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Rapporto fra Chiesa ed esegesi Biblica, di J. Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 20/10/2009 00:46
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PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

A 100 anni dalla costituzione della Pontificia Commissione Biblica


Il rapporto fra Magistero della Chiesa ed esegesi


Non ho scelto il tema della mia relazione solo perché fa parte delle questioni che di diritto appartengono a una retrospettiva sui 100 anni della Pontificia Commissione Biblica, ma perché rientra, per così dire, anche nei problemi della mia biografia: da più di mezzo secolo il mio percorso teologico personale si muove entro l'ambito determinato da questo tema.


Nel decreto della Congregazione Concistoriale del 29 giugno 1912 De quibusdam commentariis non admittendis si incontrano due nomi, che hanno incrociato la mia vita. Vi viene infatti condannata l'Introduzione al Vecchio Testamento del professore di Frisinga, Karl Holzhey; egli era già morto quando nel gennaio 1946 cominciai i miei studi di teologia sul colle della Cattedrale di Frisinga, ma su di lui circolavano ancora aneddoti eloquenti. Doveva essere un uomo piuttosto pieno di sé e ombroso. Mi è più familiare il secondo nome citato, quello di Fritz Tillmann, il curatore di un Commentario del Nuovo Testamento definito inaccettabile. In tale opera, autore del commento ai sinottici era Friedrich Wilhelm Maier, un amico di Tillmann, allora libero docente a Strasburgo. Il decreto della Congregazione Concistoriale stabiliva che questi commenti expungenda omnino esse ab institutione clericorum. Il Commentario, del quale avevo trovato un esemplare dimenticato quando ero studente al Seminario Minore di Traunstein, doveva essere bandito e ritirato dal commercio poiché Maier vi sosteneva, per la questione sinottica, la cosiddetta teoria delle due fonti, che oggi è accettata pressoché da tutti. Questo, sul momento, determinò anche la fine della carriera scientifica di Tillmann e di Maier. Ad entrambi veniva però concesso di cambiare disciplina teologica. Tillmann approfittò di questa possibilità diventando poi un teologo morale tedesco di punta. Insieme con Th. Steinbüchel e Th. Müncker curò un manuale di teologia morale d'avanguardia, che trattava in maniera nuova questa importante disciplina e la presentava secondo l'idea di fondo dell'imitazione di Cristo.

Maier non volle approfittare della possibilità di cambiare disciplina; era infatti dedito anima e corpo al lavoro sul Nuovo Testamento. Così diventò cappellano militare e come tale partecipò alla prima guerra mondiale; in seguito lavorò come cappellano nelle carceri fino al 1924, quando, con il nulla osta dell'arcivescovo di Breslau (oggi Wroclaw), cardinale Bertram, in un clima ormai più disteso, venne chiamato alla cattedra di Nuovo Testamento presso la Facoltà teologica del luogo. Nel 1945, quando quella Facoltà fu soppressa, insieme ad altri colleghi, giunse a Monaco, dove lo ebbi come insegnante.


( Faccio osservare...come la Chiesa, in qualità di MADRE non nega il saper riconoscere i propri errori e rivalutare qua e là, quanto in un primo tempo era apparso non accettabile....Questa capacità di riconoscere un errore, assume veramente la pienezza della forza dello Spirito che anima ed istruisce i Suoi...)


La ferita del 1912 non si rimarginò in lui mai del tutto, nonostante egli potesse ora insegnare la sua materia praticamente senza problemi e fosse sostenuto dall'entusiasmo dei suoi studenti, ai quali riusciva a trasmettere la sua passione per il Nuovo Testamento e una corretta interpretazione di esso. Di tanto in tanto, nelle sue lezioni si affacciavano ricordi del passato. Mi è rimasta impressa soprattutto un'espressione che egli pronunciò nel 1948 o nel 1949. Disse che ormai poteva seguire liberamente la sua coscienza di storico, ma che non si era ancora arrivati a quella completa libertà dell'esegesi che egli sognava. Disse inoltre che lui probabilmente non sarebbe arrivato a vedere questo, ma che desiderava almeno, come Mosè dal Monte Nebo, di poter gettare lo sguardo sulla Terra Promessa di un'esegesi liberata da ogni controllo e condizionamento del Magistero.


Avvertivamo che sull'animo di quest'uomo dotto, che conduceva una vita sacerdotale esemplare, fondata sulla fede della Chiesa, pesava non soltanto quel decreto della Congregazione Concistoriale, ma che anche i vari decreti della Commissione Biblica - sulla autenticità mosaica del Pentateuco (1906), sul carattere storico dei primi tre capitoli della Genesi (1909), sugli autori e sull'epoca di composizione dei Salmi (1910), su Marco e Luca (1912), sulla questione sinottica (1912), e così via - ostacolavano il suo lavoro di esegeta con ceppi che egli riteneva indebiti.

Persisteva ancora l'impressione che gli esegeti cattolici, per via di tali decisioni magisteriali, fossero impediti dallo svolgere un lavoro scientifico senza costrizioni, e che così l'esegesi cattolica, rispetto a quella protestante, non potesse mai essere del tutto all'altezza dei tempi e la sua serietà scientifica venisse, in qualche modo a ragione, messa in dubbio dai protestanti. Naturalmente influiva anche la convinzione che un lavoro rigorosamente storico fosse in grado di accertare in maniera attendibile i dati di fatto oggettivi della storia, anzi, che questa fosse l'unica via possibile per capire nel loro senso proprio i libri biblici, i quali, appunto, sono libri storici. Era scontata per lui l'attendibilità e l'inequivocabilità del metodo storico; non lo sfiorava neppure l'idea che anche in tale metodo entrassero in gioco dei presupposti filosofici e che potesse diventare necessaria una riflessione sulle implicazioni filosofiche del metodo storico. A lui, come a molti suoi colleghi, la filosofia sembrava un elemento di disturbo, qualcosa che poteva solo inquinare la pura oggettività del lavoro storico. Non gli si prospettava la questione ermeneutica, cioè non si chiedeva in che misura l'orizzonte di chi domanda determini l'accesso al testo, rendendo necessario chiarire, anzitutto, qual sia il modo giusto di domandare e in qual modo sia possibile purificare il proprio domandare. Proprio per questo il Monte Nebo gli avrebbe sicuramente riservato qualche sorpresa totalmente al di fuori del suo orizzonte.


Adesso vorrei tentare di salire, per così dire, insieme con lui sul Monte Nebo per osservare, a partire dalla prospettiva di allora, la terra che abbiamo attraversato negli ultimi cinquant'anni. A tale riguardo, potrebbe rivelarsi utile ricordare l'esperienza di Mosè. Il capitolo 34 del Deuteronomio descrive come sul Monte Nebo viene concesso a Mosè di gettare uno sguardo sulla Terra Promessa, che egli vede in tutta la sua estensione. È, per così dire, uno sguardo puramente geografico, non storico, quello che gli viene concesso. Tuttavia si potrebbe dire che il capitolo 28 dello stesso libro presenti uno sguardo non sulla geografia ma sulla storia futura nella e con la terra, e che quel capitolo offra una prospettiva ben diversa, molto meno consolante: "Il Signore ti disperderà tra tutti i popoli, da un'estremità fino all'altra [...]. Fra quelle nazioni non troverai sollievo e non vi sarà luogo di riposo per la pianta dei tuoi piedi" (Dt 28, 64s). Ciò che Mosè vedeva in questa visione interiore si potrebbe riassumere così: la libertà può distruggere se stessa; quando perde il suo intrinseco criterio si autosopprime.


Che cosa potrebbe percepire uno sguardo storico gettato dal Nebo sulla terra dell'esegesi degli ultimi cinquant'anni? Anzitutto molte cose che sarebbero state di consolazione per Maier, la realizzazione del suo sogno, per così dire. Già l'enciclica Divino afflante Spiritu del 1943 introdusse un nuovo modo di intendere il rapporto fra il Magistero e le esigenze scientifiche della lettura storica della Bibbia. In seguito, gli anni sessanta rappresentarono l'ingresso nella Terra Promessa della libertà dell'esegesi, per conservare quest'immagine metaforica. Incontriamo dapprima l'istruzione della Commissione Biblica del 21 aprile 1964 sulla verità storica dei Vangeli, ma poi, soprattutto, la Costituzione conciliare Dei Verbum del 1965 sulla divina Rivelazione, con la quale si aprì di fatto un nuovo capitolo nel rapporto fra Magistero ed esegesi scientifica. Non c'è bisogno di sottolineare qui l'importanza di questo testo fondamentale. Esso, innanzitutto, definisce il concetto di Rivelazione, che non si identifica affatto con la sua testimonianza scritta che è la Bibbia, ed apre così il vasto orizzonte, storico ed insieme teologico, nel quale si muove l'interpretazione della Bibbia, una interpretazione che vede nelle Scritture non solo dei libri umani, ma la testimonianza di un parlare divino.

Diviene così possibile determinare il concetto di Tradizione, che va anch'esso oltre la Scrittura, pur avendo in essa il suo centro, dal momento che la Scrittura è anzitutto e per natura "tradizione".
Questo conduce al terzo capitolo della Costituzione, dedicato all'interpretazione della Scrittura; in esso emerge, in modo convincente, la assoluta necessità del metodo storico come parte indispensabile dello sforzo esegetico, ma appare poi anche la dimensione propriamente teologica dell'interpretazione, che - come già detto - è essenziale, se quel libro è più che parola umana.



Proseguiamo nella nostra indagine dal Monte Nebo: Maier, dal suo posto d'osservazione, avrebbe potuto rallegrarsi specialmente di quanto avvenne nel giugno 1971. Con il motu proprio Sedula cura, Paolo VI ristrutturò completamente la Commissione Biblica in modo che non fosse più un organo del Magistero, ma un luogo di incontro tra Magistero ed esegeti, un luogo di dialogo nel quale potessero incontrarsi rappresentanti del Magistero e qualificati esegeti per trovare insieme, per così dire, gli intrinseci criteri della libertà che le impediscono di autodistruggersi, elevandola così al livello di una libertà vera. Maier avrebbe potuto gioire anche del fatto che uno dei suoi allievi migliori, Rudolf Schnackenburg, era entrato a far parte non proprio della Commissione Biblica, ma della non meno importante Commissione Teologica Internazionale, così che ora egli stesso, per così dire, si trovava quasi in quella Commissione che gli aveva procurato tante preoccupazioni.


Ricordiamo un'altra data importante che, dal nostro Nebo immaginario, avrebbe potuto apparire in lontananza: il documento della Commissione Biblica L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa del 1993, nel quale non è più il Magistero che dall'alto impone norme agli esegeti, ma sono loro stessi che cercano di determinare i criteri che devono indicare la strada per una interpretazione adeguata di questo libro speciale, il quale, visto solo dall'esterno, costituisce in fondo nient'altro che una raccolta letteraria di scritti la cui composizione si estende per un intero millennio. Solo il soggetto dal quale questa letteratura è nata - il popolo di Dio pellegrinante - fa di questa raccolta letteraria, con tutta la sua varietà e i suoi apparenti contrasti, un unico libro. Questo popolo però sa che non parla né agisce da sé, ma è debitore a Colui che fa di esso un popolo: lo stesso Dio vivente che gli parla attraverso gli autori dei singoli libri.


Il sogno dunque si è avverato? I secondi cinquant'anni della Commissione Biblica hanno cancellato e messo da parte come illegittimo quello che i primi cinquant'anni avevano prodotto?

Alla prima domanda risponderei che il sogno è stato tradotto in realtà e che simultaneamente è stato anche corretto
. La mera oggettività del metodo storico non esiste. È semplicemente impossibile escludere del tutto la filosofia, ovvero la precomprensione ermeneutica. Questo si evidenziava già, ancora vivente Maier, per esempio, nel "Commento a Giovanni" di Bultmann, dove la filosofia heideggeriana non serviva solo per rendere presente ciò che storicamente era lontano agendo, per così dire, come mezzo di trasporto che trasferisce il passato nel nostro oggi, ma anche come pontile che porta il lettore dentro il testo. Ora, questo tentativo è fallito, ma è diventato evidente che il puro metodo storico - come del resto anche nel caso della letteratura profana - non esiste.

È senz'altro comprensibile che i teologi cattolici, all'epoca in cui le decisioni della Commissione Biblica di allora impedivano loro una pura applicazione del metodo storico-critico, guardassero con invidia ai teologi evangelici, i quali, nel frattempo, con la serietà della loro ricerca, erano in grado di presentare risultati e acquisizioni nuove sul come questa letteratura, che noi chiamiamo Bibbia, sia nata e cresciuta lungo il cammino del popolo di Dio. Con ciò però si prendeva troppo poco in considerazione il fatto che nella teologia protestante c'era il problema opposto
.

È quanto si vede chiaramente, per esempio, nella conferenza tenuta nel 1936 dal grande allievo di Bultmann, più tardi convertitosi al cattolicesimo, Heinrich Schlier, sulla responsabilità ecclesiale dello studente di teologia. In quei tempi, la cristianità evangelica in Germania era impegnata in una battaglia per la sopravvivenza: lo scontro fra i cosiddetti Cristiani tedeschi (deutsche Christen), che, sottomettendo il cristianesimo all'ideologia del nazionalsocialismo, lo falsificarono nelle sue radici e la Chiesa confessante (Bekennende Kirche). In questo contesto Schlier rivolse agli studenti di teologia queste parole: "... Riflettete un attimo su che cosa sia meglio: che la Chiesa, in modo legittimo e dopo attenta riflessione, tolga l'insegnamento a un teologo per una dottrina eterodossa, oppure che il singolo in modo gratuito tacci l'uno o l'altro insegnante di eterodossia e metta in guardia da lui? Non si deve pensare che il giudicare finisca quando si lascia che ciascuno giudichi ad libitum. Qui la visione liberale è coerente nell'affermare che non può esistere nessuna decisione sulla verità di un insegnamento, che perciò ogni insegnamento ha qualcosa di vero e che quindi nella Chiesa devono essere ammessi tutti gli insegnamenti. Ma noi non condividiamo questa visione. Essa nega infatti che Dio abbia veramente preso una decisione in mezzo a noi...". Chi si ricorda che allora gran parte delle Facoltà protestanti di teologia era quasi esclusivamente nelle mani dei Cristiani tedeschi e che Schlier per affermazioni come quella appena citata dovette lasciare l'insegnamento accademico, può rendersi conto anche dell'altra faccia di questa problematica.


Veniamo così alla seconda e conclusiva questione: come dobbiamo valutare, oggi, i primi cinquant'anni della Commissione Biblica?

Tutto fu soltanto, per così dire, un tragico condizionamento della libertà della teologia, un insieme di errori dai quali ci dovevamo liberare nei secondi cinquant'anni della Commissione, o non dobbiamo invece considerare questo difficile processo in modo più articolato? Che le cose non siano così semplici, come sembrò nei primi entusiasmi all'inizio del Concilio, risulta forse già da quanto abbiamo appena detto. Rimane vero che il Magistero, con le decisioni citate, ha allargato troppo l'ambito delle certezze che la fede può garantire; per questo resta vero che è stata con ciò diminuita la credibilità del Magistero e ristretto in modo eccessivo lo spazio necessario alle ricerche e agli interrogativi esegetici.

Ma resta altresì vero che, per quanto concerne l'interpretazione della Scrittura, la fede ha da dire una sua parola e che quindi anche i pastori sono chiamati a correggere quando si perde di vista la particolare natura di questo libro e una oggettività, che è pura solo in apparenza, fa sparire quel che la Sacra Scrittura ha di suo proprio e di specifico. È stata dunque indispensabile una faticosa ricerca, perché la Bibbia avesse la sua giusta ermeneutica e l'esegesi storico-critica il suo giusto posto.


Mi sembra che del problema, allora e tuttora in questione, si possano distinguere due livelli. A un primo livello ci si deve domandare fin dove si estenda la dimensione puramente storica della Bibbia e dove cominci la sua specificità che sfugge alla mera razionalità storica. Si potrebbe anche formulare come un problema interno allo stesso metodo storico: che cosa esso può fare in realtà e quali sono i suoi limiti intrinseci? Quali altre modalità di comprensione sono necessarie per un testo di questo genere? La faticosa ricerca da intraprendere si può paragonare, in un certo senso, alla fatica che ha richiesto il caso Galileo. Fino a quel momento sembrava che la visione geocentrica del mondo fosse legata in modo inestricabile a quanto era rivelato dalla Bibbia; sembrava che chi era in favore della visione eliocentrica del mondo disgregasse il nocciolo della Rivelazione.

Il rapporto tra l'apparenza esterna e il vero e proprio messaggio dell'insieme doveva essere rivisto a fondo, e solo lentamente si sarebbero potuti elaborare i criteri che avrebbero permesso di mettere in un giusto rapporto fra loro la razionalità scientifica e il messaggio specifico della Bibbia. Certo, la tensione non si può mai dire del tutto risolta, poiché la fede testimoniata dalla Bibbia include anche il mondo materiale, asserisce qualcosa anche su di esso, sulla sua origine e su quella dell'uomo in particolare.


Ridurre tutta la realtà così come ci viene incontro a pure cause materiali, confinare lo Spirito creatore nella sfera della mera soggettività è inconciliabile con il messaggio fondamentale della Bibbia. Questo comporta però un dibattito intorno alla natura stessa della vera razionalità; poiché, se si presenta una spiegazione puramente materialistica della realtà come unica possibile espressione della razionalità, allora la razionalità stessa è falsamente intesa. Qualcosa di analogo si deve affermare per quanto riguarda la storia.

In un primo momento sembrava indispensabile, per l'attendibilità della Scrittura e dunque per la fede fondata su di essa, che il Pentateuco dovesse essere attribuito indiscutibilmente a Mosè o che gli autori dei singoli Vangeli dovessero essere veramente quelli nominati dalla Tradizione. Anche qui bisognava, per così dire, ridefinire lentamente gli ambiti; il fondamentale rapporto tra fede e storia andava ripensato. Una simile chiarificazione non era impresa che si potesse fare dall'oggi al domani
. Anche qui ci sarà sempre spazio per la discussione. L'opinione che la fede come tale non conosca assolutamente niente dei fatti storici e debba lasciare tutto questo agli storici, è gnosticismo: tale opinione disincarna la fede e la riduce a pura idea. Per la fede che si basa sulla Bibbia, è invece esigenza costitutiva proprio il realismo dell'accadimento.

Un Dio che non può intervenire nella storia e mostrarsi in essa non è il Dio della Bibbia
. Per cui la realtà della nascita di Gesù dalla Vergine Maria, l'effettiva istituzione dell'Eucarestia da parte di Gesù nell'Ultima Cena, la sua risurrezione corporale dai morti - è questo il significato del sepolcro vuoto - sono elementi della fede in quanto tale, che essa può e deve difendere contro una solo presunta miglior conoscenza storica. Che Gesù - in tutto ciò che è essenziale - sia stato effettivamente quello che ci mostrano i Vangeli non è affatto una congettura storica, ma un dato di fede. Obiezioni che vogliano convincerci del contrario non sono espressione di un'effettiva conoscenza scientifica, ma sono un'arbitraria sopravvalutazione del metodo. Che, peraltro, molte questioni nei loro particolari debbano rimanere aperte ed essere affidate a una interpretazione conscia delle sue responsabilità è quanto nel frattempo abbiamo imparato.


Con ciò appare ormai il secondo livello del problema: non si tratta semplicemente di fare un elenco di elementi storici indispensabili alla fede. Si tratta di vedere cosa può la ragione e perché la fede possa essere ragionevole e la ragione aperta alla fede. Frattanto non sono state corrette soltanto le decisioni della Commissione Biblica che erano entrate troppo nell'ambito delle questioni meramente storiche; abbiamo anche imparato qualcosa di nuovo sulle modalità e i limiti della conoscenza storica. Werner Heisenberg, nell'ambito delle scienze naturali, ha appurato con la sua "Unsicherheitsrelation" che il nostro conoscere non rispecchia mai soltanto ciò che è oggettivo, ma è sempre determinato anche dalla partecipazione del soggetto, dalla prospettiva in cui pone le domande e dalla sua capacità di percezione.

Tutto ciò, naturalmente, vale in misura senza paragone più grande laddove entra in gioco l'uomo stesso o laddove si fa percepibile il mistero di Dio. Fede e scienza, Magistero ed esegesi, pertanto, non si contrappongono più come mondi chiusi in se stessi.


La fede è essa stessa un modo di conoscere. Volerla accantonare non produce la pura oggettività, ma costituisce la scelta di un'angolazione che esclude una determinata prospettiva e non vuole più tener conto delle condizioni casuali della angolazione scelta. Se però ci si rende conto che le Sacre Scritture provengono da Dio attraverso un soggetto che vive tuttora - il popolo di Dio pellegrinante - allora anche razionalmente risulta chiaro che questo soggetto ha qualcosa da dire sulla comprensione del libro.

La Terra Promessa della libertà è più affascinante e multiforme di quello che poteva immaginare l'esegeta del 1948. Le intrinseche condizioni della libertà sono diventate evidenti. Essa presuppone ascolto attento, conoscenza dei limiti delle varie vie, piena serietà della ratio, ma anche prontezza a limitarsi e a superarsi nel pensare e nel vivere assieme al soggetto che ci garantisce i diversi scritti dell'Antica e Nuova Alleanza come un'unica opera, la Sacra Scrittura. Siamo profondamente grati per le aperture che, come frutto di una lunga fatica di ricerca, ci ha donato il Concilio Vaticano II.


Ma non condanniamo neanche con leggerezza il passato, bensì lo vediamo come parte necessaria di un processo di conoscenza che, considerata la grandezza della Parola rivelata e i limiti delle nostre capacità, ci porrà sempre davanti a nuove sfide
. Ma proprio in questo sta il bello. E così, a cento anni dalla costituzione della Commissione Biblica, nonostante tutti i problemi sorti in questo lasso di tempo, possiamo ancora guardare, grati e pieni di speranza, alla strada che si apre davanti a noi.


Card. JOSEPH RATZINGER

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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14/03/2009 18:32
 
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Benedetto XVI e il realismo della fede

Lo strano divorzio tra esegesi biblica e teologia


di Enrico dal Covolo

Quale esegesi biblica per la Chiesa cattolica oggi, all'inizio del terzo millennio? È la questione fondamentale del nuovo libro di monsignor Lorenzo Leuzzi, direttore dell'Ufficio per la pastorale universitaria del Vicariato di Roma (
La Parola nelle parole. Dal biblicismo al realismo della fede. I discorsi di Benedetto XVI al Sinodo dei Vescovi, Libreria Editrice Vaticana, euro 10, pagine 104).
Già prima del Sinodo, la pubblicazione del
Gesù di Nazaret di Benedetto XVI ha segnato una tappa decisiva in questo urgente itinerario di "unità tra esegesi e teologia". Com'è noto, la proposta originale del libro del Papa consisteva nell'integrare il metodo storico-critico con alcuni criteri nuovi, maturati soprattutto negli ultimi due decenni in vari ambienti cattolici della ricerca teologico-biblica.
 
I "criteri nuovi" individuati dal Papa erano soprattutto una fiducia sostanziale nell'attendibilità storica del dato neotestamentario, contro il sospetto metodico; una robusta rivendicazione dell'unità e della continuità tra l'Antico e il Nuovo Testamento; un'ermeneutica più "ecclesiale", docile alla tradizione viva della Chiesa e al magistero dei suoi Padri, considerati come i primi interpreti della Scrittura; una più viva attenzione alla cosiddetta analogia fidei, cioè alle consonanze interne e alle corrispondenze reciproche dei vari dati della fede.
Questo "metodo nuovo" - che il Papa definiva "esegesi canonica" (Gesù di Nazaret, p. 14) - consente, in ultima analisi, di "presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il "Gesù storico" in senso vero e proprio" (p. 18). Così non c'è più alcuna divaricazione tra il Gesù di Nazaret e il Cristo della fede.
 
La tappa successiva, e al momento insuperata, nel medesimo itinerario di "unità tra esegesi e teologia" è costituita
dall'intervento di Benedetto XVI alla quattordicesima congregazione generale dell'ultimo Sinodo.
Tale intervento è riportato integralmente ne La Parola nelle parole, ed è commentato a più riprese nel testo. A ben guardare, l'intervento del Papa introduce un importante elemento di novità: assume i "criteri nuovi" dell'"esegesi canonica" per fondare e raccomandare una vera e propria "esegesi teologica". Il passaggio centrale è il seguente: "Il Concilio indica tre elementi metodologici fondamentali, al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia". Si deve cioè interpretare il testo tenendo presente l'unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama "esegesi canonica". Al tempo del Concilio questo termine non era stato ancora creato, ma il Concilio dice la stessa cosa: occorre tener presente l'unità di tutta la Scrittura e la viva tradizione di tutta la Chiesa, e finalmente bisogna osservare l'"analogia della fede".
 
In maniera coerente, il Papa va al cuore del nostro problema, quando aggiunge: "Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una "esegesi teologica", di un'esegesi adeguata a questo Libro. Mentre al primo livello l'attuale esegesi accademica lavora a un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l'altro livello... E questo ha conseguenze piuttosto gravi". La più grave è senza dubbio la devastante divaricazione tra la cosiddetta "esegesi scientifica" e la lectio divina, basata sull'"esegesi spirituale" o "allegorica" dei nostri Padri.
A sua volta, questa divaricazione trova le sue profonde radici nell'ormai millenaria, reciproca indifferenza tra la cosiddetta teologia razionale, fondata sull'esigenza di chi pretende di capire tutto con le proprie forze, e la teologia monastica, la "teologia in ginocchio", per la quale la vera conoscenza di Dio passa attraverso l'esperienza contemplativa del suo amore.

La proposta centrale di monsignor Leuzzi fin dal sottotitolo del suo libro invita a ricomporre tale divaricazione, trascorrendo dal "biblicismo" al "realismo della fede".

È noto che il cosiddetto "realismo della fede" nel pensiero di Papa Ratzinger si fonda sul fatto che al centro della nostra fede non sta una serie di parole, e neppure un insieme di asserti teorici, ma l'incontro realissimo con una Persona, Gesù di Nazaret, il Lògos, il Salvatore del mondo. Così il medesimo "realismo della fede" si oppone a ogni sorta di "biblicismo" come pure a qualunque visione meramente intellettualistica e astratta di Dio. In questo il Papa dipende dai suoi maestri prediletti, che sono i grandi scrittori e dottori della Chiesa, da Origene ad Agostino, fino a Bonaventura. Per tutti loro la forma più alta della conoscenza è l'amore. Proprio questo è il "realismo della fede", che la Chiesa è chiamata a introdurre nel dibattito culturale di oggi come contributo peculiare al nuovo umanesimo.

L'esperienza di Gesù Cristo - diceva il Papa agli universitari il 23 giugno 2007 - non si può limitare alla semplice sfera intellettuale. Essa "include anche una rinnovata abilità: (... quella) di lasciarci entusiasmare dalla realtà, la cui Verità si può capire (solo) unendo l'amore alla comprensione". Questo "realismo della fede" si esprime anzitutto nei santi, testimoni privilegiati della verità e dell'amore. Ma un vibrante appello alla testimonianza il Papa lo rivolge a tutti i credenti, e tra essi, in modo particolare, a coloro che sono "chiamati a incarnare la verità della carità intellettuale, riscoprendo la loro primordiale vocazione a formare le generazioni future non solo mediante l'insegnamento, ma anche attraverso la testimonianza profetica della propria vita".

Il "realismo della fede", mentre ricompone l'annosa divaricazione tra esegesi e teologia, fonda la "nuova evangelizzazione" e promuove il "nuovo umanesimo", traguardo ideale del dialogo tra la cultura e la fede davanti alla crisi della modernità. Infine potremmo riferirci a un passaggio illuminante della Spe salvi, là dove Benedetto ribadisce che "non è la scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore" (n. 26).

In altri termini, non è il "biblicismo", non sono le parole che salvano. Ciò che salva è quell'unica Parola d'Amore che è Gesù Cristo, il Figlio di Dio. "Se esiste", come di fatto esiste, "l'Amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora - soltanto allora - l'uomo è "redento", qualunque cosa gli accade".

(©L'Osservatore Romano - 14 marzo 2009)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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23/05/2009 08:21
 
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Per superare il dualismo tra esegesi e teologia nell'interpretazione della Scrittura

L'autentico realismo si trova nella fede



In occasione del solenne atto accademico per il centenario della fondazione del Pontificio Istituto Biblico il cardinale prefetto della Congregazione per l'Educazione Cattolica e Gran Cancelliere della Pontificia Università Gregoriana ha tenuto un intervento del quale riportiamo alcuni brani.

di Zenon Grocholewski

La rilevanza e la responsabilità del Pontificio Istituto Biblico scaturiscono principalmente da due fattori:  l'importanza della Sacra Scrittura e della sua corretta interpretazione, nonché la delicatezza e complessità di tale interpretazione e trasmissione del suo messaggio. "L'interpretazione della Sacra Scrittura è di importanza capitale per la fede cristiana e per la vita della Chiesa", ha notato Benedetto XVI nel Discorso ai membri della Pontificia Commissione Biblica il 23 aprile scorso (Cb).

Questa importanza, come pure il ruolo vitale della Bibbia per la vita cristiana, traspariva, del resto, fortemente durante l'assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi - che si è svolta dal 5 al 26 ottobre 2008 - il cui tema era proprio "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa", e trova un'eco rigogliosa nei documenti del Sinodo già pubblicati.
L'importanza della Parola di Dio e della retta interpretazione è fondata sul fatto che "tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, invisibile e trascendente Autore" (Cb), e quindi le Scritture "insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Lettere" (Dei Verbum, 11).

Di conseguenza, solo chi costruisce la propria vita sulla Parola di Dio, la costruisce sulla roccia (cfr. Matteo, 7, 24-27; Luca, 6, 46-49), ed è veramente realista. Di questo realismo ha parlato il Santo Padre nella sua meditazione nell'aula del Sinodo il 6 ottobre 2008, concludendo:  "Quindi dobbiamo cambiare il nostro concetto di realismo. Realista è chi riconosce nella Parola di Dio, in questa realtà apparentemente così debole, il fondamento di tutto. Realista è chi costruisce la sua vita su questo fondamento che rimane in permanenza".

L'impegno del Biblicum è molto delicato e non facile. Per interpretare la Bibbia e ricavare da essa il genuino insegnamento salvifico, non bastano, infatti, le capacità intellettuali, ma ci vuole la fede, un vero ascolto, la preghiera, la docilità allo Spirito Santo, un forte senso ecclesiale, la seria considerazione della Tradizione e ottemperanza alla voce del Magistero (cfr. Dei Verbum, 10).

Nell'intervento del 14 ottobre 2008 durante il Sinodo dei vescovi (Sv), il Santo Padre ha osservato:  "La Dei Verbum 12 offre due indicazioni metodologiche per un adeguato lavoro esegetico. In primo luogo, conferma la necessità dell'uso del metodo storico-critico (...) Il fatto storico è una dimensione costitutiva della fede cristiana. La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica".

"Tuttavia - continua il Pontefice - questa storia ha un'altra dimensione, quella dell'azione divina. Di conseguenza la Dei Verbum parla di un secondo livello metodologico necessario per una interpretazione giusta delle parole, che sono nello stesso tempo parole umane e Parola divina. Il Concilio dice (...) che la Scrittura è da interpretare nello stesso spirito nel quale è stata scritta e indica di conseguenza tre elementi metodologici fondamentali al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia:  si deve cioè 1) interpretare il testo tenendo presente l'unità di tutta la Scrittura (...); 2) si deve poi tener presente la viva tradizione di tutta la Chiesa, e finalmente 3) bisogna osservare "l'analogia della fede" ossia la "coesione delle singole verità di fede tra di loro e con il piano complessivo della Rivelazione e la pienezza della divina economia in esso racchiusa".

"Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica, di una esegesi adeguata a questo Libro".

Il Santo Padre osserva poi realisticamente:  "Mentre circa il primo livello l'attuale esegesi accademica lavora a un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l'altro livello. Spesso questo secondo livello, il livello costituito dai tre elementi teologici indicati dalla Dei Verbum, appare quasi assente. E questo ha conseguenze piuttosto gravi" (Sv).

Benedetto XVI non ha omesso di indicare queste "conseguenze piuttosto gravi":  "La prima conseguenza dell'assenza di questo secondo livello metodologico è che la Bibbia diventa un libro solo del passato (...) e l'esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura. (...) C'è anche una seconda conseguenza ancora più grave:  dove scompare l'ermeneutica della fede indicata dalla Dei Verbum, appare necessariamente un altro tipo di ermeneutica, un'ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana. Secondo tale ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, si deve spiegare da dove viene tale impressione e ridurre tutto all'elemento umano. Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini. (...) Questo avviene perché manca un'ermeneutica della fede:  si afferma allora un'ermeneutica filosofica profana, che nega la possibilità dell'ingresso e della presenza reale del Divino nella storia. La conseguenza dell'assenza del secondo livello metodologico è che si è creato un profondo fossato tra esegesi scientifica e lectio divina" (Sv).

Il Santo Padre ha concluso nell'aula del Sinodo, dicendo:  "Dove l'esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l'anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento. Perciò per la vita e per la missione della Chiesa, per il futuro della fede, è assolutamente necessario superare questo dualismo tra esegesi e teologia. (...) Sarà quindi necessario allargare la formazione dei futuri esegeti in questo senso, per aprire realmente i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi".

La stessa preoccupazione del Pontefice viene espressa nel Discorso ai membri della Pontificia Commissione Biblica del 23 aprile scorso.
Qui il Santo Padre ha esplicitato più chiaramente il suo pensiero circa l'aspetto ecclesiale dell'operato esegetico, mettendo in rilievo il ruolo del Magistero e della Tradizione vivente della Chiesa. Al riguardo ha osservato:  "Per rispettare la coerenza della fede della Chiesa l'esegeta cattolico deve essere attento a percepire la Parola di Dio in questi testi, all'interno della stessa fede della Chiesa". "Questa norma - ha precisato - è decisiva per precisare il corretto e reciproco rapporto tra l'esegesi e il Magistero della Chiesa. L'esegeta cattolico non si sente soltanto membro della comunità scientifica, ma anche e soprattutto membro della comunità dei credenti di tutti i tempi".

Circa la relazione tra la Tradizione e la Sacra Scrittura il Pontefice ha riferito l'insegnamento della Dei Verbum 9, ancorato proprio nella Tradizione della Chiesa:  "La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Ambedue infatti, scaturendo dalla stessa divina sorgente, formano, in un certo qual modo, una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito Santo; invece la Sacra Tradizione trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano. In questo modo la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura. Perciò l'una e l'altra devono esser accettate e venerate con pari sentimento di pietà e di riverenza".

Riguardo a questi tre elementi - la Sacra Scrittura, la Tradizione e il Magistero della Chiesa - pare perentoria la constatazione (riassuntiva) della Dei Verbum 10:  "La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa. (...) L'ufficio poi d'interpretare autenticamente la Parola di Dio, scritta o trasmessa, è affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. (...) È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo proprio, sotto l'azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime".



(©L'Osservatore Romano - 22-23 maggio 2009)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Exclamation L'interpretazione della Bibbia (card. J. Ratzinger)

PREFAZIONE
dell'Em.mo Card. Joseph Ratzinger


al documento

L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa

Lo studio della Bibbia è come l’anima della teologia; lo dice il Concilio Vaticano II (Dei Verbum 24), rifacendosi a una espressione del Papa Leone XIII. Tale studio non è mai finito; ogni epoca deve di nuovo, a modo suo, cercare di capire i Libri Sacri. Nella storia dell’interpretazione, l’uso del metodo storico-critico ha segnato l’inizio di una nuova era. Grazie a questo metodo sono apparse nuove possibilità di capire il testo biblico nel suo senso originario. Come ogni realtà umana, questo metodo nasconde in sé, con le sue possibilità positive, alcuni pericoli.


La ricerca del senso originario può portare a confinare la Parola esclusivamente nel passato, di modo che la sua portata presente non è più percepita. Il risultato può essere che soltanto la dimensione umana della Parola appaia reale; il vero autore, Dio, sfugge alle prese di un metodo che è stato elaborato in vista della comprensione di realtà umane. L’applicazione alla Bibbia di un metodo “profano” era necessariamente soggetta a discussione.

Tutto ciò che aiuta a conoscere meglio la verità e a disciplinare le proprie idee offre alla teologia un contributo valido. In questo senso, era giusto che il metodo storico-critico fosse accettato nel lavoro teologico. Però tutto ciò che restringe il nostro orizzonte e ci impedisce di portare lo sguardo e l’ascolto al di là di quanto è meramente umano, deve essere rigettato affinché un’apertura sia mantenuta. Perciò l’apparizione del metodo storico-critico ha subito suscitato un dibattito circa la sua utilità e la sua giusta configurazione, un dibattito che non è concluso finora in nessun modo.

In questo dibattito, il Magistero della Chiesa cattolica ha più volte preso posizione con importanti documenti.

In primo luogo, il Papa Leone XIII ha fissato alcune direttive per l’orientamento dell’esegesi, nella sua enciclica Providentissimus Deus del 18 novembre 1893.
In un tempo in cui si manifestava un liberalismo estremamente sicuro di sé e persino dommatico, Leone XIII esprimeva soprattutto diverse critiche, senza escludere pertanto l’aspetto positivo delle nuove possibilità.

Cinquant’anni dopo, grazie al lavoro fecondo di grandi esegeti cattolici, il Papa Pio XII poteva dare maggior posto agli incoraggiamenti e invitare, nella sua enciclica Divino afflante Spiritu del 30 settembre 1943, a sfruttare i metodi moderni per la comprensione della Bibbia.

La Costituzione del Concilio Vaticano II sulla Rivelazione divina, Dei Verbum, del 18 novembre 1965, riprende tutto questo, unisce le prospettive durature della teologia patristica e le nuove conoscenze metodologiche dei moderni e ci dà una sintesi, che rimane autorevole.

Nel frattempo, la gamma metodologica degli studi esegetici si è ampliata in un modo che non era prevedibile trent’anni fa.

Nuovi metodi e nuovi approcci vengono proposti, dallo strutturalismo all’esegesi materialista, psicanalitica e liberazionista. Da un altro lato ugualmente, nuovi tentativi sono in corso; mirano a trarre profitto, di nuovo, dai metodi dell’esegesi patristica e a proporre nuove forme d’interpreta­zione spirituale della Scrittura.

La Pontificia Commissione Biblica si è quindi presa il compito, cent’anni dopo la Providentissimus Deus e cinquant’anni dopo la Divino afflante Spiritu, di cercare di definire una posizione di esegesi cattolica nella situazione attuale.

Nella nuova conformazione che le è stata data in seguito al Vaticano II, la Pontificia Commissione Biblica non è un organo del Magistero, bensì una commissione di esperti che, consapevoli della loro responsabilità scientifica ed ecclesiale in quanto esegeti cattolici, prendono posizione su problemi essenziali d’interpretazione della Scrittura e sanno di avere per questo la fiducia del Magistero.
Così è stato elaborato il presente documento.

Esso presenta una visione d’insieme, ben fondata, del panorama dei metodi attuali e offre, a chi lo chiede, un orientamento circa le possibilità e i limiti di queste vie. Su questo sfondo, il documento considera la questione del senso della Scrittura: in che modo è possibile riconoscere tale senso, in cui si compenetrano la parola umana e la parola divina, la singolarità dell’evento storico e la costante validità della parola eterna, contemporanea di ciascuna epoca.

La parola biblica ha la sua origine in un passato che è reale, ma non soltanto in un passato, viene anche dall’eternità di Dio. Ci conduce nell’eternità di Dio, passando però attraverso il tempo, che comprende il passato, il presente e il futuro. Credo che il documento rechi veramente un prezioso aiuto per rischiarare la questione della giusta via verso la comprensione della Sacra Scrittura e apra nuove prospettive. Prosegue nella linea delle encicliche del 1893 e del 1943 e prolunga questa linea in maniera feconda.

Ai membri della Commissione Biblica vorrei esprimere la mia gratitudine per lo sforzo paziente e spesso arduo, con il quale a poco a poco è stato prodotto questo testo. Auguro al documento una larga diffusione, affinché contribuisca efficacemente alla ricerca di una più profonda appropriazione della Parola di Dio nella Sacra Scrittura.

Roma, nella festa dell’evangelista San Matteo 1993.

+ JOSEPH Card. RATZINGER




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Fraternamente CaterinaLD

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Questo discorso è stato pronunciato il venerdì 23 aprile 1993 durante una udienza commemorativa del centenario dell’Enciclica “Providentissimus Deus” di Leone XIII e del cinquantenario dell’Enciclica “Divino afflante Spiritu” di Pio XII, entrambe consacrate alle questioni bibliche.

L’udienza ebbe luogo nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico, alla presenza dei membri del Collegio Cardinalizio, del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, della Pontificia Commissione Biblica e del Corpo Professorale del Pontificio Istituto Biblico.
Nel corso dell’udienza, il Cardinale J. Ratzinger presentò al Santo Padre il documento della Commissione Biblica sull’interpretazione della Bibbia nella Chiesa.



Signori Cardinali,
Signori Capi delle Missioni Diplomatiche,
Signori Membri della Pontificia Commissione Biblica,
Signori Professori del Pontificio Istituto Biblico,


1. Ringrazio di tutto cuore il Cardinale Ratzinger dei sentimenti che ha appena espresso presentandomi il documento elaborato dalla Pontificia Commissione Biblica sull’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Con gioia accolgo questo documento, frutto di un lavoro collegiale intrapreso per vostra iniziativa, Signor Cardinale, e portato avanti con perseveranza per diversi anni. Esso risponde a una preoccupazione che mi sta a cuore, poiché l’interpretazione della Sacra Scrittura è di una importanza capitale per la fede cristiana e per la vita della Chiesa. «Nei libri sacri, infatti – come ci ha così ben ricordato il Concilio –, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale» (Dei Verbum, n. 21). Il modo di interpretare i testi biblici per gli uomini e le donne di oggi ha delle conseguenze dirette sul loro rapporto personale e comunitario con Dio, ed è anche strettamente legato alla missione della Chiesa. Si tratta di un problema vitale che meritava tutta la vostra attenzione.

2. Il vostro lavoro si conclude in un momento molto opportuno, perché mi offre l’occasione di celebrare con voi due anniversari ricchi di significato: il centenario dell’Enciclica Providentissimus Deus, e il cinquantenario dell’Enciclica Divino afflante Spiritu, entrambe consacrate alle questioni bibliche. Il 18 novembre 1893 Papa Leone XIII, molto attento ai problemi intellettuali, pubblicava la sua enciclica sugli studi della Sacra Scrittura, al fine, scriveva, «di stimolarli e raccomandarli» e anche di «orientarli in una maniera che corrisponda meglio ai bisogni dei tempi» (Enchiridion Biblicum, n. 82). Cinquant’anni dopo, Papa Pio XII offriva agli esegeti cattolici, nella sua enciclica Divino afflante Spiritu, nuovi incoraggiamenti e nuove direttive. Nel frattempo, il Magistero pontificio aveva manifestato la propria attenzione costante ai problemi scritturistici attraverso numerosi interventi. Nel 1902, Leone XIII creava la Commissione Biblica; nel 1909, Pio X fondava l’Istituto Biblico. Nel 1920, Benedetto XV celebrava il 1500° anniversario della morte di San Girolamo con un’enciclica sull’interpretazione della Bibbia. Il vivo impulso dato così agli studi biblici ha trovato piena conferma nel Concilio Vaticano II cosicché tutta la Chiesa ne ha tratto beneficio. La Costituzione Dogmatica Dei Verbum illumina l’opera degli esegeti cattolici e invita i Pastori e i fedeli a alimentarsi più assiduamente della parola di Dio contenuta nelle Scritture.

Desidero oggi mettere in risalto alcuni aspetti dell’insegnamento di queste due encicliche e la validità permanente del loro orientamento attraverso circostanze mutevoli al fine di poter meglio beneficiare del loro contributo.

I. Dalla “Providentissimus Deus” alla “Divino afflante Spiritu”

3. In primo luogo, si nota fra questi due documenti un’importante differenza. Si tratta della parte polemica – o, più precisamente, apologetica – delle due encicliche. Infatti, l’una e l’altra manifestano la preoccupazione di rispondere agli attacchi contro l’interpretazione cattolica della Bibbia, ma questi attacchi non andavano nella stessa direzione. La Providentissimus Deus, da una parte, vuole soprattutto proteggere l’interpretazione cattolica della Bibbia dagli attacchi della scienza razionalista; dall’altra, la Divino afflante Spiritu si preoccupa piuttosto di difendere l’interpretazione cattolica dagli attacchi che si oppongono all’utilizzazione della scienza da parte degli esegeti e che vogliono imporre un’interpretazione non scientifica, cosiddetta “spirituale”, delle Sacre Scritture.
Questo cambiamento radicale della prospettiva era dovuto, evidentemente, alle circostanze. La Providentissimus Deus fu pubblicata in un’epoca segnata da forti polemiche contro la fede della Chiesa. L’esegesi liberale forniva a queste polemiche un sostegno importante, poiché essa utilizzava tutte le risorse delle scienze, dalla critica testuale alla geologia, passando per la filologia la critica letteraria, la storia delle religioni, l’archeologia e altre discipline ancora. Al contrario, la Divino afflante Spiritu venne pubblicata poco tempo dopo una polemica del tutto differente, condotta, soprattutto in Italia, contro lo studio scientifico della Bibbia. Un opuscolo anonimo era stato ampiamente diffuso per mettere in guardia contro ciò che esso descriveva come un «gravissimo pericolo per la Chiesa e per le anime: il sistema critico-scientifico nello studio e nell’interpretazione della Sacra Scrittura, le sue funeste deviazioni e le sue aberrazioni».

4. Nell’uno e nell’altro caso, la reazione del Magistero fu significativa, poiché, invece di attenersi a una risposta puramente difensiva, esso andava a fondo del problema e manifestava così –notiamolo subito– la fede della Chiesa nel mistero dell’Incarnazione.
Contro le offensive dell’esegesi liberale, che presentava le sue affermazioni come delle conclusioni fondate su dati acquisiti dalla scienza, si sarebbe potuto reagire lanciando un anatema sull’utilizzazione delle scienze nell’interpretazione della Bibbia e ordinando agli esegeti cattolici di attenersi a una spiegazione “spirituale” dei testi.
La Providentissimus Deus non intraprende questa strada. Al contrario, l’enciclica invita insistentemente gli esegeti cattolici ad acquisire una autentica competenza scientifica in modo da superare i propri avversari sul loro stesso terreno. «Il primo» modo di difesa, essa dice, «si trova nello studio delle antiche lingue dell’Oriente così come nell’esercizio della critica scientifica» (EB 118). La Chiesa non teme la critica scientifica. Essa diffida solamente delle opinioni preconcette che pretendono di fondarsi sulla scienza ma che, in realtà, fanno uscire subdolamente la scienza dal suo campo.
Cinquant’anni dopo, nella Divino afflante Spiritu, Papa Pio XII può costatare la fecondità delle direttive offerte dalla Providentissimus Deus: «Grazie a una migliore conoscenza delle lingue bibliche e di tutto ciò che riguarda l’Oriente, … un buon numero di questioni sollevate al tempo di Leone XIII contro l’autenticità, l’antichità, l’integrità e il valore storico dei Libri Sacri… si trovano oggi sciolte e risolte» (EB 546). Il lavoro degli esegeti cattolici, «che hanno fatto un uso corretto degli strumenti intellettuali utilizzati dai loro avversari» (n. 562), aveva portato i suoi frutti. Ed è proprio per questo motivo che la Divino afflante Spiritu si mostra meno preoccupata che non la Providentissimus Deus per le offensive contro le posizioni dell’esegesi razionalista.

5. Ma era divenuto necessario rispondere agli attacchi giunti da parte dei sostenitori di un’esegesi cosiddetta “mistica” (n. 552), che cercavano di far condannare dal Magistero gli sforzi dell’esegesi scientifica. Come risponde l’enciclica? Essa avrebbe potuto limitarsi a sottolineare l’utilità e finanche la necessità di questi sforzi per la difesa della fede, il che avrebbe favorito una sorta di dicotomia fra l’esegesi scientifica, destinata all’uso esterno, e l’interpretazione spirituale, riservata all’uso interno. Nella Divino afflante Spiritu, Pio XII ha deliberatamente evitato di procedere in questa direzione. Egli ha al contrario rivendicato la stretta unione fra i due procedimenti, da una parte sottolineando la portata «teologica» del senso letterale, metodicamente definito (EB 551), dall’altra, affermando che, per poter essere riconosciuto quale senso di un testo biblico, il senso spirituale deve presentare delle garanzie di autenticità. Una semplice ispirazione soggettiva non è sufficiente. Si deve poter dimostrare che si tratta di un senso «voluto da Dio stesso», di un significato spirituale «dato da Dio» al testo ispirato (EB 552-553). La determinazione del senso spirituale appartiene dunque, anch’essa, al campo della scienza esegetica.
Costatiamo così che, nonostante la grande diversità delle difficoltà da affrontare, le due encicliche si riuniscono perfettamente a livello più profondo. Esse rifiutano, sia l’una che l’altra, la rottura tra l’umano e il divino, tra la ricerca scientifica e lo sguardo della fede, fra il senso letterale e il senso spirituale. Esse si mostrano su quel punto pienamente in armonia con il mistero dell’Incarnazione.

II. Armonia fra l’esegesi cattolica e il mistero dell’incarnazione

6. Lo stretto rapporto che unisce i testi biblici ispirati al mistero dell’Incarnazione è stato espresso dall’enciclica Divino afflante Spiritu nei seguenti termini: «Così come la Parola sostanziale di Dio si è fatta simile agli uomini in tutti i punti, eccetto il peccato, così le parole di Dio, espresse in lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio umano in tutti i punti, eccetto l’errore» (EB 559). Ripresa quasi letteralmente dalla Costituzione conciliare Dei Verbum (n. 13), questa affermazione mette in luce un parallelismo ricco di significato.
È vero che mettere per iscritto le parole di Dio, grazie al carisma dell’ispirazione scritturale, costituiva un primo passo verso l’Incarnazione del Verbo di Dio. Queste parole scritte costituivano, infatti, un duraturo mezzo di comunicazione e di comunione fra il popolo eletto e il suo unico Signore. D’altra parte, è grazie all’aspetto profetico di queste parole che è stato possibile riconoscere il compimento del disegno di Dio, quando «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Dopo la glorificazione celeste dell’umanità del Verbo fatto carne, è ancora grazie a delle parole scritte che il suo passaggio fra noi rimane attestato in modo duraturo. Uniti agli scritti ispirati della Prima Alleanza, gli scritti ispirati della Nuova Alleanza costituiscono un mezzo verificabile di comunicazione e di comunione fra il popolo credente e Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. Questo mezzo non può certamente essere separato dal fiume di vita spirituale che scaturisce dal Cuore di Gesù crocifisso e che si propaga grazie ai sacramenti della Chiesa. Esso ha nondimeno una sua propria consistenza, quella, propriamente, di un testo scritto, che fa fede.

7. Di conseguenza, le due encicliche richiedono agli esegeti cattolici di restare in piena armonia con il mistero dell’Incarnazione, mistero d’unione del divino e dell’umano in un’esistenza storica assolutamente determinata. L’esistenza terrena di Gesù non viene definita soltanto tramite luoghi e date dell’inizio del primo secolo in Giudea e in Galilea, ma anche tramite il suo radicamento nella lunga storia di un piccolo popolo del Vicino Oriente antico, con le sue debolezze e le sue grandezze, con i suoi uomini di Dio e i suoi peccatori, con la sua lenta evoluzione culturale ed i suoi mutamenti politici, con le sue sconfitte e le sue vittorie, con le sue aspirazioni alla pace e al regno di Dio. La Chiesa di Cristo prende sul serio il realismo dell’Incarnazione ed è per questa ragione che essa attribuisce una grande importanza allo studio “storico-critico” della Bibbia. Lungi dal riprovarla, come avrebbero voluto i sostenitori dell’esegesi “mistica”, i miei predecessori l’hanno vigorosamente approvata. «Artis criticae disciplinam – scriveva Leone XIII – quippe percipiendae penitus hagiographorum sententiae perutilem, Nobis vehementer probantibus, nostri (exegetae, scilicet, catholici) excolant» (Lettera apostolica Vigilantiae, per la fondazione della Commissione Biblica, 30 ottobre 1902, EB 142). La stessa «veemenza» nell’approvazione, lo stesso avverbio (vehementer) si ritrovano nella Divino afflante Spiritu a proposito delle ricerche di critica testuale (cf. EB 548).

8. La Divino afflante Spiritu, come è noto, ha particolarmente raccomandato agli esegeti lo studio dei generi letterari utilizzati nei libri sacri, giungendo ad affermare che l’esegeta cattolico deve «acquisire la convinzione che questa parte del suo compito non può essere trascurata senza un grave danno per l’esegesi cattolica» (EB 560). Questa raccomandazione si basa sulla preoccupazione di comprendere il senso dei testi con tutta l’esattezza e la precisione possibili e, dunque, nel loro contesto culturale storico. Una falsa idea di Dio e dell’Incarnazione spinge un certo numero di cristiani a prendere un orientamento opposto. Essi hanno tendenza a credere che, essendo Dio l’Essere assoluto, ognuna delle sue parole abbia un valore assoluto, indipendente da tutti i condizionamenti del linguaggio umano. Non vi è quindi spazio, secondo costoro, per studiare questi condizionamenti al fine di operare delle distinzioni che relativizzerebbero la portata delle parole. Ma questo significa illudersi e rifiutare, in realtà, i misteri dell’ispirazione scritturale e dell’Incarnazione, rifacendosi ad una falsa nozione dell’Assoluto. Il Dio della Bibbia non è un Essere assoluto che, schiacciando tutto quello che tocca, sopprimerebbe tutte le differenze e tutte le sfumature. È al contrario il Dio creatore, che ha creato la stupefacente varietà degli esseri «ognuno secondo la propria specie», come afferma e riporta il racconto della Genesi (cf. Gn, cap. 1). Lungi dall’annullare le differenze, Dio le rispetta e le valorizza (cf. 1Cor 12, 18.24.28). Quando si esprime in un linguaggio umano, egli non dà ad ogni espressione un valore uniforme, ma ne utilizza le possibili sfumature con estrema flessibilità, e ne accetta anche le limitazioni. È questo che rende il compito degli esegeti così complesso, così necessario e così appassionante! Nessuno degli aspetti umani del linguaggio può essere trascurato. I recenti progressi delle ricerche linguistiche, letterarie ed ermeneutiche hanno portato l’esegesi biblica ad aggiungere allo studio dei generi letterari molti altri punti di vista (retorico, narrativo, strutturalista); altre scienze umane, come la psicologia e la sociologia, sono state parimenti accolte per dare il loro contributo. A tutto questo può essere applicata la consegna che Leone XIII affidava ai membri della Commissione Biblica: «Che essi non stimino estraneo alle loro competenze nulla di ciò che la ricerca industriosa dei moderni avrà trovato di nuovo; al contrario, mantengano lo spirito all’erta per adottare senza ritardi quello che ogni momento porta di utile all’esegesi biblica» (Vigilantiae, EB 140). Lo studio dei condizionamenti umani della parola di Dio deve essere perseguito con un interesse incessantemente rinnovato.

9. Tuttavia, questo studio non è sufficiente. Per rispettare la coerenza della fede della Chiesa e dell’ispirazione della Scrittura, l’esegesi cattolica deve essere attenta a non attenersi agli aspetti umani dei testi biblici. Occorre che essa, anche e soprattutto, aiuti il popolo cristiano a percepire in modo più nitido la parola di Dio in questi testi, in modo da accoglierla meglio, per vivere pienamente in comunione con Dio.
A tal fine è evidentemente necessario che lo stesso esegeta percepisca nei testi la parola divina, e questo non gli è possibile che nel caso in cui il suo lavoro intellettuale venga sostenuto da uno slancio di vita spirituale.
In mancanza di questo sostegno, la ricerca esegetica resta incompleta; essa perde di vista la sua finalità principale e si confina in compiti secondari. Essa può anche diventare una sorta di evasione. Lo studio scientifico dei soli aspetti umani dei testi può far dimenticare che la parola di Dio invita ognuno ad uscire da se stesso per vivere nella fede e nella carità.
L’enciclica Providentissimus Deus ricordava, a questo proposito, il carattere particolare dei Libri Sacri e l’esigenza che ne risulta per la loro interpretazione: «I Libri Sacri – dichiarava – non possono essere assimilati agli scritti ordinari, ma, essendo stati dettati dallo stesso Spirito Santo e avendo un contenuto di estrema gravità, misterioso e difficile sotto molti aspetti, noi abbiamo sempre bisogno, per comprenderli e spiegarli, della venuta dello stesso Spirito Santo, ovvero della sua luce e della sua grazia, che bisogna certamente domandare in un’umile preghiera e preservare attraverso una vita santificata» (EB 89). In una formula più breve, presa in prestito da S. Agostino, la Divino afflante Spiritu esprimeva la stessa esigenza: «Orent ut intellegant!» (EB 569).
Sì, per arrivare ad un’interpretazione pienamente valida delle parole ispirate dallo Spirito Santo, dobbiamo noi stessi essere guidati dallo Spirito Santo, per questo, bisogna pregare, pregare molto, chiedere nella preghiera la luce interiore dello Spirito e accogliere docilmente questa luce, chiedere l’amore, che solo rende capaci di comprendere il linguaggio di Dio, che «è amore» (1Gv 4, 8.16). Durante lo stesso lavoro di interpretazione, occorre mantenersi il più possibile in presenza di Dio.

10. La docilità allo Spirito Santo produce e rafforza un’altra disposizione, necessaria per il giusto orientamento dell’esegesi: la fedeltà alla Chiesa. L’esegeta cattolico non nutre l’illusione individualista che porta a credere che, al di fuori della comunità dei credenti, si possa comprendere meglio i testi biblici. È vero invece il contrario, poiché questi testi non sono stati dati ai singoli ricercatori «per soddisfare la loro curiosità o per fornire loro degli argomenti di studio e di ricerca» (Divino afflante Spiritu, EB 566) essi sono stati affidati alla comunità dei credenti, alla Chiesa di Cristo, per alimentare la fede e guidare la vita di carità. Il rispetto di questa finalità condiziona la validità dell’interpretazione. La Providentissimus Deus ha ricordato questa verità fondamentale e ha osservato che, lungi dall’ostacolare la ricerca biblica, il rispetto di questo dato ne favorisce l’autentico progresso (cf. EB 108-109). È riconfortante constatare che dei recenti studi di filosofia ermeneutica hanno portato una conferma a questa visione delle cose, e che esegeti di diverse confessioni hanno lavorato in analoghe prospettive, sottolineando, per esempio, la necessità di interpretare ogni testo biblico come facente parte del Canone delle Scritture riconosciuto dalla Chiesa, o essendo più attenti agli apporti dell’esegesi patristica.
Essere fedeli alla Chiesa, significa, infatti, situarsi risolutamente nella corrente della grande Tradizione che, sotto la guida del Magistero, assicurato di un’assistenza speciale dello Spirito Santo, ha riconosciuto gli scritti canonici come parola rivolta da Dio al suo popolo, e non ha mai cessato di meditarli e di scoprirne le inesauribili ricchezze. Il Concilio Vaticano II lo ha ribadito: «Tutto questo, infatti, che concerne il modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio» (Dei Verbum, n. 12).
E non è meno vero – è ancora il Concilio che lo sostiene, riprendendo un’affermazione della Providentissimus Deus – che «è compito degli esegeti contribuire (...) alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della Sacra Scrittura, affinché, con studi in qualche modo preparatori, si maturi il giudizio della Chiesa» (Dei Verbum, n. 12: cf. Providentissimus Deus, EB 109: «ut, quasi praeparato studio, judicium Ecclesiae maturetur»).

11. Per meglio adempiere questo compito ecclesiale molto importante, gli esegeti avranno a cuore di rimanere vicini alla predicazione della parola di Dio, sia consacrando una parte del loro tempo a questo ministero, sia intrattenendo delle relazioni con coloro che lo esercitano e aiutandoli con pubblicazioni di esegesi pastorale (cf. Divino afflante Spiritu, EB 551). Eviteranno così di perdersi nei meandri di una ricerca scientifica astratta che li allontanerebbe dal vero senso delle Scritture. Infatti, questo senso non è separabile dalla loro finalità, che è di mettere i credenti in rapporto personale con Dio.

III. Il nuovo documento della Commissione Biblica

12. In queste prospettive – lo affermava la Providentissimus Deus – «un vasto campo di ricerca è aperto al lavoro personale di ciascun esegeta» (EB 109). Cinquanta anni dopo, la Divino afflante Spiritu rinnovava, in termini differenti, la stessa stimolante constatazione: «restano dunque molti punti, e alcuni molto importanti, nella discussione e la spiegazione dei quali la profondità di spirito e il talento degli esegeti cattolici possono e devono esplicarsi liberamente» (EB 565).
Ciò che era vero nel 1943 rimane ancora tale ai nostri giorni, poiché il progresso delle ricerche ha portato soluzioni ad alcuni problemi e, allo stesso tempo, nuove questioni da esaminare. Nell’esegesi, come nelle altre scienze, quanto più si fa avanzare la frontiera del non conosciuto, tanto più si allarga il campo da esplorare. Meno di cinque anni dopo la pubblicazione della Divino afflante Spiritu, la scoperta dei manoscritti di Qumran dava nuova luce a un grande numero di problemi biblici e apriva altri campi di ricerche. In seguito, molte scoperte sono state fatte e nuovi metodi di ricerca e di analisi sono stati approntati.

13. È questo cambiamento di situazione che ha reso necessario un nuovo esame dei problemi. La Pontificia Commissione Biblica si è ricollegata a questo compito e presenta oggi il frutto del suo lavoro, intitolato L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa.
Ciò che colpirà a prima vista in questo documento, è l’apertura di spirito con il quale è concepito. I metodi, gli approcci e le letture adoperati oggi nell’esegesi sono esaminati e, malgrado alcune riserve a volte gravi che è necessario esprimere, si ammette, in quasi tutti, la presenza di elementi validi per un’interpretazione integrale del testo biblico.
Poiché l’esegesi cattolica non ha un metodo di interpretazione proprio ed esclusivo, ma, partendo dalla base storico-critica, svincolata dai presupposti filosofici o altri contrari alla verità della nostra fede, essa beneficia di tutti i metodi attuali, cercando in ciascuno di essi il «seme del Verbo».

14. Un altro tratto caratteristico di questa sintesi è il suo equilibrio e la sua moderazione. Nella sua interpretazione della Bibbia essa sa armonizzare la diacronia e la sincronia riconoscendo che entrambe si completano e sono indispensabili per far emergere tutta la verità del testo e per venire incontro alle legittime esigenze del lettore moderno.
Ed è ancora più importante che l’esegesi cattolica non rivolge la propria attenzione ai soli aspetti umani della rivelazione biblica, il che è a volte il torto del metodo storico-critico, né ai soli aspetti divini, come vuole il fondamentalismo, essa si sforza di mettere in luce gli uni e gli altri, uniti nella divina «condiscendenza» (Dei Verbum, 13), che è alla base di tutta la Scrittura.

15. Potremo infine percepire l’accento posto in questo documento sul fatto che la Parola biblica attiva si rivolge universalmente, nel tempo e nello spazio, a tutta l’umanità. Se «le parole di Dio (...) si sono fatte simili al linguaggio degli uomini» (Dei Verbum, 13), è per essere comprese da tutti. Esse non devono restare lontane «troppo» alte «per te, né troppo» lontane «da te. (...) Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratica» (Dt 30, 11.14).
Questo è lo scopo dell’interpretazione della Bibbia. Se il compito principale dell’esegesi è di raggiungere il senso autentico del testo sacro o i suoi differenti sensi, bisogna in seguito che essa comunichi questo senso al destinatario della Sacra Scrittura che è, se possibile, ogni persona umana.
La Bibbia esercita le sua influenza nel corso dei secoli. Un processo costante di attualizzazione adatta l’interpretazione alla mentalità e al linguaggio contemporanei. Il carattere concreto e immediato del linguaggio biblico facilita grandemente questo adattamento, ma il suo radicamento in una cultura antica provoca molte difficoltà. Bisogna dunque costantemente ritradurre il pensiero biblico in un linguaggio contemporaneo, perché sia espresso in una maniera adatta agli uditori. Questa traduzione deve tuttavia essere fedele all’originale, e non può forzare i testi per adattarli a una lettura o a un approccio in voga in un determinato momento. Bisogna mostrare tutto il fulgore della parola di Dio, anche se espressa «in parole umane» (Dei Verbum, n. 13).

La Bibbia è diffusa oggi in tutti i continenti e in tutte le nazioni. Ma affinché la sua azione sia profonda, bisogna che ci sia una inculturazione secondo il genio specifico di ogni popolo. Forse le nazioni meno segnate dalle deviazioni della moderna civiltà occidentale comprenderanno il messaggio biblico più facilmente di quelle che sono già quasi insensibili all’azione della parola di Dio a causa della secolarizzazione e degli eccessi della demitologizzazione. Nella nostra epoca. è necessario un grande sforzo. non solo da parte dei sapienti e dei predicatori, ma anche da parte dei divulgatori del pensiero biblico: essi devono utilizzare tutti i mezzi possibili – e ce ne sono molti oggi – affinché la portata universale del messaggio biblico sia ampiamente riconosciuta e affinché la sua efficacia salvifica possa manifestarsi dappertutto.


Grazie a tale documento, l’interpretazione della Bibbia nella Chiesa potrà trovare un nuovo slancio, per il bene del mondo intero, per far risplendere la verità e per esaltare la carità alle soglie del terzo millennio.

Conclusione

16. Concludendo, ho la gioia di poter porgere, così come miei predecessori Leone XIII e Pio XII, agli esegeti cattolici, e in particolare a voi, membri della Pontificia Commissione Biblica, allo stesso tempo ringraziamenti e incoraggiamenti. Vi ringrazio cordialmente per il lavoro eccellente che voi compite al servizio della parola di Dio e del popolo di Dio: lavoro di ricerca, d’insegnamento e di pubblicazione; aiuto apportato alla teologia, alla liturgia della Parola e al ministero della predicazione, iniziative che favoriscono l’ecumenismo e le buone relazioni tra cristiani e ebrei, partecipazione agli sforzi della Chiesa per rispondere alle aspirazioni e alle difficoltà del mondo moderno. A ciò aggiungo i miei calorosi incoraggiamenti per la nuova tappa da percorrere. La crescente complessità del compito richiede gli sforzi di tutti e una vasta collaborazione interdisciplinare. In un mondo dove la ricerca scientifica assume una sempre maggiore importanza in numerosi campi, è indispensabile che la scienza esegetica si situi a un livello adeguato. E uno degli aspetti dell’inculturazione della fede che fa parte della missione della Chiesa, in sintonia con l’accoglienza del mistero dell’Incarnazione.

Che Cristo Gesù, Verbo di Dio incarnato, vi guidi nelle vostre ricerche, lui che ha aperto lo spirito dei suoi discepoli all’intelligenza delle Scritture (Lc 24, 45)! Che la Vergine Maria vi serva da modello non solamente per la sua generosa docilità alla parola di Dio, ma anche, in primo luogo, per il suo modo di ricevere quello che Lui aveva detto! San Luca ci riferisce che Maria meditava in cuor suo le parole divine e gli avvenimenti che si compivano, «symballousa en tê kardia autês» (Lc 2, 19). Per la sua accoglienza della Parola, essa è il modello e la madre dei discepoli (cf. Gv. 19, 27).

Che Essa vi insegni ad accogliere pienamente la parola di Dio, non solo attraverso la ricerca intellettuale, ma anche in tutta la vostra vita!

Affinché il vostro lavoro e la vostra azione contribuiscano sempre più a far risplendere la luce delle Scritture, vi imparto di tutto cuore la mia Benedizione Apostolica.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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