivo che soprattutto ebrei e cristiani [...] dovrebbero accogliere in una profonda riconciliazione interiore, diventando così fermento di pace e di giustizia nel mondo".

Soprattutto queste ultime righe hanno fatto scattare la reazione del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni (nella foto), già in altre occasioni mostratosi meno pacifico del suo predecessore Elio Toaff nei rapporti con la Chiesa cattolica.

Al punto da concludere così una sua replica apparsa su "L'Osservatore Romano" del 29 luglio:

"Se i termini del discorso sono quelli di indicare agli ebrei il cammino della croce, non si capisce il perché di un dialogo e il perché di Assisi".

*

Nella sua replica al cardinale Koch, il rabbino Di Segni insiste sul fatto che lo Yom Kippur, il giorno dell'espiazione, è la festa liturgica più importante dell'anno ebraico. È il giorno in cui è concessa la remissione dei peccati, l'unico nel quale il sommo sacerdote entrava nel "sancta sanctorum" del tempio e chiamava Dio per nome. È preceduto dai giorni del pentimento ed è celebrato nelle sinagoghe con grande presenza di popolo. Vi domina la lettura del libro di Giona, grandiosa rappresentazione della misericordia divina. Il digiuno è totale, per 25 ore non si mangia e non si beve.

Già l'8 ottobre 2008 Di Segni aveva spiegato il senso di questa festa su "L'Osservatore Romano", in prima pagina. E già allora aveva sottolineato che nello Yom Kippur si manifestano le "differenze inconciliabili tra i due mondi", il mondo degli ebrei e quello dei cristiani, perché "un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippur, così come un ebreo che ha il Kippur non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana".

A conferma di questa distanza, Di Segni fa notare che la Chiesa ha ripreso nella sua liturgia le feste ebraiche della Pasqua e della Pentecoste, ma non quella del Kippur. E tale scelta è comprensibile – scrive – perché "il credente cristiano può certamente pensare che la Croce rimpiazzi in modo permanente e universale il giorno del Kippur".

Ma allora – aggiunge Di Segni – il cristiano "non deve proporre all'ebreo le proprie credenze e interpretazioni come indici del 'cammino decisivo', perché così veramente si rischia di rientrare nella teologia della sostituzione e la Croce diventa ostacolo".

E prosegue:

"La propria differenza non può essere proposta all'altro come il modello da seguire. In questo modo si supera un limite che nel rapporto ebraico-cristiano può essere sfumato ma che deve essere invalicabile. Perlomeno non è un modo di dialogare che possa interessare gli ebrei".

*

A fianco della replica del rabbino Di Segni, "L'Osservatore Romano" del 29 luglio ha pubblicato anche la controreplica del cardinale Koch:

"Non ritengo assolutamente che gli ebrei debbano vedere la croce come noi cristiani, per poter intraprendere insieme il cammino verso Assisi. [...] Non si intende pertanto sostituire lo Yom Kippur ebraico con la croce di Cristo, anche se i cristiani vedono nella croce 'il permanente e universale Yom Kippur'. Ecco che viene qui toccato il punto fondamentale, molto delicato, del dialogo ebraico-cattolico, ovvero la questione di come si possano conciliare la convinzione, vincolante anche per i cristiani, che l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele ha una validità permanente e la fede cristiana nella redenzione universale in Gesù Cristo, in modo tale che, da una parte, gli ebrei non abbiano l’impressione che la loro religione è vista dai cristiani come superata e, dall’altra, i cristiani non debbano rinunciare a nessun aspetto della loro fede. Senz’altro, tale questione fondamentale occuperà ancora a lungo il dialogo ebraico-cristiano".

*

Koch è stato chiamato personalmente da Benedetto XVI a presiedere il pontificio consiglio per l'unità dei cristiani e ad occuparsi in particolare del dialogo con l'ebraismo. Ed è uno dei cardinali di curia più in accordo con la visione del papa.

Per capirlo, basta aprire il secondo tomo del libro "Gesù di Nazaret" al capitolo quarto, là dove Benedetto XVI commenta la "preghiera sacerdotale" di Gesù alla vigilia della sua passione, che occupa il capitolo 17 del Vangelo di Giovanni.

"Questa preghiera – scrive il papa – è comprensibile solo sullo sfondo della liturgia della festa giudaica dell'espiazione, Yom Kippur. Il rituale della festa con il suo ricco contenuto teologico viene realizzato nella preghiera di Gesù, realizzato nel senso letterale: il rito viene tradotto nella realtà che esso significa. [...] La preghiera di Gesù lo manifesta come il sommo sacerdote del grande giorno dell'espiazione. La sua croce e il suo innalzamento costituiscono il giorno dell'espiazione del mondo, in cui l'intera storia del mondo, contro tutta la colpa umana e tutte le sue distruzioni, trova il suo senso. [...] La preghiera sacerdotale di Gesù [...] è per così dire la festa sempre accessibile della riconciliazione di Dio con gli uomini".

*

Non è un caso che il profeta Giona, il profeta letto nella festa ebraica del Kippur, appaia al centro degli affreschi della Cappella Sistina, tra la creazione del mondo e il giudizio finale.

In una parola misteriosa, Gesù indicò se stesso nel "segno di Giona" (Luca 11, 29-32). Ed anzi, aggiunse: "Ben più di Giona c'è qui".

Quel segno di contraddizione che fu Gesù per gli ebrei del suo tempo permane tuttora tra cristiani ed ebrei e si manifesta nello Yom Kippur.

Gli ebrei celebreranno la festa dell'espiazione il 10 ottobre, pochi giorni prima della Giornata di Assisi.

__________


L'articolo del cardinale Kurt Koch su "L'Osservatore Romano" del 7 luglio 2011 che ha dato origine alla polemica:

> Ad Assisi un pellegrinaggio della verità e della pace

La replica del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni su "L'Osservatore Romano" del 29 luglio 2011:

> La lingua del dialogo deve essere comune

La controreplica del cardinale Koch, sullo stesso numero de "L'Osservatore Romano":

> Sicuramente la Croce non è un ostacolo

__________


La presentazione della festa dello Yom Kippur fatta dal rabbino Di Segni su "L'Osservatore Romano" dell'8 ottobre 2008, sullo sfondo di come Benedetto XVI concepisce il dialogo tra ebrei e cristiani:

> Il papa e gli amici ebrei. Così vicini, così lontani

__________
5.8.2011

 
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Che significa: la lingua del dialogo DEVE essere comune?

Su "Osservatore Romano" del 7 luglio, Sua Eminenza il Cardinale Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani, ha proposto alcune riflessioni sul significato della Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo che avrà luogo il 27 ottobre ad Assisi. Queste hanno provocato un intervento del Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e la replica del porporato, pubblicate dallo stesso giornale. I due ultimi testi sono consultabili qui, con l'aggiunta di notazioni che riporto anche in conclusione.

Il titolo che ho posto trasforma in domanda l'affermazione indicata come titolo del suo intervento da Rav Di Segni.

Il dato da rimarcare è che non è la prima volta che un ebreo smentisce certe forme di una sorta di captatio benevolentiae da parte di esponenti della Curia et alii nei confronti dell'ebraismo, che comportano solo fraintendimenti e non fanno altro che diluire sempre di più i fondamenti della nostra fede.

Lo stesso Neusner, teologo dell'ebraismo di fama internazionale, noto per la stima reciproca che lo lega a Benedetto XVI, sfata il mito di una "tradizione comune", che vuole ebraismo e cristianesimo imparentati. In un libro recente (2009) Ebrei e Cristiani. Il mito di una tradizione comune, Neusner raccoglie una serie di studi sul rapporto tra ebrei e cristiani, che nell'immaginario comune e dalla Chiesa post-conciliare sono considerati "parenti" dal punto di vista religioso, in quanto derivati da un'unica tradizione: l'Antico Testamento. Ma secondo l'autore questa "tradizione comune" si rivela un mito, nelle convinzione che: "Mentre il cristianesimo è rappresentato come una germinazione dell'"ebraismo", di fatto iniziò come sistema religioso autonomo e assoluto; solo in seguito si formulò la teoria delle sue origini assumendo e facendo proprie alcune componenti dell'eredità dell'antico Israele". Per noi la questione è ben diversa.

Non dobbiamo dimenticare che il giudaismo attuale è quello Talmudico, rabbinico, sviluppatosi parallelamente al cristianesimo dopo l'assemblea di Yavne e la distruzione di Gerusalemme. E' un giudaismo 'spurio', che condanna e maledice i notzrì (cioè i cristiani).

Il giudaismo 'puro' è diventato Cristianesimo, perché il Signore Gesù ha portato a compimento la Storia della Salvezza e introdotto la Creazione Nuova, in Lui... Quindi è il giudaismo che è confluito nel cristianesimo. Oggi, stiamo assistendo a tentativi sempre più pressanti di far confluire il cristianesimo nell'ebraismo, che si è riappropriato di Gesù come Rabbi e Profeta, ovviamente non come Figlio di Dio. Il che purtroppo avviene con la connivenza di molte componenti ecclesiali. [vedi] - [vedi anche]

Il rischio che corre seriamente una certa ala post-conciliare della Chiesa, presente nelle esternazioni di molti vescovi (Zollitsch, ad esempio), è quella di considerare - diciamo impropriamente per usare un eufemismo - la Croce di Cristo solo come un grande atto di amore e solidarietà e non ciò che Essa è e compie: un sublime atto di Amore, certamente; ma è un amore espiativo, oblativo, dono di sé fino alla fine, nel quale si fondono Giustizia e Misericordia insieme, da parte di Dio, e obbedienza e affidamento totali, da parte dell'uomo-Gesù per ogni uomo. In questo senso è il Kippur perenne, affermato da Koch e contestato da Di Segni; perché è il ripristino della Giustizia nel rovesciamento della disobbedienza originaria attraverso il duplice «Fiat», quello dell'Annunciazione ed il suo inscindibile rapporto col mistero del Getsemani, quando "il Sovrano della Storia ha detto il «Fiat» della sofferenza e dell'unione con l'esistenza di tutti gli uomini, per liberare ogni uomo, ogni volta unico, dalla morte e farlo entrare in un'altra realtà di vita eterna", come abbiamo letto nelle illuminate parole del card. Siri di cui al thread precedente.

E non si può ignorare che è proprio la Croce di Cristo la 'pietra di scandalo' sia per gli ebrei, che per i Riformati di ieri e di oggi e per i non credenti. Stat Crux dum volvitur orbis.

Vedi anche:
:: Maria Guarini, Visita di Benedetto XVI in Sinagoga: esternazioni e conseguenze
:: Mons. Brunero Gherardini - "Sugli ebrei, così serenamente"
:: G. Copertino - "Tra noi e loro la pietra angolare non il negazionismo"
:: F. Colafemmina - "Archivi e ipocrisie. L'antidefamation League e Pio XII"
:: Maria Guarini, Se non si esce dal sepolcro. Il Papa allo Yad Vashem
::
La preghiera per gli ebrei nella liturgia del Venerdì Santo

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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