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Il Primato petrino nei testi dei Padri della Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 14/03/2013 23:01
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09/02/2009 16:05
 
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LA TESTIMONIANZA PATRISTICA SULLA PRESENZA DI PIETRO A ROMA

Nella indagine sulla presenza e sull'attività di Pietro a Roma, va considerato attentamente la collaborazione di Marco che egli definisce "figlio suo" in senso spirituale nella sua prima lettera (5,13).

La prima testimonianza importante che possediamo, quella di Papia, vescovo di Gerapoli nei primi decenni del II secolo. Conosciamo il passo di Papia (tratto da una sua opera esegetica intitolata Spiegazione dei detti del Signore) da Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica III,39,15) e vale la pena di soffermarsi su di essa, per giungere a stabilire in modo inequivocabile, la permanenza di Pietro a Roma.




Ecco la traduzione del testo di Eusebio (14-17):

"Trasmette (sottinteso Papia) nella propria opera anche altre spiegazioni delle parole del Signore appartenenti al già citato Aristione e tradizioni del presbitero Giovanni: ad esse rinviamo coloro che desiderano conoscerle. Dobbiamo però ora aggiungere alle parole di lui prima citate una testimonianza che riporta a proposito di Marco, autore del Vangelo, e che suona così: «Anche questo diceva il presbitero (= l’Anziano): ‘Marco, divenuto interprete (ermêneutês) di Pietro, scrisse accuratamente (akribôs), ma non certo in ordine (taxei) quanto si ricordava di ciò che il Signore aveva detto o fatto’. Infatti non aveva ascoltato direttamente il Signore né era stato suo discepolo, ma in seguito, come ho detto, era stato discepolo di Pietro. Questi svolgeva i suoi insegnamenti in rapporto con le esigenze del momento, senza dare una sistemazione ordinata ai detti del Signore. Sicché Marco non sbagliò affatto trascrivendone alcuni così come ricordava. Di una cosa sola infatti si preoccupava: di non tralasciare nulla di quanto aveva udito e di non dire nulla di falso in questo». Questo è quanto viene esposto da Papia a proposito di Marco" .

Già Giustino (metà del II sec.) si riferiva al Vangelo di Marco chiamandolo «Memorie di Pietro» (Dialogo con Trifone 106). Ireneo di Lione, verso il 180, scrive: «Dopo la loro (= di Pietro e Paolo) dipartita, Marco, il discepolo e interprete di Pietro, ci trasmise anche lui per iscritto quanto veniva annunciato da Pietro» (Adersus Haereses III,1,3: cfr. EUSEBIO, Historia Ecclesiastica V,8,3). Tale notizia viene ripresa e variamente modificata poi da Clemente Alessandrino, Origene, ecc.



Per quanto riguarda il rapporto tra Marco e Pietro, si è pensato a un riferimento alla I Lettera di Pietro, che nei saluti finali ha: «Vi salutano la Chiesa, che è stata eletta come voi e dimora a Babilonia, e Marco, mio figlio» (1 Pt 5,13). Si suppone che questa lettera, che come si vede da Eusebio (III,39,17) Papia conosceva, sia stata scritta a Roma (sarebbe definita «Babilonia» in senso polemico, apocalittico) e che Marco, che doveva essere «figlio» di Pietro in senso spirituale, convertito da lui e suo discepolo, fosse in quel momento a Roma insieme a Pietro. Che sia presupposto in Papia questo riferimento a 1 Pt è un’ipotesi: il collegamento con il Marco della lettera di Pietro sarà fatto esplicitamente in seguito, a partire da Clemente Alessandrino e da Origene.

Clemente Alessandrino parla del Vangelo di Marco commentando 1 Pt 5,13, evidentemente perché identifica l’autore del Vangelo col Marco menzionato da Pietro nella Lettera. Origene scrive in Commentarium in Matthaeum. I (in EUSEBIUS, Historia Ecclesiastica VI,25,5): «Poi (= dopo il Vangelo secondo Matteo) è stato scritto il Vangelo secondo Marco, che fece come Pietro gli indicò e che da lui fu riconosciuto come figlio nella lettera cattolica in questi termini: «Vi saluta la chiesa eletta che dimora in Babilonia e Marco, mio figlio (1 Pt 5,13)».

In due testimonianze, contenute nel libro VI delle sue Ipotiposi, Clemente Alessandrino sviluppa la notizia. Dopo aver detto che Marco trascrisse la predicazione di Pietro su richiesta di alcuni ascoltatori, in un caso (in EUSEBIUS, Historia Ecclesiastica VI,14, 7) riporta: «Quando lo venne a sapere, Pietro non usò esortazioni né per impedirlo né per incitarlo»; invece nell’altro passo (ivi II,15,2): «Dicono che l’apostolo, quando seppe, attraverso una rivelazione diretta dello Spirito, ciò che era avvenuto, si compiacque dell’ardore di quelle persone e convalidò il testo scritto perché fosse letto nelle chiese».

Clemente è esplicito nell’indicare Roma come luogo dell’annuncio del Vangelo da parte di Pietro. Egli affermava (Ipotiposi VI, in EUSEBIUS, Historia Ecclesiastica VI,14,6); : «Quando Pietro ebbe annunciato pubblicamente a Roma la Parola e predicato il vangelo secondo lo Spirito, i presenti, che erano molti, invitarono Marco, in quanto lo aveva seguito da tempo e ricordava le cose dette, di trascrivere le sue parole. Questi lo fece e consegnò il Vangelo a coloro che glielo chiedevano» ancora in un altro passo (Adumbrationes ad 1 Pt 5,13): «Marco, seguace di Pietro, allorché Pietro predicava pubblicamente il vangelo a Roma, alla presenza di certi cavalieri di Cesare, [...] scrisse, sulla base di quanto Pietro aveva detto, il Vangelo chiamato di Marco».



La composizione a Roma del Vangelo di Marco verrà indicata più esplicitamente anche da Ireneo dal quale si ricava

indirettamente, perché afferma che Matteo scrisse il suo Vangelo mentre a Roma Pietro e Paolo predicavano e subito dopo continua dicendo che dopo la loro dipartita Marco trasmise la predicazione di Pietro (EUSEBIUS, Historia Ecclesiastica V,8,3).

Molti ritengono che questo Marco si possa identificare col Giovanni Marco (talora chiamato soltanto Marco o soltanto Giovanni), di cui parlano abbastanza spesso gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di Paolo. Anzi, da questi cenni, si traggono elementi per ricostruire una vera e propria «vita» di Marco, una vita non priva di avventure.



In Atti 12,12 si racconta che Pietro, dopo essere uscito di prigione a Gerusalemme, si recò alla casa di Maria, «la madre di Giovanni chiamato Marco, dove erano radunati in preghiera un buon numero di persone». Di qui si ricaverebbe che Marco doveva essere un personaggio ben noto e di famiglia benestante, dato che la sua casa era abbastanza grande per ospitare le riunioni della comunità cristiana. Le altre informazioni desumibili dagli Atti e dalle lettere di Paolo, fanno pensare che Marco fosse cugino di Barnaba (Col 4,10) e avesse partecipato per un periodo all’attività missionaria di Paolo e Barnaba come loro «aiutante», durante un viaggio in Asia Minore (At 12,25; 13,5). Ma a Perge, in Panfilia, Giovanni Marco li lasciò e ritornò a Gerusalemme (At 13,13). Questo abbandono dovette irritare profondamente Paolo, tanto che, quando decise di intraprendere con Barnaba un secondo viaggio missionario e questi voleva ancora portare con sé Giovanni Marco, Paolo entrò in dissidio aperto con Barnaba e preferì separarsi anche da lui: si scelse un altro collaboratore, mentre Barnaba partì per diversa meta col cugino (At 15,36-41). Se si tratta sempre del medesimo Marco, si può supporre che Paolo si fosse riconciliato poi con lui, dato che in alcune lettere scritte durante la prigionia (a Roma?) lo menziona come collaboratore al suo fianco (Col 4,10; Fm 24) e, più tardi, in 2 Tm 4,11, quando Marco non si trova più accanto a lui, chiede al destinatario (che forse è a Efeso) di condurglielo. Sicché si dovrebbe dedurre che Marco sia stato prima in contatto con Pietro a Gerusalemme, poi con Paolo e infine ancora con Pietro.



Altre attestazioni patristiche inerenti la presenza e l'attività di Pietro a Roma sono le seguenti:

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Clemente Romano, III capo della chiesa di Roma, intorno all’anno 100 d.C. scrive una lettera ai Corinti in cui esprime rammarico per non aver potuto intervenire prima a causa di varie disgrazie successe "qui tra di noi", cioè a Roma, a causa di invidia che avrebbe provocato il martirio dei sommi apostoli e di altri cristiani.

"Per l'invidia e gelosia furono perseguitate le più grandi e più giuste colonne le quali combatterono sino alla morte. Poniamoci dinanzi agli occhi i buoni apostoli. Pietro che per l'ingiusta invidia soffrì non uno, ma numerosi tormenti, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Fu per effetto di gelosia e discordia che Paolo mostrò come si consegua il premio della pazienza …." (Clemente, 1 Corinzi V, 2-5)

Ignazio di Antiochia, verso il 110 d.C. durante il suo viaggio verso Roma per subirvi il martirio, pur non ricordando il martirio dell'apostolo, scrive alla chiesa ivi esistente di non voler impartire loro "degli ordini come Pietro e Paolo" poiché essi "erano liberi, mentre io sono schiavo" (Ignazio, Ai Romani 4, 3). Siccome Pietro non scrisse alcuna lettera ai Romani, si deve dedurre che egli avesse loro impartito dei comandi di presenza.

S.Ireneo, verso l’anno 170 d.C. nel suo libro "Contro le eresie" riporta un elenco completo dei vescovi della chiesa romana presa a riferimento come la chiesa principale ("potentior principalitas") "fondata dagli apostoli Pietro e Paolo".

La parola "fondata" è stata oggetto di controversie, ma lo si capisce perfettamente se si pensa che durante il primo discorso di Pietro a Gerusalemme vi erano dei Romani ad ascoltarlo (Atti 2,11), il centurione Cornelio faceva parte della corte italica e fu catechizzato da Pietro, Paolo aveva contatti epistolari e pastorali con la chiesa romana e successivamente vi si recò personalmente rimanendovi fino alla morte per martirio: dunque già la stessa Scrittura riferisce sufficienti motivi per ritenere che la chiesa di Roma sia stata effettivamente fondata da loro; tuttavia "fondata" può avere anche una accezione più larga col significato di "consolidare" "radicare meglio" "irrobustire" "confermare nella fede". (cf. Rom.1,11).

Tertulliano, nel suo libro "De praescriptione Haereticorum" aveva esaltato la funzione della Chiesa Romana dicendo: "…la chiesa dei Romani attesta che Clemente fu ordinato da Pietro, nello stesso modo anche le altre chiese esibiscono coloro che, stabiliti dagli apostoli nell’episcopato, ritengono essere trasmettitori del seme apostolico… se tu sei vicino all’Italia, tu hai Roma, donde autorità si porge anche a noi in Africa. Felice, codesta chiesa (di Roma) per cui gli Apostoli hanno versato tutto il loro insegnamento insieme col loro sangue, dove Pietro fu reso conforme alla passione del Signore, dove Paolo fu coronato con una morte come quella di Giovanni (Battista) , dove l’apostolo Giovanni, dopo essere stato immerso nell’olio bollente senza nulla soffrire, fu relegato in un’isola…"(Sulla prescrizione degli eretici XXXVI).

Scrisse anche che Pietro fu crocifisso a Roma durante la persecuzione neroniana, dopo aver ordinato Clemente, il futuro vescovo romano (Scorpiace XV; Sulla prescrizione degli eretici XXXII).

Degna di nota è anche la testimonianza di Tertulliano, secondo la quale Giovanni battezzò con le acque del Giordano e Pietro con le acque del Tevere (Il Battesimo, IV)



Origene (185-254) è il primo a ricordarci che Pietro fu crocifisso a Roma con il capo all'ingiù. Egli infatti scrive: "Si pensa che Pietro predicasse ai Giudei della dispersione per tutto il Ponto, la Galazia, la Bitinia, la Cappadocia e l'Asia e che infine venisse a Roma dove fu affisso alla croce con il capo all'ingiù, così infatti aveva pregato di essere posto in croce". (Origene in Eusebio, Storia Ecclesiastica III, 1, 2).

Dionigi, vescovo di Corinto, verso il 170 d.C., in una lettera parzialmente conservata da Eusebio, attribuisce a Pietro e Paolo la fondazione della chiesa di Corinto e la loro predicazione simultanea in Italia dove assieme subirono il martirio. "Con la vostra ammonizione voi (Romani) avete congiunto Roma e Corinto in due fondazioni che dobbiamo a Pietro e Paolo. Poiché ambedue, venuti nella nostra Corinto hanno piantato e istruito noi, allo stesso modo poi, andati in Italia, insieme vi insegnarono e resero testimonianza (con la loro morte) al medesimo tempo" (Dionigi in Eusebio, Storia Ecclesiastica II, 25).

Clemente Alessandrino (150-215) ricorda che, "quando Pietro ebbe predicato pubblicamente la Parola a Roma e dichiarato il Vangelo nello Spirito, molti degli ascoltatori chiesero a Marco, che lo aveva seguito da lungo tempo e ricordava i suoi detti, di metterli per iscritto" (Eusebio, Storia Ecclesiastica VI, 14).

Eusebio di Cesarea (260-337) ricorda come, sotto il regno di Claudio, la Provvidenza condusse Pietro a Roma per porre fine al potere di Simon Mago (Eusebio, Storia Ecclesiastica, II, 14). Egli inoltre ricorda come, a Roma, sotto l'impero di Nerone, Paolo venne decapitato e Pietro crocifisso (Eusebio, Storia Ecclesiastica, II, 25).

Girolamo (347-420) scrive che "Simon Pietro venne a Roma per debellare Simon Mago …occupò a Roma la cattedra episcopale per 25 anni, fino all'ultimo anno di Nerone …..fu crocifisso con il capo all'ingiù e i piedi rivolti verso l'alto, dichiarandosi indegno di venir crocifisso come il suo Signore" (Gli uomini illustri I).

Il sacerdote Gaio in una sua lettera contro il montanista Proclo, riportata da Eusebio di Cesarea, afferma:
"Io posso additarvi i trofei degli apostoli. Se tu andrai al Vaticano e alla via Ostiense, troverai i trofei di coloro che questa chiesa fondarono".
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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