A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

La centralità del Crocifisso nella celebrazione liturgica

Ultimo Aggiornamento: 18/05/2015 18:56
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
09/03/2009 18:42
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

La centralità del Crocifisso nella celebrazione liturgica
«Guarderanno a Colui che hanno trafitto»

di Mauro Gagliardi
Consultore dell'Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice

    In questo tempo di quaresima, non si può non pensare al grande mistero del triduo santo che, al termine di questi quaranta giorni, ci farà rimeditare e rivivere nell'oggi della liturgia la passione, morte e risurrezione di Gesù. Un aiuto a questo percorso di conversione proviene dalla meditazione sulla centralità della Croce nel culto e, di conseguenza, nella vita del cristiano. Le letture bibliche della messa dell'Esaltazione della santa croce (14 settembre) presentano, tra gli altri, il tema del guardare a. Gli israeliti devono guardare al serpente di bronzo innalzato sull'asta, per essere guariti dal veleno dei serpenti (cfr. Numeri, 21, 4b-9). Gesù, nella pagina evangelica di quella festa liturgica, dice che egli deve essere innalzato da terra come il serpente mosaico, perché chi crede in lui non vada perduto, ma ottenga la vita eterna (cfr. Giovanni, 3, 13-17). Gli israeliti guardavano al serpente di bronzo, ma dovevano compiere un atto di fede nel Dio che guarisce; per i discepoli di Gesù, invece, vi è perfetta convergenza tra "guardare a" e credere:  per ottenere salvezza, si deve credere a colui al quale si guarda:  il crocifisso risorto, e vivere in maniera coerente a questo sguardo fondamentale.

    Questa è l'intuizione fondamentale dell'uso liturgico tradizionale, in accordo al quale ministro e fedeli sono insieme rivolti verso il crocifisso. Al tempo in cui la prassi di celebrare verso il popolo entrò in uso, sorse il problema della posizione del sacerdote all'altare, perché ora egli dava le spalle al tabernacolo e al crocifisso. Inizialmente, fu in diversi luoghi ripristinato il tabernacolo a cassetta, posto sopra l'altare separato dalla parete: il tabernacolo veniva così a trovarsi tra il sacerdote e i fedeli, in modo che, pur trovandosi l'uno di fronte agli altri, ministro e fedeli potevano tutti guardare verso il Signore durante la liturgia eucaristica.

Questo espediente fu però presto superato, soprattutto in base alla convinzione che simile sistemazione del tabernacolo generasse un conflitto di presenze:  non si potrebbe custodire il Santissimo Sacramento sull'altare della celebrazione, perché ciò metterebbe in contrasto le diverse forme di presenza di Cristo nella liturgia. Alla fine, si risolse per lo spostamento del tabernacolo in una cappella laterale. Restava ancora il crocifisso, cui il celebrante continuava a dare le spalle, dato che di norma esso rimaneva ancora al centro. Si risolse ancor più agevolmente, stabilendo che esso poteva ora essere collocato anche al lato dell'altare. In questo modo, certo, il ministro non gli dava più le spalle, ma la raffigurazione del Signore crocifisso perdeva la sua centralità e, comunque, non si risolveva il problema consistente nel fatto che il sacerdote continuava a non poter "guardare al Crocifisso" durante la liturgia.

    Le norme liturgiche, stabilite per l'attuale forma ordinaria del rito romano, permettono di collocare crocifisso e tabernacolo in posizioni defilate, tuttavia ciò non impedisce che si continui a discutere sulla maggiore opportunità che essi siano collocati al centro, come dev'essere per l'altare. Questo vale soprattutto per la raffigurazione del crocifisso.

L'Istruzione Eucharisticum mysterium, infatti, afferma che "in ragione del segno" (ratione signi, n. 55), conviene maggiormente che sull'altare su cui si celebra la Messa non venga collocato il tabernacolo perché la presenza reale del Signore è il frutto della consacrazione e come tale deve apparire. Questo non esclude che il tabernacolo possa di norma rimanere al centro dell'edificio liturgico, soprattutto dove vi sia la presenza di un altare più antico, che si trova ora dietro il nuovo altare (si veda il n. 54, che tra l'altro afferma essere lecita la collocazione del tabernacolo sull'altare rivolto al popolo). Sebbene si tratti di questione complessa e che richiederebbe approfondimenti, si può probabilmente riconoscere che lo spostamento del tabernacolo dall'altare della celebrazione versus populum (o nuovo altare) ha qualche argomento in più in suo favore, visto che si basa non solo sull'argomento del conflitto di presenze, ma anche su quello della verità dei segni liturgici. Però non si può dire lo stesso a riguardo del crocifisso. Eliminata la centralità del crocifisso, la comprensione comune del senso della liturgia rischia di risultarne stravolta.


    È ovvio che il guardare a non può essere ridotto a puro gesto esteriore, operato con il semplice orientamento degli occhi. Si tratta invece principalmente di un atteggiamento del cuore, che può e deve essere mantenuto qualunque sia l'orientamento assunto dal corpo dell'orante e la direzione data allo sguardo durante la preghiera. Tuttavia, nel Canone romano, anche nel messale di Paolo VI, vi è la rubrica che prescrive al sacerdote di elevare gli occhi al cielo poco prima di pronunciare le parole consacratorie sul pane. L'orientamento dello spirito è più importante, ma l'espressione corporea accompagna e sostiene il movimento interiore.

Se è vero, dunque, che guardare al crocifisso è un atto dello spirito, un atto di fede e di adorazione, resta pur vero che guardare all'immagine del crocifisso durante la liturgia aiuta e sostiene moltissimo il movimento del cuore. Abbiamo bisogno di segni e gesti sacri, che, senza sostituirsi a esso, sorreggano il movimento del cuore che anela alla santificazione:  anche questo significa agire liturgicamente ratione signi. Sacralità del gesto e santificazione dell'orante non sono elementi contrari, ma aspetti di un'unica realtà.

    Se, dunque, l'uso di celebrare versus populum ha degli aspetti positivi, bisogna nondimeno riconoscere anche i suoi limiti: in particolare il rischio che si crei un circolo chiuso tra ministro e fedeli, che metta in secondo piano proprio colui al quale tutti devono guardare con fede durante il culto liturgico. È possibile ovviare a simili rischi restituendo alla preghiera liturgica il suo orientamento, in particolare per quello che riguarda la liturgia eucaristica. Mentre la liturgia della Parola ha il suo svolgimento più adeguato se il sacerdote è rivolto verso il popolo, sembra teologicamente e pastoralmente più opportuno applicare la possibilità - riconosciuta dal messale di Paolo VI nelle sue varie edizioni - di continuare a celebrare l'Eucaristia verso il crocifisso; il che può realizzarsi concretamente in diversi modi, anche collocando la raffigurazione del crocifisso al centro dell'altare della celebrazione versus populum, in modo tale che tutti, sacerdote e fedeli, possano guardare al Signore durante la celebrazione del suo santo sacrificio.

 Nella prefazione al primo volume delle sue Gesammelte Schriften, Benedetto XVI si è detto felice del fatto che si stia facendo sempre più strada una proposta che egli aveva avanzato nella sua Introduzione allo spirito della liturgia. Questa, come ha scritto il Papa, consisteva nel suggerimento di "non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell'altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo".




(©L'Osservatore Romano - 9-10 marzo 2009)

Un abbraccio al Gagliardi  è così he si fa e si parla....






[SM=g1740722] [SM=g1740721]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
10/03/2009 23:37
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

sabato 10 gennaio 2009

RdR: la riforma liturgica del Concilio Vaticano II non è conclusa.

Intervista a un Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.




di Miriam Díez i Bosch

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 9 gennaio 2009 (ZENIT.org).- La liturgia è chiaramente uno degli ambiti che sta più a cuore a Papa Benedetto XVI il quale, oltre a celebrare esemplarmente la liturgia, ha emanato il Motu Proprio Summorum Pontificum, che ha reinserito a pieno titolo la liturgia tradizionale nell'uso della Chiesa.

Il tema liturgico suscita anche un vivo dibattito tra gli studiosi, come testimoniano le diverse prese di posizione su un recente volume di Nicola Bux.

ZENIT ha parlato con don Mauro Gagliardi, Ordinario di Teologia presso l'Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

L'ultimo volume di don Nicola Bux sulla riforma liturgica di Benedetto XVI sta conoscendo un buon successo presso i lettori, ma sta anche suscitando un certo dibattito tra gli specialisti. Prof. Gagliardi, potrebbe darci qualche linea di interpretazione di questo volume?

Gagliardi: In una mia breve presentazione dell'ultimo libro di Nicola Bux, "La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione", Piemme, Casale Monferrato 2008 (cf. Sacrum Ministerium 14 [2008/2], pp. 144-145), esordivo scrivendo: «Il Concilio Vaticano II ha dato l'avvio ad una riforma della liturgia che ha conosciuto diverse fasi e che è ancora in corso. Va interpretato in quest'ottica il bel titolo dell'ultimo libro di don Nicola Bux». Con queste parole notavo implicitamente la sintonia da me avvertita tra lo spirito espresso dal volume del noto studioso pugliese e quanto io stesso avevo sostenuto un anno prima nel mio libro dal titolo "Introduzione al Mistero eucaristico. Dottrina – liturgia – devozione", San Clemente, Roma 2007, in cui avevo affermato che la riforma liturgica, avviata con il Concilio Vaticano II (ma in realtà già prima), non sia affatto conclusa, bensì ancora «in fieri». Perciò, in modi e misure diverse, tutti i papi postconciliari vi hanno apportato il proprio contributo: da Paolo VI a Benedetto XVI.

Naturalmente simile riforma, essendo un lavoro lungo e laborioso – non si dimentichi che essa è cominciata da soli quarant'anni! – comporta un'enorme fatica e soprattutto un'enorme pazienza, come pure la consapevolezza di dover essere sempre vigilanti sulla sua corretta applicazione, ma anche l'umiltà di saper rivedere degli aspetti – persino se universalmente autorizzati, o addirittura promossi dalla vigente normativa – se questi aspetti dovessero essere problematici, o anche solo migliorabili. D'altro canto, chi oggi ritiene che il rito di Paolo VI abbia migliorato quello di San Pio V non afferma anche, più o meno direttamente, che la normativa precedentemente stabilita e vigente doveva essere migliorata? E perché, allora, la normativa che riguarda il Novus Ordo dovrebbe ritenersi perfetta ed intoccabile? In una riforma liturgica ciò che conta non è affermare le proprie idee a tutti i costi, anche contro l'evidenza, bensì aiutare la Chiesa ad adorare sempre meglio la Santissima Trinità. Tutti, infatti, o quasi, convengono nel riconoscere che l'adorazione del Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo è l'essenza e al tempo stesso il fine della sacra liturgia, o culto divino. Essendo questo punto comune pressoché a tutti gli studiosi seri, si vede che bisogna costruire a partire da qui.


Lei ritiene, dunque, che il recente libro del suo collega don Nicola Bux sia di aiuto a comprendere l'indole teologica della liturgia?

Gagliardi: Nicola Bux dedica a questo punto basilare, ossia alla comprensione teologica della sacra liturgia, i primi due capitoli del suo libro. Gli altri capitoli si rivolgono, invece, ad analizzare lo stato attuale della riforma liturgica ancora in atto: la situazione concreta, ma anche la storia recente che ha condotto ad essa. Egli riconosce che «è in atto una battaglia sulla liturgia» (p. 45; cf. p. 50). La liturgia è attualmente oggetto conteso tra innovatori e tradizionalisti – anche il sottotitolo del libro fa riferimento a ciò – ed ognuno cerca di tirare l'acqua al suo mulino, sottolineando gli aspetti teologici e giuridici che fanno al caso proprio e insabbiando o "reinterpretando" i dati sfavorevoli alla propria tesi preconcetta. Simile atteggiamento si trova sia nella cosiddetta "destra" che nella cosiddetta "sinistra". Invece, Don Bux avvisa: «Non ha senso essere a oltranza innovatori o tradizionalisti» (p. 46) e mi pare che tutto il suo libro vada inteso in quest'ottica. Innanzitutto va ricordato che si tratta di un libro volutamente sintetico, che getta sul tappeto i temi da discutere, più che fornire lunghi approfondimenti su ciascuno di essi. È un invito alla riflessione, al dialogo, allo studio, anche – se si vuole – al confronto serrato tra le diverse posizioni, ma curando che il confronto sia fondato su argomentazioni e non su pregiudizi di parte. È un libro che si propone di essere equilibrato e di invitare all'equilibrio. «Si tratta di un ammonimento agli uni e agli altri – scrive l'Autore, a proposito di un tema particolare, riferendosi agli innovatori ed ai tradizionalisti – perché ritrovino l'equilibrio» (p. 63). Questo è il tentativo e la proposta che don Bux vuol fare con il suo volume.

In questo modo entriamo nel vivo dibattito tra gli studiosi, che attualmente assumono posizioni diverse non solo sulla teologia liturgica ma anche sulle concrete disposizioni disciplinari che la Chiesa stabilisce in materia.

È chiaro che la posizione moderata è sempre la più difficile, sia da esporre che da difendere. Non mancheranno, infatti, attacchi sia da "destra" che da "sinistra". Simile reazione sembra esserci anche nei confronti dell'opera di cui stiamo parlando. Vorrei illustrare questo stato di fatto, chiamando in causa due imminenti recensioni al libro di don Bux. Da una parte, quella di Bernard Dumont, che apparirà a breve nel numero invernale della rivista francese Catholica; dall'altra, quella di Matias Augé, che circola in internet da qualche tempo e, si prevede, verrà prossimamente pubblicata su una rivista italiana. Dumont dà una valutazione tutto sommato favorevole del libro di Bux, ma gli rimprovera di non essere andato fino in fondo con la sua critica alla liturgia attuale (ossia, alla forma ordinaria). Secondo Dumont, infatti, Bux avrebbe fatto dei lievi cenni di critica alla riforma liturgica in sé, ma si sarebbe soffermato soprattutto sulla critica agli abusi, che ovviamente sono deformazioni della riforma e non parte di essa. Egli scrive (la traduzione dal francese è mia): «Nicola Bux [...] ritiene che la prima causa [dell'attuale situazione] è l'applicazione all'ambito liturgico della "svolta antropologica" formulata da Karl Rahner. [...] Questa famosa "svolta" (che – aggiunge Dumont – è piuttosto un capovolgimento, tra l'altro manifestato molto bene dal capovolgimento degli altari, non previsto esplicitamente in origine) ha tuttavia dei forti appoggi giuridici, sui quali converrebbe essere chiari. Perché ci sono degli atti giuridici che hanno permesso o istituito questo capovolgimento, e non solo le pressioni di attivisti o il mimetismo delle équipes di animazione: ma le decisioni di vescovi, le decisioni di dicasteri e consigli della Curia debitamente comandate, e i discorsi stessi di Paolo VI che esprimono il suo assenso».

Egli continua in seguito: «L'Autore menziona tuttavia le critiche del rito riformato (e non della sua sola pratica) fatte da mons. Klaus Gamber, Lorenzo Bianchi e Martin Mosebach, ma egli non vi insiste. Tatticamente, egli rigetta mano a mano, in una simmetria retorica perfetta, tradizionalisti e progressisti. Avendo fatto ciò, egli può ripartire con nuovo slancio in una critica molto ampia degli abusi liturgici». Tuttavia, avvisa Dumont, «gli abusi così stigmatizzati non sono altro che la pratica più o meno universalmente diffusa del nuovo Ordo dopo il 1969». In sintesi, la critica di Dumont consiste nel riconoscere il seguente difetto nell'opera di don Bux: stigmatizzerebbe gli abusi, ma farebbe solo brevi cenni al fatto che è il Novus Ordo in sé il problema, nonché tutta la conseguente normativa, sia dei dicasteri vaticani che delle conferenze episcopali; normativa che avrebbe per lui incoraggiato, o almeno permesso, uno stile celebrativo come quello che oggi conosciamo. Allora, non si tratterebbe più di abusi, ma della norma. Pertanto, l'attuale ordinamento liturgico, siccome non tradurrebbe più il senso divino della liturgia, andrebbe rigettato in toto.

Se ci spostiamo ora alla seconda recensione, la critica fatta da Matias Augé è di tutt'altro ordine. Lungi dal criticare la riforma liturgica postconciliare, il noto liturgista attribuisce a don Bux la responsabilità di tale critica. Egli scrive che, a partire dal III capitolo, nel libro «il tono del discorso è fortemente polemico diventando una serrata critica dell'applicazione della riforma liturgica postconciliare nonché della riforma stessa» (corsivo mio) e che l'Autore fa una descrizione della «battaglia sulla riforma liturgica [...] in cui lo sconfitto è la cosiddetta "forma ordinaria" del rito romano, e cioè la riforma della liturgia attuata dopo il Vaticano II». Uno dei rilievi che Augé ripete più di una volta nella sua recensione consiste nell'individuare nel testo un «intreccio» e una «confusione» di «valutazioni negative sulla liturgia riformata [...] con le valutazioni pure esse negative sulla sua celebrazione».

Che impressioni ha di queste opposte critiche?


Gagliardi: Mi pare di poter dire che i due Recensori concordino su un solo punto: il volume in analisi non offrirebbe secondo loro una valutazione corretta del rapporto tra la riforma in sé e gli abusi che si verificano nella celebrazione svolta secondo il Novus Ordo. Tuttavia, mentre Dumont afferma ciò dicendo che gli abusi coincidono con la riforma stessa e quindi essa va invalidata, Augé separa nettamente le due cose, dicendo che la riforma in sé è più che valida e ha migliorato la celebrazione rispetto al rito cosiddetto "di San Pio V", mentre per quanto riguarda gli abusi, anch'egli stigmatizza «la stupida faciloneria con cui alcuni presbiteri presiedono le celebrazioni liturgiche» (corsivo mio); e conclude: «Vorrei però che tutto questo proliferare di abusi non sia un alibi per smontare pezzo a pezzo la riforma liturgica» (di nuovo, corsivo mio: mi pare che tra le due espressioni evidenziate ci sia contraddizione). Di fronte alla possibilità di rivedere la riforma operata sotto Paolo VI, Augé conclude chiedendosi: «Tale eventuale riforma della riforma dove dovrebbe prendere ispirazione, dal Messale del 1962 o dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium? Invece di spendere tante energie in questa operazione, non sarebbe meglio spenderle per approfondire sempre più intensamente la liturgia della Chiesa "celebrata secondo i libri attuali e vissuta prima di tutto come un fatto di ordine spirituale"?». Alla base di queste due domande di Augé sembrano esserci due presupposti: primo, che la «riforma della riforma» possa consistere o nel tornare al rito di San Pio V, o nel seguire il dettato conciliare. Ma questo presupposto non si basa sull'idea che tra l'insegnamento liturgico del Vaticano II e quello precedente vi è un'insanabile discontinuità? Non vi sono spazi per un «et-et»? Il secondo presupposto si nota nell'espressione «liturgia della Chiesa», applicata per indicare la normativa postconciliare. Esprimendosi come fa Augé, non si afferma indirettamente che il Messale promulgato nel 1962 dal Beato Giovanni XXIII non è «liturgia della Chiesa»? O, se l'espressione «liturgia della Chiesa» va caratterizzata in base al testo da lui citato (ripreso dalla Vicesimus quintus annus), non c'è il rischio di lasciar intendere che la liturgia preconciliare non era «un fatto di ordine spirituale»?


In conclusione, come ci si deve orientare per comprendere il senso dell'attuale dibattito e delle decisioni del Santo Padre in materia liturgica?


Gagliardi: Le domande ed osservazioni sopra esposte ci permettono di affacciarci su quello che, in fondo, è il punto di appoggio del volume di Don Bux e quindi anche delle critiche ad esso: il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Don Bux ritiene che esso rappresenti un segno evidente di un progetto di rinnovamento liturgico e di incremento della sacra liturgia, che senza alcun ragionevole dubbio sta certamente a cuore al Papa. La decisione pontificia – da molti ridotta ad una prospettiva strettamente ecumenica, come "concessione" ai lefebvriani (che tuttavia, questo lo si dimentica, non avevano bisogno del Motu proprio, perché da sempre celebrano con il rito antico) – ha per l'Autore un significato molto più ampio e che va nella direzione di un «superamento della cesura operata nel processo di riforma della liturgia contrapponendo il nuovo rito all'antico» (p. 45). A me pare che don Bux veda giusto: il Santo Padre stesso ha dichiarato, nella Lettera apostolica che accompagna il Summorum pontificum, che l'obiettivo della sua decisione è quello di «giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa». Non si tratta solo di una riconciliazione con chi è "fuori" della Chiesa, come formalmente sono (per ora) i lefebvriani; si tratta di una riconciliazione «interna»: quindi tra i cattolici. Perciò il punto debole della riforma postconciliare va individuato, come fa Don Bux, non tanto nella riforma in sé (che pure presenta, come ogni cosa umana, aspetti migliorabili e altri persino da rivedere), quanto nel fatto di aver voluto presentare il Novus Ordo non solo come nuovo, ma come opposto all'Antiquior. È questo strappo alla continuità della tradizione che ha causato e causa incomprensioni, polemiche e sofferenze. La riforma postconciliare deve essere compresa come novità nella continuità: solo questo permetterà di condurla in porto. Sì, perché – lo ripeto – essa non è affatto conclusa. Non ho qui, purtroppo, la possibilità di analizzare punto per punto le altre critiche mosse al volume in questione – si può discutere su ognuna e valutare quanto colga nel segno, o quanto fraintenda, per aver operato una lettura selettiva e parziale di esso. Ma resta certo che un volume come questo è destinato, nell'attuale momento, ad essere segno di contraddizione proprio perché cerca di favorire – in modo particolare tra gli studiosi del settore, ma anche tra le contrapposte "fazioni" di sostenitori di una sola delle due forme del rito romano – l'umiltà, la comprensione, la tolleranza e l'apertura mentale (cf. p. 87), obiettivo che coincide con quello di Benedetto XVI.

Su un punto almeno, però, voglio prendere posizione chiara a fianco dell'Autore: anch'io sono convinto che la formazione liturgica del popolo di Dio – pur doverosa e raccomandata come minimo dal Concilio di Trento in poi – non sia da sola sufficiente per favorire il vero spirito liturgico e il corretto stile adorante del culto cristiano. Il Concilio di Trento insegnò che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti [...] per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande e introdurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà» (DS 1746). Ciò vuol dire che le menti si elevano a Dio non solo attraverso la formazione, ma anche e soprattutto attraverso i segni visibili e sacri del culto divino, che proprio per questo vengono fissati dalla Chiesa. Perciò don Bux può rallegrarsi del fatto che «sta nascendo un nuovo movimento liturgico che guarda alle liturgie di Benedetto XVI; non bastano le istruzioni preparate da esperti, ci vogliono liturgie esemplari che facciano incontrare Dio» (p. 123).

Il pieno recupero dell'Usus Antiquior per la celebrazione della Messa non va forse in questa direzione, sottolineando, come ha scritto il Papa, che «le due forme del rito possono arricchirsi a vicenda»? È in questa direzione, tracciata da Benedetto XVI, che si incammina la proposta di Nicola Bux e credo che tutti coloro che hanno a cuore il bene della Chiesa – il che io do per presupposto, sia da parte dei tradizionalisti che degli innovatori, al di là delle concrete vedute parziali – dovrebbero accogliere l'invito a confrontarsi, camminando sul sentiero della riforma ancora «in fieri».


Fonte Zenit - © Innovative Media, Inc.

***

Circolo culturale
Tradizione e Nuova Evangelizzazione

Sabato 10 Gennaio 2009 alle ore 18.00

Casa del Giovane
Sala degli Angeli
via Gavazzeni, 13
Bergamo


Conferenza

LA RIFORMA DI BENEDETTO XVI
La liturgia tra innovazione e tradizione

Relaziona il Rev. Sig.
Don MAURO GAGLIARDI
Professore al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum

***

Alle ore 16.00

Chiesa di S.Maria ad Nives
Bergamo

SANTA MESSA NELLA FORMA STRAORDINARIA


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
19/07/2010 23:26
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Da Rinascimento Sacro:


                             Ciborio

Il Ciborio

Se gli altari avessero di nuovo il ciborio (che esisteva pressochè su tutti gli altari dell’antichità nelle basiliche romane e non), si potrebbe opportunamente collocare la croce appendendola ad esso: “sopra” l’altare, senza che essa debba poggiare sull’altare.

In molte chiese francescane medievali la collocazione della croce GRANDE non piccina e invisbile, è proprio centrale e sospesa sopra l’altare con cavi dalla volta. Evidente, sopra l’altare, e non “accanto”, che sembra sempre sminuire anche involontariamente la collocazione della croce. E’ il prete che dovrebbe tornare al suo posto…. troppo spesso messo al centro, quasi tutti i preti fossero vescovi. La cattedra al centro del presbiterio era anticamente riservata al vescovo, e in sua assenza, come oggi, la cattedra rimaneva vuota. Il prete si sedeva (e nelle cattedrali si siede ancora) a sinistra. Mi chiedo: è proprio il caso di rendere ogni parrochia la cattedrale del parroco ed edificargli seggioloni centrali, dietro l’altare, spesso dove non c’è neppure un’abside? Questo purtroppo è uno dei tipici modi di costruire la sede tra i neocatecumenali, che non distinguono la sede episcopale da quella del presbitero. A.R. @ Liturgia Opus Trinitatis

***

L’allegorismo

L’allegorismo medievale si è imposto non solo in liturgia, ma anche e soprattutto nell’interpretazione biblica e addirittura nell’interpretazione della storia profana stessa. L’allegoria era una potente chiave ermeneutica, tra l’altro già usata abbondantemente dai Padri e fin dal Nuovo Testamento, che interpreta in modo allegorico alcuni passi dell’Antico (meglio parlare in questi casi di tipologia).

Il punto è che l’allegorismo rispetta la lettera, anzi la deve conservare attentamente perchè è da essa che sempre riparte per interpretare. Lo stesso succedeva con la liturgia, la “lettera” della liturgia, testi e gesti, non erano interpretati come “disponibili” al cambiamento o alla sostituzione (anche se, sul lungo tempo, evolvevano – non venivano individualmente mutati!).

Qualunque cammino mistagogico, presuppone che i santi misteri debbano essere interpretati, almeno in maniera tipologica, si pensi al battesimo – incomprensibile altrimenti dal punto di vista cristiano. Quello che a mio avviso è carente oggi, non è solo la catechesi mistagogica, ma il senso del mistero. Non inteso come cosa misteriosa, ma come tremendo e affascinante incontro con Dio, che deve essere celebrato attentamente e con sapienza, non come incontro “tra noi”. E’ la chiamata di Dio che convoca l’assemblea che la rende tale. Non l’autoconvocazione per fare qualcosa per ricordarci di Dio….

E’ l’impostazione antropologica che non funziona e non permette alla liturgia attualmente vissuta dalla Chiesa occidentale (non solo cattolica!) di essere ciò che i libri affermano sia. 

A.R. @ Liturgia Opus Trinitatis

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
16/04/2011 20:14
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Durante la prossima visita ad Aquileia in dono al Pontefice una copia del breviario quattrocentesco della Chiesa triestina

Alla riscoperta degli antichi tesori della liturgia



di ROBERTO GHERBAZ

Riscoprire un capolavoro: questa e molte altre saranno le opportunità offerte dall'edizione facsimilare del quattrocentesco Breviarium secundum consuetudinem Aquilegensem ac Tergestinam Ecclesiam, pubblicata a cura dell'editore bresciano Marco Serra Tarantola.
 
Un'operazione di ampio respiro culturale, che va ascritta a monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo-vescovo di Trieste. Nella prefazione l'arcivescovo informa che una copia del breviario - la "numero uno", confezionata in un cofanetto bianco - sarà donata a Benedetto XVI dai vescovi del Friuli Venezia Giulia il prossimo 7 maggio, in occasione della sua visita ad Aquileia, "quale segno di amore e di fedeltà al Successore di Pietro".

Il codice membranaceo di proprietà del capitolo cattedrale di San Giusto martire di Trieste, oggetto di questa accurata e bella riproduzione, è uno degli unici due breviari aquileiesi presenti a Trieste; il secondo è conservato presso la Biblioteca Civica Attilio Hortis. L'esemplare del capitolo triestino si distingue soprattutto per la raffinatezza delle miniature e per l'eleganza della scrittura; inoltre esso, assieme a quello della Civica, è importante anche sotto l'aspetto liturgico e agiografico. Quello del capitolo è però meno conosciuto dagli studiosi, probabilmente anche a motivo del particolare atteggiamento di riservatezza tenuto in passato dal capitolo stesso.

L'edizione facsimilare del breviario coinvolge diversi studiosi ed esperti di codicologia, paleografia, storia della miniatura, storia dell'arte, storia delle istituzioni, liturgia aquileiese e agiografia.

I saggi critici sono coordinati da Ettore Malnati, Roberto Gherbaz e Ilaria Romanzin, e sono raccolti in un apposito volume. All'archivista capitolare è affidato il compito di presentare il breviario e di metterlo in relazione con la storia del capitolo triestino e con il suggestivo ambiente della cattedrale di San Giusto nel XV secolo, che emerge da alcuni trascurati documenti d'archivio; ad Alessandra Sirugo spetta quello di trattare gli aspetti codicologici e paleografici propri del breviario del capitolo, confrontandoli con quelli del breviario della Biblioteca Civica; a Ilaria Romanzin tocca invece lo studio critico delle miniature, rilevando i punti di contatto con quelle di alcuni codici contemporanei e soprattutto l'influsso esercitato dall'impareggiabile Bibbia di Borso d'Este e dalla scuola ferrarese.

L'esperto di liturgia aquileiese, Giuseppe Peressotti, mette a confronto il breviario con uno aquileiese della fine del XII secolo e con quello romano, stampato nel 1568; Emanuela Colombi compie invece un'indagine sulla "storia agiografica" di Trieste, analizzando il "santorale", che emerge dal calendario contenuto nel breviario del capitolo; Stefano Di Brazzano propone un'edizione critica dell'inno e dell'ufficio versificato di San Giusto, presenti nel breviario, in rapporto alla passio del martire, oggetto di suoi studi precedenti.

Marisa Bianco Fiorin descrive alcune pitture a fresco tra Trecento e Quattrocento che si trovano ancora nella cattedrale di San Giusto - naturale cornice del breviario stesso - e accenna al grande affresco quattrocentesco che ornava il catino absidale: questo fu distrutto nel XIX secolo per permettere l'ampiamento strutturale dell'abside stessa. Infine Giuseppe Cuscito svolge una ricerca storica sulla Chiesa tergestina tra Medioevo e incipiente Rinascimento, soffermandosi in particolare sulle figure dei vescovi triestini, tra le quali spicca quella di Enea Silvio Piccolomini, vescovo di Trieste tra il 1447 e il 1450, che in seguito divenne Papa con il nome di Pio II.

Il breviario sarà pubblicato entro i primi giorni di maggio in mille copie numerate e la particolare tecnica di stampa anastatica permetterà una riproduzione molto fedele all'originale. La tecnica utilizzata si avvale infatti di un applicativo americano, preso in prestito dal settore radiologico-medico, che prevede la possibilità di realizzare fino a ventisette passaggi di colore: nella pubblicazione in questione ogni pagina sarà stampata con dodici più uno passaggi, di cui soltanto quattro per rendere il fondo di pergamena dell'originale.

Anche la riproduzione della legatura sarà conforme all'originale, grazie all'opera minuziosa di un fabbro, per le parti metalliche, e di una conceria pratese, per la copertina in pelle. Il prezioso capolavoro sarà posto all'attenzione dei liturgisti di tutta Italia nel corso della Settimana liturgica nazionale, che quest'anno si svolgerà a Trieste. E proprio nella città internazionale ed ecumenica per eccellenza, il breviario si porrà come simbolo della comunione che Trieste ha sempre mantenuto con la Chiesa romana, anche dopo il distacco di Aquileia. Riscoprire un capolavoro del passato permetterà allora di proiettare la Chiesa verso l'unità futura. Che a Trieste, in qualche modo, è già una realtà.



(©L'Osservatore Romano 17 aprile 2011)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
17/04/2011 16:48
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

La secolarizzazione liturgica come negazione del culto

                                 

di Matteo De Meo*

-
Sicuramente la genesi di gran parte del crollo della Liturgia, a cui da decenni stiamo assistendo nella Chiesa, è da rintracciarsi in ciò che Sua Eminenza il Cardinal Raymond Leo Burke ha acutamente evidenziato all’inizio della sua Lectio magistralis: “…un’esasperata attenzione rivolta all’aspetto umano della liturgia...” ovvero la sua secolarizzazione.

Essa si dettaglia in tutti quegli infiniti e variegati tentativi di “adeguamento” tra la fede e il suo linguaggio da una parte e il mondo dall’altra, tra liturgia e mondo.

Un mondo, però, che viene sempre più concepito etsi Deus non daretur. E proprio Benedetto XVI ha affermato che “la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal culto della liturgia che talvolta viene addirittura concepita etsi Deus non daretur”.

Negli ultimi anni la secolarizzazione è stata analizzata, descritta e definita in molti modi, ma, per quanto ne sappia, nessuna di queste descrizioni ha sottolineato un punto che ritengo sia essenziale e che rivela in effetti meglio di ogni altra cosa la vera natura della secolarizzazione. La secolarizzazione, a mio avviso, è innanzitutto una negazione del culto.

Sottolineo: non una negazione dell’esistenza di Dio, o di un qualche tipo di trascendenza e quindi di ogni sorta di religione. Se il secolarismo in termini teologici è un’eresia, si tratta innanzitutto di un’eresia sull’uomo.
 
È la negazione dell’uomo in quanto essere che adora, in quanto homo adorans: colui per il quale l’adorazione è l’atto fondamentale, che allo stesso tempo “colloca” la sua umanità e la compie. È il rifiuto “decisivo” ontologicamente ed epistemologicamente, delle parole, che “sempre, dovunque e per tutti” sono state la vera “epifania” del rapporto dell’uomo con Dio, con il mondo e con sé stesso.

Questa definizione di secolarizzazione ha certamente bisogno di una precisazione. E ovviamente non può essere accettata da coloro che, assai numerosi, oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, riducono il cristianesimo in categorie intellettuali (“credenza futura”) o in categorie etico-sociologiche (“servizio cristiano al mondo”), e che quindi pensano debba essere possibile trovare non solo un qualche tipo di adeguamento, ma anche un’armonia profonda tra la nostra “età secolare”, da un lato e il culto, dall’altro. Se i fautori di ciò che fondamentalmente non è altro che l’accettazione cristiana della secolarizzazione sono nel giusto, allora naturalmente tutto il nostro problema è solo quello di trovare o inventare un culto più accettabile, più “rilevante” per la moderna visione del mondo dell’uomo secolarizzato. E tale è, infatti, la direzione presa oggi dalla stragrande maggioranza dei riformatori liturgici.

Quello che cercano è un culto le cui forme e contenuti “riflettano” i bisogni e le aspirazioni dell’uomo secolarizzato, o ancor meglio della secolarizzazione stessa. Un aspetto che ha la sua ricaduta in un vasto raggio dalla ritualità, all’arte e alla architettura sacra.

Basti pensare che la “stessa incapacità dell’uomo di oggi di rapportarsi con il mistero” diventa un criterio per realizzare nuovi spazi liturgici (vedi Chiesa di Piano s. Giovanni Rotondo); o si traduce nel tentativo di entrare in dialogo con una certa cultura definita oggi proteiforme: “…l’architettura contemporanea è fluida, cangiante, proteiforme; così come un liquido si adatta al suo contenitore, essa si conforma alla sensibilità dell’artefice.
Tutte le modalità di espressione artistica sono strettamente connesse alla soggettività…”- in questi termini si esprime D. Bagliani, docente al politecnico di Torino (opinione riportata in un articolo “Nuove Chiese, progetti da premio” di L. Servadio, in merito ai tre progetti pilota di nuove chiese vincenti alla quinta edizione del concorso Cei, 2009).

Un edificio può mettere in evidenza il silenzio, un altro un certo connubio fra natura e architettura (bioarchitettura), un altro un certo collegamento tra passato e futuro; oppure può adottare semplicemente forme stravaganti: una gemma di roccia poggiata al suolo, con un ingresso che invita ad un senso di protezione, simbologie ricercate e analogie, ecc.

Allo stesso modo questa “incapacità di rapportarsi col mistero” può tradursi nell’adozione nell’ambito dell’arte sacra di un astrattismo proprio dell’arte contemporanea: l’arte nella sua astrattezza e fluidità tenderebbe pertanto ad esprimere “l’inesprimibilità” del sacro e del mistero: “…anche le parole più astratte del Signore quale, via verità e vita, potrebbero essere rivestite di forma e colore…” (vedi T. Verdon in un suo articolo comparso sull’Osservatore Romano del 12 gennaio 2008).

Sono solo alcuni esempi che ci rivelano un assoggettamento della liturgia, e quindi della stessa arte sacra e religiosa in genere, alla capacità di comprensione attuale. Il risultato è un vago spiritualismo, un simbolismo figurativo confuso e astratto, una liturgia intellettualizzata. A chiunque abbia avuto, sia pure una sola volta, la vera esperienza del culto, tutto questo si rivela subito come un semplice surrogato. Egli sa che il culto secolarista è semplicemente incompatibile con il vero culto. Ed è qui, in questo miserabile fallimento liturgico, i cui risultati terribili stiamo solo cominciando a vedere, che il secolarismo rivela il suo ultimo vuoto religioso e, non esiterò a dirlo, la sua essenza del tutto anti-cristiana.

La società è ormai pervasa da questa mentalità secolarizzata che sembra non risparmiare nemmeno la Chiesa, aggredendo particolarmente l’integrità della Liturgia. Quelli che dovrebbero essere chiaramente definiti e condannati come abusi liturgici diventano sempre più la norma. Si celebra in ogni luogo, in ogni modo, e in ogni forma. É difficile ormai trovare una celebrazione “cattolica”, nel vero senso della parola, “unica e universale”. Non entriamo poi in merito degli edifici e degli spazi liturgici, dove convivono tranquillamente, banalità sciatteria e bruttezza. É difficile definirli “casa” ancor meno “casa di Dio”. Luoghi che consacrati per il culto a Dio possono tranquillamente essere usati per qualsiasi “celebrazione”, o spettacolo, o teatro, o conferenza col risultato di far perdere definitivamente la loro identità di luogo sacro. Ma non vorrei scadere nella mera polemica fine a se stessa!

Per cui, ripetiamo ancora una volta, la secolarizzazione non è affatto identica all’ateismo, e per quanto paradossale possa sembrare, può essere dimostrato che essa ha sempre avuto un desiderio particolare per l’espressione “liturgica”.

Se, tuttavia, la mia definizione è corretta, allora tutta questa ricerca di “adeguamento” perviene ad uno scopo irrimediabilmente morto, se non addirittura senza senso. Quindi la formulazione stessa del nostro tema – “liturgie secolarizzate” – vuol mettere in evidenza, a mio avviso, innanzitutto una contraddizione interna, in termini; una contraddizione che esprime l’impossibilità stessa di una “liturgia secolarizzata”.

Rendere culto è, per definizione una azione, una realtà di dimensione cosmica, storica ed escatologica; è espressione, in tal modo, non solo di “pietà”, ma di una totalizzante “visione del mondo”. E quei pochi che si sono presi la pena di studiare il culto in generale e il culto cristiano, in particolare, (J. Ries, M. Eliade, per citare solo i più rappresentativi, che furono fra i primi nell’immediato post concilio a suonare il campanello d’allarme di una pericolosa ideologia di desacralizzazione all’interno della Chiesa stessa, e non vennero ascoltati) sarebbero certamente d’accordo che su un livello storico e fenomenologico questa nozione di culto è oggettivamente verificabile.

Il secolarismo, ho detto, è soprattutto una negazione del culto. E, in effetti, se quello che abbiamo detto circa il culto è vero, non è altrettanto vero che il secolarismo consiste nel rifiuto, esplicito o implicito, precisamente di quella concezione dell’uomo e del mondo che proprio il culto ha lo scopo di esprimere e comunicare?


da @ 2011 Fides et forma

*Don Matteo di Meo è docente presso l’Istituto Teologico Pugliese di Bari. Questo contributo è stato nell’ambito del convegno organizzato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari il 25 marzo 2011 in occasione della visita di S.Em. il Cardinal Raymond Burke.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
25/01/2012 09:14
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

La croce, l'altare ed il modo giusto di pregare

Un richiamo ai rituali e alle rubriche del passato che mantengono ancor oggi il loro significato
di p. Stefan Heid

Nella basilica di San Pietro in Vaticano e nelle basiliche pontificie di Roma (un tempo chiamate "basiliche patriarcali"), è entrata recentemente in vigore la norma di installare una croce al centro di ogni altare maggiore o altare mobile. Non si specifica il tipo e la dimensione della croce. In genere, la norma è stata ben applicata: una grande croce con il Gesù crocifisso installata di fronte al celebrante, in modo che egli sia in grado di osservarlo.

Tale norma, che regola una realtà che dovrebbe essere scontata, può invece sorprendere. Da molti anni infatti a Roma era invalsa la cattiva abitudine di spostare la croce all'angolo dell'altare, così da non "disturbare", facilitando una liturgia più "televisiva", soprattutto per le Messe papali. La croce è il punto focale della salvezza e dell'azione liturgica, deve armonizzarsi in stile e proporzione con l'altare e mai essere piccola.
La croce deve disturbare! Il sacerdote non può guardarla "di sfuggita"! Talvolta si obietta che la croce crea una barriera tra il clero e il popolo, qualcosa di simile a una iconostasis (quella parete di icone nelle chiese di rito orientale che separa la navata dal presbiterio).

Ma è un argomento specioso, visto che neanche l'enorme croce nella Basilica di San Pietro impedisce di vedere l'altare. Dopo tutto, sono pochissime quelle chiese in cui i fedeli stanno immediatamente dinanzi all'altare; è più comune che vedano l'altare da una prospettiva laterale, guardando il celebrante al di là della croce. Inoltre, più in alto sta la croce, meno probabile sarà che ostacoli la vista alla gente, divenendo per tutti un forte richiamo spirituale (se è veramente posta in alto). Infine, si obietta ancora che una croce d'altare crea un raddoppio di crocifissi, nel caso in cui una croce sia già sospesa sopra l'altare o dietro all'altare. Ma la croce sull'altare con Gesù crocifisso sta davanti al sacerdote, mentre i fedeli guardano la croce sopra l'altare. Non c'è dubbio che ci saranno dei contrasti nelle commissioni liturgiche quando i parroci, scegliendo di seguire la tradizione romana, cominceranno a tirar fuori dagli armadi le croci d'altare. Prevedendo reazioni affrettate nelle future polemiche, vorremmo definire il contesto più ampio del dibattito. Ci sono diverse pratiche liturgiche che sono scomparse da secoli, ma se non si studiano attentamente quei rituali, potrebbe benissimo succedere che perfino la più bella delle direttive liturgiche si ridurrebbe a formalismo insignificante.

L'azione sacrificale dell'Eucaristia ha luogo sull'altare all'interno di una continua corrente di preghiera: dalla orazione sui doni, attraverso la Preghiera Eucaristica, fino al Padre Nostro. A questo riguardo, l'azione eucaristica è notevolmente diversa dalla Liturgia della Parola che la precede. L'ambone, di per sé, non è un luogo di preghiera; l'orazione d'ingresso è più appropriata alla sede del celebrante. Nell'usus antiquior, il sacerdote sta sempre in piedi all'altare e quasi sempre in preghiera! Le preghiere silenziose non sono né private né semplici riempitivi (horror vacui= paura del vuoto), piuttosto fanno dell'altare un luogo di incessante preghiera. Una volta riconosciuto questo aspetto, si comprende che il sacerdote assume sull'altare un atteggiamento o forma mentis ben diversi da ogni altro evento quotidiano. Qui sta, innanzitutto, come uno che prega. Tutti i cristiani riconoscono questa postura orante ben distinta, nella quale il sacerdote alza le mani e gli occhi. Alzare gli occhi e le mani al cielo sono gesti che risalgono alla primitiva preghiera cristiana, la stessa che praticava Gesù nella tradizione ebraica. Anche lo stare in piedi fa parte di tale tradizione, è la postura fondamentale per pregare; come pure il levare gli occhi e le mani stando in ginocchio, si ritrova nella primitiva cristianità.

Fin dal Medio Evo però, questa postura per l'orazione, con mani e occhi levati in alto, si è alquanto affievolita. Attualmente, soltanto il sacerdote alza le mani (e gli occhi solo per brevissimi attimi) in quanto legge le preghiere. Guarda verso l'alto, ad esempio, nel Canone Romano al momento della consacrazione, pronunciando le parole: "et elevatis oculis in coelum". Pertanto, Gesù inaugura l'Eucaristia "alzando gli occhi al cielo". Anche nell'ordo novus, la rubrica a questo punto recita: "Il celebrante alza gli occhi". Ma dove esattamente il sacerdote deve guardare, al soffitto della chiesa? Per cui, quando il celebrante, a quel punto della preghiera, ha il dovere di guardare verso l'alto, invece che fissare uno spazio vuoto, lo rivolge al punto focale più naturale: la grande croce sull'altare maggiore.

Ovviamente, la croce sull'altare dinanzi al sacerdote non serve solo per isolati momenti, ma ha uno scopo più generale: egli sta in piedi all'altare in incessante preghiera verso Dio, guardando fisso il Figlio di Dio, attraverso il quale indirizza ogni sua invocazione e ogni sua parola di lode. Per il fatto che Dio è creatore, il mondo non è caotico, ma un universo divinamente plasmato e provvidenzialmente ordinato. Esiste un "lassù" e un "quaggiù", o in termini scritturistici, il cielo è il suo trono e la terra sgabello ai suoi piedi. Già i primi Padri della Chiesa osservavano che i cristiani stanno eretti nel pregare da libere creature di Dio, tenendo alta la testa e guardando in alto verso Colui che guarda in basso verso di loro dal suo trono celeste. Pregare è conversare con Dio. Non è educato non guardare la persona con cui stiamo dialogando. L'atto di guardare in alto quando preghiamo è, perciò, espressione dell'intera teologia della creazione sia del Vecchio che del Nuovo Testamento. L'uomo peccatore tenta di nascondersi da Dio, come Adamo ed Eva si nascondevano dietro ai cespugli.

 L'uomo redento, invece, non abbassa più la testa per la vergogna, libero e felice egli può guardare Dio in faccia, e osare dire: "Padre Nostro, che sei nei cieli". Egli osa perché Gesù Cristo è veramente Dio in sostanza, lui solo può dire "Padre", mentre noi, mediante la grazia, possiamo godere della stessa relazione, invitati così a questo atto di filiale fiducia. Noi siamo solo creature, ma i battezzati sono creature privilegiate perché, uomini e donne, siamo in Cristo gli amati figli e figlie dello stesso Padre celeste. Era proprio questo che la Chiesa primitiva voleva manifestare con la postura orante che aveva adottato. Quando parliamo con Dio nella preghiera, abbracciamo la nostra identità filiale. Ma dal momento che nello spazio fisico della chiesa, lo sguardo verso il trono di Dio era bloccato dalle pareti, si fece di tutto per aprire una via virtuale di visione del cielo. L'abside venne spesso dipinta o arricchita di mosaici, riservando una zona del dipinto al cielo stellato. Ciò spalancò il soffitto della chiesa verso il cielo. I sacerdoti e i fedeli, pregando, potevano così alzare lo sguardo verso l'abside e vedere il cielo, per così dire. Lo sguardo dei fedeli non era più incentrato sull'altare e sul celebrante, ma al di sopra di essi.

L'edificio stesso della chiesa doveva sempre essere "orientato" ad oriente a questa arte celeste così luminosamente dipinta. L'orientamento geografico verso oriente, in quanto tale, era di secondaria importanza. Fu chiaro fin dall'inizio che la preghiera cristiana non era diretta solo verso Dio, ma al Padre celeste attraverso Gesù Cristo. E' precisamente in questo contesto che la croce diventa il punto focale. Perciò, nella Chiesa primitiva non soltanto il cielo ma anche la croce veniva dipinta sull'abside, o per lo meno collocata in un punto elevato dell'abside. Nessuno quindi, pregando, poteva fare a meno di guardare la croce. L'esempio più eloquente di tale disposizione lo abbiamo nell'abside della chiesa di Sant'Apollinare in Classe a Ravenna, risalente al VI secolo. La consuetudine della Chiesa di porre sull'altare una croce elevata, cosa normale fino a qualche decennio fa, era ben fondata sia liturgicamente che teologicamente. Anche dopo il Concilio Vaticano II, non vi era alcuna buona ragione di relegare i crocifissi agli altari laterali usati sempre più raramente. L'altare è il luogo della preghiera: la croce ne fa parte, tanto più quando è all'altare maggiore. E' il luogo in cui si alzano le mani, la mente e gli occhi per "guardare colui che hanno trafitto". Lì, il cielo si aprì allorquando le tenebre coprirono la terra: il Sole di Giustizia sulla croce fu innalzato al centro della terra, trasformando le nostre tenebre in luce. Nella miriade di pubblicazioni sulla postura della preghiera, raramente si trovano riferimenti alle mani alzate.

Gli autori ritengono sempre che la prima postura dei "normali" credenti, quando pregano, sia quella di congiungere le mani. In effetti, tenere le mani giunte è una pratica antica di parecchi secoli. Eppure, si tace sempre che la "vera" postura di preghiera (ancor oggi) è quella del sacerdote quando celebra la Messa. Ogni volta che egli dice: "Preghiamo", alza le braccia appena inizia a recitare l'orazione. Nella Chiesa primitiva e in quella medievale, quando il sacerdote annunciava: "Preghiamo", l'assemblea si alzava in piedi e levava in alto le braccia. Nei tempi moderni, invece, le posture di preghiera di celebrante e fedeli divergono; infatti, essi si inginocchiano o rimangono in piedi congiungendo le mani. Così la primitiva postura cristiana di preghiera, mani e occhi rivolti al cielo, è stata completamente dimenticata, e non la si capisce nemmeno più come gesto di preghiera, anzi la si considera un rituale di origine oscura riservato ai sacerdoti . Tale grande divergenza e discontinuità della pratica non aiuta i fedeli a capire il significato delle mani alzate del sacerdote e cosa ha a che fare questo con la preghiera, soprattutto quando l'assemblea non usa tale postura. Gli stessi sacerdoti sembrano non avere alcuna idea del perché fanno quello che fanno, dal momento che ognuno lo fa in modo diverso. Attualmente, non c'è una pratica concorde sulla postura di preghiera. A me pare che qui manchi qualcosa. Dopo tutto, la fede cristiana, a motivo dell'Incarnazione, ha un rapporto molto più stretto e più consapevole con il corpo di qualsiasi altra religione. La preghiera non è mera interiorità, ma si deve incarnare in particolari posture. La cosa più importante a tale riguardo è quella che abbiamo trattato a proposito dell'alzare lo sguardo.

I primi cristiani sottolineavano in modo esplicito che l'uomo non è come gli animali che camminano a quattro zampe; l'uomo sta in posizione eretta e, in un certo senso, si avvicina al cielo con la struttura del proprio corpo. L'uomo può riconoscere Dio e parlargli, ecco perché sta eretto, alza le braccia e gli occhi al cielo. Chiunque prega dovrebbe adottare questa postura, non solo il prete. I cristiani assunsero quella comune postura di preghiera dalla tarda antichità, rimarcando ancora più fortemente la sua continuità. Anche per essi Dio era in cielo. Naturalmente, per loro c'era un solo Dio che ha creato il cielo e la terra. Ma l'accettazione dei cristiani di tale postura di preghiera, che era comune sia agli ebrei che ai pagani, è stata assoluta. Per essi era importante alzare gli occhi e le mani, perché Dio ha il suo trono in cielo. Ancora più importante è un'altra pratica che i cristiani adottarono dall'antichità: la purificazione delle mani. Lavare le mani e il viso prima del rituale di preghiera, non è un'invenzione dei musulmani. I credenti islamici la adottarono nel VII secolo basandosi sulle pratiche degli oranti cristiani. I cristiani infatti si lavavano almeno le mani prima di pregare. Sul sagrato delle chiese c'era una fontana d'acqua proprio per tale scopo. Nell'atrio di San Pietro a Roma, c'era la famosa fontana di pietra a forma di pino. Su un sarcofago ravennate è raffigurato il catino per l'acqua delle abluzioni: un cantharus (catino profondo) adornato di pavoni. Il lavacro determinava un atteggiamento di purità ed integrità nella preghiera. Le mani dovevano essere pure proprio perché venivano alzate al cielo durante l'orazione. Il credente voleva essere visto da Dio, per cui chi pregava, mostrava le sue mani monde come segno che non erano macchiate di sangue. Per i cristiani, le mani monde erano l'espressione che si entrava alla presenza di Dio con una coscienza pura. "Chi ha mani innocenti e cuore puro" (Salmo 24,4) può salire la montagna del Signore, recitava un salmo cantato da coloro che si recavano pellegrini al tempio di Gerusalemme.

Ciò spiega questa postura di preghiera nella Chiesa primitiva: si tenevano le mani relativamente vicine al volto con le palme verso l'esterno, come è ancora in uso oggi nel rito domenicano. Era come dire: "Ecco, o Dio, guarda le mie mani! Non vi sono tracce di sangue né d'ingiustizia su di esse. E solo così, io oso pregare e levare la mia voce fino a Te". San Giovanni Crisostomo diceva ai suoi fedeli che non era sufficiente alzare mani pure verso Dio, perché le mani devono essere anche rese sante con le opere di carità. Ecco perché sul sagrato della chiesa, non solo si andava alla fontana per lavarsi le mani, ma si coglieva l'occasione per fare l'elemosina ai poveri che stazionavano sul sagrato. Il rituale dell'abluzione delle mani, un tempo praticato da tutti i fedeli, oggi lo compie soltanto il sacerdote prima della Preghiera Eucaristica. I fedeli laici non si lavano più le mani perché non le alzano più quando pregano. In sostituzione, si benedicono con l'acqua santa entrando in chiesa, facendo così memoria del proprio battesimo. I rituali del passato mantengono il loro significato anche oggi. La preghiera cristiana presuppone "mani pure". Chi pecca contro il prossimo pecca anche contro Dio, e se rifiuta di riconciliarsi, non deve accostarsi all'altare di Dio. L'atto di fede non cancella automaticamente tutti i peccati passati e futuri. Le nostre azioni e comportamenti peccaminosi creano degli ostacoli sul nostro cammino verso Dio, e indeboliscono l'efficacia della nostra preghiera.

Il sacerdote fa memoria della propria inadeguatezza ogni volta che alza le mani. Questo gesto rituale deve provocare nel suo spirito un serio esame di coscienza: tu solo puoi alzare le mani in preghiera; ne sei degno? Hai fatto tutto ciò che è in tuo potere, con mani pure e trasparenza di spirito, per arrivare davanti a Dio e portargli i doni e le preghiere del popolo?

fonte: http://www.hprweb.com/2012/01/cross-altar-and-the-right-way-of-praying/


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
04/10/2012 10:37
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
DEL SOMMO PONTEFICE  

 

IL CROCIFISSO AL CENTRO DELL’ALTARE

Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 218, pone la domanda: «Che cos’è la liturgia?»; e risponde:

«La liturgia è la celebrazione del Mistero di Cristo e in particolare del suo Mistero pasquale. In essa, mediante l’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo, con segni si manifesta e si realizza la santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Cristo, cioè dal Capo e dalle membra, il culto pubblico dovuto a Dio».

Da questa definizione, si comprende che al centro dell’azione liturgica della Chiesa c’è Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote, ed il suo Mistero pasquale di Passione, Morte e Risurrezione. La celebrazione liturgica deve essere trasparenza celebrativa di questa verità teologica. Da molti secoli, il segno scelto dalla Chiesa per l’orientamento del cuore e del corpo durante la liturgia è la raffigurazione di Gesù crocifisso.

La centralità del crocifisso nella celebrazione del culto divino risaltava maggiormente in passato, quando vigeva la consuetudine che sia il sacerdote che i fedeli si rivolgessero durante la celebrazione eucaristica verso il crocifisso, posto al centro, al di sopra dell’altare, che di norma era addossato alla parete. Per l’attuale consuetudine di celebrare «verso il popolo», spesso il crocifisso viene oggi collocato al lato dell’altare, perdendo così la posizione centrale.

L’allora teologo e cardinale Joseph Ratzinger aveva più volte sottolineato che, anche durante la celebrazione «verso il popolo», il crocifisso dovrebbe mantenere la sua posizione centrale, essendo peraltro impossibile pensare che la raffigurazione del Signore crocifisso – che esprime il suo sacrificio e quindi il significato più importante dell’Eucaristia – possa in qualche maniera essere di disturbo. Divenuto Papa, Benedetto XVI, nella prefazione al primo volume delle sue Gesammelte Schriften, si è detto felice del fatto che si stia facendo sempre più strada la proposta che egli aveva avanzato nel suo celebre saggio Introduzione allo spirito della liturgia. Tale proposta consisteva nel suggerimento di «non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo».

Il crocifisso al centro dell’altare richiama tanti splendidi significati della sacra liturgia, che si possono riassumere riportando il n. 618 del Catechismo della Chiesa Cattolica, un brano che si conclude con una bella citazione di santa Rosa da Lima:

«La croce è l’unico sacrificio di Cristo, che è il solo “mediatore tra Dio e gli uomini” (1 Tm 2,5). Ma, poiché nella sua Persona divina incarnata, “si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22) egli offre “a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (ibid.). Egli chiama i suoi discepoli a prendere la loro croce e a seguirlo (cf. Mt 16,24), poiché patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme (cf. 1 Pt 2,21). Infatti egli vuole associare al suo sacrificio redentore quelli stessi che ne sono i primi beneficiari (cf. Mc 10,39; Gv 21,18-19; Col 1,24). Ciò si compie in maniera eminente per sua Madre, associata più intimamente di qualsiasi altro al mistero della sua sofferenza redentrice (cf. Lc 2,35). “Al di fuori della croce non vi è altra scala per salire al cielo” (santa Rosa da Lima; cf. P. Hansen, Vita mirabilis, Louvain 1668)».


 



[SM=g1740733]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
22/03/2015 12:22
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

  Il rapporto tra croce e altare nell'antichità cristiana



Testimonianze storiche ed archeologiche
(I)
di Stefano Carusi
19 marzo 2015, San Giuseppe




Lo studio della liturgia antica, in particolare romana, si scontra fin dal suo delinearsi, con la difficoltà a ricostruire con precisione la disposizione dello spazio presbiterale dei primi otto secoli dell’era cristiana. Non è sempre facile ricostruire con precisione lo spazio absidale e la stessa posizione dell’altare con i relativi arredi pone ancor oggi dei problemi in parte irrisolti. Sappiamo con certezza che in epoca medievale e moderna la prescrizione della presenza della croce in corrispondenza della mensa è raccomandata come fondamentale dai messali e dalla tradizione dei diversi riti. Siamo anche certi che già a partire dai primi secoli del secondo millennio, nelle differenti famiglie liturgiche dell’orbe cristiano, la rappresentazione nello spazio d’altare della croce è ormai generalizzata: la sua presenza ricorda il sacrificio del Venerdì Santo e sottolinea il significato teologico della Messa. Più discussa fra gli studiosi è l’epoca dell’introduzione di tale elemento come arredo centrale dell’altare, soprattutto se il dibattito storico riguarda il primo millennio dell’era cristiana.

Nell’analisi che segue si tenterà di approfondire il legame simbolico-liturgico tra la celebrazione eucaristica, l’altare e la croce. Si cercherà, a seconda dei territori analizzati e con particolare riferimento alla penisola italiana, di verificare se sia possibile proporre una datazione relativa alla sicura presenza della croce in ambito cultuale, quale elemento fondamentale e centrale nella disposizione dell’altare.
E’ bene premettere che le fonti letterarie e i ritrovamenti archeologici in proposito sono di una disarmante esiguità e che i ritrovamenti locali e sporadici - tenendo conto anche del particolarismo liturgico dell’orbe cristiano antico - mal si prestano a generalizzazioni troppo affrettate. E’ noto che nel campo della storia della liturgia la prudenza deve essere particolare preoccupazione del ricercatore, non solo per la delicatezza dell’argomento, ma anche perché le molte ricostruzioni accademiche fatte “a tavolino”, hanno col tempo rivelato le incertezze e le incongruenze di tesi audaci e a volte infondate. Per converso è noto quanto il conservatorismo rituale incida sulla liturgia, al punto che, almeno fino ad epoca recente, è più facile incontrare usi di cui si fosse persa la ragione che assistere ad introduzioni ex nihilo. Nel caso di una tradizione nota e ricorrente - come la presenza della croce sull’altare - è metodologicamente più corretto dimostrare l’epoca della sua introduzione, piuttosto che negarne l’esistenza in epoca antica sulla base di silenzi delle fonti, giacchè l’assenza di prove non è sempre prova di un’assenza[1].
Per inciso giova anche rammentare che la storia della liturgia si trova, per più ragioni, esposta a interpretazioni spesso arbitrarie; la proiezione nell’antichità di dibattiti teologici recenti ha spesso  falsato la panoramica e un primitivismo dalle utopie retrospettive ha attribuito ai cristiani della tarda antichità problemi molto lontani dalle loro menti. 

Status quaestionis

La preghiera liturgica della testimonianza vetero-testamentaria, così come la successiva tradizione cristiana, è essenzialmente un rivolgimento a Dio per impetrare propiziazione, lodare, ringraziare, adorare per mezzo di un mediatore, il sacerdote istituito da Dio stesso[2]; il rapporto tra Dio e gli uomini è legato da un patto, da un’alleanza; segno di quest’alleanza era in antico l’Arca, nei tempi nuovi la Croce. E’ il sacrificio del Figlio che riconcilia gli uomini con il Padre, è la Crocifissione, che si rinnova in maniera incruenta sugli altari, che ha restaurato la caduta d’Adamo[3]; bisogna quindi determinare se sia coerente con i dati storico-archeologici pensare che ciò che si realizza in maniera non direttamente visibile con gli occhi di carne, fosse rappresentato in maniera visibile in uno spazio in connessione all’altare.
E’ dato assodato che la presenza della croce sull’altare sia una costante per la maggioranza dei riti orientali a partire dal secolo VII-VIII in Oriente, più discussa è la situazione in Occidente, per le incertezze sull’epoca di introduzione a seconda delle zone. Appare alquanto singolare che questa uniformità si noti anche nelle comunità cristiane separate da Roma e Costantinopoli fin dal VI secolo, come è il caso di alcune comunità della Siria e dell’Egitto, della Mesopotamia e dell’India. Bisogna stabilire se il fattore sia tanto primitivo da essere precedente alla separazione o se vi sia stata emulazione, in questo caso valutare in che senso vi sia stata influenza.
In ambito romano e occidentale, a parere di alcuni autori, non si può parlare di presenza della croce sull’altare prima del XII - XIII secolo[4]. Il silenzio sull’argomento da parte dell’Ordo Romanus I[5] e alcune rappresentazioni dello spazio dell’altare ascrivibili ai sec. X-XI, che ancora non riproducono la croce sopra la mensa, ne sarebbero la testimonianza ( per citare alcuni esempi di ambito romano e centroeuropeo si possono menzionare il noto affresco della Messa di S. Clemente dipinto presso l’omonima basilica di Roma o le miniature nell’evangeliario per l’Abbadessa Uta di Niedermunster[6] o dell’evangeliario di San Bernward di Hildesheim[7]).
Lo studio della documentazione dell’alta antichità cristiana pone però degli interrogativi che, sebbene di non facile soluzione, non permettono tuttavia il carattere categorico attribuito in passato alla tesi di un’introduzione tardo-medievale della croce.Difficile stabilire con certezza se una rappresentazione dello strumento della Passione fosse o meno sull’altare in epoca antica o se fosse in posizione centrale e visibile, benché non direttamente appoggiata sulla mensa, o se infine vi fosse una relazione col rivolgimento a Oriente. Appare comunque con evidenza, oggi più che in passato, la necessità di ampliare la prospettiva nei suoi risvolti archeologici e simbolico-teologici, analizzando la possibilità di una retrodatazione della presenza della croce sull’altare.

Oriente e Croce in alcune passiones e scritti antichi
Gli atti di alcuni martiri di Samosata vissuti nei secoli III - IV[8], offrono dei dati d’interesse; negli Acta Hipparchi Philothei et sociorum[9], si legge che alcuni cristiani erano convenuti nella casa di un certo Ipparco per pregare verso Oriente e verso la Croce: “[…] crucemque pinxerat in orientali pariete. Ibi, ante crucis imaginem, converso ad orientem ore, Dominum Iesum Christum quotidie septies adorabant[10]. Si evince chiaramente che i cristiani di Samosata pregavano rivolti verso Oriente e in quella direzione dipingevano una Croce sulla parete. Nel citato testo si legge più avanti che i pagani accusarono i cristiani di venerare una croce lignea; essendo il testo databile al V secolo, il Peterson deduce che il riferimento alla croce lignea è probabilmente un’interpolazione avvenuta al momento della redazione, ma il riferimento alla croce dipinta sul muro è da considerarsi autentico, perciò di III-IV secolo[11]; abbiamo quindi, anche considerando le recenti critiche che il Wallraff ha mosso al testo[12], una prova di preghiera “versus crucem et orientem” attestata almeno nel IV secolo; non meno interessante è l’interpolazione di V secolo sulla croce lignea, perché non è improbabile che una pratica liturgica coeva possa aver influenzato i redattori.  
Il rivolgimento ad Oriente durante alcune fasi della preghiera, ampiamente noto dagli scritti di Tertulliano[13] e di numerosi Padri, è da tempo oggetto di dibattito scientifico ma, tanto il Dölger[14] che il Gamber,[15] che hanno studiato l’argomento e dimostrato come il fenomeno interessasse gran parte dell’orbe cristiano antico, si sono occupati marginalmente del legame con la croce.Nei secoli V, VI la relazione fra Oriente e croce sembra un’acquisizione almeno per la Siria: negli atti di Kardagh si legge che il Santo dopo la conversione “subito surgens ingressus est cubiculum et delineavit in pariete orientali signum crucis, et cecidit super faciem suam in terram et oravit coram illo[16]. Il documento costituisce una ulteriore prova della pratica di dipingere una croce nella parete orientale in occasione della preghiera, quindi dell’esigenza di avere dinanzi agli occhi lo strumento della Passione.Il problema della croce sui muri è conosciuto anche in uno scritto attribuito un tempo a S. Giovanni Crisostomo[17]. Origene riferisce il dato interessante di un rivolgimento della preghiera verso Oriente in direzione di un muro[18].L’eresiologia fornisce ulteriori indizi: i Marcioniti, che erano fortemente ostili al culto della croce,  pregavano verso Occidente con un preciso intento polemico[19], il legame tra i due elementi sembra di nuovo attestato anche se da una prova “a contrario”.La preghiera rivolta a Oriente e verso la croce, sosteneva il Peterson[20], avrebbe un significato escatologico; sarebbe il rivolgersi, secondo il noto passo di Matteo[21], verso la direzione da cui Cristo ha promesso di tornare sulla terra preceduto dalla croce; l’interpretazione di quest’associazione, nel suo aspetto storico e teologico-simbolico, è stata oggetto di recenti studi e dibattiti[22].    
Nella polemica anticristiana del II secolo è d’interesse il discorso attribuito a Frontone e riferito nell’ “Octavius” di Minucio Felice; tra alcune accuse alla nuova religione si trova la menzione che i cristiani non solo compissero cerimonie con il legno della croce “crucis ligna feralia eorum caerimonias fabulatur”, ma che ad essa erigessero altari, “congruentia perditis sceleratisque tribuit altaria, ut id colant quod merentur[23]. Il dato che vi fossero a Roma nella seconda metà del II secolo altari nei quali si venerasse la croce doveva inorridire i contemporanei pagani, esso appare nel testo insieme ad accuse infondate contro i cristiani, ma a differenza di esse appare alquanto verosimile e pone interessanti interrogativi, specie tenendo conto della continuità con la prassi posteriore.

Alcune testimonianze sulle Basiliche romane e il Liber Pontificalisdi Roma e Ravenna
Risulta piuttosto arduo indagare la storia liturgica attraverso i resti dei “tituli romani[24] così come la ricostruzione dello spazio presbiterale delle stesse basiliche costantiniane di Roma presenta dei nodi di difficile soluzione[25], nuoce agli studi la continuità del culto cristiano e le sovrastrutture successive non sempre rendono identificabili i resti antichi. La testimonianza offerta dalLiber Pontificalis[26] sembra invece permettere l’avanzamento di alcune ipotesi più circostanziate.Le donazioni costantiniane alla Basilica Salvatoris ci permettono di ricostruire alcuni elementi fondamentali[27]:  sappiamo che Costantino donò i noti “septem altaria” d’argento, unitamente a sette candelieri da porre davanti ad essi, la questione ha sempre sollevato numerosi dubbi sulla funzione di questi oggetti preziosi, il fatto che gli altari fossero di eguale peso lascia supporre che fra essi non vi fosse compreso l’altare della consacrazione, che avrebbe dovuto avere maggiori dimensioni e differente monumentalità. L’assenza di una donazione imperiale in proposito, proprio per la basilica dei Pontefici Romani, lascia ulteriormente propendere per la veridicità della tradizione pervenutaci, cioè che fosse in uso nella basilica, ancora ai tempi di Costantino, un antico altare usato dai vescovi precedenti, che, in virtù della sua antichità e venerazione, avrebbe conservato la funzione primigenia anche nel pieno IV secolo[28]. Il dato ridimensionerebbe le teorie sugli stravolgimenti liturgici operati in epoca costantiniana e testimonierebbe di cambiamenti solo marginali, retrodatando quindi l’introduzione di alcuni usi.Sulla base di questi presupposti, il Klauser avanza l’ipotesi che i sette altari avessero la funzione di mensa per le offerte e ne ipotizza una collocazione ai lati del Fastigium, nella asimmetrica disposizione di quattro da una parte e tre dall’altra. Studi più recenti sullo spazio intorno al  Fastigium si sono concentrati sulla ricostruzione dello spazio presbiterale, ma rimane difficile avanzare ricostruzioni dettagliate sul rito che doveva compiersi al suo interno[29].         
La ricostruzione dello spazio absidale della Basilica Vaticana di S. Pietro è stata resa possibile da una scoperta archeologica dei primi del Novecento, fatta nella chiesa di S. Ermagora a Pola, il  ritrovamento della cosiddetta capsella di Samagher: “difficile immaginare un altro cimelio che al pari di esso assuma tanta importanza in diversi campi, nella storia dell’arte paleocristiana, nella storia dell’impero, nella storia della Chiesa”[30]. La cassetta fu realizzata a Roma intorno al 440 e destinata a contenere delle reliquie, fu forse donata da Sisto III o da Leone Magno a Valentiniano. Nelle quattro facce sono rappresentati alcuni luoghi santi della Cristianità, sul lato posteriore è la rappresentazione della Basilica di San Pietro; oltre la cosiddetta “Pergula Vaticana”, è rappresentato un corpo quadrangolare, al di sopra del quale è visibile una croce, non è facile stabilire se essa sia infissa sulla superficie o se sia decorazione di una nicchia retrostante, ma la sua innegabile presenza in questo contesto è da ricondurre alla memoria dell’Apostolo Pietro e forse ad un ruolo liturgico, le due ipotesi non si escludono a vicenda. L’altare poteva, supponendo la sua mobilità, essere apposto in prossimità della confessione durante il rito e non essere quindi rappresentato nella capsella, ma resta ragionevole pensare che la celebrazione avvenisse in prossimità della memoria dell’Apostolo; la posizione laterale dei personaggi rappresentati, determinata dall’impossibilità di essere sul fronte per la presenza della “fenestella confessionis”, pone l’interrogativo tuttora irrisolto della posizione precisa della mensa d’altare[31]


L’ipotesi che nella Basilica Vaticana si celebrasse in presenza di una croce, intenzionalmente o meno, già agli inizi del V secolo, non può essere elusa, la croce è al centro dello spazio presbiterale. L’ipotesi che sia solo segno della memoria dell’Apostolo, o che si trovasse in una retrostante nicchia, non inficia il rapporto con la liturgia, perché lo spazio della “memoria” dell’Apostolo è anche lo spazio privilegiato della celebrazione.
Un altro nodo della disposizione dello spazio liturgico è costituito dagli oratori ed altari laterali, presenti almeno dall’epoca di Papa Ilario ( 461-468) nellaBasilica Salvatoris e dall’epoca di Papa Simmaco (498 - 514) nella Basilica Vaticana, essi appaiono addossati a nicchie e orientati in maniera difforme. Nel caso della Basilica Vaticana, l’ “Oratorium Sanctae Crucis”, che sappiamo essere situato nello spazio del transetto destro, era dotato di una croce gemmata contenente una reliquia della Vera Croce, posta in una nicchia, e di un relativo altare, verisimilmente rivolto verso la nicchia; nello spazio del Battistero, gli altari di S. Giovanni Evangelista e quello del Battista, erano entrambi addossati al muro; nella cosiddetta “Rotonda” l’altare di S. Andrea e quelli ad esso contigui, erano orientati in differenti direzioni, ma tutti verso un muro[32]; non è sempre facile stabilire quando e come si celebrasse su questi altari,  ma è probabile che il celebrante fosse rivolto verso il muro o l’eventuale immagine o reliquia che vi era deposta.
Secondo il Liber Pontificalis di Roma, le donazioni di croci alla Basilica Vaticana e ad altri edifici dell’Urbe si susseguono con continuità. Costantino, sotto papa Silvestro (314-335), dona alla basilica di S. Pietro una grande croce di 150 libbre da mettere davanti al corpo di S. Pietro[33], un’altra dello stesso peso da collocare  “super locum Beati Pauli[34]; leggiamo che Vigilio (537-555) “obtulit crucem auream cum gemmis[35]; all’epoca di Pelagio II la croce donata da Belisario, si trova ancora “ante corpus Beati Petri[36]; interessante il dono di una croce da parte di Leone III (795-816), “pendentem in pergola ante altare[37]; lo stesso pontefice “fecit crucem maiorem (…) stat iuxta altare maiore[38], in questo caso è una grande croce, la principale (maiorem) e soprattutto destinata all’altare maggiore, “iuxta” può significare sopra, sospesa o infissa su un supporto. Sappiamo di una croce col nome di Leone IV alla quale fu riargentata la “virga in qua cruce continetur” e la quale “stat parte dextra iuxta altare maiore[39],  la collocazione e la funzione di questo elemento interroga particolarmente, vi potrebbe essere un rimando ad una croce processionale collocata presso l’altare, ancora una volta il maggiore, e che necessitava di un supporto eventualmente fisso.
Le donazioni di croci interessano anche gli altari laterali, il papa Ilario dona a ciascuno degli oratori della Basilica Salvatoris, l’uno di S.Giovanni Evangelista, l’altro di S. Giovanni Battista, una “confessio” con una croce d’oro e fa un simile donativo, ma in questo caso col legno della Santa Croce, per l’Oratorio della Santa Croce[40];  per un altro Oratorio della Santa Croce, quello della Basilica Sancti Petri, Papa Simmaco dona una “confessionem et crucem ex auro[41]. Appare estremamente significativo che il Liber Pontificalis parli di “confessionem et crucem ex auro” come di un insieme e il legame - o la citazione dei due elementi in associazione - si riscontra in più di un passaggio, tanto per le due maggiori basiliche dell’Urbe che per Santa Maria Maggiore, per la quale non mancano donativi di croci per l’altare[42]
La connessione tra sepolcro venerato, altare maggiore e croce sembra un dato sufficientemente documentato, più ardua risulta la ricostruzione della disposizione strettamente liturgica.L’enfasi data a certe donazioni, la preziosità del materiale utilizzato, l’unicità del pezzo donato, lasciano intendere che l’oggetto fosse destinato ad un uso che prevedesse centralità, rilievo e visibilità. 
Nell’ambito ravennate, sappiamo che il vescovo Maximianus “crucem vero auream maiorem ipse fieri iussit et pretiosissimis gemmis et margaritis ornavit[43], ricorre il termine “maiorem” ad evidenziare la monumentalità che l’oggetto doveva avere anche nella sua collocazione. Nel VI secolo il vescovo Agnellus (557-570) “fecit crucem magnam de argento in Ursiana ecclesia super sedem post tergum pontificis in qua sua effigies manibus expansis orat[44]; l’esistenza di una croce argentea di notevoli dimensioni collocata sopra la cathedra o al centro del catino absidale, può rinviare ad una centralità liturgica del manufatto metallico[45].  


  ...CONTINUA




* Desidero ringraziare il Rev. do Prof. Stefan Heid del Pontificio Istituto d’Archeologia Cristiana e il prof. Philippe Bernard dell’Università di Aix-en-Provence, uno speciale riconoscente pensiero va alla prof. Simonetta Minguzzi dell’Università di Udine

[1] Si tratta di un dibattito fiorito intorno alle visioni storiciste del secolo scorso che ha influenzato tanto l’archeologia che la storiografia ecclesiastica; le discipline storiche antichistiche ne furono anch’esse influenzate, specie in rapporto al dato della tradizione al quale si negava sistematicamente il valore di “fonte”, Cfr. Maurice Blondel, Histoire et dogme. Les lacunes philosophique de l'exégèse moderne, in La Quinzaine 16 janvier 1904, pp. 145-167, 1er février, pp. 349-373, e 16 février, pp. 433-458, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, Paris, 1956 (Bibliothèque de philosophie contemporaine), pp. 149-228, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, Paris, 1997, pp. 387-453 ; Id.,De la valeur historique du dogme, in Bulletin de littérature ecclésiastique 7 (1905), pp. 61-77, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, pp. 229-245, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, pp. 494-507. Cfr. PierreGauthier, Newman et Blondel : tradition et développement du dogme, Paris, 1988 (Cogitatio fidei, 147) ; RènéVirgoulay, Blondel face à l'historicisme : Histoire et dogme, in De Renan à Marrou : l'histoire du christianisme et les progrès de la méthode historique, 1863-1968, Villeneuve-d'Ascq, 1999 (Histoire et civilisations), pp. 83-93 ; Rosanna Ciappa, Rivelazione e storia. 
Il problema ermeneutico nel carteggio tra Alfred Loisy e Maurice Blondel (febbraio-marzo 1903), Napoli, 2001 (Pubblicazioni del Dipartimento di discipline storiche, 14) ; Louis-PierreSardella, Mgr Eudoxe Mignot (1842-1918). Un évêque français au temps du modernisme, Paris, 2004 (Histoire religieuse de la France, 25), pp. 689-699 ; Giacomo Losito, “De la valeur historique du dogme” (1905). L’epilogo del confronto di Maurice Blondel con la storicismo critico di Loisy , in Cristianesimo nella storia 27 (2006), pp. 471-511.

[2] Cfr. Martin Klöckener, Conversi ad Dominum in Augustinus-Lexikon, t. 1, col. 1280-1282 ; Id. Die Bedeutung der neu entdeckten Augustinus-Predigten (Sermones Dolbeau) für die liturgiegeschichtliche Forschung, in Augustin prédicateur (395-411).
Actes du colloque international de Chantilly (5-7 septembre 1996)
, Paris 1998, pp. 153-154 ; François Dolbeau, Augustin d'Hippone, Vingt-six sermons au peuple d'Afrique retrouvés à Mayence, Paris 1996, pp. 171-175 e 623 ; Noël Duval, Les églises africaines à deux absides. Recherches archéologiques sur la liturgie chrétienne en Afrique du Nord, Rome, 1971 (BEFAR 218 bis), pp. 303 ss. e 350-351 ; Id., Les installations liturgiques dans les églises paléochrétiennes, in Hortus artium medievalium 5, Zagreb (1999), p. 15 ; Id., Commentaire topographique et archéologique de sept dossiers des nouveaux sermons, in Augustin prédicateur (395-411). Actes du colloque international de Chantilly (5-7 septembre 1996), Paris 1998, pp. 196-198; Id., Architecture et liturgie : les rapports de l’Afrique et de l’Hispanie à l’époque byzantine, in V reunió d’arqueologia cristiana hispànica (Cartagena, 1998), Barcelone, 2000, p. 16; Raymond Étaix, Le sermon 17 de saint Césaire d'Arles. Texte complet, inPhilologia sacra. Biblische und patristische Studien für Hermann J. Frede und Walter Thiele zu ihrem siebzigsten Geburtstag, t. 2, Fribourg, 1993 (AGLB 24), pp. 560-567; Sible de Blaauw, In vista della luce, in Arte medievale, le vie dello spazio liturgico, a cura di Paolo Piva, Milano 2010, pp. 15-45.
[3] Marius Lepin, L’idée du Sacrifice de la Messe, Parigi 1926, pp. 37-94.
[4] Josef Andreas Jungmann, La liturgie de l’église romaine, Mulhouse 1957, p. 69; la stessa opinione in MarioRighetti, Manuale di storia liturgica, Milano 1964, t. I, p. 535; entrambi i testi sono di taglio manualistico, ma l’opinione sul posizionamento della croce da essi riferita ebbe una notevole diffusione anche in ambito specialistico, sebbene essa mancasse di un solido fondamento archeologico. 
[5] Michel Andrieu, Les Ordines Romani du Haut Moyen Age 2, Lovanio, 1948, pp. 67 e ss.[6] Louis Grodecki, Florentine Mutherich, Jean Taralon, Le siècle de l’an mil, 1973, p. 157.
[7] Ibidem, p. 108, 109.
[8] Bibliotheca Sanctorum, Roma 1961-1969, vol. VII, p. 864 s.
[9] Evodio Assemani, Acta Hipparchi, Philothei et sociorum, in Acta sanctorum martyrum orientalium et occidentalium, II, Romae 1748, pp. 124-147.
[10] Ibidem, p. 125.
[11] Erik Peterson, La Croce e la preghiera verso Oriente in Ephemerides Liturgicae, vol. 59 (1945), p. 52.[12] Sul legame simbolico frequente nella letteratura dei Padri tra Cristo Redentore e la luce di Cristo “Sole di salvezza”: Franz Joseph Dölger , Sol salutisGebet und Gesang im christlichen Altertum, Münster, 2 ed., 1925 (LQF 4/5); Martin Wallraff, Christus verus sol. Sonnenverehrung und Christentum in der Spätantike, Münster, 2001 (JAC, Ergänzungsband 32). Cfr. anche Ignazio Tantillo, L’impero della luce. Riflessione su Costantino e il sole, in MEFRA115 (2003), pp. 985-1048, e Stephan Berrens, Sonnenkult und Kaisertum von den Severern bis zu Constantin I. (193-337 n. Chr.), Stuttgart, 2004, pp. 229-234 (Historia Einzelschriften 185).
[13] Tert., Apol. XVI, (ed. E. Dekkers, CCL 1/1).
[14] F.J. Dölger, Sol Salutis.
[15] Klaus Gamber, Conversi ad Dominum, in Romische Quartalsschrift fur christiliche Altertumskunde und fur Kirchengeschichte 67 (1972), pp. 49- 64.
[16] Jean Baptiste Abbeloos, Acta Mar Kardaghi martyris, Bruxelles 1890, p. 34 s.; Anton Baumstark, Geschichte der syrischen Literatur, Bonn 1922, l’autore data gli atti al VI secolo; non si può dedurre con certezza in che epoca sia vissuto il santo, ma, trattandosi di un abate, è stato ipotizzato sia vissuto non prima del sec. IV; E.Peterson, La Croce, p. 53. 
[17] [Io. Chr.], Hom. in Matth. LIV, 4 (P.G. 58, 537); cfr. anche Io. Chr., Contra Iudeos et Gentiles (P.G. 48, 826).
[18] Orig., De orat., 32 (ed. Koetschau, GCS 3).
[19] Tert., Advers. Marcion., III, 22 (ed. Kroymann, CCL 1/1). ; F.G. Dölger, Sol salutis, p.173.[20] E. Peterson, La Croce, p. 63.
[21] Mt, 24, 30.
[22] Uwe Michel Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, passim.
[23] Min. Fel., Oct., IX, 4 (ed. B. Kytzler, “Bibliotheca Teubneriana”). Il dato citato appare nel testo insieme ad accuse infondate contro i cristiani, ma a differenza di esse appare alquanto verosimile e pone alcuni interessanti interrogativi. Enrico Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente, Roma 1992, pp. 59-60, Carlo Maria Kaufmann, Manuale d’Archeologia Cristiana, Roma 1992, pp. 59-60.
[24] Guglielmo Matthiae, Le chiese di Roma dal IV al X secolo, Rocca San Casciano 1962, p. 24.
[25] cfr. Richard Krautheimer, Architettura sacrapassim.
[26] Louis Duchesne, Liber pontificalis, Roma 1880, (LP), pp. 172- 176; cfr. anche Eus., V. C., III, 45; IV, 46 (ed. Winkelmann, GCS 7/1). L’attendibilità degli elenchi contenuti nel Liber pontificalis è stata confermata da studi recenti, che hanno evidenziato la veridicità dei dati riguardanti l’elencazione delle proprietà terriere, R. Krautheimer, Architettura sacra paleocristiana e medievale, op. cit., p. 22; cfr. anche Hermann Geertmann, Hic Fecit Basilicam, Leuven 2004.
[27] Sible de Blaauw, Cultus et Decor, liturgia e architettura nella Roma tardo antica e medievale, Città del Vaticano 1994.
[28] Theodor Klauser, Die konstantinischen altäre der Lateranbasilika, in Römische Quartalsschrift fur christliche Altertumskunde und für Kirchengeschichte, 43, 1935,  pp. 179-186.
[29] Ursula Nilgen, Das fastigium in der basilica constantiniana un vier bronzesaulen des Lateran, in Romische Quartalsschrift fur christiliche Altertumskunde und fur Kirchengeschichte, 72, 1977, pp. 20 ss. 

[30] Angela Donati (a cura di), Dalla Terra alle Genti, Milano 1996, p. 327; Margherita Guarducci, La capsella eburnea di Samagher, un cimelio di arte paleocristiana nella storia del tardo impero, Trieste 1978 (Estratto da Atti e memorie della Società Istriana di Archeologia e storia Patria, vol. 78, 1978, pp. 5-141)
[31] S. de Blaauw, Cultus et Decor, t. 2, p. 470 e ss.
[32] Ibidem, t. 2, pp. 485-492, pp. 566-579 e fig .19, l’autore propone anche una eventuale croce all’interno di una nicchia sul fronte dell’altare in basso.
[33] LP, 34, 17; H. Geertmann, Hic Fecit Basilicam, p. 63.
[34] LP, 34, 21.
[35] LP, 62, 2.
[36] LP, 59, 2.
[37] LP, 98, 49 .
[38] LP, 98, 87.
[39] LP, 105, 56.
[40] LP, 48, 2-3.
[41] LP, 53,7.
[42] LP, 98, 50; 98, 86.
[43] Giuseppe Bovini, Suppellettile d’oro e d’argento nelle antiche chiese di Ravenna in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina (1975), Ravenna, pp.139 e ss.
[44] Ibidem.
[45] G. Bovini, ”Le imagines Epicoporum” Ravennae ricordate nel Liber Pontificalis di Andrea Agnello”, in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina (1974), Ravenna, pp. 58, 61.


Pubblicato da Disputationes Theologicae 





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
28/03/2015 12:55
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota



Questo è il Crocefisso dal quale Padre Pio ricevette le stimmate.
Buona settimana Santa di Passione a tutti.

 

Per quanto riguarda la velatura delle immagini il Messale Romano dice quanto segue:

Per la quinta Domenica di Quaresima: 
“.... Le croci rimangono coperte fino alla fine della Celebrazione della Passione del Signore
il Venerdì Santo, ma le immagini rimangono coperte fino all’inizio della Veglia pasquale”.



 







Il colore per la velatura della croce

Risponde padre Edward McNamara, L.C., professore di Teologia e direttore spirituale

Roma,  (Zenit.org

 

Un lettore statunitense ha presentato la seguente domanda a padre Edward McNamara:

Nel nuovo Messale Romano il colore per coprire la croce è viola, ma il colore dei paramenti è rosso. Ho notato che varie chiese usano il rosso e un po’ il  viola, e anche il Vaticano utilizza il rosso. Qual è il colore corretto per velare la croce il Venerdì Santo? -- M.P., St. Petersburg, Florida (USA)

Pubblichiamo di seguito la risposta di padre Edward McNamara:

Per quanto riguarda la velatura delle immagini il Messale Romano dice testualmente quanto segue:

Per la quinta Domenica di Quaresima: “L’uso di velare le croci e le immagini della chiesa può essere osservato, se la Conferenza episcopale lo decide. Le croci rimangono coperte fino alla fine della Celebrazione della Passione del Signore il Venerdì Santo, ma le immagini rimangono coperte fino all’inizio della Veglia pasquale”. 

Nessun colore specifico viene menzionato qui, ma si può ragionevolmente presumere che sia il viola, perché questo è il colore tradizionale e corrisponde anche al tempo liturgico. 

Il messale è più netto per quanto riguarda il primo modo di mostrare la Croce il Venerdì Santo: “Il diacono accompagnato da ministranti, o da un altro ministro idoneo, va alla sacrestia, dalla quale, in processione, accompagnato da due ministri con i ceri accesi, porta la croce, coperto da un velo viola, per la navata al centro della chiesa”. 

Nella forma straordinaria, il viola è prescritto sia per il Venerdì Santo che per la velatura di tutte le immagini e croci esposte alla pubblica venerazione, prima dei vespri che precedono la prima domenica di Passione (la quinta Domenica di Quaresima nel calendario attuale). Immagini, come la Via Crucis, vetrate, così come dipinti, mosaici e altre opere d’arte che coprono vaste aree dei muri, non vengono velate. 

Come fa notare il nostro lettore, tuttavia, durante la celebrazione del Venerdì Santo, da parte del Santo Padre è stato usato un velo di colore rosso negli ultimi anni. 

Questo potrebbe essere un’usanza particolare della liturgia papale, simile a quella tradizione secondo la quale i paramenti rossi vengono anche usati  per il funerale di un papa. 

Secondo il grande storico della liturgia monsignor Mario Righetti, l’origine storica della prassi di velare le immagini deriva probabilmente da una consuetudine, in uso in Germania dal IX secolo, di stendere un grande panno davanti all’altare dall’inizio della Quaresima.

Questo tessuto, chiamato Hungertuch (stoffa della fame), nascondeva  interamente l’altare ai fedeli durante la Quaresima e non veniva rimosso, se non durante la lettura della Passione il Mercoledì Santo alle parole “il velo del tempio si squarciò in due”. 

Alcuni autori dicono che c’era un motivo pratico per questa usanza, in quanto i fedeli, spesso analfabeti, avevano bisogno di un modo per sapere che si era in tempo di Quaresima. 

Altri invece sostengono che si trattava di un residuo dell’antica pratica della penitenza pubblica, durante la quale i penitenti venivano ritualmente espulsi dalla chiesa, all’inizio della Quaresima. 

Quando successivamente il rito della penitenza pubblica cadde in disuso - l’intera assemblea simbolicamente entrò nell’ordine dei penitenti, ricevendo le ceneri Mercoledì delle Ceneri - non era più possibile espellerli dalla chiesa. Piuttosto, l’altare o “Santo dei Santi” veniva celato alla loro vista fino a quando non si erano riconciliati con Dio a Pasqua. 

Per motivi analoghi, più tardi, nel Medioevo, anche le immagini di croci e santi venivano velate sin dall’inizio della Quaresima.

La regola di limitare la velatura al tempo della Passione è venuta più tardi e non appare prima della pubblicazione del Cerimoniale dei Vescovi nel XVII secolo.

Dopo il Concilio Vaticano II ci sono state delle mosse per abolire la velatura di tutte le immagini, ma la pratica è sopravvissuta, anche se in una forma mitigata.

*I lettori possono inviare domande all’indirizzo liturgia.zenit@zenit.org. Si chiede gentilmente di menzionare la parola “Liturgia” nel campo dell’oggetto. Il testo dovrebbe includere le iniziali, il nome della città e stato, provincia o nazione. Padre McNamara potrà rispondere solo ad una piccola selezione delle numerosissime domande che ci pervengono.



      


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
18/05/2015 18:55
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

  Il rapporto tra croce e altare nell'antichità cristiana



Testimonianze storiche ed archeologiche
(I)

19 marzo 2015, San Giuseppe




Lo studio della liturgia antica, in particolare romana, si scontra fin dal suo delinearsi, con la difficoltà a ricostruire con precisione la disposizione dello spazio presbiterale dei primi otto secoli dell’era cristiana. Non è sempre facile ricostruire con precisione lo spazio absidale e la stessa posizione dell’altare con i relativi arredi pone ancor oggi dei problemi in parte irrisolti. Sappiamo con certezza che in epoca medievale e moderna la prescrizione della presenza della croce in corrispondenza della mensa è raccomandata come fondamentale dai messali e dalla tradizione dei diversi riti. Siamo anche certi che già a partire dai primi secoli del secondo millennio, nelle differenti famiglie liturgiche dell’orbe cristiano, la rappresentazione nello spazio d’altare della croce è ormai generalizzata: la sua presenza ricorda il sacrificio del Venerdì Santo e sottolinea il significato teologico della Messa. Più discussa fra gli studiosi è l’epoca dell’introduzione di tale elemento come arredo centrale dell’altare, soprattutto se il dibattito storico riguarda il primo millennio dell’era cristiana.
Nell’analisi che segue si tenterà di approfondire il legame simbolico-liturgico tra la celebrazione eucaristica, l’altare e la croce. Si cercherà, a seconda dei territori analizzati e con particolare riferimento alla penisola italiana, di verificare se sia possibile proporre una datazione relativa alla sicura presenza della croce in ambito cultuale, quale elemento fondamentale e centrale nella disposizione dell’altare.
E’ bene premettere che le fonti letterarie e i ritrovamenti archeologici in proposito sono di una disarmante esiguità e che i ritrovamenti locali e sporadici - tenendo conto anche del particolarismo liturgico dell’orbe cristiano antico - mal si prestano a generalizzazioni troppo affrettate. E’ noto che nel campo della storia della liturgia la prudenza deve essere particolare preoccupazione del ricercatore, non solo per la delicatezza dell’argomento, ma anche perché le molte ricostruzioni accademiche fatte “a tavolino”, hanno col tempo rivelato le incertezze e le incongruenze di tesi audaci e a volte infondate. Per converso è noto quanto il conservatorismo rituale incida sulla liturgia, al punto che, almeno fino ad epoca recente, è più facile incontrare usi di cui si fosse persa la ragione che assistere ad introduzioni ex nihilo. Nel caso di una tradizione nota e ricorrente - come la presenza della croce sull’altare - è metodologicamente più corretto dimostrare l’epoca della sua introduzione, piuttosto che negarne l’esistenza in epoca antica sulla base di silenzi delle fonti, giacchè l’assenza di prove non è sempre prova di un’assenza[1].
Per inciso giova anche rammentare che la storia della liturgia si trova, per più ragioni, esposta a interpretazioni spesso arbitrarie; la proiezione nell’antichità di dibattiti teologici recenti ha spesso  falsato la panoramica e un primitivismo dalle utopie retrospettive ha attribuito ai cristiani della tarda antichità problemi molto lontani dalle loro menti. 

Status quaestionis

La preghiera liturgica della testimonianza vetero-testamentaria, così come la successiva tradizione cristiana, è essenzialmente un rivolgimento a Dio per impetrare propiziazione, lodare, ringraziare, adorare per mezzo di un mediatore, il sacerdote istituito da Dio stesso[2]; il rapporto tra Dio e gli uomini è legato da un patto, da un’alleanza; segno di quest’alleanza era in antico l’Arca, nei tempi nuovi la Croce. E’ il sacrificio del Figlio che riconcilia gli uomini con il Padre, è la Crocifissione, che si rinnova in maniera incruenta sugli altari, che ha restaurato la caduta d’Adamo[3]; bisogna quindi determinare se sia coerente con i dati storico-archeologici pensare che ciò che si realizza in maniera non direttamente visibile con gli occhi di carne, fosse rappresentato in maniera visibile in uno spazio in connessione all’altare.
E’ dato assodato che la presenza della croce sull’altare sia una costante per la maggioranza dei riti in Oriente a partire dal secolo VII-VIII, più discussa è la situazione in Occidente, per le incertezze sull’epoca di introduzione a seconda delle zone. Appare alquanto singolare che questa uniformità si noti anche nelle comunità cristiane separate da Roma e Costantinopoli fin dal VI secolo, come è il caso di alcune comunità della Siria e dell’Egitto, della Mesopotamia e dell’India. Bisogna stabilire se il fattore sia tanto primitivo da essere precedente alla separazione o se vi sia stata emulazione, in questo caso valutare in che senso vi sia stata influenza.
In ambito romano e occidentale, a parere di alcuni autori, non si può parlare di presenza della croce sull’altare prima del XII - XIII secolo[4]. Il silenzio sull’argomento da parte dell’Ordo Romanus I[5] e alcune rappresentazioni dello spazio dell’altare ascrivibili ai sec. X-XI, che ancora non riproducono la croce sopra la mensa, ne sarebbero la testimonianza ( per citare alcuni esempi di ambito romano e centroeuropeo si possono menzionare il noto affresco della Messa di S. Clemente dipinto presso l’omonima basilica di Roma o le miniature nell’evangeliario per l’Abbadessa Uta di Niedermunster[6] o dell’evangeliario di San Bernward di Hildesheim[7]).
Lo studio della documentazione dell’alta antichità cristiana pone però degli interrogativi che, sebbene di non facile soluzione, non permettono tuttavia il carattere categorico attribuito in passato alla tesi di un’introduzione tardo-medievale della croce.Difficile stabilire con certezza se una rappresentazione dello strumento della Passione fosse o meno sull’altare in epoca antica o se fosse in posizione centrale e visibile, benché non direttamente appoggiata sulla mensa, o se infine vi fosse una relazione col rivolgimento a Oriente. Appare comunque con evidenza, oggi più che in passato, la necessità di ampliare la prospettiva nei suoi risvolti archeologici e simbolico-teologici, analizzando la possibilità di una retrodatazione della presenza della croce sull’altare.

Oriente e Croce in alcune passiones e scritti antichi
Gli atti di alcuni martiri di Samosata vissuti nei secoli III - IV[8], offrono dei dati d’interesse; negli Acta Hipparchi Philothei et sociorum[9], si legge che alcuni cristiani erano convenuti nella casa di un certo Ipparco per pregare verso Oriente e verso la Croce: “[…] crucemque pinxerat in orientali pariete. Ibi, ante crucis imaginem, converso ad orientem ore, Dominum Iesum Christum quotidie septies adorabant[10]. Si evince chiaramente che i cristiani di Samosata pregavano rivolti verso Oriente e in quella direzione dipingevano una Croce sulla parete. Nel citato testo si legge più avanti che i pagani accusarono i cristiani di venerare una croce lignea; essendo il testo databile al V secolo, il Peterson deduce che il riferimento alla croce lignea è probabilmente un’interpolazione avvenuta al momento della redazione, ma il riferimento alla croce dipinta sul muro è da considerarsi autentico, perciò di III-IV secolo[11]; abbiamo quindi, anche considerando le recenti critiche che il Wallraff ha mosso al testo[12], una prova di preghiera “versus crucem et orientem” attestata almeno nel IV secolo; non meno interessante è l’interpolazione di V secolo sulla croce lignea, perché non è improbabile che una pratica liturgica coeva possa aver influenzato i redattori.  
Il rivolgimento ad Oriente durante alcune fasi della preghiera, ampiamente noto dagli scritti di Tertulliano[13] e di numerosi Padri, è da tempo oggetto di dibattito scientifico ma, tanto il Dölger[14] che il Gamber,[15] che hanno studiato l’argomento e dimostrato come il fenomeno interessasse gran parte dell’orbe cristiano antico, si sono occupati marginalmente del legame con la croce.Nei secoli V, VI la relazione fra Oriente e croce sembra un’acquisizione almeno per la Siria: negli atti di Kardagh si legge che il Santo dopo la conversione “subito surgens ingressus est cubiculum et delineavit in pariete orientali signum crucis, et cecidit super faciem suam in terram et oravit coram illo[16]. Il documento costituisce una ulteriore prova della pratica di dipingere una croce nella parete orientale in occasione della preghiera, quindi dell’esigenza di avere dinanzi agli occhi lo strumento della Passione.Il problema della croce sui muri è conosciuto anche in uno scritto attribuito un tempo a S. Giovanni Crisostomo[17]. Origene riferisce il dato interessante di un rivolgimento della preghiera verso Oriente in direzione di un muro[18].L’eresiologia fornisce ulteriori indizi: i Marcioniti, che erano fortemente ostili al culto della croce,  pregavano verso Occidente con un preciso intento polemico[19], il legame tra i due elementi sembra di nuovo attestato anche se da una prova “a contrario”.La preghiera rivolta a Oriente e verso la croce, sosteneva il Peterson[20], avrebbe un significato escatologico; sarebbe il rivolgersi, secondo il noto passo di Matteo[21], verso la direzione da cui Cristo ha promesso di tornare sulla terra preceduto dalla croce; l’interpretazione di quest’associazione, nel suo aspetto storico e teologico-simbolico, è stata oggetto di recenti studi e dibattiti[22].    
Nella polemica anticristiana del II secolo è d’interesse il discorso attribuito a Frontone e riferito nell’ “Octavius” di Minucio Felice; tra alcune accuse alla nuova religione si trova la menzione che i cristiani non solo compissero cerimonie con il legno della croce “crucis ligna feralia eorum caerimonias fabulatur”, ma che ad essa erigessero altari, “congruentia perditis sceleratisque tribuit altaria, ut id colant quod merentur[23]. Il dato che vi fossero a Roma nella seconda metà del II secolo altari nei quali si venerasse la croce doveva inorridire i contemporanei pagani, esso appare nel testo insieme ad accuse infondate contro i cristiani, ma a differenza di esse appare alquanto verosimile e pone interessanti interrogativi, specie tenendo conto della continuità con la prassi posteriore.

Alcune testimonianze sulle Basiliche romane e il Liber Pontificalisdi Roma e Ravenna
Risulta piuttosto arduo indagare la storia liturgica attraverso i resti dei “tituli romani[24] così come la ricostruzione dello spazio presbiterale delle stesse basiliche costantiniane di Roma presenta dei nodi di difficile soluzione[25], nuoce agli studi la continuità del culto cristiano e le sovrastrutture successive non sempre rendono identificabili i resti antichi. La testimonianza offerta dalLiber Pontificalis[26] sembra invece permettere l’avanzamento di alcune ipotesi più circostanziate.Le donazioni costantiniane alla Basilica Salvatoris ci permettono di ricostruire alcuni elementi fondamentali[27]:  sappiamo che Costantino donò i noti “septem altaria” d’argento, unitamente a sette candelieri da porre davanti ad essi, la questione ha sempre sollevato numerosi dubbi sulla funzione di questi oggetti preziosi, il fatto che gli altari fossero di eguale peso lascia supporre che fra essi non vi fosse compreso l’altare della consacrazione, che avrebbe dovuto avere maggiori dimensioni e differente monumentalità. L’assenza di una donazione imperiale in proposito, proprio per la basilica dei Pontefici Romani, lascia ulteriormente propendere per la veridicità della tradizione pervenutaci, cioè che fosse in uso nella basilica, ancora ai tempi di Costantino, un antico altare usato dai vescovi precedenti, che, in virtù della sua antichità e venerazione, avrebbe conservato la funzione primigenia anche nel pieno IV secolo[28]. Il dato ridimensionerebbe le teorie sugli stravolgimenti liturgici operati in epoca costantiniana e testimonierebbe di cambiamenti solo marginali, retrodatando quindi l’introduzione di alcuni usi.Sulla base di questi presupposti, il Klauser avanza l’ipotesi che i sette altari avessero la funzione di mensa per le offerte e ne ipotizza una collocazione ai lati del Fastigium, nella asimmetrica disposizione di quattro da una parte e tre dall’altra. Studi più recenti sullo spazio intorno al  Fastigium si sono concentrati sulla ricostruzione dello spazio presbiterale, ma rimane difficile avanzare ricostruzioni dettagliate sul rito che doveva compiersi al suo interno[29].         
La ricostruzione dello spazio absidale della Basilica Vaticana di S. Pietro è stata resa possibile da una scoperta archeologica dei primi del Novecento, fatta nella chiesa di S. Ermagora a Pola, il  ritrovamento della cosiddetta capsella di Samagher: “difficile immaginare un altro cimelio che al pari di esso assuma tanta importanza in diversi campi, nella storia dell’arte paleocristiana, nella storia dell’impero, nella storia della Chiesa”[30]. La cassetta fu realizzata a Roma intorno al 440 e destinata a contenere delle reliquie, fu forse donata da Sisto III o da Leone Magno a Valentiniano. Nelle quattro facce sono rappresentati alcuni luoghi santi della Cristianità, sul lato posteriore è la rappresentazione della Basilica di San Pietro; oltre la cosiddetta “Pergula Vaticana”, è rappresentato un corpo quadrangolare, al di sopra del quale è visibile una croce, non è facile stabilire se essa sia infissa sulla superficie o se sia decorazione di una nicchia retrostante, ma la sua innegabile presenza in questo contesto è da ricondurre alla memoria dell’Apostolo Pietro e forse ad un ruolo liturgico, le due ipotesi non si escludono a vicenda. L’altare poteva, supponendo la sua mobilità, essere apposto in prossimità della confessione durante il rito e non essere quindi rappresentato nella capsella, ma resta ragionevole pensare che la celebrazione avvenisse in prossimità della memoriadell’Apostolo; la posizione laterale dei personaggi rappresentati, determinata dall’impossibilità di essere sul fronte per la presenza della “fenestella confessionis”, pone l’interrogativo tuttora irrisolto della posizione precisa della mensa d’altare[31]
Lato posteriore della Capsella di Samagher, la "Pergula Vaticana" e la Memoria di San Pietro

L’ipotesi che nella Basilica Vaticana si celebrasse in presenza di una croce, intenzionalmente o meno, già agli inizi del V secolo, non può essere elusa, la croce è al centro dello spazio presbiterale. L’ipotesi che sia solo segno dellamemoria dell’Apostolo, o che si trovasse in una retrostante nicchia, non inficia il rapporto con la liturgia, perché lo spazio della memoria dell’Apostolo è anche lo spazio privilegiato della celebrazione.
Un altro nodo della disposizione dello spazio liturgico è costituito dagli oratori ed altari laterali, presenti almeno dall’epoca di Papa Ilario ( 461-468) nellaBasilica Salvatoris e dall’epoca di Papa Simmaco (498 - 514) nella Basilica Vaticana, essi appaiono addossati a nicchie e orientati in maniera difforme. Nel caso della Basilica Vaticana, l’ “Oratorium Sanctae Crucis”, che sappiamo essere situato nello spazio del transetto destro, era dotato di una croce gemmata contenente una reliquia della Vera Croce, posta in una nicchia, e di un relativo altare, verisimilmente rivolto verso la nicchia; nello spazio del Battistero, gli altari di S. Giovanni Evangelista e quello del Battista, erano entrambi addossati al muro; nella cosiddetta “Rotonda” l’altare di S. Andrea e quelli ad esso contigui, erano orientati in differenti direzioni, ma tutti verso un muro[32]; non è sempre facile stabilire quando e come si celebrasse su questi altari,  ma è probabile che il celebrante fosse rivolto verso il muro o l’eventuale immagine o reliquia che vi era deposta.
Secondo il Liber Pontificalis di Roma, le donazioni di croci alla Basilica Vaticana e ad altri edifici dell’Urbe si susseguono con continuità. Costantino, sotto papa Silvestro (314-335), dona alla basilica di S. Pietro una grande croce di 150 libbre da mettere davanti al corpo di S. Pietro[33], un’altra dello stesso peso da collocare  “super locum Beati Pauli[34]; leggiamo che Vigilio (537-555) “obtulit crucem auream cum gemmis[35]; all’epoca di Pelagio II la croce donata da Belisario, si trova ancora “ante corpus Beati Petri[36]; interessante il dono di una croce da parte di Leone III (795-816), “pendentem in pergola ante altare[37]; lo stesso pontefice “fecit crucem maiorem (…) stat iuxta altare maiore[38], in questo caso è una grande croce, la principale (maiorem) e soprattutto destinata all’altare maggiore, “iuxta” può significare sopra, sospesa o infissa su un supporto. Sappiamo di una croce col nome di Leone IV alla quale fu riargentata la “virga in qua cruce continetur” e la quale “stat parte dextra iuxta altare maiore[39],  la collocazione e la funzione di questo elemento interroga particolarmente, vi potrebbe essere un rimando ad una croce processionale collocata presso l’altare, ancora una volta il maggiore, e che necessitava di un supporto eventualmente fisso.
Le donazioni di croci interessano anche gli altari laterali, il papa Ilario dona a ciascuno degli oratori della Basilica Salvatoris, l’uno di S. Giovanni Evangelista, l’altro di S. Giovanni Battista, una “confessio” con una croce d’oro e fa un simile donativo, ma in questo caso col legno della Santa Croce, per l’Oratorio della Santa Croce[40];  per un altro Oratorio della Santa Croce, quello della Basilica Sancti Petri, Papa Simmaco dona una “confessionem et crucem ex auro[41]. Appare estremamente significativo che il Liber Pontificalis parli di “confessionem et crucem ex auro” come di un insieme e il legame - o la citazione dei due elementi in associazione - si riscontra in più di un passaggio, tanto per le due maggiori basiliche dell’Urbe che per Santa Maria Maggiore, per la quale non mancano donativi di croci per l’altare[42]
La connessione tra sepolcro venerato, altare maggiore e croce sembra un dato sufficientemente documentato, più ardua risulta la ricostruzione della disposizione strettamente liturgica.L’enfasi data a certe donazioni, la preziosità del materiale utilizzato, l’unicità del pezzo donato, lasciano intendere che l’oggetto fosse destinato ad un uso che prevedesse centralità, rilievo e visibilità. 
Nell’ambito ravennate, sappiamo che il vescovo Maximianus “crucem vero auream maiorem ipse fieri iussit et pretiosissimis gemmis et margaritis ornavit[43], ricorre il termine “maiorem” ad evidenziare la monumentalità che l’oggetto doveva avere anche nella sua collocazione. Nel VI secolo il vescovo Agnellus (557-570) “fecit crucem magnam de argento in Ursiana ecclesia super sedem post tergum pontificis in qua sua effigies manibus expansis orat[44]; l’esistenza di una croce argentea di notevoli dimensioni collocata sopra la cathedra o al centro del catino absidale, può rinviare ad una centralità liturgica del manufatto metallico[45].  
...CONTINUA




* Desidero ringraziare il Rev. do Prof. Stefan Heid del Pontificio Istituto d’Archeologia Cristiana e il prof. Philippe Bernard dell’Università di Aix-en-Provence, uno speciale riconoscente pensiero va alla prof. Simonetta Minguzzi dell’Università di Udine

[1] Si tratta di un dibattito fiorito intorno alle visioni storiciste del secolo scorso che ha influenzato tanto l’archeologia che la storiografia ecclesiastica; le discipline storiche antichistiche ne furono anch’esse influenzate, specie in rapporto al dato della tradizione al quale si negava sistematicamente il valore di “fonte”, Cfr. Maurice Blondel, Histoire et dogme. Les lacunes philosophique de l'exégèse moderne, in La Quinzaine 16 janvier 1904, pp. 145-167, 1er février, pp. 349-373, e 16 février, pp. 433-458, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, Paris, 1956 (Bibliothèque de philosophie contemporaine), pp. 149-228, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, Paris, 1997, pp. 387-453 ; Id.,De la valeur historique du dogme, in Bulletin de littérature ecclésiastique 7 (1905), pp. 61-77, ripreso in Les premiers écrits de Maurice Blondel, pp. 229-245, e in M. Blondel, Œuvres complètes, t. 2, pp. 494-507. Cfr. PierreGauthier, Newman et Blondel : tradition et développement du dogme, Paris, 1988 (Cogitatio fidei, 147) ; RènéVirgoulay, Blondel face à l'historicisme : Histoire et dogme, in De Renan à Marrou : l'histoire du christianisme et les progrès de la méthode historique, 1863-1968, Villeneuve-d'Ascq, 1999 (Histoire et civilisations), pp. 83-93 ; Rosanna Ciappa, Rivelazione e storia. Il problema ermeneutico nel carteggio tra Alfred Loisy e Maurice Blondel (febbraio-marzo 1903), Napoli, 2001 (Pubblicazioni del Dipartimento di discipline storiche, 14) ; Louis-PierreSardella, Mgr Eudoxe Mignot (1842-1918). Un évêque français au temps du modernisme, Paris, 2004 (Histoire religieuse de la France, 25), pp. 689-699 ; Giacomo Losito, “De la valeur historique du dogme” (1905). L’epilogo del confronto di Maurice Blondel con la storicismo critico di Loisy , in Cristianesimo nella storia 27 (2006), pp. 471-511.[2] Cfr. Martin Klöckener, Conversi ad Dominum in Augustinus-Lexikon, t. 1, col. 1280-1282 ; Id. Die Bedeutung der neu entdeckten Augustinus-Predigten (Sermones Dolbeau) für die liturgiegeschichtliche Forschung, in Augustin prédicateur (395-411). Actes du colloque international de Chantilly (5-7 septembre 1996), Paris 1998, pp. 153-154 ; François Dolbeau, Augustin d'Hippone, Vingt-six sermons au peuple d'Afrique retrouvés à Mayence, Paris 1996, pp. 171-175 e 623 ; Noël Duval, Les églises africaines à deux absides. Recherches archéologiques sur la liturgie chrétienne en Afrique du Nord, Rome, 1971 (BEFAR 218 bis), pp. 303 ss. e 350-351 ; Id., Les installations liturgiques dans les églises paléochrétiennes, in Hortus artium medievalium 5, Zagreb (1999), p. 15 ; Id., Commentaire topographique et archéologique de sept dossiers des nouveaux sermons, in Augustin prédicateur (395-411). Actes du colloque international de Chantilly (5-7 septembre 1996), Paris 1998, pp. 196-198; Id., Architecture et liturgie : les rapports de l’Afrique et de l’Hispanie à l’époque byzantine, in V reunió d’arqueologia cristiana hispànica (Cartagena, 1998), Barcelone, 2000, p. 16; Raymond Étaix, Le sermon 17 de saint Césaire d'Arles. Texte complet, inPhilologia sacra. Biblische und patristische Studien für Hermann J. Frede und Walter Thiele zu ihrem siebzigsten Geburtstag, t. 2, Fribourg, 1993 (AGLB 24), pp. 560-567; Sible de Blaauw, In vista della luce, in Arte medievale, le vie dello spazio liturgico, a cura di Paolo Piva, Milano 2010, pp. 15-45.[3] Marius Lepin, L’idée du Sacrifice de la Messe, Parigi 1926, pp. 37-94.[4] Josef Andreas Jungmann, La liturgie de l’église romaine, Mulhouse 1957, p. 69; la stessa opinione in MarioRighetti, Manuale di storia liturgica, Milano 1964, t. I, p. 535; entrambi i testi sono di taglio manualistico, ma l’opinione sul posizionamento della croce da essi riferita ebbe una notevole diffusione anche in ambito specialistico, sebbene essa mancasse di un solido fondamento archeologico. [5] Michel Andrieu, Les Ordines Romani du Haut Moyen Age 2, Lovanio, 1948, pp. 67 e ss.[6] Louis Grodecki, Florentine Mutherich, Jean Taralon, Le siècle de l’an mil, 1973, p. 157.[7] Ibidem, p. 108, 109.[8] Bibliotheca Sanctorum, Roma 1961-1969, vol. VII, p. 864 s.[9] Evodio Assemani, Acta Hipparchi, Philothei et sociorum, in Acta sanctorum martyrum orientalium et occidentalium, II, Romae 1748, pp. 124-147.[10] Ibidem, p. 125.[11] Erik Peterson, La Croce e la preghiera verso Oriente in Ephemerides Liturgicae, vol. 59 (1945), p. 52.[12] Sul legame simbolico frequente nella letteratura dei Padri tra Cristo Redentore e la luce di Cristo “Sole di salvezza”: Franz Joseph Dölger , Sol salutisGebet und Gesang im christlichen Altertum, Münster, 2 ed., 1925 (LQF 4/5); Martin Wallraff, Christus verus sol. Sonnenverehrung und Christentum in der Spätantike, Münster, 2001 (JAC, Ergänzungsband 32). Cfr. anche Ignazio Tantillo, L’impero della luce. Riflessione su Costantino e il sole, in MEFRA115 (2003), pp. 985-1048, e Stephan Berrens, Sonnenkult und Kaisertum von den Severern bis zu Constantin I. (193-337 n. Chr.), Stuttgart, 2004, pp. 229-234 (Historia Einzelschriften 185).[13] Tert., Apol. XVI, (ed. E. Dekkers, CCL 1/1).[14] F.J. Dölger, Sol Salutis.[15] Klaus Gamber, Conversi ad Dominum, in Romische Quartalsschrift fur christiliche Altertumskunde und fur Kirchengeschichte 67 (1972), pp. 49- 64.[16] Jean Baptiste Abbeloos, Acta Mar Kardaghi martyris, Bruxelles 1890, p. 34 s.; Anton Baumstark, Geschichte der syrischen Literatur, Bonn 1922, l’autore data gli atti al VI secolo; non si può dedurre con certezza in che epoca sia vissuto il santo, ma, trattandosi di un abate, è stato ipotizzato sia vissuto non prima del sec. IV; E.Peterson, La Croce, p. 53. [17] [Io. Chr.], Hom. in Matth. LIV, 4 (P.G. 58, 537); cfr. anche Io. Chr., Contra Iudeos et Gentiles (P.G. 48, 826).[18] Orig., De orat., 32 (ed. Koetschau, GCS 3).[19] Tert., Advers. Marcion., III, 22 (ed. Kroymann, CCL 1/1). ; F.G. Dölger, Sol salutis, p.173.[20] E. Peterson, La Croce, p. 63.[21] Mt, 24, 30.[22] Uwe Michel Lang, Rivolti al Signore, Siena 2006, passim.[23] Min. Fel., Oct., IX, 4 (ed. B. Kytzler, “Bibliotheca Teubneriana”). Enrico Cattaneo, Il culto cristiano in Occidente, Roma 1992, pp. 59-60, Carlo Maria Kaufmann, Manuale d’Archeologia Cristiana, Roma 1992, pp. 59-60.[24] Guglielmo Matthiae, Le chiese di Roma dal IV al X secolo, Rocca San Casciano 1962, p. 24.[25] cfr. Richard Krautheimer, Architettura sacrapassim.[26] Louis Duchesne, Liber pontificalis, Roma 1880, (LP), pp. 172- 176; cfr. anche Eus., V. C., III, 45; IV, 46 (ed. Winkelmann, GCS 7/1). L’attendibilità degli elenchi contenuti nel Liber pontificalis è stata confermata da studi recenti, che hanno evidenziato la veridicità dei dati riguardanti l’elencazione delle proprietà terriere, R. Krautheimer, Architettura sacra paleocristiana e medievale, op. cit., p. 22; cfr. anche Hermann Geertmann, Hic Fecit Basilicam, Leuven 2004.[27] Sible de Blaauw, Cultus et Decor, liturgia e architettura nella Roma tardo antica e medievale, Città del Vaticano 1994.[28] Theodor Klauser, Die konstantinischen altäre der Lateranbasilika, in Römische Quartalsschrift fur christliche Altertumskunde und für Kirchengeschichte, 43, 1935,  pp. 179-186.[29] Ursula Nilgen, Das fastigium in der basilica constantiniana un vier bronzesaulen des Lateran, in Romische Quartalsschrift fur christiliche Altertumskunde und fur Kirchengeschichte, 72, 1977, pp. 20 ss. [30] Angela Donati (a cura di), Dalla Terra alle Genti, Milano 1996, p. 327; Margherita Guarducci, La capsella eburnea di Samagher, un cimelio di arte paleocristiana nella storia del tardo impero, Trieste 1978 (Estratto da Atti e memorie della Società Istriana di Archeologia e storia Patria, vol. 78, 1978, pp. 5-141)[31] S. de Blaauw, Cultus et Decor, t. 2, p. 470 e ss.[32] Ibidem, t. 2, pp. 485-492, pp. 566-579 e fig .19, l’autore propone anche una eventuale croce all’interno di una nicchia sul fronte dell’altare in basso.[33] LP, 34, 17; H. Geertmann, Hic Fecit Basilicam, p. 63.[34] LP, 34, 21.[35] LP, 62, 2.[36] LP, 59, 2.[37] LP, 98, 49 .[38] LP, 98, 87.[39] LP, 105, 56.[40] LP, 48, 2-3.[41] LP, 53,7.[42] LP, 98, 50; 98, 86.[43] Giuseppe Bovini, Suppellettile d’oro e d’argento nelle antiche chiese di Ravenna in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina (1975), Ravenna, pp.139 e ss.[44] Ibidem.[45] G. Bovini, ”Le imagines Epicoporum” Ravennae ricordate nel Liber Pontificalis di Andrea Agnello”, in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina (1974), Ravenna, pp. 58, 61.

Pubblicato da Disputationes Theologicae 


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.987
Sesso: Femminile
18/05/2015 18:56
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

Il rapporto tra croce e altare nell'antichità cristiana


Testimonianze storiche ed archeologiche
(II)


Segue; qui la prima parte dell’articolo.




Un elemento mobile

Nel Vaticanus Reginensis 316, noto anche come Sacramentario Gelasiano, databile al 750 circa, nelle pagine che descrivono il rito del Venerdì Santo, si legge: “hora nona procedunt omnes ad ecclesiam; et ponitur crux super altare”; non è chiaro se sia un resto di riti gerosolimitani o il ritorno della croce, celata durante la quaresima, ma è certo che la croce è messa sull’altare subito dopo l’ingresso; dopo alcune orazioni “ ingrediuntur diaconi in sacrario. Procedunt cum corpore et sanguinis Domini quod ante die remansit, et ponunt super altare. Et venit sacerdos ante altare adorans crucem Domini et osculans[47]. L’identificazione tra altare e Calvario è palese anche nei suoi aspetti di mistica e didattica eucaristica, non senza analogie col sermone di S. Agostino: “accostatevi a prendere da questo altare con timore e tremore; sappiate riconoscere nel pane ciò che pendette dalla croce e nel calice ciò che sgorgò dal costato”[48]. Il testo del Sacramentario parla inoltre chiaramente di croce sull’altare prima del dispiegamento delle tovaglie per accogliere le  specie eucaristiche; la croce doveva essere sull’altare, ma in posizione distaccata dalla mensa, per non intralciare la disposizione delle sacre specie.
In Occidente fonti più tarde attestano che la croce veniva portata sull’altare solo nel momento della celebrazione eucaristica; Innocenzo III riferisce nel De Sacro Altaris Mysterio: “inter duo candelabra in altari crux collocatur media[49]; nell’Ordo Bernhardi si specifica che durante il canto della Messa “crux a mansionariis super altare maius ponitur” [50]. Abbiamo inoltre l’attestazione che in alcune diocesi di Francia fino al secolo XVI vigeva la norma che fosse il celebrante a portare la croce sull’altare[51]. Il grande numero di croci astili realizzate nel Medioevo in modo da poter essere staccate dall’asta e che presentano la possibilità di essere infisse su un piedistallo trova forse una ragione anche in questa logica[52]; in proposito il Cӕremonialis Episcoporumfa fede di un utilizzo che prevede una croce mobile, indipendente dall’elemento che la sorregge, allorquando per l’adorazione del Venerdì Santo parla di “staccare la croce dal piedistallo”[53]

 La prova di questi usi giustificherebbe il perché di tante rappresentazioni dell’altare senza croce anche nell’inoltrato XV secolo, quando ormai la croce sull’altare durante la Messa è attestata ovunque; è probabile che in alcuni luoghi essa venisse portata all’altare solo in alcuni momenti, giacchè il vero e proprio sacrificio non si compie durante l’arco di tutta la celebrazione, ma solo a momento della consacrazione, né possiamo escludere che in alcune zone per uso antico, o per abuso recente, essa fosse assente o collocata altrove. L’esigenza di rendere visibile la croce durante la “crocifissione incruenta” rappresentata dalla Messa è anche da mettere in connessione coi limiti dell’umana comprensione, per la quale non vi è l’evidenza sensibile del mistero celebrato. Già S. Ambrogio diceva “etsi nunc Christus non videtur offerre, tamen ipse offertur in terris quando corpus Christi offertur[54]; la rappresentazione visibile diviene quindi anche una naturale esigenza.

Prove di una croce sull’altare in ambito orientale nel V-VI secolo
Un collegamento s’impone con la raffigurazione, sulla pisside del Cleveland Museum of Art, di una mensa d’altare tripode sotto un ciborio, sulla quale si trovano una croce e un libro chiuso[55]; nonostante le difficoltà sulla datazione, che si aggira intorno al secolo V-VI, abbiamo la prova di una croce in posizione centrale rispetto alla mensa, in evidente funzione rituale. Essa si trova inoltre al centro della curva di un altare tripode a sigma, nella posizione opposta al celebrante, che era sempre sul lato retto; non è escluso che la croce avesse un piedistallo proprio ed indipendente dalla mensa; sul ritrovamento della pisside sussistono alcuni dubbi per la sua provenienza da collezione, ma l’ipotesi concordemente avanzata è l’ambito siro-palestinese.


La pisside del "Cleveland Museum of art" (V-VI sec.); sulla sinistra l'altare tripode con croce

Interrogativi solleva anche la raffigurazione di un sarcofago restituito dalla necropoli di Takadyn, in Asia Minore, che sembra riprodurre un altare sormontato da una croce, sotto un baldacchino ad arco; si nota che la croce rappresentata è dotata di un piedistallo, il che indurrebbe a pensare ad un elemento mobile[56]. La datazione della necropoli e del sarcofago è piuttosto incerta, potrebbe collocarsi nei secoli V, VI.  
Di particolare rilievo è la notizia che, nel secolo VI, nelle chiese nestoriane di Mesopotamia, fosse corrente e prescritta la presenza della croce su una mensola soprastante l’altare addossato al muro, il cosiddetto “Katastroma[57]. Ad esso era rivolto il sacerdote durante la consacrazione. Siamo in presenza di alcuni dati che testimoniano di usi comuni o similari nell’Oriente cristiano antico per un epoca che non oltrepassa il secolo V-VI.        
Conclusioni
Legimus in Veteri testamento quod semper Dominus Moysi et Aron ad ostium tabernacoli sit locutus” scrive Girolamo[58]. Per rivolgersi a Dio e riceverne benedizioni è naturale che ci si indirizzi verso di Lui o verso ciò che indica la Sua presenza e il Suo legame con gli uomini. Nel vecchio rituale del tempio di Gerusalemme il sacrificio e la preghiera erano rivolti verso l’Arca dell’Alleanza e, dopo che l’arca fu depredata, verso la pietra che la sosteneva, la cosiddetta sethiya. Nelle sinagoghe, dove non era possibile sacrificare, si andava per pregare e ci si rivolgeva verso Gerusalemme[59], nella cui direzione era una nicchia contenente i libri sacri, così come l’Arca aveva contenuto le tavole della legge (i ritrovamenti archeologici della sinagoga di Doura Europos hanno reso un esempio di tale nicchia ricavata nel muro con precisa orientazione).
Il sacerdote è mediatore e, nel suo ruolo d’intercessore, non può che rivolgersi a Dio o a ciò che lo figura. Come l’Arca nell’Antico Testamento così la Croce è il simbolo della Nuova Alleanza suggellata da Cristo, del nuovo legame tra Dio e gli uomini. Il mosaico di S. Pudenziana a Roma, dal carattere più liturgico che decorativo, sembra testimoniare particolarmente di questa idea della Croce come ponte fra il divino e l’umano, come unico mezzo per il raggiungimento della Gerusalemme celeste verso cui indirizzarsi[60]. La Croce è il fulcro verso il quale lo sguardo di celebrante e fedeli si “orienta”. Secondo la tesi di Stefan Heid la croce e l’abside assumono in questo caso la funzione di “Oriente ideale” verso cui rivolgere la preghiera, specie negli edifici in cui manca un orientamento “fisico” verso il sorgere del sole, come a Roma[61]. E’ anche ipotizzabile che in antico la croce non obbligasse sempre e comunque ad un rivolgimento diretto verso di essa, ma che essa fosse presente, in posizioni diverse, ma sempre centrali, come segno visibile del rinnovarsi del sacrificio di Cristo sugli altari: un monito per celebrante e fedeli. Per visibilia ad invisibilia. In un contesto eucaristico ove altro è quel che si vede, altro è quel che è, l’immagine del mistero che si realizza ha la sua più che ragionevole collocazione.
E’ comunque un dato di fatto che il rivolgimento verso la croce prevale nella liturgia romana fino a diventare generale almeno a partire dal Basso Medioevo. Non si può forse affermare con certezza la diffusione universale di questa pratica in epoca tardo antica e non è certo che fin dai primi secoli ovunque si sia pregato “versus crucem”. In ambito romano e ravennate tuttavia è probabile che già nel corso del V-VI secolo, nello spazio presbiterale, la croce potesse essere sospesa ad una certa altezza nella navata o nel presbiterio, oppure che fosse collocata in prossimità dell’altare, forse su un piedistallo indipendente dalla mensa[62], oppure, come accennato sopra, che fosse rappresentata nell’abside. Analoghe appaiono le datazioni per l’ambito orientale. 
E’ forse possibile che per il rito romano la generalizzazione uniforme degli usi non si sia avuta prima del XII secolo, ma la celebrazione verso la croce o la centrale presenza di essa in ambito liturgico sono difficili da negare già per il secolo V e le testimonianze archeologiche e documentali sembrano andare in tal senso.
Don Stefano Carusi




[47] A. Chavasse, Le cycle liturgique romain annuel selon le sacramentare du “Vaticanus reginensis 316”  in Textes liturgiques de l’Eglise de Rome, Paris 1997, p. 98-103 ; Id., La liturgie de la Ville de Rome du Vᵉ au VIIᵉ siècle, Roma 1993 (Studia Anselmiana 112 - Analecta liturgica 18), p. 191, l’autore rimanda questa pratica liturgica del Venerdì Santo alla liturgia titolare.[48] Aug., serm. CCXXVIII B (PL 46, 827-828). Miscellanea Agostiniana, vol. I, Sancti Augustini sermones post Maurinos reperti, ed. G. Morin O.S.B., Romae, Typis polyglottis Vaticanis, 1930, pp. 18-20.[49] Innoc. III, De Sacro Alt. Myst., II, c. 21 (PL 217, 811). Il sacrosanto mistero dell’altare (De sacro altaris mysterio), a cura di Stanislao Fioramonti, Città del Vaticano 2002 (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 15).[50] Ludwig Fischer (ed.), Bernhardi cardinalis et Lateranensis ecclesiae prioris Ordo Officiorum Ecclesiae Lateranensis, München u. Freising 1916, p. 98; M. Righetti, Manuale, p. 536 ss.[51] Ibidem.[52] Già l’Ordo Romanus I, 125-126 (Andrieu), parla di “cruces portantes”, sebbene la loro funzione non sia stata del tutto chiarita.[53]  Cӕremonialis Episcoporum, l. II, cap. XXV, 23  (ed. 1752).[54] Ambr., Explan. psalm. XII, XXXVIII, 25, 3 (ed. Petschenig, CSEL 64/6).[55] Archer St. Clair, The Visit to the Tomb:Narrative and liturgy Three Early Christian Pyxides, in Gesta, t. 18 (1979) p. 131 ss., fig. 9.[56] Pasquale Testini, Archeologia Cristiana, Bari 1980, p. 305.[57] Si tratta delle omelie dello Pseudo-Narsai, cfr. Richard Hugh Connolly, The liturgical homilies of Narsai, Cambridge 1909, Cfr. Sebastian P. Brock, Diachronic aspects of syriac word formation : an aid for dating anonymous texts, in V Symposium Syriacum (Katholieke Universiteit, Leuven, 29-31 août 1988), Roma 1990, pp. 321-330, (OCA 236); Louise Abramowski, Die liturgische Homilie des Ps. Narses mit dem Meßbekenntnis und einem Theodor-Zitat, in Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester 78 (1996), p. 87-100.[58]  Hier., epist. XVIII A (ad Damasum), 8, 1 (CSEL 54/1).
[59] Louis Bouyer, Architettura e liturgia, Magnano 1994, pp. 16 e ss.
[60] S. Heid, Kreuz, Jerusalem, Kosmos, Munster 2001, pp. 169 e ss.
[61] S. Heid, Gebetshaltung und Ostung in frühchristlicher Zeit. in Rivista di Archeologia Cristiana 82 (2006).
[62] Quest’ultima soluzione risolverebbe, nel caso di Roma, il famoso nodo di una croce sull’altare prima dell’attestato dispiegamento delle tovaglie da parte dei diaconi.Pubblicato da Disputationes Theologicae 




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 22:15. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com