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Il Primato petrino nei testi dei Padri della Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 14/03/2013 23:01
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09/02/2009 16:05
 
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LA TESTIMONIANZA PATRISTICA SULLA PRESENZA DI PIETRO A ROMA

Nella indagine sulla presenza e sull'attività di Pietro a Roma, va considerato attentamente la collaborazione di Marco che egli definisce "figlio suo" in senso spirituale nella sua prima lettera (5,13).

La prima testimonianza importante che possediamo, quella di Papia, vescovo di Gerapoli nei primi decenni del II secolo. Conosciamo il passo di Papia (tratto da una sua opera esegetica intitolata Spiegazione dei detti del Signore) da Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica III,39,15) e vale la pena di soffermarsi su di essa, per giungere a stabilire in modo inequivocabile, la permanenza di Pietro a Roma.




Ecco la traduzione del testo di Eusebio (14-17):

"Trasmette (sottinteso Papia) nella propria opera anche altre spiegazioni delle parole del Signore appartenenti al già citato Aristione e tradizioni del presbitero Giovanni: ad esse rinviamo coloro che desiderano conoscerle. Dobbiamo però ora aggiungere alle parole di lui prima citate una testimonianza che riporta a proposito di Marco, autore del Vangelo, e che suona così: «Anche questo diceva il presbitero (= l’Anziano): ‘Marco, divenuto interprete (ermêneutês) di Pietro, scrisse accuratamente (akribôs), ma non certo in ordine (taxei) quanto si ricordava di ciò che il Signore aveva detto o fatto’. Infatti non aveva ascoltato direttamente il Signore né era stato suo discepolo, ma in seguito, come ho detto, era stato discepolo di Pietro. Questi svolgeva i suoi insegnamenti in rapporto con le esigenze del momento, senza dare una sistemazione ordinata ai detti del Signore. Sicché Marco non sbagliò affatto trascrivendone alcuni così come ricordava. Di una cosa sola infatti si preoccupava: di non tralasciare nulla di quanto aveva udito e di non dire nulla di falso in questo». Questo è quanto viene esposto da Papia a proposito di Marco" .

Già Giustino (metà del II sec.) si riferiva al Vangelo di Marco chiamandolo «Memorie di Pietro» (Dialogo con Trifone 106). Ireneo di Lione, verso il 180, scrive: «Dopo la loro (= di Pietro e Paolo) dipartita, Marco, il discepolo e interprete di Pietro, ci trasmise anche lui per iscritto quanto veniva annunciato da Pietro» (Adersus Haereses III,1,3: cfr. EUSEBIO, Historia Ecclesiastica V,8,3). Tale notizia viene ripresa e variamente modificata poi da Clemente Alessandrino, Origene, ecc.



Per quanto riguarda il rapporto tra Marco e Pietro, si è pensato a un riferimento alla I Lettera di Pietro, che nei saluti finali ha: «Vi salutano la Chiesa, che è stata eletta come voi e dimora a Babilonia, e Marco, mio figlio» (1 Pt 5,13). Si suppone che questa lettera, che come si vede da Eusebio (III,39,17) Papia conosceva, sia stata scritta a Roma (sarebbe definita «Babilonia» in senso polemico, apocalittico) e che Marco, che doveva essere «figlio» di Pietro in senso spirituale, convertito da lui e suo discepolo, fosse in quel momento a Roma insieme a Pietro. Che sia presupposto in Papia questo riferimento a 1 Pt è un’ipotesi: il collegamento con il Marco della lettera di Pietro sarà fatto esplicitamente in seguito, a partire da Clemente Alessandrino e da Origene.

Clemente Alessandrino parla del Vangelo di Marco commentando 1 Pt 5,13, evidentemente perché identifica l’autore del Vangelo col Marco menzionato da Pietro nella Lettera. Origene scrive in Commentarium in Matthaeum. I (in EUSEBIUS, Historia Ecclesiastica VI,25,5): «Poi (= dopo il Vangelo secondo Matteo) è stato scritto il Vangelo secondo Marco, che fece come Pietro gli indicò e che da lui fu riconosciuto come figlio nella lettera cattolica in questi termini: «Vi saluta la chiesa eletta che dimora in Babilonia e Marco, mio figlio (1 Pt 5,13)».

In due testimonianze, contenute nel libro VI delle sue Ipotiposi, Clemente Alessandrino sviluppa la notizia. Dopo aver detto che Marco trascrisse la predicazione di Pietro su richiesta di alcuni ascoltatori, in un caso (in EUSEBIUS, Historia Ecclesiastica VI,14, 7) riporta: «Quando lo venne a sapere, Pietro non usò esortazioni né per impedirlo né per incitarlo»; invece nell’altro passo (ivi II,15,2): «Dicono che l’apostolo, quando seppe, attraverso una rivelazione diretta dello Spirito, ciò che era avvenuto, si compiacque dell’ardore di quelle persone e convalidò il testo scritto perché fosse letto nelle chiese».

Clemente è esplicito nell’indicare Roma come luogo dell’annuncio del Vangelo da parte di Pietro. Egli affermava (Ipotiposi VI, in EUSEBIUS, Historia Ecclesiastica VI,14,6); : «Quando Pietro ebbe annunciato pubblicamente a Roma la Parola e predicato il vangelo secondo lo Spirito, i presenti, che erano molti, invitarono Marco, in quanto lo aveva seguito da tempo e ricordava le cose dette, di trascrivere le sue parole. Questi lo fece e consegnò il Vangelo a coloro che glielo chiedevano» ancora in un altro passo (Adumbrationes ad 1 Pt 5,13): «Marco, seguace di Pietro, allorché Pietro predicava pubblicamente il vangelo a Roma, alla presenza di certi cavalieri di Cesare, [...] scrisse, sulla base di quanto Pietro aveva detto, il Vangelo chiamato di Marco».



La composizione a Roma del Vangelo di Marco verrà indicata più esplicitamente anche da Ireneo dal quale si ricava

indirettamente, perché afferma che Matteo scrisse il suo Vangelo mentre a Roma Pietro e Paolo predicavano e subito dopo continua dicendo che dopo la loro dipartita Marco trasmise la predicazione di Pietro (EUSEBIUS, Historia Ecclesiastica V,8,3).

Molti ritengono che questo Marco si possa identificare col Giovanni Marco (talora chiamato soltanto Marco o soltanto Giovanni), di cui parlano abbastanza spesso gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di Paolo. Anzi, da questi cenni, si traggono elementi per ricostruire una vera e propria «vita» di Marco, una vita non priva di avventure.



In Atti 12,12 si racconta che Pietro, dopo essere uscito di prigione a Gerusalemme, si recò alla casa di Maria, «la madre di Giovanni chiamato Marco, dove erano radunati in preghiera un buon numero di persone». Di qui si ricaverebbe che Marco doveva essere un personaggio ben noto e di famiglia benestante, dato che la sua casa era abbastanza grande per ospitare le riunioni della comunità cristiana. Le altre informazioni desumibili dagli Atti e dalle lettere di Paolo, fanno pensare che Marco fosse cugino di Barnaba (Col 4,10) e avesse partecipato per un periodo all’attività missionaria di Paolo e Barnaba come loro «aiutante», durante un viaggio in Asia Minore (At 12,25; 13,5). Ma a Perge, in Panfilia, Giovanni Marco li lasciò e ritornò a Gerusalemme (At 13,13). Questo abbandono dovette irritare profondamente Paolo, tanto che, quando decise di intraprendere con Barnaba un secondo viaggio missionario e questi voleva ancora portare con sé Giovanni Marco, Paolo entrò in dissidio aperto con Barnaba e preferì separarsi anche da lui: si scelse un altro collaboratore, mentre Barnaba partì per diversa meta col cugino (At 15,36-41). Se si tratta sempre del medesimo Marco, si può supporre che Paolo si fosse riconciliato poi con lui, dato che in alcune lettere scritte durante la prigionia (a Roma?) lo menziona come collaboratore al suo fianco (Col 4,10; Fm 24) e, più tardi, in 2 Tm 4,11, quando Marco non si trova più accanto a lui, chiede al destinatario (che forse è a Efeso) di condurglielo. Sicché si dovrebbe dedurre che Marco sia stato prima in contatto con Pietro a Gerusalemme, poi con Paolo e infine ancora con Pietro.



Altre attestazioni patristiche inerenti la presenza e l'attività di Pietro a Roma sono le seguenti:

------------------------------

Clemente Romano, III capo della chiesa di Roma, intorno all’anno 100 d.C. scrive una lettera ai Corinti in cui esprime rammarico per non aver potuto intervenire prima a causa di varie disgrazie successe "qui tra di noi", cioè a Roma, a causa di invidia che avrebbe provocato il martirio dei sommi apostoli e di altri cristiani.

"Per l'invidia e gelosia furono perseguitate le più grandi e più giuste colonne le quali combatterono sino alla morte. Poniamoci dinanzi agli occhi i buoni apostoli. Pietro che per l'ingiusta invidia soffrì non uno, ma numerosi tormenti, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Fu per effetto di gelosia e discordia che Paolo mostrò come si consegua il premio della pazienza …." (Clemente, 1 Corinzi V, 2-5)

Ignazio di Antiochia, verso il 110 d.C. durante il suo viaggio verso Roma per subirvi il martirio, pur non ricordando il martirio dell'apostolo, scrive alla chiesa ivi esistente di non voler impartire loro "degli ordini come Pietro e Paolo" poiché essi "erano liberi, mentre io sono schiavo" (Ignazio, Ai Romani 4, 3). Siccome Pietro non scrisse alcuna lettera ai Romani, si deve dedurre che egli avesse loro impartito dei comandi di presenza.

S.Ireneo, verso l’anno 170 d.C. nel suo libro "Contro le eresie" riporta un elenco completo dei vescovi della chiesa romana presa a riferimento come la chiesa principale ("potentior principalitas") "fondata dagli apostoli Pietro e Paolo".

La parola "fondata" è stata oggetto di controversie, ma lo si capisce perfettamente se si pensa che durante il primo discorso di Pietro a Gerusalemme vi erano dei Romani ad ascoltarlo (Atti 2,11), il centurione Cornelio faceva parte della corte italica e fu catechizzato da Pietro, Paolo aveva contatti epistolari e pastorali con la chiesa romana e successivamente vi si recò personalmente rimanendovi fino alla morte per martirio: dunque già la stessa Scrittura riferisce sufficienti motivi per ritenere che la chiesa di Roma sia stata effettivamente fondata da loro; tuttavia "fondata" può avere anche una accezione più larga col significato di "consolidare" "radicare meglio" "irrobustire" "confermare nella fede". (cf. Rom.1,11).

Tertulliano, nel suo libro "De praescriptione Haereticorum" aveva esaltato la funzione della Chiesa Romana dicendo: "…la chiesa dei Romani attesta che Clemente fu ordinato da Pietro, nello stesso modo anche le altre chiese esibiscono coloro che, stabiliti dagli apostoli nell’episcopato, ritengono essere trasmettitori del seme apostolico… se tu sei vicino all’Italia, tu hai Roma, donde autorità si porge anche a noi in Africa. Felice, codesta chiesa (di Roma) per cui gli Apostoli hanno versato tutto il loro insegnamento insieme col loro sangue, dove Pietro fu reso conforme alla passione del Signore, dove Paolo fu coronato con una morte come quella di Giovanni (Battista) , dove l’apostolo Giovanni, dopo essere stato immerso nell’olio bollente senza nulla soffrire, fu relegato in un’isola…"(Sulla prescrizione degli eretici XXXVI).

Scrisse anche che Pietro fu crocifisso a Roma durante la persecuzione neroniana, dopo aver ordinato Clemente, il futuro vescovo romano (Scorpiace XV; Sulla prescrizione degli eretici XXXII).

Degna di nota è anche la testimonianza di Tertulliano, secondo la quale Giovanni battezzò con le acque del Giordano e Pietro con le acque del Tevere (Il Battesimo, IV)



Origene (185-254) è il primo a ricordarci che Pietro fu crocifisso a Roma con il capo all'ingiù. Egli infatti scrive: "Si pensa che Pietro predicasse ai Giudei della dispersione per tutto il Ponto, la Galazia, la Bitinia, la Cappadocia e l'Asia e che infine venisse a Roma dove fu affisso alla croce con il capo all'ingiù, così infatti aveva pregato di essere posto in croce". (Origene in Eusebio, Storia Ecclesiastica III, 1, 2).

Dionigi, vescovo di Corinto, verso il 170 d.C., in una lettera parzialmente conservata da Eusebio, attribuisce a Pietro e Paolo la fondazione della chiesa di Corinto e la loro predicazione simultanea in Italia dove assieme subirono il martirio. "Con la vostra ammonizione voi (Romani) avete congiunto Roma e Corinto in due fondazioni che dobbiamo a Pietro e Paolo. Poiché ambedue, venuti nella nostra Corinto hanno piantato e istruito noi, allo stesso modo poi, andati in Italia, insieme vi insegnarono e resero testimonianza (con la loro morte) al medesimo tempo" (Dionigi in Eusebio, Storia Ecclesiastica II, 25).

Clemente Alessandrino (150-215) ricorda che, "quando Pietro ebbe predicato pubblicamente la Parola a Roma e dichiarato il Vangelo nello Spirito, molti degli ascoltatori chiesero a Marco, che lo aveva seguito da lungo tempo e ricordava i suoi detti, di metterli per iscritto" (Eusebio, Storia Ecclesiastica VI, 14).

Eusebio di Cesarea (260-337) ricorda come, sotto il regno di Claudio, la Provvidenza condusse Pietro a Roma per porre fine al potere di Simon Mago (Eusebio, Storia Ecclesiastica, II, 14). Egli inoltre ricorda come, a Roma, sotto l'impero di Nerone, Paolo venne decapitato e Pietro crocifisso (Eusebio, Storia Ecclesiastica, II, 25).

Girolamo (347-420) scrive che "Simon Pietro venne a Roma per debellare Simon Mago …occupò a Roma la cattedra episcopale per 25 anni, fino all'ultimo anno di Nerone …..fu crocifisso con il capo all'ingiù e i piedi rivolti verso l'alto, dichiarandosi indegno di venir crocifisso come il suo Signore" (Gli uomini illustri I).

Il sacerdote Gaio in una sua lettera contro il montanista Proclo, riportata da Eusebio di Cesarea, afferma:
"Io posso additarvi i trofei degli apostoli. Se tu andrai al Vaticano e alla via Ostiense, troverai i trofei di coloro che questa chiesa fondarono".
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Le testimonianze della Chiesa sul primato di Pietro

Quesito: seconda parte

caro Padre Angelo,
Inoltre un'ultima cosa, la Bibbia parla dell'organizzazione della Chiesa come episcopale-sinodale, cioè formata da Vescovi eletti dagli apostoli, che eleggono a sua volta presbiteri e diaconi.
I presbiteri sono in ogni città (Parrocchie) mentre i Vescovi osservano il loro operato all'interno di un territorio (la diocesi) e non sono soggetti a nessun altro se non che al Sinodo o l'Assemblea dei Vescovi di una certa regione (che possiamo identificare con i vari Patriarcati) con un presidente rappresentativo che è il Vescovo della diocesi più importante delle varie regioni (il Patriarca).
Ma non si parla mai di un Vescovo Universale superiore e infallibile a tutti, ma solo come dei Primi tra Pari.
E questo possiamo notarlo nei versi Biblici sempre del Vangelo di Matteo 18,15-17:
Anche i Padri della Chiesa non hanno fatto grandi affermazioni verso i Papi come infallibili, ma solo come Primi tra Pari, a parte Sant'Ambrogio con la famosa frase Ubi Petrus ibi Ecclesia, Ubi Ecclesia ibi Christus, ma in quell'epoca c'erano varie sette scismatiche e eretiche come gli ariani che Ambrogio combatteva, e questi ovviamente non erano in comunione con il Vescovo di Roma, mentre Ambrogio si.

E poi abbiamo avuto anche Papi eretici come Liberio, o Onorio I che poi fu scomunicato da un altro Papa successivo, ed infine fino al Medioevo la stessa Chiesa Cattolica era organizzata in modo Episcopale-Sinodale e solo a cominciare dal 1000 il Papa comincio a pretendere di ordinare tutti i Vescovi.
E infine c'è anche il Vescovo di Alessandria che è discendente di San Pietro, e lui non ha tutti questi poteri che ha quello di Roma.
Mi scuso per la troppa lunghezza, ma io sono cattolico, la mia famiglia è cattolica, amo la Chiesa Cattolica perché è lei che mi ha fatto conoscere Cristo e la Retta Dottrina e vorrei rimanervi, ma ultimamente con tutti questi dubbi sul Papato mi sto avvicinando alla Chiesa Cattolica Ortodossa che infatti mantiene la stessa dottrina dei Padri della Chiesa e dei Concili e può vantare anch'essa 2000 anni di storia.
Io non vorrei fare apostasia e scisma, per cui sono venuto a chiederle chiarimento a lei che è un domenicano e sicuramente molto informato e istruito sulla dottrina della Chiesa, di queste mie idee non ne parlo con nessuno perché non vorrei far venire dubbi sul Cattolicesimo anche ad altri, lei è un'ultima speranza per me per restare cattolico.


Risposta del sacerdote

Caro Luigi,
1. oltre le testimonianze derivante dalla Divina Rivelazione (Sacra Scrittura e Sacra Tradizione), vi sono anche le testimonianze della storia della Chiesa antica.
Anche queste sono preziose perché confermano il medesimo modo di sentire fin dall’inizio.

2. Perfino Harnack, teologo e storico protestante e razionalista, ha riconosciuto che “nessuna comunità nella storia della Chiesa si è imposta in modo più completo che
quella di Roma mediante la prima lettera di Clemente” (Dogmengeschichte, I, p. 485).
Harnack fa notare che “il vescovo di Roma (verso il 200) era in grado di deporre non solo preti e diaconi, ma anche vescovi... Roma può togliere ad altre comunità il loro vescovo e inviare un vescovo scelto a
Roma” (Ib., p. 491).
Quando il patriarca Dionigi di Alessandria, nonostante il suo prestigio, fu ripreso da Papa Dionigi “nessuna obiezione fu mossa a questo modo di agire”.
Nella “condanna di Origene, la voce di Roma sembra aver avuto un'importanza particolare” (Ib., p. 491).

3. Non c’è soltanto l’affermazione isolata di sant’AmbrogioUbi Petrus ibi Ecclesia” (dove c’è Pietro lì c’è la Chiesa), ma anche quella di molti altri.
Tra questi c’è quella di san Cipriano, il quale scrive: “Come Dio è uno e uno è
Cristo, così c'è una sola Chiesa e una sola cattedra fondata su Pietro dal Signore” (una
Ecclesia et cathedra una super Petrum Domini voce fondata
, Epistula 43).

4. San Girolamo ripete spesso la frase che
Dio ha fondato la Chiesa su Pietro (Ep. 41,2).

5. S. Agostino scrive che “nella Chiesa romana il primato della
cattedra apostolica è sempre esistito” (in qua semper apostolicae cathedrae viguit
principatus, Ep. 43,7).
Afferma anche che la Chiesa di Roma possiede la massima autorità (culmen auctoritatis obtinuit) e che rifiutarle il primo
posto sarebbe la più grande empietà o una arroganza che si distrugge da
sè” (De util. cred. 17,35).
È sua l’affermazione: “Roma locuta est, causa finita est” (Roma ha parlato, la discussione è finita).

6. Ma anche i Padri greci (San Gregorio Nisseno, San Giovanni Crisostomo, S.
Gregorio Nazianzeno sono concordi nel ritenere il primato della Chiesa di Roma.
S.
Gregorio Nazianzeno dice che la Chiesa Romana presiede, a motivo del suo potere religioso, a
tutto il mondo (Carm. 2, sect. 11)
Teodoreto di Ciro scrive a un prete romano Renato che quella santissima Sede (di Roma) “possiede il principato sulle Chiese di tutto il mondo” (Ep. 116).

7. Le chiese ortodosse, staccatesi da Roma, si caratterizzano per la loro autocefalia (sono capo a se stesse) o acefalia (non hanno una chiesa che le sia superiore anche nel governo).
I motivi che hanno portato a questa separazione sono prevalentemente politici.

8. Puoi leggere anche la risposta pubblicata il 28 maggio 2011 al quesito “Volevo chiedere se il Papa sia proprio una figura necessaria”.

9. I singoli vescovi potranno venir meno nella fede, ma Pietro no.
Quello che avvenne nell’alto Medio evo va inquadrato nel periodo storico: la lotta tra famiglie patrizie per il potere. Purtroppo la storia della Chiesa è segnata anche da queste ombre: “ubi homines, ibi miseriae” (dove vi sono uomini, lì ci sono miserie).
Ogni epoca ha le sue e la Chiesa, che vive fra gli uomini ed è composta di uomini, ne risente.

Ti ringrazio per i sentimenti di stima per l’Ordine di san Domenico, ti assicuro le preghiere richieste e ti benedico.
Padre Angelo


Pubblicato 20.04.2012




[SM=g1740771]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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20/01/2013 23:50
 
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[SM=g1740758] Un sacerdote risponde

Volevo chiedere se il Papa sia proprio una figura necessaria

Quesito

Salve Padre Angelo,
volevo chiedere se il Papa sia proprio una figura necessaria: solo Matteo, infatti, riporta la frase: "Tu sei Pietro...".
Dal momento che il fine dell'evangelista è quello di narrarci la Parola di Dio, mentre il come ce la trasmette fa parte della sua cultura, della sua teologia, dell'orientamento spirituale che lui ha verso le persone alle quali si rivolge, se Gesù avesse voluto mettere a capo della Chiesa Pietro, tale intenzione non sarebbe narrata anche dagli altri evangelisti (anche con parole diverse)?
In più, mi sembra che in nessun passo del NT si dica che Pietro abbia esercitato nella chiesa primitiva una funzione di comando.
Anche ammettendo che l'autorità di Pietro gli sia stata conferita da Gesù, perché ritenere che la stessa sia trasmissibile al Vescovo di Roma? Lo stesso papa S. Gregorio Magno identifica tre "sedi Pietrine": Roma, Alessandria ed Antiochia, pari nell'essere la cattedra storica dell'Apostolo e tiene a sottolineare che quella di Roma non ha niente di più eminente delle altre due (la Chiesa di Roma poi è stata fondata da Paolo).
Grazie,
Andrea


Risposta del sacerdote

Caro Andrea,
1. è fuori di dubbio che Pietro ha una posizione preminente all’interno degli apostoli e della Chiesa primitiva. È sempre menzionato per primo ed è sempre lui che prende l’iniziativa, come ad esempio con la predicazione nel giorno di Pentecoste e la pesca dopo la risurrezione del Signore.
Anche san Paolo, una volta convertito, volle andare a confrontarsi con Pietro (Gal 1,18). Anzi lo chiama “Cefa”, che significa “capo”, riconoscendogli pertanto un ruolo particolare.

2. Anche gli altri vangeli, e non solo quello di Matteo, sottolineano il ruolo particolare di Pietro.
San Luca ha un testo molto importante: “Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli»” (Lc 22,31-32).
Qui il Signore ci ricorda che la fede nostra è retta quando è conforme a quella di Pietro. Sicché la sua fede (e cioè il suo magistero) è la regola della nostra fede.
Indirettamente viene ricordata l’infallibilità del magistero del Papa.

3. Anche San Giovanni ha un riferimento ben preciso sul primato di Pietro: “Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle»” (Gv 21,15-17).
Per agnelli e pecore sono intesi fedeli e vescovi.

3. Oltre ai Vangeli abbiamo la testimonianza della Tradizione della prima comunità cristiana.
Come saprai, non la sacra Scrittura da sola, ma la sacra Scrittura e la sacra Tradizione costituiscono l’unico deposito della Divina Rivelazione.
La Scrittura va intesa come è sempre stata intesa, e questo ci viene garantito dalla Tradizione.
La Tradizione è l’anello che congiunge la nostra fede alla fede degli apostoli. È quell’anello per cui io posso dire: la mia fede è la stessa degli apostoli, di quelli che sono stati con Gesù e che hanno sentito con le loro orecchie il suo insegnamento.

4. Ebbene, proprio la Tradizione ci ricorda vero gli anni 90, mentre a Efeso è ancora vivo san Giovanni, a Corinto scoppiano dei disordini tra i fedeli.
Anziché appellarsi a San Giovanni che sta ad Efeso, nell’altra sponda del Mar Egeo, i cristiani di Corinto vanno direttamente dal terzo successore di Pietro che è Papa Clemente. E questi interviene con la sua autorevolezza.

5. È vero che San Pietro prima di essere a Roma è stato ad Antiochia.
Ma il vescovo che è succeduto a Pietro quando se ne è andato da Antiochia non ha desautorato san Pietro, né ha preso gli stessi poteri di Pietro. È stato considerato come uno dei tanti vescovi.
Pietro ha continuato da Roma ad esercitare intatto il suo ruolo.
Quando muore in questa città, è stato riconosciuto al suo successore la trasmissione del potere delle Chiavi del Regno dei cieli.

6. Circa la successione di san Pietro, ecco che cosa il Card. Giuseppe Siri ha scritto nel suo trattato di ecclesiologia: “Degli apostoli quello che certamente sopravvisse per molto tempo a Pietro è Giovanni. Egli è dunque senza dubbio un testimone della successione. Nel suo Vangelo riporta il testo di conferma del primato (Gv 21,15), nonché la profezia sul martirio di Pietro (Gv 21,18). Dovette sapere dell'avverarsi di questa profezia e non poté disinteressarsi della questione successoria.
Per noi diventa estremamente interessante sapere che cosa ne pensasse lui, antico ed intimo amico di Cristo. Noi ci incontriamo con lui nella sua scuola cristiana di Efeso, la quale può essere intervistata attraverso due suoi esponenti di massimo rilievo al primo e al secondo secolo.
Il primo è Policarpo, contemporaneo, discepolo e successore di Giovanni stesso nella scuola. Di lui sappiamo che al tempo della prima controversia pasquale, pur essendo centenario, se ne venne faticosamente dall'Asia a Roma per impetrare dal vescovo di Roma, come da superiore suo e di tutti i vescovi in causa, una maggiore larghezza. Questa visita per l'autorità della persona e per il grande riconoscimento che importava fece impressione. Ireneo ne parla ancora quarant'anni più tardi, scrivendo al Papa Vittore” (G. Siri, La Chiesa, pp.186-187).

7. “Il secondo testimone autorevole è lo stesso Ireneo, che per quanto vescovo di Lione nelle Gallie, è asiatico e discepolo di Policarpo. Conosce quindi il pensiero vivo nella scuola dell'apostolo, oltre che la prassi dell'Oriente e dell'Occidente. Ireneo nell'Adversus haereses tratta del modo sicuro di conoscere la vera tradizione apostolica. Indica il criterio nella ininterrotta serie dei vescovi successori degli apostoli. Afferma di poter dimostrare questa successione citando i cataloghi episcopali delle diverse Chiese, ma si limita ad uno, al catalogo della Chiesa romana. Questo, perchè sa che basta la sola Chiesa romana a dimostrare e garantire la verità della Chiesa cattolica.
Diverse sono le ragioni.
Anzitutto la Chiesa romana è «la più grande e la più antica» ed ha una «principalità o primato tale che tutte le altre comunità da ogni parte debbono accordarsi e sottostare ad essa; in secondo luogo perchè la successione dei suoi vescovi rimonta a Pietro (Adversus haereses III,3,2).
L'atteggiamento umile e leale di Policarpo vale ben più di una dichiarazione teorica nel mostrare che cosa lui, uomo apostolico, sapeva dei vescovo di Roma. Da lui e da Ireneo apprendiamo il pensiero della scuola giovannea, ossia dell'ambiente apostolico: là si sapeva benissimo e lealmente si insegnava a chi mai il Capo avesse lasciata la sua successione.
Si tenga ben presente che tutti i documenti della letteratura cristiana primitiva indicano un rapporto strettissimo tra le varie Chiese, sicché non si potrebbe mai ammettere che una questione di carattere universale e fondamentale, riscuotesse attenzione solo in una parte, ottenendo dall'altra indifferenza ed avversione.
Per questo l'atteggiamento della scuola giovannea ha da solo una forza dirimente.


Una più che giusta curiosità spinge a cercare in proposito l'opinione della più antica comunità etnico-cristiana, quella di Antiochia. Era stata sede di Pietro e centro di irradiazione di tutta la attività apostolica. Qui ci si fa innanzi lo stesso vescovo Ignazio, quasi contemporaneo del Cristo e compagno nonché successore di Pietro. Mentre è trascinato prigioniero alla volta di Roma, egli scrive, tra le altre, una lettera commovente alla Chiesa dell'eterna città, allo scopo sopra tutto di dissuadere gli influenti cristiani di quella dal tentativo di salvarlo, ossia di risparmiargli il desiderato martirio. È insomma un contatto con la Chiesa romana.
Interessa conoscere l'animo e l'atteggiamento, nonché il giudizio con cui materia l'uno e l'altro nei suoi riguardi con la comunità deli 'Urbe e la sua gerarchia. Il confronto delle formalità (intestazione, apostrofe, complimenti) fra questa lettera e le altre indirizzate alle chiese dell'Asia (Tralles, Magnesia, ecc.) è quanto mai significativo perché, mentre per quelle Ignazio sente la fraternità, per questa s'esprime come chi sente venerabondo una superiorità ed una maestà. Ecco per esempio l'iscrizione della lettera ai Magnesii: «Ignazio o anche Teoforo alla (chiesa) di Magnesia presso il Meandro, benedetta nella grazia di Dio Padre in Cristo Gesù salvatore nostro, nel quale saluto la (stessa) Chiesa, augurando in Dio Padre e in Gesù Cristo sovrabbondante salvezza».
Ecco ora l'iscrizione della lettera, appunto, ai Romani: «Ignazio, detto anche Teoforo, alla chiesa che ha conseguito misericordia nella magnificenza del Padre altissimo e del suo unigenito Gesù Cristo; alla chiesa prediletta ed illuminata dalla sua volontà che elegge tutte le cose che sono, secondo la carità di Gesù Cristo Dio nostro; la quale (chiesa) inoltre tiene la presidenza nel luogo della regione dei Romani, degna di Dio, degna di onore, degna d'esser predicata beata, degna di lode, degna di esaudimento degnamente casta e posta o presiedere l'universale accolta della carità (la Chiesa), che porta la legge del Cristo, che è insignita del nome paterno, che io saluto nel nome di Gesù Cristo, figlio del Padre... ».


Non c'è dubbio: la Chiesa romana è, per quest'uomo, superiore alle altre Chiese; il motivo di questa superiorità non è l'essere capitale dell'impero (che neppure nomina), non sono particolari virtù dei Romani (delle quali pure non parla), ma una magnificenza divina che in essa più si riflette, un nome divino di cui è insignita; è insomma, un dono, una dotazione speciale, una prerogativa che il vecchio vescovo apostolico sa venire da Dio.

Quale dunque la prerogativa di superiorità che lo spinge ad un linguaggio facilmente ampolloso se non rispondesse ad una motivazione adeguata? Eccola: la Chiesa romana tiene la presidenza, il regimen della universale accolta della carità, cioè della Chiesa cattolica” (G. Siri, La Chiesa, pp.187-189).

Adesso hai un pò di documentazione per poter renderti ragione della solidità della fede cattolica.

Ti saluto, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo


Pubblicato 28.05.2011




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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(PL 54,149-151)

Tra tutti gli uomini solo Pietro viene scelto per essere il primo a chiamare tutte le genti alla salvezza e per essere il capo di tutti gli apostoli e di tutti i Padri della Chiesa. Nel popolo di Dio sono molti i sacerdoti e i pastori, ma la vera guida di tutti è Pietro, sotto la scorta suprema di Cristo.
Egli dice: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; e Gesù gli risponde: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,16-17). Ciò significa: tu sei beato perché il Padre mio ti ha ammaestrato, e non ti sei lasciato ingannare da opinioni umane, ma sei stato istruito da un'ispirazione celeste. La mia identità non te l'ha rivelata la carne e il sangue, ma colui del quale io sono il Figlio unigenito. E così io ti manifesto la tua dignità. «Tu sei Pietro». Ciò significa che se io sono la pietra inviolabile, la pietra angolare che ha fatto dei due un popolo solo (cfr. Ef 2,14. 20), il fondamento che nessuno può sostituire, anche tu sei pietra, perché la mia forza ti rende saldo.
Le porte degli inferi non possono impedire questa professione di fede, che sfugge anche ai legami della morte. Essa infatti è parola di vita, che solleva al cielo chi la proferisce e sprofonda nell'inferno chi la nega. È per questo che a san Pietro viene detto: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19).



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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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