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Benedetto XVI spiega i Padri e Dottori della Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 09/09/2009 13:59
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31/01/2009 09:49
 
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All'udienza generale Benedetto XVI conclude le catechesi sul vescovo d'Ippona
Agostino e le sue conversioni
modello per ogni essere umano


La vicenda interiore di sant'Agostino, "uno dei più grandi convertiti della storia cristiana", è stata al centro della catechesi di Benedetto XVI durante l'udienza generale di mercoledì 27 febbraio, svoltasi nella basilica Vaticana e nell'Aula Paolo VI. Il Papa ha concluso così le sue riflessioni dedicate al vescovo d'Ippona.

Cari fratelli e sorelle,

con l'incontro di oggi vorrei concludere la presentazione della figura di sant'Agostino. Dopo esserci soffermati sulla sua vita, sulle opere e su alcuni aspetti del suo pensiero, oggi vorrei tornare sulla sua vicenda interiore, che ne ha fatto uno dei più grandi convertiti della storia cristiana. A questa sua esperienza ho dedicato in particolare la mia riflessione durante il pellegrinaggio che ho compiuto a Pavia, l'anno scorso, per venerare le spoglie mortali di questo Padre della Chiesa. In tal modo ho voluto esprimere a lui l'omaggio di tutta la Chiesa cattolica, ma anche rendere visibile la mia personale devozione e riconoscenza nei confronti di una figura alla quale mi sento molto legato per la parte che ha avuto nella mia vita di teologo, di sacerdote e di pastore.

Ancora oggi è possibile ripercorrere la vicenda di sant'Agostino grazie soprattutto alle Confessiones, scritte a lode di Dio e che sono all'origine di una delle forme letterarie più specifiche dell'Occidente, l'autobiografia, cioè l'espressione personale della coscienza di sé. Ebbene, chiunque avvicini questo libro straordinario e affascinante, ancora oggi molto letto, si accorge facilmente come la conversione di Agostino non sia stata improvvisa né pienamente realizzata fin dall'inizio, ma possa essere definita piuttosto come un vero e proprio cammino, che resta un modello per ciascuno di noi. Questo itinerario culminò certamente con la conversione e poi con il battesimo, ma non si concluse in quella Veglia pasquale dell'anno 387, quando a Milano il retore africano venne battezzato dal Vescovo Ambrogio. Il cammino di conversione di Agostino infatti continuò umilmente sino alla fine della sua vita, tanto che si può veramente dire che le sue diverse tappe - se ne possono distinguere facilmente tre - siano un'unica grande conversione.

Sant'Agostino è stato un ricercatore appassionato della verità: lo è stato fin dall'inizio e poi per tutta la sua vita. La prima tappa del suo cammino di conversione si è realizzata proprio nel progressivo avvicinamento al cristianesimo. In realtà, egli aveva ricevuto dalla madre Monica, alla quale restò sempre legatissimo, un'educazione cristiana e, benché avesse vissuto durante gli anni giovanili una vita sregolata, sempre avvertì un'attrazione profonda per Cristo, avendo bevuto l'amore per il nome del Signore con il latte materno, come lui stesso sottolinea (cfr Confessiones, III, 4, 8). Ma anche la filosofia, soprattutto quella d'impronta platonica, aveva contribuito ad avvicinarlo ulteriormente a Cristo manifestandogli l'esistenza del Logos, la ragione creatrice. I libri dei filosofi gli indicavano che c'è la ragione, dalla quale viene poi tutto il mondo, ma non gli dicevano come raggiungere questo Logos, che sembrava così lontano. Soltanto la lettura dell'epistolario di san Paolo, nella fede della Chiesa cattolica, gli rivelò pienamente la verità. Questa esperienza fu sintetizzata da Agostino in una delle pagine più famose delle Confessiones: egli racconta che, nel tormento delle sue riflessioni, ritiratosi in un giardino, udì all'improvviso una voce infantile che ripeteva una cantilena, mai udita prima: tolle, lege, tolle, lege, "prendi, leggi, prendi, leggi" (VIII, 12, 29). Si ricordò allora della conversione di Antonio, padre del monachesimo, e con premura tornò al codice paolino che aveva poco prima tra le mani, lo aprì e lo sguardo gli cadde sul passo dell'epistola ai Romani dove l'Apostolo esorta ad abbandonare le opere della carne e a rivestirsi di Cristo (13, 13-14). Aveva capito che quella parola in quel momento era rivolta personalmente a lui, veniva da Dio tramite l'Apostolo e gli indicava cosa fare in quel momento. Così sentì dileguarsi le tenebre del dubbio e si ritrovò finalmente libero di donarsi interamente a Cristo: "Avevi convertito a te il mio essere", egli commenta (Confessiones, VIII, 12, 30). Fu questa la prima e decisiva conversione.

A questa tappa fondamentale del suo lungo cammino il retore africano arrivò grazie alla sua passione per l'uomo e per la verità, passione che lo portò a cercare Dio, grande e inaccessibile. La fede in Cristo gli fece capire che il Dio, apparentemente così lontano, in realtà non lo era. Egli, infatti, si era fatto vicino a noi, divenendo uno di noi. In questo senso la fede in Cristo portò a compimento la lunga ricerca di Agostino sul cammino della verità. Solo un Dio fattosi "toccabile", uno di noi, era finalmente un Dio che si poteva pregare, per il quale e con il quale si poteva vivere. È questa una via da percorrere con coraggio e nello stesso tempo con umiltà, nell'apertura a una purificazione permanente di cui ognuno di noi ha sempre bisogno. Ma con quella Veglia pasquale del 387, come abbiamo detto, il cammino di Agostino non era concluso. Tornato in Africa e fondato un piccolo monastero vi si ritirò con pochi amici per dedicarsi alla vita contemplativa e di studio. Questo era il sogno della sua vita. Adesso era chiamato a vivere totalmente per la verità, con la verità, nell'amicizia di Cristo che è la verità. Un bel sogno che durò tre anni, fino a quando egli non venne, suo malgrado, consacrato sacerdote a Ippona e destinato a servire i fedeli, continuando sì a vivere con Cristo e per Cristo, ma a servizio di tutti. Questo gli era molto difficile, ma capì fin dall'inizio che solo vivendo per gli altri, e non semplicemente per la sua privata contemplazione, poteva realmente vivere con Cristo e per Cristo.

Così, rinunciando a una vita solo di meditazione, Agostino imparò, spesso con difficoltà, a mettere a disposizione il frutto della sua intelligenza a vantaggio degli altri. Imparò a comunicare la sua fede alla gente semplice e a vivere così per essa in quella che divenne la sua città, svolgendo senza stancarsi un'attività generosa e gravosa che così descrive in uno dei suoi bellissimi sermoni: "Continuamente predicare, discutere, riprendere, edificare, essere a disposizione di tutti - è un ingente carico, un grande peso, un'immane fatica" (Serm. 339, 4). Ma questo peso egli prese su di sé, capendo che proprio così poteva essere più vicino a Cristo. Capire che si arriva agli altri con semplicità e umiltà, fu questa la sua vera e seconda conversione.

Ma c'è un'ultima tappa del cammino agostiniano, una terza conversione: quella che lo portò ogni giorno della sua vita a chiedere perdono a Dio. Inizialmente aveva pensato che una volta battezzato, nella vita di comunione con Cristo, nei Sacramenti, nella celebrazione dell'Eucaristia, sarebbe arrivato alla vita proposta nel Discorso della montagna: alla perfezione donata nel battesimo e riconfermata nell'Eucaristia. Nell'ultima parte della sua vita capì che quello che aveva detto nelle sue prime prediche sul Discorso della montagna - cioè che adesso noi da cristiani viviamo questo ideale permanentemente - era sbagliato. Solo Cristo stesso realizza veramente e completamente il Discorso della montagna. Noi abbiamo sempre bisogno di essere lavati da Cristo, che ci lava i piedi, e da Lui rinnovati. Abbiamo bisogno di una conversione permanente. Fino alla fine abbiamo bisogno di questa umiltà che riconosce che siamo peccatori in cammino, finché il Signore ci dà la mano definitivamente e ci introduce nella vita eterna. In questo ultimo atteggiamento di umiltà, vissuto giorno dopo giorno, Agostino è morto.

Questo atteggiamento di umiltà profonda davanti all'unico Signore Gesù lo introdusse all'esperienza di un'umiltà anche intellettuale. Agostino, infatti, che è una delle più grandi figure nella storia del pensiero, volle negli ultimi anni della sua vita sottoporre a un lucido esame critico tutte le sue numerosissime opere. Ebbero così origine le Retractationes ("revisioni"), che in questo modo inseriscono il suo pensiero teologico, davvero grande, nella fede umile e santa di quella che chiama semplicemente con il nome di Catholica, cioè della Chiesa. "Ho compreso - scrive appunto in questo originalissimo libro (I, 19, 1-3) - che uno solo è veramente perfetto e che le parole del Discorso della montagna sono totalmente realizzate in uno solo: in Gesù Cristo stesso. Tutta la Chiesa invece - tutti noi, inclusi gli apostoli - dobbiamo pregare ogni giorno: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori".

Convertito a Cristo, che è verità e amore, Agostino lo ha seguito per tutta la vita ed è diventato un modello per ogni essere umano, per noi tutti in cerca di Dio. Per questo ho voluto concludere il mio pellegrinaggio a Pavia riconsegnando idealmente alla Chiesa e al mondo, davanti alla tomba di questo grande innamorato di Dio, la mia prima enciclica, intitolata Deus caritas est. Questa infatti molto deve, soprattutto nella sua prima parte, al pensiero di sant'Agostino. Anche oggi, come al suo tempo, l'umanità ha bisogno di conoscere e soprattutto di vivere questa realtà fondamentale: Dio è amore e l'incontro con lui è la sola risposta alle inquietudini del cuore umano. Un cuore che è abitato dalla speranza, forse ancora oscura e inconsapevole in molti nostri contemporanei, ma che per noi cristiani apre già oggi al futuro, tanto che san Paolo ha scritto che "nella speranza siamo stati salvati" (Rm, 8, 24). Alla speranza ho voluto dedicare la mia seconda enciclica, Spe salvi, e anch'essa è largamente debitrice nei confronti di Agostino e del suo incontro con Dio.

In un bellissimo testo sant'Agostino definisce la preghiera come espressione del desiderio e afferma che Dio risponde allargando verso di Lui il nostro cuore. Da parte nostra dobbiamo purificare i nostri desideri e le nostre speranze per accogliere la dolcezza di Dio (cfr In I Ioannis, 4, 6). Questa sola, infatti, aprendoci anche agli altri, ci salva. Preghiamo dunque che nella nostra vita ci sia ogni giorno concesso di seguire l'esempio di questo grande convertito, incontrando come lui in ogni momento della nostra vita il Signore Gesù, l'unico che ci salva, ci purifica e ci dà la vera gioia, la vera vita.

(©L'Osservatore Romano - 28 febbraio 2008)
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"Se sarete ciò che dovrete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (S.Caterina da Siena)


Udienza Mercoledì 5.3.2008




CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA


Cari fratelli e sorelle,

proseguendo il nostro cammino tra i Padri della Chiesa, veri astri che brillano da lontano, nel nostro incontro di oggi ci accostiamo alla figura di un Papa, che nel 1754 fu proclamato da Benedetto XIV Dottore della Chiesa: si tratta di san Leone Magno. Come indica l’appellativo presto attribuitogli dalla tradizione, egli fu davvero uno dei più grandi Pontefici che abbiano onorato la Sede romana, contribuendo moltissimo a rafforzarne l’autorità e il prestigio.

Primo Vescovo di Roma a portare il nome di Leone, adottato in seguito da altri dodici Sommi Pontefici, è anche il primo Papa di cui ci sia giunta la predicazione, da lui rivolta al popolo che gli si stringeva attorno durante le celebrazioni. E’ spontaneo pensare a lui anche nel contesto delle attuali udienze generali del mercoledì, appuntamenti che negli ultimi decenni sono divenuti per il Vescovo di Roma una forma consueta di incontro con i fedeli e con tanti visitatori provenienti da ogni parte del mondo.

Leone era originario della Tuscia. Divenne diacono della Chiesa di Roma intorno all’anno 430, e col tempo acquistò in essa una posizione di grande rilievo. Questo ruolo di spicco indusse nel 440 Galla Placidia, che in quel momento reggeva l’Impero d’Occidente, a inviarlo in Gallia per sanare una difficile situazione. Ma nell’estate di quell’anno il Papa Sisto III – il cui nome è legato ai magnifici mosaici di Santa Maria Maggiore – morì, e a succedergli fu eletto proprio Leone, che ne ricevette la notizia mentre stava appunto svolgendo la sua missione di pace in Gallia. Rientrato a Roma, il nuovo Papa fu consacrato il 29 settembre del 440. Iniziava così il suo pontificato, che durò oltre ventun anni, e che è stato senza dubbio uno dei più importanti nella storia della Chiesa. Alla sua morte, il 10 novembre del 461, il Papa fu sepolto presso la tomba di san Pietro. Le sue reliquie sono custodite anche oggi in uno degli altari della Basilica vaticana.

Quelli in cui visse Papa Leone erano tempi molto difficili: il ripetersi delle invasioni barbariche, il progressivo indebolirsi in Occidente dell’autorità imperiale e una lunga crisi sociale avevano imposto al Vescovo di Roma – come sarebbe accaduto con evidenza ancora maggiore un secolo e mezzo più tardi, durante il pontificato di Gregorio Magno – di assumere un ruolo rilevante anche nelle vicende civili e politiche. Ciò non mancò, ovviamente, di accrescere l’importanza e il prestigio della Sede romana.

Celebre è rimasto soprattutto un episodio della vita di Leone. Esso risale al 452, quando il Papa a Mantova, insieme a una delegazione romana, incontrò Attila, capo degli Unni, e lo dissuase dal proseguire la guerra d’invasione con la quale già aveva devastato le regioni nordorientali dell’Italia. E così salvò il resto della Penisola. Questo importante avvenimento divenne presto memorabile, e rimane come un segno emblematico dell’azione di pace svolta dal Pontefice.

Non altrettanto positivo fu purtroppo, tre anni dopo, l’esito di un’altra iniziativa papale, segno comunque di un coraggio che ancora ci stupisce: nella primavera del 455 Leone non riuscì infatti a impedire che i Vandali di Genserico, giunti alle porte di Roma, invadessero la città indifesa, che fu saccheggiata per due settimane. Tuttavia il gesto del Papa – che, inerme e circondato dal suo clero, andò incontro all’invasore per scongiurarlo di fermarsi – impedì almeno che Roma fosse incendiata e ottenne che dal terribile sacco fossero risparmiate le Basiliche di San Pietro, di San Paolo e di San Giovanni, nelle quali si rifugiò parte della popolazione terrorizzata.

Conosciamo bene l’azione di Papa Leone, grazie ai suoi bellissimi sermoni – ne sono conservati quasi cento in uno splendido e chiaro latino – e grazie alle sue lettere, circa centocinquanta. In questi testi il Pontefice appare in tutta la sua grandezza, rivolto al servizio della verità nella carità, attraverso un esercizio assiduo della parola, che lo mostra nello stesso tempo teologo e pastore. Leone Magno, costantemente sollecito dei suoi fedeli e del popolo di Roma, ma anche della comunione tra le diverse Chiese e delle loro necessità, fu sostenitore e promotore instancabile del primato romano, proponendosi come autentico erede dell’apostolo Pietro: di questo si mostrarono ben consapevoli i numerosi Vescovi, in gran parte orientali, riuniti nel Concilio di Calcedonia.

Tenutosi nell’anno 451, con i trecentocinquanta Vescovi che vi parteciparono, questo Concilio fu la più importante assemblea fino ad allora celebrata nella storia della Chiesa. Calcedonia rappresenta il traguardo sicuro della cristologia dei tre Concili ecumenici precedenti: quello di Nicea del 325, quello di Costantinopoli del 381 e quello di Efeso del 431. Già nel VI secolo questi quattro Concili, che riassumono la fede della Chiesa antica, vennero infatti paragonati ai quattro Vangeli: è quanto afferma Gregorio Magno in una famosa lettera (I,24), in cui dichiara "di accogliere e venerare, come i quattro libri del santo Vangelo, i quattro Concili", perché su di essi - spiega ancora Gregorio - "come su una pietra quadrata si leva la struttura della santa fede". Il Concilio di Calcedonia – nel respingere l’eresia di Eutiche, che negava la vera natura umana del Figlio di Dio – affermò l’unione nella sua unica Persona, senza confusione e senza separazione, delle due nature umana e divina.

Questa fede in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo veniva affermata dal Papa in un importante testo dottrinale indirizzato al Vescovo di Costantinopoli, il cosiddetto Tomo a Flaviano, che, letto a Calcedonia, fu accolto dai Vescovi presenti con un’eloquente acclamazione, della quale è conservata notizia negli atti del Concilio: "Pietro ha parlato per bocca di Leone", proruppero a una voce sola i Padri conciliari. Soprattutto da questo intervento, e da altri compiuti durante la controversia cristologica di quegli anni, risulta con evidenza come il Papa avvertisse con particolare urgenza le responsabilità del Successore di Pietro, il cui ruolo è unico nella Chiesa, perché "a un solo apostolo è affidato ciò che a tutti gli apostoli è comunicato", come afferma Leone in uno dei suoi sermoni per la festa dei santi Pietro e Paolo (83,2).

E queste responsabilità il Pontefice seppe esercitare, in Occidente come in Oriente, intervenendo in diverse circostanze con prudenza, fermezza e lucidità attraverso i suoi scritti e mediante i suoi legati. Mostrava in questo modo come l’esercizio del primato romano fosse necessario allora, come lo è oggi, per servire efficacemente la comunione, caratteristica dell’unica Chiesa di Cristo.

Consapevole del momento storico in cui viveva e del passaggio che stava avvenendo – in un periodo di profonda crisi – dalla Roma pagana a quella cristiana, Leone Magno seppe essere vicino al popolo e ai fedeli con l’azione pastorale e la predicazione. Animò la carità in una Roma provata dalle carestie, dall’afflusso dei profughi, dalle ingiustizie e dalla povertà. Contrastò le superstizioni pagane e l’azione dei gruppi manichei.

Legò la liturgia alla vita quotidiana dei cristiani: per esempio, unendo la pratica del digiuno alla carità e all’elemosina soprattutto in occasione delle Quattro tempora, che segnano nel corso dell’anno il cambiamento delle stagioni. In particolare Leone Magno insegnò ai suoi fedeli – e ancora oggi le sue parole valgono per noi – che la liturgia cristiana non è il ricordo di avvenimenti passati, ma l’attualizzazione di realtà invisibili che agiscono nella vita di ognuno. E’ quanto egli sottolinea in un sermone (64,1-2) a proposito della Pasqua, da celebrare in ogni tempo dell’anno "non tanto come qualcosa di passato, quanto piuttosto come un evento del presente". Tutto questo rientra in un progetto preciso, insiste il santo Pontefice: come infatti il Creatore ha animato con il soffio della vita razionale l’uomo plasmato dal fango della terra, così, dopo il peccato d’origine, ha inviato il suo Figlio nel mondo per restituire all’uomo la dignità perduta e distruggere il dominio del diavolo mediante la vita nuova della grazia.

(il Papa ha concluso a braccio)

È questo il mistero cristologico al quale san Leone Magno, con la sua lettera al Concilio di Efeso, ha dato un contributo efficace ed essenziale, confermando per tutti i tempi — tramite tale Concilio — quanto disse san Pietro a Cesarea di Filippo. Con Pietro e come Pietro confessò: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E perciò Dio e Uomo insieme, "non estraneo al genere umano, ma alieno dal peccato" (cfr Serm. 64). Nella forza di questa fede cristologica egli fu un grande portatore di pace e di amore. Ci mostra così la via: nella fede impariamo la carità. Impariamo quindi con san Leone Magno a credere in Cristo, vero Dio e vero Uomo, e a realizzare questa fede ogni giorno nell'azione per la pace e nell'amore per il prossimo.


[00345-01.01] [Testo originale: Italiano]




www.vatican.va
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"Se sarete ciò che dovrete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (S.Caterina da Siena)


12 marzo 2008


L'udienza generale del Papa dedicata a Boezio e Cassiodoro
Trasmettere i grandi valori
attraverso l'incontro delle culture


L'esigenza di riconciliare le culture per insegnare alle nuove generazioni i grandi valori della fede e della convivenza umana è stata sottolineata dal Papa all'udienza generale di mercoledì 12 marzo, svoltasi nella Basilica Vaticana e nell'Aula Paolo VI. Benedetto XVI ha riproposto gli insegnamenti dei due scrittori ecclesiastici Boezio e Cassiodoro.

Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei parlare di due scrittori ecclesiastici, Boezio e Cassiodoro, che vissero in anni tra i più tribolati dell'Occidente cristiano e, in particolare, della penisola italiana. Odoacre, re degli Eruli, un'etnia germanica, si era ribellato, ponendo termine all'impero romano d'Occidente (a. 476), ma aveva poi ben presto dovuto soccombere agli Ostrogoti di Teodorico, che per alcuni decenni si assicurarono il controllo della penisola italiana. Boezio, nato a Roma nel 480 circa dalla nobile stirpe degli Anicii, entrò ancor giovane nella vita pubblica, raggiungendo già a venticinque anni la carica di senatore. Fedele alla tradizione della sua famiglia, si impegnò in politica convinto che si potessero temperare insieme le linee portanti della società romana con i valori dei popoli nuovi.

E in questo nuovo tempo dell'incontro delle culture considerò come sua propria missione quella di riconciliare e di mettere insieme queste due culture, la classica romana con la nascente del popolo ostrogoto. Fu così attivo in politica anche sotto Teodorico, che nei primi tempi lo stimava molto. Nonostante questa attività pubblica, Boezio non trascurò gli studi, dedicandosi in particolare all'approfondimento di temi di ordine filosofico-religioso. Ma scrisse anche manuali di aritmetica, di geometria, di musica, di astronomia: tutto con l'intenzione di trasmettere alle nuove generazioni, ai nuovi tempi, la grande cultura greco-romana.

In questo ambito, cioè nell'impegno di promuovere l'incontro delle culture, utilizzò le categorie della filosofia greca per proporre la fede cristiana, anche qui in ricerca di una sintesi fra il patrimonio ellenistico-romano e il messaggio evangelico. Proprio per questo, Boezio è stato qualificato come l'ultimo rappresentante della cultura romana antica e il primo degli intellettuali medievali.
La sua opera certamente più nota è il De consolatione philosophiae, che egli compose in carcere per dare un senso alla sua ingiusta detenzione. Era stato infatti accusato di complotto contro il re Teodorico per aver assunto la difesa in giudizio di un amico, il senatore Albino. Ma questo era un pretesto: in realtà Teodorico, ariano e barbaro, sospettava che Boezio avesse simpatie per l'imperatore bizantino Giustiniano.

Di fatto, processato e condannato a morte, fu giustiziato il 23 ottobre del 524, a soli 44 anni. Proprio per questa sua drammatica fine, egli può parlare dall'interno della propria esperienza anche all'uomo contemporaneo e soprattutto alle tantissime persone che subiscono la sua stessa sorte a causa dell'ingiustizia presente in tanta parte della "giustizia umana". In quest'opera, nel carcere cerca la consolazione, cerca la luce, cerca la saggezza.

E dice di aver saputo distinguere, proprio in questa situazione, tra i beni apparenti - nel carcere essi scompaiono - e i beni veri, come l'autentica amicizia che anche nel carcere non scompaiono. Il bene più alto è Dio: Boezio imparò - e lo insegna a noi - a non cadere nel fatalismo, che spegne la speranza. Egli ci insegna che non governa il fato, governa la Provvidenza ed essa ha un volto. Con la Provvidenza si può parlare, perché la Provvidenza è Dio. Così, anche nel carcere gli rimane la possibilità della preghiera, del dialogo con Colui che ci salva. Nello stesso tempo, anche in questa situazione egli conserva il senso della bellezza della cultura e richiama l'insegnamento dei grandi filosofi antichi greci e romani come Platone, Aristotile - aveva cominciato a tradurre questi greci in latino - Cicerone, Seneca, ed anche poeti come Tibullo e Virgilio.

La filosofia, nel senso della ricerca della vera saggezza, è secondo Boezio la vera medicina dell'anima (lib. I). D'altra parte, l'uomo può sperimentare l'autentica felicità unicamente nella propria interiorità (lib. II). Per questo, Boezio riesce a trovare un senso nel pensare alla propria tragedia personale alla luce di un testo sapienziale dell'Antico Testamento (Sap 7, 30-8, 1) che egli cita: "Contro la sapienza la malvagità non può prevalere. Essa si estende da un confine all'altro con forza e governa con bontà eccellente ogni cosa" (Lib. III, 12: PL 63, col. 780). La cosiddetta prosperità dei malvagi, pertanto, si rivela menzognera (lib. IV), e si evidenzia la natura provvidenziale dell'adversa fortuna. Le difficoltà della vita non soltanto rivelano quanto quest'ultima sia effimera e di breve durata, ma si dimostrano perfino utili per individuare e mantenere gli autentici rapporti fra gli uomini. L'adversa fortuna permette infatti di discernere i falsi amici dai veri e fa capire che nulla è più prezioso per l'uomo di un'amicizia vera. Accettare fatalisticamente una condizione di sofferenza è assolutamente pericoloso, aggiunge il credente Boezio, perché "elimina alla radice la possibilità stessa della preghiera e della speranza teologale che stanno alla base del rapporto dell'uomo con Dio" (Lib. V, 3: PL 63, col. 842).

La perorazione finale del De consolatione philosophiae può essere considerata una sintesi dell'intero insegnamento che Boezio rivolge a se stesso e a tutti coloro che si dovessero trovare nelle sue stesse condizioni. Scrive così in carcere: "Combattete dunque i vizi, dedicatevi ad una vita virtuosa orientata dalla speranza che spinge in alto il cuore fino a raggiungere il cielo con le preghiere nutrite di umiltà. L'imposizione che avete subìto può tramutarsi, qualora rifiutiate di mentire, nell'enorme vantaggio di avere sempre davanti agli occhi il giudice supremo che vede e sa come stanno veramente le cose" (Lib. V, 6: PL 63, col. 862). Ogni detenuto, per qualunque motivo sia finito in carcere, intuisce quanto sia pesante questa particolare condizione umana, soprattutto quando essa è abbrutita, come accadde a Boezio, dal ricorso alla tortura.

Particolarmente assurda è poi la condizione di chi, ancora come Boezio che la città di Pavia riconosce e celebra nella liturgia come martire della fede, viene torturato a morte senza alcun altro motivo che non sia quello delle proprie convinzioni ideali, politiche e religiose. Boezio, simbolo di un numero immenso di detenuti ingiustamente di tutti i tempi e di tutte le latitudini, è di fatto oggettiva porta di ingresso alla contemplazione del misterioso Crocifisso del Golgota.

Contemporaneo di Boezio fu Marco Aurelio Cassiodoro, un calabrese nato a Squillace verso il 485, che morì pieno di giorni, a Vivarium intorno al 580. Anch'egli, uomo di alto livello sociale, si dedicò alla vita politica e all'impegno culturale come pochi altri nell'occidente romano del suo tempo. Forse gli unici che gli potevano stare alla pari in questo suo duplice interesse furono il già ricordato Boezio, e il futuro Papa di Roma, Gregorio Magno (590-604). Consapevole della necessità di non lasciare svanire nella dimenticanza tutto il patrimonio umano e umanistico, accumulato nei secoli d'oro dell'Impero Romano, Cassiodoro collaborò generosamente, e ai livelli più alti della responsabilità politica, con i popoli nuovi che avevano attraversato i confini dell'Impero e si erano stanziati in Italia. Anche lui fu modello di incontro culturale, di dialogo, di riconciliazione. Le vicende storiche non gli permisero di realizzare i suoi sogni politici e culturali, che miravano a creare una sintesi fra la tradizione romano-cristiana dell'Italia e la nuova cultura gotica. Quelle stesse vicende lo convinsero però della provvidenzialità del movimento monastico, che si andava affermando nelle terre cristiane. Decise di appoggiarlo dedicando ad esso tutte le sue ricchezze materiali e le sue forze spirituali.

Concepì l'idea di affidare proprio ai monaci il compito di recuperare, conservare e trasmettere ai posteri l'immenso patrimonio culturale degli antichi, perché non andasse perduto. Per questo fondò Vivarium, un cenobio in cui tutto era organizzato in modo tale che fosse stimato come preziosissimo e irrinunciabile il lavoro intellettuale dei monaci. Egli dispose che anche quei monaci che non avevano una formazione intellettuale non dovevano occuparsi solo del lavoro materiale, dell'agricoltura, ma anche trascrivere manoscritti e così aiutare nel trasmettere la grande cultura alle future generazioni. E questo senza nessuno scapito per l'impegno spirituale monastico e cristiano e per l'attività caritativa verso i poveri. Nel suo insegnamento, distribuito in varie opere, ma soprattutto nel trattato De anima e nelle Institutiones divinarum litterarum, la preghiera (cfr PL 69, col. 1108), nutrita dalla Sacra Scrittura e particolarmente dalla frequentazione assidua dei Salmi (cfr PL 69, col. 1149), ha sempre una posizione centrale quale nutrimento necessario per tutti.

Ecco, ad esempio, come questo dottissimo calabrese introduce la sua Expositio in Psalterium: "Respinte e abbandonate a Ravenna le sollecitazioni della carriera politica segnata dal sapore disgustoso delle preoccupazioni mondane, avendo goduto del Salterio, libro venuto dal cielo come autentico miele dell'anima, mi tuffai avido come un assetato a scrutarlo senza posa per lasciarmi permeare tutto di quella dolcezza salutare dopo averne avuto abbastanza delle innumerevoli amarezze della vita attiva" (PL 70, col. 10).

La ricerca di Dio, tesa alla sua contemplazione - annota Cassiodoro -, resta lo scopo permanente della vita monastica (cfr PL 69, col. 1107). Egli aggiunge però che, con l'aiuto della grazia divina (cfr PL 69, col. 1131.1142), una migliore fruizione della Parola rivelata si può raggiungere con l'utilizzazione delle conquiste scientifiche e degli strumenti culturali "profani" già posseduti dai Greci e dai Romani (cfr PL 69, col. 1140). Personalmente, Cassiodoro si dedicò a studi filosofici, teologici ed esegetici senza particolare creatività, ma attento alle intuizioni che riconosceva valide negli altri. Leggeva con rispetto e devozione soprattutto Girolamo ed Agostino.

Di quest'ultimo diceva: "In Agostino c'è talmente tanta ricchezza che mi sembra impossibile trovare qualcosa che non sia già stato abbondantemente trattato da lui" (cfr PL 70, col. 10). Citando Girolamo invece esortava i monaci di Vivarium: "Conseguono la palma della vittoria non soltanto coloro che lottano fino all'effusione del sangue o che vivono nella verginità, ma anche tutti coloro che, con l'aiuto di Dio, vincono i vizi del corpo e conservano la retta fede. Ma perché possiate, sempre con l'aiuto di Dio, vincere più facilmente le sollecitazioni del mondo e i suoi allettamenti, restando in esso come pellegrini continuamente in cammino, cercate anzitutto di garantirvi l'aiuto salutare suggerito dal primo salmo che raccomanda di meditare notte e giorno la legge del Signore. Il nemico non troverà infatti alcun varco per assalirvi se tutta la vostra attenzione sarà occupata da Cristo" (De Institutione Divinarum Scripturarum, 32: PL 69, col. 1147).

È un ammonimento che possiamo accogliere come valido anche per noi. Viviamo infatti anche noi in un tempo di incontro delle culture, di pericolo della violenza che distrugge le culture, e del necessario impegno di trasmettere i grandi valori e di insegnare alle nuove generazioni la via della riconciliazione e della pace. Questa via troviamo orientandoci verso il Dio con il volto umano, il Dio rivelatosi a noi in Cristo.

(©L'Osservatore Romano - 13 marzo 2008)
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Vogliamo essere veramente segno di contraddizione?

“Altro non vi dico (…) Non vorrei più parole, ma trovarmi nel campo della battaglia, sostenendo le pene, e combattendo con voi insieme per la verità infino alla morte, per gloria e lode del nome di Dio, e reformazione della Santa Chiesa…”
(Santa Caterina da Siena, Lettera 305 al Papa Urbano VI ove lottò fino alla morte per difendere l’autorità del Pontefice)


Udienza generale di mercoledì 9.4.2008


Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi parlare di san Benedetto, Fondatore del monachesimo occidentale, e anche Patrono del mio pontificato.

Comincio con una parola di san Gregorio Magno, che scrive di san Benedetto: "L’uomo di Dio che brillò su questa terra con tanti miracoli non rifulse meno per l’eloquenza con cui seppe esporre la sua dottrina" (Dial. II, 36). Queste parole il grande Papa scrisse nell’anno 592; il santo monaco era morto appena 50 anni prima ed era ancora vivo nella memoria della gente e soprattutto nel fiorente Ordine religioso da lui fondato. San Benedetto da Norcia con la sua vita e la sua opera ha esercitato un influsso fondamentale sullo sviluppo della civiltà e della cultura europea. La fonte più importante sulla vita di lui è il secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno. Non è una biografia nel senso classico.

Secondo le idee del suo tempo, egli vuole illustrare mediante l’esempio di un uomo concreto – appunto di san Benedetto – l’ascesa alle vette della contemplazione, che può essere realizzata da chi si abbandona a Dio. Quindi ci dà un modello della vita umana come ascesa verso il vertice della perfezione. San Gregorio Magno racconta anche, in questo libro dei Dialoghi, di molti miracoli compiuti dal Santo, ed anche qui non vuole semplicemente raccontare qualche cosa di strano, ma dimostrare come Dio, ammonendo, aiutando e anche punendo, intervenga nelle concrete situazioni della vita dell’uomo. Vuole mostrare che Dio non è un’ipotesi lontana posta all’origine del mondo, ma è presente nella vita dell’uomo, di ogni uomo.

Questa prospettiva del "biografo" si spiega anche alla luce del contesto generale del suo tempo: a cavallo tra il V e il VI secolo il mondo era sconvolto da una tremenda crisi di valori e di istituzioni, causata dal crollo dell’Impero Romano, dall’invasione dei nuovi popoli e dalla decadenza dei costumi. Con la presentazione di san Benedetto come "astro luminoso", Gregorio voleva indicare in questa situazione tremenda, proprio qui in questa città di Roma, la via d’uscita dalla "notte oscura della storia" (cfr Giovanni Paolo II, Insegnamenti, II/1, 1979, p. 1158). Di fatto, l’opera del Santo e, in modo particolare, la sua Regola si rivelarono apportatrici di un autentico fermento spirituale, che mutò nel corso dei secoli, ben al di là dei confini della sua Patria e del suo tempo, il volto dell’Europa, suscitando dopo la caduta dell’unità politica creata dall’impero romano una nuova unità spirituale e culturale, quella della fede cristiana condivisa dai popoli del continente. E’ nata proprio così la realtà che noi chiamiamo "Europa".

La nascita di san Benedetto viene datata intorno all’anno 480. Proveniva, così dice san Gregorio, "ex provincia Nursiae" – dalla regione della Nursia. I suoi genitori benestanti lo mandarono per la sua formazione negli studi a Roma. Egli però non si fermò a lungo nella Città eterna. Come spiegazione pienamente credibile, Gregorio accenna al fatto che il giovane Benedetto era disgustato dallo stile di vita di molti suoi compagni di studi, che vivevano in modo dissoluto, e non voleva cadere negli stessi loro sbagli. Voleva piacere a Dio solo; "soli Deo placere desiderans" (II Dial., Prol 1). Così, ancora prima della conclusione dei suoi studi, Benedetto lasciò Roma e si ritirò nella solitudine dei monti ad est di Roma. Dopo un primo soggiorno nel villaggio di Effide (oggi: Affile), dove per un certo periodo si associò ad una "comunità religiosa" di monaci, si fece eremita nella non lontana Subiaco.

Lì visse per tre anni completamente solo in una grotta che, a partire dall’Alto Medioevo, costituisce il "cuore" di un monastero benedettino chiamato "Sacro Speco". Il periodo in Subiaco, un periodo di solitudine con Dio, fu per Benedetto un tempo di maturazione. Qui doveva sopportare e superare le tre tentazioni fondamentali di ogni essere umano: la tentazione dell’autoaffermazione e del desiderio di porre se stesso al centro, la tentazione della sensualità e, infine, la tentazione dell’ira e della vendetta. Era infatti convinzione di Benedetto che, solo dopo aver vinto queste tentazioni, egli avrebbe potuto dire agli altri una parola utile per le loro situazioni di bisogno. E così, riappacificata la sua anima, era in grado di controllare pienamente le pulsioni dell’io, per essere così un creatore di pace intorno a sé. Solo allora decise di fondare i primi suoi monasteri nella valle dell’Anio, vicino a Subiaco.

Nell’anno 529 Benedetto lasciò Subiaco per stabilirsi a Montecassino. Alcuni hanno spiegato questo trasferimento come una fuga davanti agli intrighi di un invidioso ecclesiastico locale. Ma questo tentativo di spiegazione si è rivelato poco convincente, giacché la morte improvvisa di lui non indusse Benedetto a ritornare (II Dial. 8). In realtà, questa decisione gli si impose perché era entrato in una nuova fase della sua maturazione interiore e della sua esperienza monastica. Secondo Gregorio Magno, l’esodo dalla remota valle dell’Anio verso il Monte Cassio – un’altura che, dominando la vasta pianura circostante, è visibile da lontano – riveste un carattere simbolico: la vita monastica nel nascondimento ha una sua ragion d’essere, ma un monastero ha anche una sua finalità pubblica nella vita della Chiesa e della società, deve dare visibilità alla fede come forza di vita. Di fatto, quando, il 21 marzo 547, Benedetto concluse la sua vita terrena, lasciò con la sua Regola e con la famiglia benedettina da lui fondata un patrimonio che ha portato nei secoli trascorsi e porta tuttora frutto in tutto il mondo.

Nell’intero secondo libro dei Dialoghi Gregorio ci illustra come la vita di san Benedetto fosse immersa in un’atmosfera di preghiera, fondamento portante della sua esistenza. Senza preghiera non c’è esperienza di Dio. Ma la spiritualità di Benedetto non era un’interiorità fuori dalla realtà. Nell’inquietudine e nella confusione del suo tempo, egli viveva sotto lo sguardo di Dio e proprio così non perse mai di vista i doveri della vita quotidiana e l’uomo con i suoi bisogni concreti. Vedendo Dio capì la realtà dell’uomo e la sua missione.

Nella sua Regola egli qualifica la vita monastica "una scuola del servizio del Signore" (Prol. 45) e chiede ai suoi monaci che "all’Opera di Dio [cioè all’Ufficio Divino o alla Liturgia delle Ore] non si anteponga nulla" (43,3). Sottolinea, però, che la preghiera è in primo luogo un atto di ascolto (Prol. 9-11), che deve poi tradursi nell’azione concreta. "Il Signore attende che noi rispondiamo ogni giorno coi fatti ai suoi santi insegnamenti", egli afferma (Prol. 35). Così la vita del monaco diventa una simbiosi feconda tra azione e contemplazione "affinché in tutto venga glorificato Dio" (57,9).

In contrasto con una autorealizzazione facile ed egocentrica, oggi spesso esaltata, l’impegno primo ed irrinunciabile del discepolo di san Benedetto è la sincera ricerca di Dio (58,7) sulla via tracciata dal Cristo umile ed obbediente (5,13), all’amore del quale egli non deve anteporre alcunché (4,21; 72,11) e proprio così, nel servizio dell’altro, diventa uomo del servizio e della pace. Nell’esercizio dell’obbedienza posta in atto con una fede animata dall’amore (5,2), il monaco conquista l’umiltà (5,1), alla quale la Regola dedica un intero capitolo (7). In questo modo l’uomo diventa sempre più conforme a Cristo e raggiunge la vera autorealizzazione come creatura ad immagine e somiglianza di Dio.

All’obbedienza del discepolo deve corrispondere la saggezza dell’Abate, che nel monastero tiene "le veci di Cristo" (2,2; 63,13). La sua figura, delineata soprattutto nel secondo capitolo della Regola, con un profilo di spirituale bellezza e di esigente impegno, può essere considerata come un autoritratto di Benedetto, poiché – come scrive Gregorio Magno – "il Santo non poté in alcun modo insegnare diversamente da come visse" (Dial. II, 36). L’Abate deve essere insieme un tenero padre e anche un severo maestro (2,24), un vero educatore. Inflessibile contro i vizi, è però chiamato soprattutto ad imitare la tenerezza del Buon Pastore (27,8), ad "aiutare piuttosto che a dominare" (64,8), ad "accentuare più con i fatti che con le parole tutto ciò che è buono e santo" e ad "illustrare i divini comandamenti col suo esempio" (2,12).

Per essere in grado di decidere responsabilmente, anche l’Abate deve essere uno che ascolta "il consiglio dei fratelli" (3,2), perché "spesso Dio rivela al più giovane la soluzione migliore" (3,3). Questa disposizione rende sorprendentemente moderna una Regola scritta quasi quindici secoli fa! Un uomo di responsabilità pubblica, e anche in piccoli ambiti, deve sempre essere anche un uomo che sa ascoltare e sa imparare da quanto ascolta.
Benedetto qualifica la Regola come "minima, tracciata solo per l’inizio" (73,8); in realtà però essa offre indicazioni utili non solo ai monaci, ma anche a tutti coloro che cercano una guida nel loro cammino verso Dio.

Per la sua misura, la sua umanità e il suo sobrio discernimento tra l’essenziale e il secondario nella vita spirituale, essa ha potuto mantenere la sua forza illuminante fino ad oggi. Paolo VI, proclamando nel 24 ottobre 1964 san Benedetto Patrono d’Europa, intese riconoscere l’opera meravigliosa svolta dal Santo mediante la Regola per la formazione della civiltà e della cultura europea. Oggi l’Europa – uscita appena da un secolo profondamente ferito da due guerre mondiali e dopo il crollo delle grandi ideologie rivelatesi come tragiche utopie – è alla ricerca della propria identità. Per creare un’unità nuova e duratura, sono certo importanti gli strumenti politici, economici e giuridici, ma occorre anche suscitare un rinnovamento etico e spirituale che attinga alle radici cristiane del Continente, altrimenti non si può ricostruire l’Europa.

Senza questa linfa vitale, l’uomo resta esposto al pericolo di soccombere all’antica tentazione di volersi redimere da sé – utopia che, in modi diversi, nell’Europa del Novecento ha causato, come ha rilevato il Papa Giovanni Paolo II, "un regresso senza precedenti nella tormentata storia

dell’umanità" (Insegnamenti, XIII/1, 1990, p. 58). Cercando il vero progresso, ascoltiamo anche oggi la Regola di san Benedetto come una luce per il nostro cammino. Il grande monaco rimane un vero maestro alla cui scuola possiamo imparare l’arte di vivere l’umanesimo vero.


[00531-01.01] [Testo originale: Italiano]


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Vogliamo essere veramente segno di contraddizione?

“Altro non vi dico (…) Non vorrei più parole, ma trovarmi nel campo della battaglia, sostenendo le pene, e combattendo con voi insieme per la verità infino alla morte, per gloria e lode del nome di Dio, e reformazione della Santa Chiesa…”
(Santa Caterina da Siena, Lettera 305 al Papa Urbano VI ove lottò fino alla morte per difendere l’autorità del Pontefice)

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Nel discorso in lingua italiana il Papa, riprendendo il ciclo di catechesi sui Padri della Chiesa, si è soffermato sulla figura dello Pseudo-Dionigi Aeropagita.


Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti. Quindi ha pronunciato un appello in favore delle popolazioni del Sichuan, in Cina, colpite da un devastante terremoto.
L’Udienza Generale si è conclusa con la recita del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.



CATECHESI DEL SANTO PADRE 14.5.2008


Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei, nel corso delle catechesi sui Padri della Chiesa, parlare di una figura assai misteriosa: un teologo del sesto secolo, il cui nome è sconosciuto, che ha scritto sotto lo pseudonimo di Dionigi Areopagita. Con questo pseudonimo egli alludeva al passo della Scrittura che abbiamo adesso ascoltato, cioè alla vicenda raccontata da San Luca nel XVII capitolo degli Atti degli Apostoli, dove viene riferito che Paolo predicò in Atene sull'Areopago, per una élite del grande mondo intellettuale greco, ma alla fine la maggior parte degli ascoltatori si dimostrò disinteressata, e si allontanò deridendolo; tuttavia alcuni, pochi ci dice San Luca, si avvicinarono a Paolo aprendosi alla fede.

L’evangelista ci dona due nomi: Dionigi, membro dell'Areopago, e una certa donna, Damaris.

Se l'autore di questi libri ha scelto cinque secoli dopo lo pseudonimo di Dionigi Areopagita vuol dire che sua intenzione era di mettere la saggezza greca al servizio del Vangelo, aiutare l'incontro tra la cultura e l'intelligenza greca e l'annuncio di Cristo; voleva fare quanto intendeva questo Dionigi, che cioè il pensiero greco si incontrasse con l'annuncio di San Paolo; essendo greco, farsi discepolo di San Paolo e così discepolo di Cristo.

Perché egli nascose il suo nome e scelse questo pseudonimo? Una parte di risposta è già stata detta: voleva proprio esprimere questa intenzione fondamentale del suo pensiero. Ma ci sono due ipotesi circa questo anonimato e pseudonimato. Una prima ipotesi dice: era una voluta falsificazione, con la quale, ridatando le sue opere al primo secolo, al tempo di San Paolo, egli voleva dare alla sua produzione letteraria un'autorità quasi apostolica.
Ma migliore di questa ipotesi — che mi sembra poco credibile — è l'altra: che cioè egli volesse proprio fare un atto di umiltà. Non dare gloria al proprio nome, non creare un monumento per se stesso con le sue opere, ma realmente servire il Vangelo, creare una teologia ecclesiale, non individuale, basata su se stesso. In realtà riuscì a costruire una teologia che, certo, possiamo datare al sesto secolo, ma non attribuire a una delle figure di quel tempo: è una teologia un po' disindividualizzata, cioè una teologia che esprime un pensiero e un linguaggio comune.

Era un tempo di acerrime polemiche dopo il Concilio di Calcedonia; lui invece, nella sua Settima Epistola, dice: «Non vorrei fare delle polemiche; parlo semplicemente della verità, cerco la verità». E la luce della verità da se stessa fa cadere gli errori e fa splendere quanto è buono. E con questo principio egli purificò il pensiero greco e lo mise in rapporto con il Vangelo. Questo principio, che egli afferma nella sua settima lettera, è anche espressione di un vero spirito di dialogo: cercare non le cose che separano, cercare la verità nella Verità stessa; essa poi riluce e fa cadere gli errori.

Quindi, pur essendo la teologia di questo autore, per così dire "soprapersonale", realmente ecclesiale, noi possiamo collocarla nel VI secolo. Perché? Lo spirito greco, che egli mise al servizio del Vangelo, lo incontrò nei libri di un certo Proclo, morto nel 485 ad Atene: questo autore apparteneva al tardo platonismo, una corrente di pensiero che aveva trasformato la filosofia di Platone in una sorta di religione, il cui scopo alla fine era di creare una grande apologia del politeisimo greco e ritornare, dopo il successo del cristianesimo, all’antica religione greca.
Voleva dimostrare che, in realtà, le divinità erano le forze operanti nel cosmo. La conseguenza era che doveva ritenersi più vero il politeismo che il monoteismo, con un unico Dio creatore. Era un grande sistema cosmico di divinità, di forze misteriose, quello che mostrava Proclo, per il quale in questo cosmo deificato l'uomo poteva trovare l'accesso alla divinità. Egli però distingueva le strade per i semplici, i quali non erano in grado di elevarsi ai vertici della verità — per loro certi riti potevano anche essere sufficienti — e le strade per i saggi, che invece dovevano purificarsi per arrivare alla pura luce.

Questo pensiero, come si vede, è profondamente anticristiano. È una reazione tarda contro la vittoria del cristianesimo. Un uso anticristiano di Platone, mentre era già in corso un uso cristiano del grande filosofo. È interessante che questo Pseudo-Dionigi abbia osato servirsi proprio di questo pensiero per mostrare la verità di Cristo; trasformare questo universo politeistico in un cosmo creato da Dio, nell'armonia del cosmo di Dio dove tutte le forze sono lode di Dio, e mostrare questa grande armonia, questa sinfonia del cosmo che va dai serafini, agli angeli e arcangeli, all'uomo e a tutte le creature che insieme riflettono la bellezza di Dio e sono lode a Dio. Trasformava così l'immagine politeista in un elogio del Creatore e della sua creatura.

Possiamo in questo modo scoprire le caratteristiche essenziali del suo pensiero: esso è innanzitutto una lode cosmica. Tutta la creazione parla di Dio ed è un elogio di Dio.

(il Papa a braccio prosegue e dice)

Essendo la creatura una lode di Dio, la teologia dello Pseudo-Dionigi diventa una teologia liturgica: Dio si trova soprattutto lodandolo, non solo riflettendo; e la liturgia, non è qualcosa di costruito da noi, qualcosa di inventato per fare un'esperienza religiosa durante un certo periodo di tempo; essa è il cantare con il coro delle creature e l'entrare nella realtà cosmica stessa. E proprio così la liturgia, apparentemente solo ecclesiastica, diventa larga e grande, diventa unione di noi con il linguaggio di tutte le creature. Egli dice: non si può parlare di Dio in modo astratto; parlare di Dio è sempre – egli dice con parola greca – un «hymnein», un cantare per Dio con il grande canto delle creature, che si riflette e concretizza nella lode liturgica. Tuttavia, pur essendo la sua teologia cosmica, ecclesiale e liturgica, essa è anche profondamente personale. Egli creò la prima grande teologia mistica.

Anzi la parola "mistica" acquisisce con lui un nuovo significato. Fino a quel tempo per i cristiani tale parola era equivalente alla parola "sacramentale", cioè quanto appartiene al «mysterion», al sacramento. Con lui la parola "mistica" diventa più personale, più intima: esprime il cammino dell'anima verso Dio. E come trovare Dio? Qui osserviamo di nuovo un elemento importante nel suo dialogo tra la filosofia greca e il cristianesimo, in particolare la fede biblica. Apparentemente quanto dice Platone e quanto dice la grande filosofia su Dio è molto più alto, è molto più vero; la Bibbia appare abbastanza "barbara", semplice, precritica si direbbe oggi; ma lui osserva che proprio questo è necessario, perché così possiamo capire che i più alti concetti su Dio non arrivano mai fino alla sua vera grandezza; sono sempre impropri.

Queste immagini ci fanno, in realtà, capire che Dio è sopra tutti i concetti; nella semplicità delle immagini, noi troviamo più verità che nei grandi concetti. Il volto di Dio è la nostra incapacità di esprimere realmente che cosa Egli è. Così si parla — è lo stesso Pseudo-Dionigi a farlo — di una "teologia negativa". Possiamo più facilmente dire che cosa Dio non è, che non esprimere che cosa Egli è veramente. Solo tramite queste immagini possiamo indovinare il suo vero volto, e dall'altra parte questo volto di Dio è molto concreto: è Gesù Cristo. E benché Dionigi ci mostri, seguendo questo Proclo, l'armonia dei cori celesti, così che sembra che tutti dipendano da tutti, resta vero che il nostro cammino verso Dio resta molto lontano da Lui; lo Pseudo-Dionigi dimostra che alla fine la strada verso Dio è Dio stesso, il Quale si fa vicino a noi in Gesù Cristo.

E così una teologia grande e misteriosa diventa anche molto concreta sia nella interpretazione della liturgia sia nel discorso su Gesù Cristo: con tutto ciò, questo Dionigi Areopagita ebbe un grande influsso su tutta la teologia medievale, su tutta la teologia mistica sia dell'Oriente sia dell'Occidente, fu quasi riscoperto nel tredicesimo secolo soprattutto da San Bonaventura, il grande teologo francescano che in questa teologia mistica trovò lo strumento concettuale per interpretare l'eredità così semplice e così profonda di San Francesco: il Poverello con Dionigi ci dice alla fine, che l'amore vede più che la ragione. Dov'è la luce dell’amore non hanno più accesso le tenebre della ragione; l'amore vede, l'amore è occhio e l'esperienza ci dà più che la riflessione.

Che cosa sia questa esperienza Bonaventura lo vide in San Francesco: è l’esperienza di un cammino molto umile, molto realistico, giorno per giorno, è questo andare con Cristo, accettando la sua croce. In questa povertà e in questa umiltà, nell’umiltà che si vive anche nella ecclesialità, c'è un’esperienza di Dio che è più alta di quella che si raggiunge mediante la riflessione: in essa, tocchiamo realmente il cuore di Dio.

Oggi esiste una nuova attualità di Dionigi Areopagita: egli appare come un grande mediatore nel dialogo moderno tra il cristianesimo e le teologie mistiche dell'Asia, la cui nota caratteristica sta nella convinzione che non si può dire chi sia Dio; di Lui si può parlare solo in forme negative; di Dio si può parlare solo col "non", e solo entrando in questa esperienza del "non" Lo si raggiunge. E qui si vede una vicinanza tra il pensiero dell'Areopagita e quello delle religioni asiatiche: egli può essere oggi un mediatore come lo fu tra lo spirito greco e il Vangelo.

Si vede così che il dialogo non accetta la superficialità. Proprio quando uno entra nella profondità dell'incontro con Cristo si apre anche lo spazio vasto per il dialogo. Quando uno incontra la luce della verità, si accorge che è una luce per tutti; scompaiono le polemiche e diventa possibile capirsi l'un l'altro o almeno parlare l'uno con l'altro, avvicinarsi. Il cammino del dialogo è proprio l'essere vicini in Cristo a Dio nella profondità dell'incontro con Lui, nell'esperienza della verità che ci apre alla luce e ci aiuta ad andare incontro agli altri: la luce della verità, la luce dell'amore. E in fin dei conti ci dice: prendete la strada dell'esperienza, dell'esperienza umile della fede, ogni giorno. Il cuore diventa allora grande e può vedere e illuminare anche la ragione perché veda la bellezza di Dio. Preghiamo il Signore perché ci aiuti anche oggi a mettere al servizio del Vangelo la saggezza dei nostri tempi, scoprendo di nuovo la bellezza della fede, l'incontro con Dio in Cristo.

[00729-01.01] [Testo originale: Italiano]



APPELLO DEL SANTO PADRE


Il mio pensiero va, in questo momento, alle popolazioni del Sichuan e delle Province limitrofe in Cina, duramente colpite dal terremoto, che ha causato gravi perdite in vite umane, numerosissimi dispersi e danni incalcolabili. Vi invito ad unirvi a me nella fervida preghiera per tutti coloro che hanno perso la vita. Sono spiritualmente vicino alle persone provate da così devastante calamità: per esse imploriamo da Dio sollievo nella sofferenza. Voglia il Signore concedere sostegno a tutti coloro che sono impegnati nel far fronte alle esigenze immediate del soccorso.

[00740-01.02] [Testo originale: Italiano]


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Vogliamo essere veramente segno di contraddizione?

“Altro non vi dico (…) Non vorrei più parole, ma trovarmi nel campo della battaglia, sostenendo le pene, e combattendo con voi insieme per la verità infino alla morte, per gloria e lode del nome di Dio, e reformazione della Santa Chiesa…”
(Santa Caterina da Siena, Lettera 305 al Papa Urbano VI ove lottò fino alla morte per difendere l’autorità del Pontefice)


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[Modificato da Caterina63 31/01/2009 09:53]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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