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Ultimo Aggiornamento: 11/03/2009 10:34
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11/03/2009 10:16
 
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CAPITOLO II


IL DIACONATO NEL CONCILIO VATICANO II


a. Il dibattito pre-conciliare



L’idea di ristabilire il diaconato come grado permanente della gerarchia non è nata durante il Concilio, ma circolava già prima del secondo conflitto mondiale, sviluppandosi ulteriormente dopo il 1945,soprattutto nei paesi di lingua tedesca.
[17]
Una teologia rinnovata della Chiesa sorta dal contributo di numerosi movimenti biblici ecumenici e liturgici, aprì la possibilità al rinnovamento della funzione di diacono.
A partire dal 1951, in una Germania ancora scossa dal conflitto mondiale, nasce, fondata da Kramer la prima “Comunità del Diaconato”.
Questo organismo si diede il duplice compito di studiare e reintrodurre il diaconato permanente.
Un’altra comunità del diaconato viene creata a Monaco nel 1954 con l’appoggio del vescovo e del teologo K. Rahner .
La riflessione di quegli anni venne arricchita dallo storico protestante H.Krimm
[18],oltre che dalla testimonianza di alcuni diaconi luterani.
Anche in Italia venne fondata una comunità del diaconato animata prima da don Dino Torreggiani e poi da don Alberto Altana.
Ad essa si deve fin dal 1968 la pubblicazione della rivista “il diaconato in Italia”.
Così, alla vigilia del Concilio, l’idea di ripristinare il diaconato era vivissima in ampi settori della Chiesa.


b. Il dibattito conciliare


Durante il primo periodo conciliare (1962), il problema del diaconato non richiamò molto l’attenzione come tema particolare, ma durante la prima intersessione (1962-63), un certo numero di Padri conciliari cominciarono a evocare la possibilità di un ripristino del diaconato permanente, alcuni segnalandone i vantaggi in campo missionario ed ecumenico, altri invitando alla prudenza.
La maggioranza di loro, però, più che dei problemi teorici si interessava di problemi pratici: affrontando soprattutto quello dell’ammissione di uomini sposati e le sue ripercussioni per il celibato ecclesiastico.
[19]
Il Concilio discusse poi il capitolo sulla struttura gerarchica della Chiesa dal 4 Ottobre al 30 Ottobre 1963, ed in sede di quei dibattiti si è potuto chiarire meglio l’intenzione dei Padri conciliari a riguardo del ripristino del diaconato.
Tre interventi fatti il 8 e il 9 Ottobre 1963 dai cardinali Dopfner, Ricketts e Suenens possono essere considerati “fondanti” in quanto stabiliscono le direzioni e i parametri dottrinali e pratici del dibattito.
E’ opportuno notare come i Padri conciliari che hanno favorito il ristabilimento del diaconato permanente abbiano insistito sul concetto di “possibilità” e mai su quello di “obbligatorietà”.
Questo ristabilimento “può” avvenire nei tempi e nei luoghi ove l’autorità ecclesiastica lo ritenga opportuno.
Tuttavia il diaconato permanente viene ora considerato in grado di apportare molti benefici alle Chiese locali sia praticamente che pastoralmente.
Vediamone alcuni emersi chiaramente nel dibattito:
· Risolvere il problema della mancanza di preti nelle terre di missione
· Fornire supporto ai paesi dove la chiesa è perseguitata
· Migliorare le relazioni ecumeniche con quelle Chiese che hanno conservato tale ministero (in particolare con i protestanti)
· La promozione del diaconato può aiutare a mettere in evidenza la figura del presbitero
· L’ammissione all’ordine gerarchico di uomini sposati può mettere in evidenza anche il celibato

Sintetizzando, vengono fatte considerazioni su come il diaconato oltre a brillare di luce propria sia in grado di illuminare anche altri aspetti ecclesiali.
Alcuni Padri poi si soffermarono oltre che sul piano pratico su aspetti propriamente teologici.
Occupando un grado nella sacra gerarchia della Chiesa, il diaconato ha fatto parte della costituzione della Chiesa sin dall’inizio.
Il cardinale Dopfer affermò con forza: “schema nostrum, agens de hierarchica costituzione ecclesiae, ordinem diaconatus nullo modo silere potest, quia tripartitio hierarchie ratione ordinis habita in episcopatum, presbyteratum et diaconatum est juris divini et costituzioni Ecclesiae essenzialiter propria”
Dunque facendo rivivere il diaconato , il Concilio non avrebbe in alcun modo alterato gli elementi costitutivi della Chiesa, ma avrebbe soltanto reintrodotto ciò che era stato abbandonato.
I Padri conciliari insistettero molto sul fatto che il diaconato conferisce “grazia” e “carattere” propri agli ordinati.
Dunque non si deve considerare il diacono allo stesso modo di un laico al servizio della Chiesa, poiché il sacramento del diaconato conferisce una grazia per esercitare un ufficio particolare.

Così, un diacono non è un laico elevato al più alto grado dell’apostolato laico, ma un membro della gerarchi a motivo della grazia sacramentale e del carattere ricevuto al momento dell’ordinazione.
Ora i diaconi permanenti, poiché si supponeva vivessero e lavorassero in mezzo alla popolazione laica e al mondo secolare, potrebbero esercitare il “ruolo di ponte o mediazione tra la gerarchia e i fedeli”
[20]
In queste riflessione vediamo delinearsi il ruolo di diacono in autonomia e non semplicemente come un gradino verso il presbiterato.
Il diaconato dunque come un ministero distinto all’interno della Chiesa.
Potrebbe così essere per la Chiesa un segno della sua vocazione ad essere la serva di Cristo, la serva di Dio.
La presenza del diacono, di conseguenza , potrebbe rinnovare la Chiesa in uno spirito di umiltà e servizio.
Il dibattito conciliare dunque ci fornisce essenzialmente quattro ragioni a favore del ripristino del diaconato:

I. La restaurazione del diaconato come un grado proprio dell’ordine permette di riconoscere gli elementi costitutivi della sacra gerarchia voluta da Dio, concependo gerarchia e ministero al di là della categoria del sacerdozio
[21] ( i diaconi sono ordinati non ad sacerdotium ,sed ad ministerium.).

II. E’ una risposta alle necessità di assicurare la cura pastorale alle comunità che ne sono prive per mancanza di preti

III. E’ una conferma , un rafforzamento e una più completa incorporazione al ministero della chiesa di coloro che esercitano già de facto il ministero di diaconi grazie all’imposizione delle mani che ne fa corroborari et altari arctius conjungi.

IV. I Padri conciliari desiderano fare del diaconato permanente un ordine in grado di unire la sacra gerarchia e la vita secolare dei laici.

Ma ciò che più importa è che il Vaticano II ristabilisce il principio dell’esercizio permanente del diaconato.
Stabilito questo principio il dibattito rimane aperto perché in funzione delle future necessità pastorali ed ecclesiale , ma sempre nel rispetto e nella fedeltà della Tradizione.
In conclusione , l’apparente indecisione ed esitazione nel definire la figura del diacono, è funzionale e può servire come invito alla Chiesa perché continui a discernere il tipo di ministero più appropriato a tale figura attraverso la prassi ecclesiale, la legislazione canonica e la riflessione teologica.
[22]


c. I testi conciliari


I testi definitivi del Vaticano II fanno menzione del diaconato in sei riprese

La costituzione sulla liturgia ( 4 Dicembre 1963)

La Sacrosantum Concilium evita di parlare espressamente di diaconato permanente, essa si limita a rilevare nel n.35,5 che, in mancanza del sacerdote diaconi o qualcun altro delegato del vescovo possono guidare celebrazioni domenicali incentrate sulla Parola di Dio.

La costituzione dogmatica sulla Chiesa (21 Novembre 1964)


Com’è noto il testo conciliare essenziale per quel che riguarda il diaconato permanente è il numero 29 della Lumen Gentium, dedicato alla costituzione gerarchica della Chiesa e specialmente all’episcopato e alla pienezza dell’ordine.
I versi dedicati al diaconato costituiscono una sorta di transizione verso il capitolo quarto dedicato al laicato, il che riflette un’opzione spesso espressa in occasione dei dibattiti antecedenti: il diacono è come il “ponte” fra i vescovi e i presbiteri da una parte e il resto del popolo di Dio dall’altra.
Più pratico che propriamente teologico, il n. 29 della LG comprende quattro parti. La prima presenta il diaconato come “grado inferiore” della gerarchia, e questo per la grazia dell’imposizione delle mani. Questa “inferiorità” si inserisce nel solco della Tradizione in rapporto al vescovo, al quale il diaconato è sottomesso, ma non rispetto al presbitero. Di fronte a quest’ultimo, piuttosto che evocare un “minore” potere globale, alcuni commentatori pensano alla situazione del diacono nella celebrazione eucaristica, dove il diacono non ha né la possibilità di presiedere né quella di consacrare il pane e il vino agendo “in persona Christi”.

Il testo contiene, poi, quell’affermazione distintiva che ancora oggi sta alla radice del diaconato quando dice che il diacono non è ordinato “per il sacerdozio (ad sacerdotium) ma per il servizio (ad ministerium)”. Ci si potrebbe stupire di questa distinzione tra “sacerdozio” e “ministero” se si dimenticasse che la designazione “per il servizio” è improntata sulle Costituzioni della Chiesa egiziana, documento antico ripreso nel Ponteficale romano fino al 1950. Questi due testi riassumono una formula ancora più antica, presente nelle Tradizioni apostoliche che parlavano proprio del “servizio del vescovo” come compito peculiare del diacono. L’esclusione del “sacerdozio” in LG indica indubbiamente che il diaconato restaurato non è una tappa verso il presbiterato, la formula suggerisce soprattutto che il diacono non è “prete” nel senso consacratorio del termine, in quanto ciò che ne caratterizza la natura e le funzioni è “il servizio”. Questo termine, ampio ed ambiguo allo stesso tempo, applicabile in senso lato ad ogni vocazione cristiana, deve essere inteso sempre in relazione al del Cristo Servo, che ha fatto del dono di sé il modello e l’esempio della vera diaconia ministeriale.

La frase successiva nel testo indica che alla base del ministero diaconale c’è “una grazia sacramentale” che discende direttamente dal sacramento dell’ordinazione. L’effetto di questa grazia è, per analogia con la Confermazione, quello di procurare una “forza” per un servizio che – si precisa qui – è quello del Popolo di Dio e non, prima di tutto, del vescovo. Il servizio diaconale, piuttosto che presentarsi come un “potere” o di ridursi ad un “mandato”, esige una forza interiore, una capacità di perseverare in un servizio che si dispiega “in comunione col vescovo e col suo presbiterio” per il bene di tutta la comunità dei credenti. La messa in atto della forza sacramentale non può dunque concepirsi e viversi se non in solidarietà e in armonia con gli altri due ministeri ordinati, ossia nel dinamismo vivo ed efficace della comunione ecclesiale.

Il passo successivo, senza pretendere di essere esaustivo, menziona alcuni ambiti di esercizio del servizio diaconale fra loro strettamente legati: alla liturgia, coronamento a fonte delle altre funzioni, seguono il servizio della Parola e la carità, intesa quest’ultima nel senso dominante nell’antichità cristiana di vigilanza attiva finalizzata alla condivisione fraterna nella comunità.
Quanto alle modalità concrete, il testo nota che è l’autorità “qualificata” (competens) – senza dubbio gli ordinari locali – che ha il compito di organizzare praticamente le attività del diacono. Ciò per indicare ancora una volta che i compiti enumerati sono altrettante possibilità aperte e non vanno intesi come un inventario di “diritti” – magari esclusivi – che un diacono potrebbe rivendicare di fronte al vescovo o ad altri ministri.
Dieci compiti liturgici vengono menzionati, mentre due soltanto scaturiscono direttamente dall’ambito della Parola. Tra i primi il testo cita innanzitutto il battesimo e la valorizzazione dell’Eucarestia; il matrimonio, il viatico, il “culto”, la preghiera, i sacramenti e le esequie sono richiamati subito dopo, seguiti infine dai doveri (officia) della carità e dell’amministrazione, chiaramente distinti. A proposito di queste due ultime missioni, il testo fa riferimento ad un’affermazione di Policarpo , che, partire dal II secolo, esigeva che esse fossero compiute con “misericodia e zelo”, sulle orme del Signore che si è fatto servo di tutti.

L’ultima parte si situa più ad un livello disciplinare. Comincia col richiamare una delle ragioni primarie della restaurazione del diaconato permanente, che si radica nella vitalità stessa della comunità, per poi indicare chi dovrà giudicare dell’opportunità di una restaurazione ed il criterio essenziale per realizzarla, la cura animarum. Non è dunque questione di svolgere questo ministero col solo scopo di “completare” il clero o fornire ai ministri esistenti degli ausiliari soprannumerari, ma piuttosto di rispondere a bisogni che attingono la vita stessa della comunità cristiana.
Tramite il consenso del Papa, il diaconato potrà essere aperto a due tipi di candidati maschili: da una parte “uomini maturi” (maturioris aetatis) anche – concessivo! – viventi nel matrimonio, e dall’altra “giovani” adatti a questo ufficio, ma vincolati dalla legge del celibato. Si osserverà che la proposta avanzata nei dibattiti preparatori di ordinare religiosi di età matura non si conserva nel testo conciliare.
Il capitolo V della LG richiama le diverse forme che la ricerca della santità cristiana può assumere. Accanto ad altre voci, il n. 41 §4 cita quella dei “ministri di ordine inferiore”, fra cui i diaconi, che partecipano alla missione e alla grazia del Cristo, Sommo Sacerdote, evocazione della loro associazione specifica al sacerdozio comune di tutti i battezzati.
Esplicitando più in particolare la vocazione diaconale, il testo nota poi che si tratta di “servire il mistero del Cristo e della Chiesa”, come indica il rimando ad Ignazio di Antiochia (II secolo, Lettera ai Trallesi), il quale designava i diaconi come “servi” (in greco huperatai) della Chiesa di Dio.

Il decreto sulle Chiese orientali cattoliche (21 novembre 1964)

Appoggiandosi ad una serie di concili e sinodi orientali, il n.17 di questo decreto “auspica” che venga ristabilito il diaconato permanente laddove esso fosse caduto in disuso.

Il decreto sull’ufficio pastorale dei vescovi (28 ottobre 1965)

Nei suoi ampi sviluppi sulla missione santificatrice dei vescovi (n. 15), questo testo ricorda che nell’esercizio dei loro “poteri” (potestates) rispettivi, i preti e i diaconi dipendono dai vescovi, i soli detentori dalla “pienezza del sacramento dell’Ordine”. Come aveva già fatto la LG al n. 29, il testo rimarca che i diaconi sono ordinati “in vista del ministero”, per servire il Popolo di Dio, in comunione col vescovo e il suo presbiterio. L’inserimento di tale allusione in questa parte del decreto suggerisce che il servizio del diacono è qui soprattutto considerato come dipendente dal culto e dalla liturgia.

La Costituzione dogmatica sulla Rivelazione (18 novembre 1965)

Nonostante quest’ultima insistenza, la costituzione Dei Verbum descrive i diaconi e i catechisti come coloro che “curano normalmente” (legittime instant) il ministro della Parola; essi vengono chiamati a mantenere un legame costante con le Scritture per farne meglio parte ai fedeli (n.25).

Il decreto sull’attività missionaria (7 dicembre 1965)

Il n.15 di questo documento insiste sul necessario sviluppo delle comunità locali. A tal fine, esso sottolinea l’importanza di poter disporre di ministri diversi, scaturiti dal gruppo e dallo stesso rispettati. Si citano poi le funzioni (munera) dei presbiteri, dei diaconi e dei catechisti. E’ la prima volta che il Concilio richiama esplicitamente il ministero diaconale come un pilastro della vitalità comunitaria.
Il decreto ritorna su questo tema al n. 16, dedicato stavolta all’emergenza di un clero autoctono: le “radici” della Chiesa sono più vigorose quando le comunità possono disporre di vescovi, sacerdoti, e diaconi indigeni, tutti ministri della salvezza al servizio dei loro fratelli.
La LG affida alle Conferenze Episcopali la cura di valutare l’opportunità di ristabilire nelle loro regioni il diaconato permanente, qui descritto come no status vitae pemanens , un modo concreto di vivere piuttosto che un insieme di compiti da assolvere.
Il testo sottolinea l’utilità di un’ordinazione che fortifica e unisce più strettamente all’altare, per la grazia sacramentale che accresce l’efficacia del ministero conferito.

Il decreto precisa allora ciò che esso intende per ministeri davvero diaconali: è ciò che fanno innanzitutto tutti coloro che si dedicano all’annuncio della parola divina come catechisti; si menzionano poi quelli che governano comunità lontane a nome del vescovo o del parroco; si fa menzione infine di coloro che esercitano la carità nelle attività sociali e caritative.
Mentre nei testi precedenti, era la funzione liturgica che tendeva a primeggiare, il decreto sull’attività missionaria richiama la parola, la carità e fatto nuovo, un governo delegato.
Ovviamente la redazione del testo è influenzata dalla pratica di certe diocesi del terzo mondo dove i catechisti sono spesso gli animatori delle comunità locali.


L’analisi dei testi conciliari rileva delle esitazioni, se non addirittura delle tensioni. Se conviene privilegiare le opzioni sviluppate nelle costituzioni del Vaticano II, le scelte che attestano i decreti testimoniano una certa estensione dei compiti diaconali. Spesso più tardivi i decreti riflettono una certa maturazione degli spiriti, mentre prendono in considerazione più che i documenti i bisogni pastorali delle chiese particolari.
Nuove tappe nella riflessione ecclesiale sul diaconato furono i motu proprio del 1967 e del 1972 di Papa Paolo VI, che apriranno la via ad uno sviluppo importante e fecondo. L’ultimo ebbe anche il privilegio di poter trarre alcune lezioni dalla pratica dei primi diaconi ordinati, a cominciare dai primi cinque della storia contemporanea, che dopo otto anni di preparazione furono ordinati a Colonia il 28 aprile 1968.

continua...........[SM=g1740739]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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