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Mons. B. Gherardini: Conc.Ecum Vat. II Un discorso da fare (pref. del vescovo Oliveri)

Ultimo Aggiornamento: 10/05/2012 11:24
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12/03/2010 10:50
 
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Recensione a Gherardini: Vaticano II, un discorso da fare

di don Enrico Bini

Mons. Brunero Gherardini ci ha regalato una grande opera frutto delle sue riflessioni, dove si sente l’eco dei lunghi anni di insegnamento, presso la Pontificia Università Lateranense. Il valore del libro risiede in una nuovo modo di leggere l’evento conciliare, evitando due estremi: il rifiuto del concilio e la sua esagerata assolutizzazione. Si può affermare che l’opera di mons. Gherardini è il frutto di un nuovo clima che vive la Chiesa, dopo il magistrale discorso di Benedetto XVI alla curia romana il 22 dicembre 2005. Il Papa in quel memorabile intervento ha proposto come chiave di interpretazione del concilio l’ermeneutica denominata: «della riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa che il Signore ci ha donato». Il papa ha indicato il cammino della Chiesa come una sintesi feconda tra la fedeltà e la necessità di rispondere agli interrogativi che l’età moderna, pone alla fede dei cristiani.

Due ermeneutiche a confronto

Si può definire il volume di mons. Gherardini una lettura chiarificatrice delle decisioni conciliari e delle sue applicazioni, nella prospettiva della continuità con il passato della Chiesa.

Questa ricerca della continuità è una costante nella storia dei concili. Ogni evento conciliare ha cercato un riferimento ed un collegamento con la tradizione precedente. Bisogna quindi ricordare che sia concili dell’antichità sia quelli successivi hanno sempre comportato differenti interpretazioni, tanto da affermare parafrasando in vecchio detto: historia conciliorum, historia dolorum ! Basti pensare alle sorti del concilio di Trento e alle differenti ermeneutiche che anche in campo cattolico, videro contrapporsi il cardinale Pietro Sforza Pallavicino a Paolo Sarpi. Gli stessi Padri del concilio tridentino ritennero di aver chiarito la dottrina e riformato i costumi, non prevedendo le interminabili discussioni che poi nacquero intorno al problema della grazia e della predestinazione, tra molinisti e giansenisti.

Entrambe le parti rifacendosi al concilio si sentivano i migliori e fedeli interpreti discepoli di S. Agostino. Il magistero ha impiegato due secoli per chiarire e affinare, a più riprese, l’esatta portata del suo insegnamento.
Si potrebbe dire sulla falsariga delle affermazioni di Benedetto XVI che anche allora due ermeneutiche litigarono tra di loro. La recezione del concilio tridentino fu poi oltremodo lenta, se i decreti del tridentino furono accettati dal clero francese soltanto nel 1615 e le norme per la riforma del clero ebbero bisogno di almeno un secolo e mezzo prima di vedere le prime sistematiche attuazioni.
Le biblioteche sono piene di opuscoli giansenisti che si appellano al futuro concilio, perché dopo la condanna di Clemente XI, con la bolla Unigenitus (1713), la Chiesa era, secondo i seguaci di Giansenio, ormai senescente e ormai in crisi, tanto che alcuni attendevano la fine del mondo.

L’insegnamento della storia non deve, quindi, sorprender delle difficoltà attuali. Il volume di mons. Gherardini è un contributo fondamentale per tentare di ricostruire una visione armonica tra gli insegnamenti del Vaticano II e il magistero precedente della chiesa. Tutto questo superando il vicolo cieco del sedevacantismo oppure le sterili accuse di protestantizzazione della Chiesa. Il concilio Vaticano II ha una chiara validità come afferma mons. Gherardini: “Non vale neanche la pena, perciò, di spender qualche altra parola in una non necessaria dimostrazione del Vaticano II come vero ed autentico concilio ecumenico e quindi come un fatto - e che fatto! - inequivocabilmente ecclesiale, attinente alla vita, alla fede e alla storia della Chiesa” (p. 80). Occorre conoscere e analizzare il concilio per ricercare un equilibrio tra il passato e il presente superando una concezione storicistica della verità, che lega la validità delle asserzioni di fede al tempo sempre cangiante nelle sue mode ideologiche. Il problema l’aveva già intuito S. Tommaso d’Aquino, quando, parlando dei vari concili, affermò che non possono contraddirsi tra di loro, ma solo integrarsi, o, come scrisse nella Summa Theologiae: “eandem fidem, magis expositam” (II-II, q.1,a.10,ad 2). Questo perfetto allineamento tra le due esigenze che la dottrina tomista vedeva come il vero requisito per un vitale cammino della Chiesa, vale per il Vaticano II che fu un concilio pastorale, ma che ha avuto tante implicazioni per la stessa dottrina della Chiesa. Per questo, l’orizzonte della storia e dell’eternità devono trovare nella Chiesa una piena possibilità d’incontro. L’alternativa non è tra aggiornamento e immobilismo, ma tra un vero e falso aggiornamento, secondo quanto aveva già indicato Pio XII, in un discorso del 14 settembre 1956.

Le ideologie post-conciliari

Le riflessioni di mons. Gherardini sono un invito a ripensare le vicende di questi ultimi decenni, mostrando quanto davvero l’ermeneutica della discontinuità sia un’idea infruttuosa, come l’ha definita Benedetto XVI. Oggi, con maggiore chiarezza, si ha la percezione che certa teologia post-conciliare sia stata tributaria delle ideologie totalizzanti del secolo scorso. Penso al soggiogamento della teologia al pensiero marxista ed alle suggestioni storiciste e immanentiste, che hanno impoverito la riflessione teologica. Non ultima la riconosciuta influenza del pensiero di Teilhard sulla stessa assise conciliare, come affermò il cardinale Garrone: “Il nome di p. Teilhard non mancò di risuonare ogni tanto nell’assemblea. In realtà la scossa che rischiava di far vacillare le fondamenta e che da quell’uomo era stata provocata si avvertiva con intensità molto maggiore di quanto non sembrasse” (G. M. GARRONE, Orientamenti nel concilio, Roma, Borla, 1968, p. 66).

La storiografia dovrà indagare sulle molteplici correnti culturali e filosofiche, che durante il secolo scorso hanno preparato il terreno alla nascita di quella mentalità che intese il concilio come «un nuovo inizio - ein neuer beginn (K. Rahner)» (O. PESCH, Il concilio Vaticano II, Brescia, Queriniana, 2005, p. 373). L’insistenza su questa cesura tra il passato e il presente, per creare una nuova identità, quasi come necessità storica, fu chiamata l’immolazione escatologica.
Qui si nasconde il carattere totalitario del nuovo corso della teologia post-conciliare.

La rivisitazione dell’intero depositum fidei, doveva eliminare ogni ostacolo per conformarsi ai bisogni del tempo presente. Non è un caso l’atteggiamento di taluni teologi, condannati prima del concilio, ma divenuti poi i più zelanti persecutori di coloro che non si adeguavano al nuovo corso della Chiesa. Si rimane stupefatti, per esempio, di fronte alle parole scritte dal padre Congar durante il concilio: “Più passa il tempo, più mi vado convincendo che la struttura tutta italiana degli organismi romani e dell’ideologia romana sono il tumore che bisogna (è necessario) eliminare” (Y. M. CONGAR, Diario del concilio, I, Cinisello B., Paoline, p. 478).

Parole dure, senza carità, l’inquisito diventa il peggiore inquisitore. Questa volontà distruttiva è il vero animo di coloro che teorizzavano la libertà e il pluralismo. Nessuno ancora ha scritto su questa sistematica emarginazione di teologi, sacerdoti, vescovi e cardinali che non si allineavano alle magnifiche sorti e progressive della Chiesa post-conciliare. Esiste, invece, un sorta di martirologio dei precursori del concilio chiamati “pomposamente” i nuovi padri, degli anticipatori dei tempi nuovi, esaltati dai giornali e dai mass-media; mentre il silenzio avvolge il nemico ossia l’odiata ideologia romana, ormai fuori dalla storia. Il carattere distruttivo del cosiddetto ‘spirito del concilio’ ha poi la sua evidente riprova nell’applicazione della riforma liturgica, che ha tentato di cancellare, senza pietà, secoli di esperienza liturgica.

Il linguaggio del concilio

Il volume di mons. Gherardini porta un notevole contributo alla chiarezza dei problemi in campo, con un’analisi di alcuni documenti conciliari. In modo particolare, sono illuminanti i capitoli dedicati all’analisi delle costituzioni Dei Verbum e Lumen Gentium, dove con competenza si sottolinea il rapporto Scrittura - Tradizione e la dottrina sulla collegialità, visti nella prospettiva della continuità. Sono i capitoli centrali del volume, dove le argomentazioni sono stringenti e richiamano i principi della logica e della ragione teologica.

Tuttavia, proprio la forza delle argomentazioni di mons. Gherardini suggerisce alcune riflessioni problematiche. Larga parte della teologia post-conciliare ha riconosciuto le ambivalenze dei documenti conciliari (O. PESCH, Il concilio, cit., pp. 377-379), e per questo è stato richiesto da almeno trent’anni l’indizione di un nuovo concilio, secondo l’opinione di Giuseppe Alberigo, davvero ecumenico, e con all’ordine del giorno le nuove sfide per la Chiesa. Così i problemi del Vaticano II sarebbero come superati dal concilio Vaticano III. Per esempio, anche il cardinale Suenens, nel 1982, chiese un concilio per la fine del secolo, da tenersi a Gerusualemme (L. J. SUENENS, Per la chiesa di domani, Roma, Città Nuova, 1982, p. 70).

Inoltre, la seria discussione sugli argomenti trattati dal concilio suggerita da mons. Gherardini potrebbe risultare inutile, finchè non si ritrova un linguaggio comune. La scelta linguistica del Vaticano II con il rifiuto di una chiara terminologia di ascendenza scolastica, non permette la limpidezza del confronto. Lo aveva già intuito con fine percezione il cardinale Siri, in una conferenza tenuta a Cannes, nel 1969: “Fu adottato negli schemi [del concilio] il criterio discorsivo e fu escluso il metodo delle proposizioni semplici, stringate per l’affermazione delle verità o per la netta condanna degli errori… La scelta del metodo discorsivo negli schemi non è stato senza conseguenze e durante il concilio e dopo il concilio. Anzitutto è diventato più difficile capire dove il concilio intendeva impegnarsi in dichiarazioni solenni, che importavano l’infallibilità e pertanto l’irreformabilità di un asserto, e dove non intendeva impegnarsi a quel modo… Il frutto è stato - non certamente legittimo e solo accidentale - che molti si sono a torto creduti di poter interpretare i testi a loro modo e persino fuori dell’ortodossia cattolica” (G. SIRI, La giovinezza della chiesa. Testimonianze, documenti e studi sul concilio Vaticano II, Pisa, Giardini, 1983, p. 178).

Le parole dell’arcivescovo di Genova sono davvero fondamentali per capire l’equivoco che attraversa il confronto teologico di oggi. Ritengo che il lavoro di mons. Gherardini e le sue analisi non potranno essere comprese dalla teologia moderna, se non si ritrova una convergenza terminologica comune. Al contrario, risuonano gravide di conseguenze negative le tesi del cardinale Léon-Joseph Suenens, che invitò a cercare nei testi conciliari le verità implicite, nascoste dietro incisi e circonlocuzioni, frutto dei compromessi tra le varie correnti conciliari, per raggiungere l’unanimità del consenso tra i padri. Il testo conciliare per il porporato belga è solo una traccia per cercare la verità, indicata dallo Spirito Santo: “Nei testi conciliari vi sono formule di equilibrio e di comune adesione che, a volte, sono state acquisite solo come tappe provvisorie per una scalata. Per la forza delle cose, ed anche per il gioco degli uomini, alcune accentuazioni non hanno ottenuto la loro piena dimensione rinnovatrice. Ma le gemme sono là che attendono la pienezza del sole: compito degli uomini, sotto la guida dello Spirito Santo, sarà quello di esplicitare tutte le implicazioni contenute nei testi conciliari, e tutta la loro implicita portata” (L.J. SUENENS, La corresponsabilità nella chiesa oggi, Roma, Paoline, 1968, p.19).

La ricerca dell’implicito porta dentro di sé tutte le virtualità di una interpretazione soggettiva della fede, con le conseguenze che abbiamo conosciuto nei decenni post-conciliari. Risultano così chiari i motivi per cui padre Ernesto Balducci propose “una ermeneutica dell’intenzione”, perché: «Voler leggere il concilio nella sua positività letterale è una operazione impossibile, perché ci sono nei testi conciliari delle contraddizioni che rimangono tali» (E. BALDUCCI, Il cerchio che si chiude, Genova, Marietti, 1986, p. 81).

Le importanti analisi di mons. Gherardini seguendo i criteri di certe correnti post-conciliari non hanno più alcuna vera importanza, perché ormai la teologia veleggia, senza l’aggancio all’oggettività, verso una sostanziale dissoluzione. L’opera di mons. Gherardini non potrà essere capita, anzi sarà considerata “unzeitgemass-inattuale”, senza questa precomprensione linguistica, senza una nuova convergenza sul senso oggettivo dell’interpretazione delle verità di fede, secondo le chiare indicazioni del concilio Vaticano I, nella costituzione Dei Filius (cap. IV): “Il senso dei sacri dogmi che deve essere sempre conservato è quello che la Santa Madre Chiesa ha determinato una volta per tutte e non bisogna allontanarsi da esse sotto il pretesto e in nome di una intelligenza più profonda”.

Il testo di mons. Brunero Gherardini si conclude con una significativa supplica al papa, che ricorda una iniziativa analoga di mons. Cesare Angelini. Il noto letterato pavese dalle colonne del «Corriere delle Sera», con lucida preveggenza scrisse a Paolo VI nel 1971, chiedendo negli anni del post-concilio: “La continuità con il passato e la difesa delle verità di fede” (C. ANGELINI, Lettera al Papa, Bologna, Boni, 1977, pp. 3-9).

Il papa ricordava nel 2005 che l’ermeneutica della continuità cresce silenziosamente, ma è l’unica in grado di rinnovare. Il contributo di mons. Gherardini è il frutto di questa nuova temperie aperta dalle prospettive offerte da Benedetto XVI, che, niente togliendo alle tante intuizioni conciliari, le possa inquadrare nel bimillenario cammino della Chiesa. La grandezza di una autentica teologia cattolica consiste in questa incessante ricerca, secondo le illuminanti parole di Vincenzo di Lerins: “Quello che si credeva semplicemente, lo si creda più diligentemente; quello che si predicava con minor forza, si predichi con più vigore; quello che si venerava con cautela, si veneri con più sollecitudine”.
In altri termini, la teologia cattolica non è solo attraversata dalla logica dell’et-et, ma anche da quella del semel verum, semper verum.

Il volume di mons. Gherardini ha, infine, due qualità: la franchezza e la freschezza di una prosa tersa e piacevole. Di entrambe ne sentiamo oggi il bisogno, predominando invece un linguaggio ecclesiastico sciatto e ripetitivo, sia negli scritti teologici sia negli interventi dei nostri Pastori. La franchezza di mons. Gherardini risponde ad un preciso dovere del teologo che, senza infingimenti, chiama le cose con il loro nome. Forse questo atteggiamento ha fatto innervosire qualche eccellentissimo prelato toscano, abituato alla stanca ripetizione di slogan che si sostituiscono al pensiero dottrinale, come ricordava all’indomani del concilio Louis Bouyer (L. BOUYER, Cattolicesimo in decomposizione, Brescia, Morcelliana, 1969, p. 29).

Vorrei concludere citando Karl Barth, teologo molto caro a Mons. Gherardini, che negli ultimi anni della sua vita si occupò con curiosità al dibattito suscitato dal Vaticano II. Il teologo di Basilea in un opuscolo dove trattò del rinnovamento della Chiesa, ammonì sia i cattolici sia i protestanti che la novità vera dipende sempre dal riconoscere la Signoria di Dio sulla Chiesa, definita come una casa senza tetto e con poche finestre ossia protesa tutta verso il suo Signore: “La Chiesa sulla via del rinnovamento è il popolo di Dio in aggiornamento. Questa celebre formula va intesa nel suo significato generale. Nell’adattamento della sua vita a un’altra vita. La vita di quest’Altro a cui la Chiesa deve adattarsi può essere anzitutto la vita del Dio uno e trino nella sua azione del mondo e nella Chiesa. Da questo punto di vista la Chiesa è una casa - l’immagine è alquanto ardita ma deve essere usata - la quale casa deve essere completamente aperta nella parte superiore dunque non ha tetto. Essa deve infatti essere totalmente aperta al suo Signore. Ma deve servire il suo Signore fra gli uomini e quindi deve realmente servire anche loro. La casa dunque ha molte finestre, grandi e piccole, che si aprono su tutti i lati. Così deve essere: le finestre sono necessarie alla Chiesa quanto l’assenza del tetto… Una domanda che noi altri che ora ci dobbiamo chiamare evangelici in senso stretto, abbiamo da rivolgere a tutto l’insieme del cosiddetto neoprotestantesimo di tutte le tendenze, anche le più moderne, ma nel contempo anche al cattolicesimo romano post-conciliare. E’ la semplice domanda se, per quanto riguarda le finestre aperte sul mondo, tanto i nostri protestanti quanto l’ultimo concilio non si saranno spinti troppo oltre. Quando si fanno e aprono troppe finestre, la casa cessa di essere casa. Il posto del sale è nella pasta. Ma la pasta non è sale; e il sale da parte sua non deve diventare e voler essere pasta. Altrimenti il concetto di Chiesa si potrebbe ampliare in modo tale da sparire nell’oscura nebulosità di un cristianesimo incosciente” (K. BARTH, Rinnovamento e unità della chiesa, Roma 1969, pp. 23-24).


Fonte: Bollettino Una Voce dicentes. Grazie a Dante Pastorelli per la pubblicazione.
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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