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Mons. N. Bux: La riforma Liturgica e il Concilio Vaticano II

Ultimo Aggiornamento: 09/04/2016 16:38
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06/04/2011 18:50
 
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don Bux Don Bux, collaboratore del Papa: senza forma non esiste la liturgia
L'intervista: sull'adeguamento liturgico ci sono state cattive interpretazioni

di Andrea Zambrano

REGGIO EMILIA (6 aprile 2011) - "Le chiese devono essere luoghi di culto, non auditorium". E’ questo il giudizio di fondo che il consultore dell’ufficio delle celebrazioni del sommo pontificie don Nicola Bux dà di molti adeguamenti liturgici operati in molte chiese negli ultimi anni. Don Bux sarà protagonista giovedì sera alle 21 dell’incontro promosso nella Sala del Capitano del  Popolo dalla delegazione Emilia Occidentale dell’Ordine di Malta, con Italia Nostra, il Museo dei Cappuccini e il circolo Frassati di  Correggio e chiamato “Liturgia romana e arte sacra fra innovazione  tradizione”. Con Bux, ormai una conoscenza di molti fedeli (è la terza volta che viene nel Reggiano in pochi anni), parleranno anche don Enrico Mazza e l’ex sovrintendente Elio Garzillo.
Sarà inevitabile toccare anche il tema dell’adeguamento liturgico della Cattedrale di Reggio dopo il complesso restauro architettonico degli anni scorsi. Il GdR ha intervistato in anteprima don Bux, collaboratore di Papa Benedetto XVI non solo sui temi della liturgia, ma anche nella Congregazione della dottrina della fede.

Don Bux, che cos’è l’adeguamento liturgico?

E’ un’espressione coniata negli anni dopo il Concilio Vaticano II per indicare i lavori ritenuti necessari affinché le antiche chiese potessero essere più idonee alle celebrazioni secondo la forma rinnovata del rito Romano.

E quali risultati ha prodotto?

L’adeguamento è partito con l’intento di operare quei ritocchi per favorire la celebrazioni dei sacramenti, ma si è imposto soprattutto il tema della messa celebrata con l’altare verso il popolo. Un adeguamento vistoso del quale si è abusato.

Perchè?


Perchè lo stesso messale non dice mai che il celebrante non deve essere di spalle al popolo. E questo è dimostrato dal fatto che per ben tre volte, subito dopo l’offertorio, nell’ecce agnus Dei e nella benedizione finale si prescrive che il sacerdote si rivolga al popolo. Ne consegue che durante la celebrazione l’orientamento deve essere un altro.

Cioè spalle al popolo...

Non propriamente. Questa è una male interpretazione dello stesso messale di Palo VI e una forzatura che ha fatto si che si pensasse che dare le spalle al popolo fosse un atto di maleducazione. Come dire: “Scusate la spalle”.

Dunque?

Dunque è una questione di orientamento verso il Signore che viene. Ecco perchè la tradizione ci ha consegnato le celebrazioni con il sacerdote e i fedeli entrambi rivolti ad oriente, simbolo del Signore che viene e successivamente indicato nella croce. In sostanza il rivolgersi al popolo era indicato come una possibilità.

Così la critica principale è che il sacerdote non è in comunione con i fedeli...


Infatti Benedetto XVI, già da cardinale insisteva sul fatto che se il popolo è rivolto al crocifisso e con lui il sacerdote, tutti rivolgono lo sguardo a Cristo, che è l’aspetto centrale della liturgia. Come diceva Ratzinger con il sacerdote fronte al popolo si chiude il cerchio all’incontro con il Signore.

Come si può risolvere la questione?

Come ha giustamente proposto il Santo Padre, sarebbe opportuno che con la stessa posizione, si inserisse una croce sull’altare in modo che tutti possano avere in primo piano il soggetto centrale della liturgia: Cristo che viene. E’ bene che i sacerdoti sappiano spiegare che la loro posizione deve essere funzionaleall’orientamento della celebrazione.

Quali altri temi toccherà domani?

L’incontro è promosso dal desiderio di molti laici, preoccupati che il cosiddetto adeguamento non vada in collisione con il rispetto della tradizione. In questo caso nella Cattedrale di Reggio anche con l’aiuto del professor Mazza si vuole cercare di offrire gli strumenti per capire che è il popolo che si deve adeguare alla liturgia e non il contrario.

Un tema dibattuto a Reggio è quello della sede episcopale, portata giù dal presbiterio e davanti all’assemblea...

La sede non è l’elemento più importante in un edificio sacro. Prima vengono l’altare, la croce e il tabernacolo, che sono il segno della presenza divina permanente in mezzo al popolo. Per importanza, dopo l’ambone, quello che una volta era chiamato pulpito o pergamo e che era funzionale a stare in mezzo all’assemblea per ragioni acustiche, c’è la sede della presidenza.

Ma dove deve essere collocata?

Nelle chiese primitive siriache, eredi delle sinagoghe la sede era in testa all’assemblea, come oggi avviene quando a teatro si riserva la poltrona centrale all’autorità. Ben presto la sede di chi presiede è stata posta in testa all’assemblea a sinistra o a destra in una posizione di raccordo tra l’assemblea e l’altare.

Qual è la posizione ideale?

In testa alla gradinata, come ancor oggi fanno gli orientali che mettono la sede del patriarca in testa all’assemblea, ma non frontale. E’ bene poi che i posti dei fedeli non siano trasversali o diagonali, ma guardino tutti con un unico sguardo.

Dunque sul presbiterio, non in basso?

Il luogo dei sacerdoti e del vescovo è il presbiterio, lo dice il nome stesso. Il fatto che la sede sia posta in basso confonde le idee.

Le potrei obiettare che anche il vescovo fa parte del popolo di Dio...


E’ vero, ma anche la tradizione ha un suo peso. Non bisogna cadere nel populismo. Lo stare insieme ai fedeli non dipende dalla posizione.

Quanto pesa in questo discorso l’accusa di eccessivo formalismo?

Una cosa è la forma, un’altra il formalismo. Senza una forma la liturgia non esisterebbe e la sostanza sarebbe deforme. Il parlare di formalismo invece è un po’ ideologico e riduttivo. Ultimamente è in uso parlare di poli liturgici. Ebbene, nel rito romano deve prevalere l’unità.

Un altro tema scottante è l’assenza di inginocchiatoi...


Un’altra stranezza a cui si assiste talvolta. La liturgia prescrive di inginocchiarsi in certi momenti della messa. Il fatto è che il disincentivare l’inginocchiarsi rischia di ridurre la Chiesa ad un auditorium o la liturgia a intrattenimento. Invece il Papa ci ricorda che la liturgia è adorazione e il suo segno esteriore più visibile è proprio il mettersi in ginocchio.

Quanto conta nelle chiese la conservazione di manufatti artistici e l’introduzione di nuove opere moderne?


Ci vuole sempre del gusto nelle cose. Stranamente oggi si tende a musealizzare tutte le bellezze e gli  arredi, ma le cose vanno in un museo se non sono più fruibili. In molti casi invece arredi e suppellettili sono espressione della pietà del popolo e dei sacrifici che sono stati fatti per introdurli. Sempre che parliamo di oggetti che servano non per la nostra gloria personale, ma per quella di Dio. La stessa cosa vale per i paramenti. A volte il sacerdote mette o toglie paramenti a seconda del suo gusto o della sua comodità, come se fosse un abbigliamento privato. In realtà sono l’espressione dell’oggettività del rito che viene affidato al ministro, anche se indegno moralmente.

 

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Etsi Deus non daretur




di don Matteo De Meo

Sicuramente la genesi di gran parte del crollo della Liturgia, a cui da decenni stiamo assistendo nella Chiesa, è da rintracciarsi in ciò che Sua Eminenza il Cardinal Raymond Leo Burke ha acutamente evidenziato all’inizio della sua Lectio magistralis: “...un’esasperata attenzione rivolta all’aspetto umano della liturgia...” ovvero la sua secolarizzazione.

Essa si dettaglia in tutti quegli infiniti e variegati tentativi di “adeguamento” tra la fede e il suo linguaggio da una parte e il mondo dall'altra, tra liturgia e mondo. Un mondo, però, che viene sempre più concepito etsi Deus non daretur. E proprio Benedetto XVI ha affermato che “la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal culto della liturgia che talvolta viene addirittura concepita etsi Deus non daretur”.

Negli ultimi anni la secolarizzazione è stata analizzata, descritta e definita in molti modi, ma, per quanto ne sappia, nessuna di queste descrizioni ha sottolineato un punto che ritengo sia essenziale e che rivela in effetti meglio di ogni altra cosa la vera natura della secolarizzazione. La secolarizzazione, a mio avviso, è innanzitutto una negazione del culto. Sottolineo: non una negazione dell’esistenza di Dio, o di un qualche tipo di trascendenza e quindi di ogni sorta di religione. Se il secolarismo in termini teologici è un’eresia, si tratta innanzitutto di un’eresia sull’uomo. È la negazione dell’uomo in quanto essere che adora, in quanto homo adorans: colui per il quale l’adorazione è l’atto fondamentale, che allo stesso tempo “colloca” la sua umanità e la compie. È il rifiuto “decisivo” ontologicamente ed epistemologicamente, delle parole, che “sempre, dovunque e per tutti” sono state la vera “epifania” del rapporto dell’uomo con Dio, con il mondo e con sé stesso.

Questa definizione di secolarizzazione ha certamente bisogno di una precisazione. E ovviamente non può essere accettata da coloro che, assai numerosi, oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, riducono il cristianesimo in categorie intellettuali (“credenza futura”) o in categorie etico-sociologiche (“servizio cristiano al mondo”), e che quindi pensano debba essere possibile trovare non solo un qualche tipo di adeguamento, ma anche un’armonia profonda tra la nostra “età secolare”, da un lato e il culto, dall’altro. Se i fautori di ciò che fondamentalmente non è altro che l’accettazione cristiana della secolarizzazione sono nel giusto, allora naturalmente tutto il nostro problema è solo quello di trovare o inventare un culto più accettabile, più “rilevante” per la moderna visione del mondo dell’uomo secolarizzato. E tale è, infatti, la direzione presa oggi dalla stragrande maggioranza dei riformatori liturgici. Quello che cercano è un culto le cui forme e contenuti “riflettano” i bisogni e le aspirazioni dell’uomo secolarizzato, o ancor meglio della secolarizzazione stessa. Un aspetto che ha la sua ricaduta in un vasto raggio dalla ritualità, all’arte e alla architettura sacra.

Basti pensare che la “stessa incapacità dell’uomo di oggi di rapportarsi con il mistero” diventa un criterio per realizzare nuovi spazi liturgici (vedi Chiesa di Piano s. Giovanni Rotondo); o si traduce nel tentativo di entrare in dialogo con una certa cultura definita oggi proteiforme: “...l’architettura contemporanea è fluida, cangiante, proteiforme; così come un liquido si adatta al suo contenitore, essa si conforma alla sensibilità dell’artefice. Tutte le modalità di espressione artistica sono strettamente connesse alla soggettività...”- in questi termini si esprime D. Bagliani, docente al politecnico di Torino (opinione riportata in un articolo “Nuove Chiese, progetti da premio” di L. Servadio, in merito ai tre progetti pilota di nuove chiese vincenti alla quinta edizione del concorso Cei, 2009).

Un edificio può mettere in evidenza il silenzio, un altro un certo connubio fra natura e architettura (bioarchitettura), un altro un certo collegamento tra passato e futuro; oppure può adottare semplicemente forme stravaganti: una gemma di roccia poggiata al suolo, con un ingresso che invita ad un senso di protezione, simbologie ricercate e analogie, ecc.
Allo stesso modo questa "incapacità di rapportarsi col mistero" può tradursi nell'adozione nell’ambito dell’arte sacra di un astrattismo proprio dell’arte contemporanea: l’arte nella sua astrattezza e fluidità tenderebbe pertanto ad esprimere “l’inesprimibilità” del sacro e del mistero: “...anche le parole più astratte del Signore quale, via verità e vita, potrebbero essere rivestite di forma e colore...” (vedi T. Verdon in un suo articolo comparso sull’Osservatore Romano del 12 gennaio 2008).

Sono solo alcuni esempi che ci rivelano un assoggettamento della liturgia, e quindi della stessa arte sacra e religiosa in genere, alla capacità di comprensione attuale. Il risultato è un vago spiritualismo, un simbolismo figurativo confuso e astratto, una liturgia intellettualizzata. A chiunque abbia avuto, sia pure una sola volta, la vera esperienza del culto, tutto questo si rivela subito come un semplice surrogato. Egli sa che il culto secolarista è semplicemente incompatibile con il vero culto. Ed è qui, in questo miserabile fallimento liturgico, i cui risultati terribili stiamo solo cominciando a vedere, che il secolarismo rivela il suo ultimo vuoto religioso e, non esiterò a dirlo, la sua essenza del tutto anti-cristiana.

La società è ormai pervasa da questa mentalità secolarizzata che sembra non risparmiare nemmeno la Chiesa, aggredendo particolarmente l’integrità della Liturgia. Quelli che dovrebbero essere chiaramente definiti e condannati come abusi liturgici diventano sempre più la norma. Si celebra in ogni luogo, in ogni modo, e in ogni forma. É difficile ormai trovare una celebrazione “cattolica”, nel vero senso della parola, “unica e universale”. Non entriamo poi in merito degli edifici e degli spazi liturgici, dove convivono tranquillamente, banalità sciatteria e bruttezza. É difficile definirli “casa” ancor meno “casa di Dio”. Luoghi che consacrati per il culto a Dio possono tranquillamente essere usati per qualsiasi “celebrazione”, o spettacolo, o teatro, o conferenza col risultato di far perdere definitivamente la loro identità di luogo sacro.

Ma non vorrei scadere nella mera polemica fine a se stessa!

Per cui, ripetiamo ancora una volta, la secolarizzazione non è affatto identica all’ateismo, e per quanto paradossale possa sembrare, può essere dimostrato che essa ha sempre avuto un desiderio particolare per l’espressione “liturgica”. Se, tuttavia, la mia definizione è corretta, allora tutta questa ricerca di “adeguamento” perviene ad uno scopo irrimediabilmente morto, se non addirittura senza senso. Quindi la formulazione stessa del nostro tema – “liturgie secolarizzate” – vuol mettere in evidenza, a mio avviso, innanzitutto una contraddizione interna, in termini; una contraddizione che esprime l’impossibilità stessa di una “liturgia secolarizzata”.

Rendere culto è, per definizione una azione, una realtà di dimensione cosmica, storica ed escatologica; è espressione, in tal modo, non solo di “pietà”, ma di una totalizzante “visione del mondo”. E quei pochi che si sono presi la pena di studiare il culto in generale e il culto cristiano, in particolare, (J. Ries, M. Eliade, per citare solo i più rappresentativi, che furono fra i primi nell’immediato post concilio a suonare il campanello d’allarme di una pericolosa ideologia di desacralizzazione all’interno della Chiesa stessa, e non vennero ascoltati) sarebbero certamente d’accordo che su un livello storico e fenomenologico questa nozione di culto è oggettivamente verificabile.
Il secolarismo, ho detto, è soprattutto una negazione del culto. E, in effetti, se quello che abbiamo detto circa il culto è vero, non è altrettanto vero che il secolarismo consiste nel rifiuto, esplicito o implicito, precisamente di quella concezione dell'uomo e del mondo che proprio il culto ha lo scopo di esprimere e comunicare?

da Fides et Forma, tit. orig. La secolarizzazione Liturgica come negazione del Culto
immagine da fsspvenezia


[Modificato da Caterina63 02/08/2011 09:20]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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