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Quando si vuole calunniare un Pontefice.... e quando finalmente si dice la verità

Ultimo Aggiornamento: 03/07/2012 13:02
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Le ragioni della storia in difesa di Pio XII

Quando si oscura
l'immagine di un grande Papa


Il 10 giugno alle 17,30, all'Istituto Luigi Sturzo di Roma, verrà presentato il libro curato dal nostro direttore, Giovanni Maria Vian, In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia (Venezia, Marsilio, 2009, pagine 168, euro 13). All'incontro interverranno Anna Foa, Giorgio Israel, Paolo Mieli e Roberto Pertici. Sarà presente il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato. Nel volume sono rielaborati alcuni testi e contributi pubblicati su "L'Osservatore Romano". Di seguito presentiamo l'introduzione del curatore.

Pio XII? Un Papa lontano, dai tratti così sbiaditi da non essere più riconoscibili o, in alternativa, dai contorni sin troppo carichi, ma perché deformati da una rappresentazione polemica talmente aspra e persistente da oscurare la realtà storica. È questa l'immagine che oggi prevale di Eugenio Pacelli, eletto sulla sede di Pietro alla vigilia dell'ultima guerra mondiale.

Destino singolare per il primo romano pontefice che, sul cammino aperto dal predecessore, divenne popolare e davvero visibile in tutto il mondo. Grazie all'incipiente e tumultuosa modernità, anche della comunicazione, che il Papa di Roma volle e seppe utilizzare:  dai ripetuti viaggi - che lo portarono in Europa e America come diplomatico e segretario di Stato - al nuovo genere dei radiomessaggi, dalle grandi manifestazioni pubbliche alle copertine dei rotocalchi, dal cinema a un mezzo appena agli albori e destinato a grandi fortune come la televisione. Destino ancor più singolare se si pensa poi all'autorevolezza generalmente riconosciutagli in vita e ai giudizi positivi quasi unanimi che nel 1958, mezzo secolo fa, ne accompagnarono la scomparsa. 

Pio XII Come è stato allora possibile un simile rovesciamento d'immagine, verificatosi per di più nel giro di pochi anni, più o meno a partire dal 1963? I motivi sono principalmente due. Il primo risiede nelle difficili scelte politiche compiute da Pio XII sin dall'esordio del pontificato, poi durante la tragedia bellica, e infine al tempo della guerra fredda. La linea assunta negli anni del conflitto dal Papa e dalla Santa Sede, avversa ai totalitarismi ma tradizionalmente neutrale, nei fatti fu invece favorevole all'alleanza antihitleriana e si caratterizzò per uno sforzo umanitario senza precedenti, che salvò moltissime vite umane.

Questa linea fu comunque anticomunista, e per questo, già durante la guerra, il Papa cominciò a essere additato dalla propaganda sovietica come complice del nazismo e dei suoi orrori. La seconda ragione fu l'avvento del successore, Angelo Giuseppe Roncalli. Questi, descritto già molto tempo prima del conclave come candidato (e, una volta eletto, come Papa) "di transizione", in ragione soprattutto dell'età avanzata, prestissimo venne salutato come "il Papa buono", e senza sfumature sempre più contrapposto al predecessore:  per il carattere e lo stile radicalmente diversi, ma anche per la decisione inattesa e clamorosa di convocare un concilio.
 
Gli elementi principali che spiegano il cambiamento dell'immagine di Papa Pacelli sono dunque la scelta anticomunista di Pio XII e la contrapposizione con Giovanni XXIII. Contrapposizione che venne accentuata soprattutto dopo la morte di quest'ultimo e l'elezione di Giovanni Battista Montini (Paolo VI), anche perché fu favorita dalla polarizzazione dei contrasti, al tempo del Vaticano ii, tra conservatori e progressisti, che trasformarono in simboli contrapposti i due Papi scomparsi.
Intanto, nel rilancio delle accuse sovietiche e comuniste, ripetute con insistenza durante la guerra fredda, ebbe un ruolo decisivo il dramma Der Stellvertreter ("Il vicario") di Rolf Hochhuth, rappresentato per la prima volta a Berlino il 20 febbraio 1963 e tutto giocato sul silenzio di un Papa dipinto come indifferente davanti alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei.

Di fronte all'estensione della polemica in Inghilterra, a difendere Pio XII scese in campo il cardinale Montini - già stretto collaboratore di Pacelli - con una lettera alla rivista cattolica "The Tablet" che arrivò in redazione il giorno della sua elezione al pontificato, il 21 giugno, e fu pubblicata anche su "L'Osservatore Romano" del 29 giugno:  "Un atteggiamento di condanna e di protesta, quale costui rimprovera al Papa di non avere adottato, sarebbe stato, oltre che inutile, dannoso; questo è tutto".

Severa, e scandita da parole scelte attentamente, la conclusione di Montini:  "Non si gioca con questi argomenti e con i personaggi storici che conosciamo con la fantasia creatrice di artisti di teatro, non abbastanza dotati di discernimento storico e, Dio non voglia, di onestà umana. Perché altrimenti, nel caso presente, il dramma vero sarebbe un altro:  quello di colui che tenta di scaricare sopra un Papa, estremamente coscienzioso del proprio dovere e della realtà storica, e per di più d'un Amico, imparziale, sì, ma fedelissimo del popolo germanico, gli orribili crimini del Nazismo tedesco. Pio XII avrà egualmente il merito d'essere stato un "Vicario" di Cristo, che ha cercato di compiere coraggiosamente e integralmente, come poteva, la sua missione; ma si potrà ascrivere a merito della cultura e dell'arte una simile ingiustizia teatrale?".

Da Papa, più volte Montini sarebbe tornato a parlare di Pacelli, di cui volle difendere l'opera di pace e la "venerabile memoria" il 5 gennaio 1964, congedandosi a Gerusalemme dal presidente israeliano, mentre nel sacrario dedicato alle vittime della persecuzione nazista il cardinale decano Eugène Tisserant accendeva sei lumi in ricordo dei milioni di ebrei sterminati. Quando "Paolo VI pose piede in terra israeliana, in quella che fu la tappa più significativa e "rivoluzionaria" della sua missione palestinese, tutti avvertirono" - ricordò Giovanni Spadolini su "il Resto del Carlino" del 18 febbraio 1965, dopo le prime rappresentazioni a Roma del dramma di Hochhuth e le conseguenti accese polemiche - "che il Pontefice intendeva rispondere, dallo stesso cuore del focolare nazionale ebraico, ai sistematici attacchi del mondo comunista che non mancavano di trovare qualche complicità o qualche condiscendenza anche nei cuori cattolici".

Allo storico laico era chiarissimo il ruolo della propaganda comunista nella mitizzazione negativa di Pacelli, con una consapevolezza che nella rappresentazione pubblica dei decenni successivi è quasi scomparsa, per lasciare il posto a una strumentale e denigratoria associazione della figura di Pio XII alla tragedia della Shoah, di fronte alla quale avrebbe taciuto o di cui si sarebbe addirittura reso complice.

La questione del silenzio del Papa è così divenuta preponderante, spesso tramutandosi in polemica accanita, provocando reazioni difensive di frequente solo apologetiche, e rendendo più difficile la soluzione di un reale problema storico.

Interrogativi e accuse per i silenzi e l'apparente indifferenza di Pio XII di fronte alle incipienti tragedie e agli orrori della guerra erano venuti infatti da cattolici:  come da Emmanuel Mounier già nel 1939, nelle prime settimane del pontificato, e più tardi da esponenti polacchi in esilio. Lo stesso Pacelli più volte s'interrogò sul suo atteggiamento, che fu dunque una scelta consapevole e sofferta di tentare la salvezza del maggior numero possibile di vite umane piuttosto che denunciare continuamente il male con il rischio reale di orrori ancora più grandi.

Come sottolineò ancora Paolo VI, secondo il quale Pio XII agì "per quanto le circostanze, misurate da lui con intensa e coscienziosa riflessione, glielo permisero", al punto che non si può "imputare a viltà, a disinteresse, a egoismo del Papa, se malanni senza numero e senza misura devastarono l'umanità. Chi sostenesse il contrario, offenderebbe la verità e la giustizia" (12 marzo 1964); Pacelli fu infatti "del tutto alieno da atteggiamenti di consapevole omissione di qualche suo possibile intervento ogni qualvolta fossero in pericolo i valori supremi della vita e della libertà dell'uomo; anzi egli ha osato sempre tentare, in circostanze concrete e difficili, quanto era in suo potere per evitare ogni gesto disumano e ingiusto" (10 marzo 1974).

Così, l'interminabile guerra sul silenzio di Papa Pacelli ha finito per oscurare l'obiettiva rilevanza di un pontificato importante, anzi decisivo nel passaggio dall'ultima tragedia bellica mondiale, attraverso il gelo della guerra fredda e le difficoltà della ricostruzione, a un'epoca nuova, in qualche modo avvertita nell'annuncio della morte del Pontefice che diede il cardinale Montini alla sua diocesi il 10 ottobre 1958:  "Scompare con Lui un'età, si compie una storia. L'orologio del mondo batte un'ora compiuta".

Un'età, comprendente gli anni spaventosi e dolorosi della guerra insieme a quelli duri del dopoguerra, che si volle dimenticare nei suoi tratti reali. Insieme al Papa che l'aveva affrontata, inerme. E presto si è dimenticato anche il suo governo, attento ed efficace, di un cattolicesimo che si faceva sempre più mondiale, il suo insegnamento imponente e innovatore in moltissimi ambiti che ha preparato di fatto il concilio Vaticano ii e che da questo in parte è stato ripreso, l'avvicinamento alla modernità e la sua comprensione.

Inoltre, al nodo storiografico già intricato - e al cui scioglimento Paolo VI volle contribuire disponendo la pubblicazione dagli archivi vaticani di migliaia di  Actes  et  documents  du  Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, in dodici volumi a partire dal 1965 - si è intrecciato quello della causa di canonizzazione. L'avvio di questa insieme a quella di Giovanni XXIII fu annunciato proprio in quell'anno dallo stesso Montini in concilio, nel tentativo di contrastare la contrapposizione dei due predecessori e quindi l'uso strumentale delle loro figure, divenute quasi simboli e bandiere di tendenze opposte del cattolicesimo.

A mezzo secolo dalla morte di Pio XII (9 ottobre 1958) e a settant'anni dalla sua elezione (2 marzo 1939) sembra tuttavia formarsi un nuovo consenso storiografico sulla rilevanza storica della figura e del pontificato di Eugenio Pacelli, l'ultimo Papa romano. A questo riconoscimento ha voluto contribuire "L'Osservatore Romano" pubblicando una serie di testi e contributi di storici e teologi, ebrei e cattolici, qui rielaborati e raccolti insieme agli interventi di Benedetto XVI e del suo segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone.

Ragionando sul caso Pio XII, Paolo Mieli ha mostrato l'inconsistenza della "leggenda nera" e si è detto convinto che proprio gli storici riconosceranno l'importanza e la grandezza di Pacelli. Andrea Riccardi ha sintetizzato formazione e carriera del futuro Papa e ha ricostruito il significato del suo pontificato. La sensibilità dell'insegnamento teologico di Pio XII di fronte alla modernità e la sua incidenza sul cattolicesimo successivo sono state messe in luce da Rino Fisichella.

E, dai discorsi del Papa, Gianfranco Ravasi ha fatto emergere il suo mondo culturale. Postuma, la struggente evocazione di Saul Israel - scritta al tempo della devastante tempesta che travolse il popolo ebraico, nel fragile riparo di un convento romano - esprime la realtà più profonda della vicinanza e dell'amicizia tra ebrei e cristiani, ma soprattutto la fede nell'unico Signore che benedice e custodisce tutti, "sotto le ali dove la vita non ha avuto inizio e non avrà mai fine".


(©L'Osservatore Romano - 7 giugno 2009)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/04/2010 18:08
 
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La spartizione della Polonia del 1939 e i silenzi consapevoli degli Alleati di fronte alla tragedia della Shoah

La cattiva coscienza di chi accusa Pio XII


di Raffaele Alessandrini


L'antica favola del lupo e dell'agnello insegna che quando il forte si lagna lanciando accuse al più debole, magari strepitando di aver subito da lui improbabili torti, sta preparandosi a divorarlo. Le corrispondenze storiche sono numerose sia pure con le debite varianti:  talvolta i lupi sono più di uno.
 
Per di più alla scena cruenta possono esservi altri testimoni diversamente cointeressati. Questi ultimi, pur essendo consapevoli che il debole, ormai privato brutalmente dei propri diritti, sta soccombendo alle brame fameliche del prepotente, restano a guardarne il sacrificio con calcolata inerzia. E dire che avrebbero argomenti e mezzi per impedire o limitare lo scempio. Quando poi il precipitare degli eventi li costringe a intervenire - poiché la fame del predatore non si placa - si trovano a loro volta prigionieri della logica pragmatica della violenza e della sopraffazione per la quale vi saranno moltissimi altri deboli e innocenti a pagare il prezzo più alto e atroce.

L'invasione nazista della Polonia del 1° settembre 1939 che diede l'avvio alla seconda guerra mondiale è certo un esempio evidente di questo. Ma lo sono anche il disinteresse per gli ebrei e il loro consapevole abbandono da parte degli Alleati nonostante fossero pienamente al corrente dei piani hitleriani di "soluzione finale". Lo ha ricordato anche un ampio servizio di Claude Weill su "Le Nouvel Observateur" del 4-10 marzo 2010 (pp.16-28) nel quale risalta la polemica tra il regista e intellettuale parigino Claude Lanzmann, l'autore del famoso lungometraggio-fiume - nove ore - Shoah (1985) e il romanziere Yannik Haenel che nel settembre 2009 ha pubblicato il volume Jan Karski (Gallimard) dedicato a un eroe della resistenza polacca al nazismo che - infiltratosi in un campo di sterminio (e non sarebbe stato il solo polacco a farlo) - mise sull'avviso il presidente Franklin D. Roosevelt alla Casa Bianca degli orrori in atto.
 
Haenel sostiene pertanto che "nel 1945 non ci furono vincitori né vinti, ma solo dei complici e dei mentitori". Lanzmann ribatte dal canto suo che gli ebrei durante il conflitto non erano il "centro del mondo"". Ora è indubbio che gli Alleati conoscessero da tempo la mostruosa realtà della Shoah come pure la sua entità. Come è stato ricordato a suo tempo anche dal nostro giornale (14 agosto 2009), Henry Morgenthau junior, ministro del Tesoro statunitense durante la guerra, disponeva di prove sufficienti per dire che fin dall'agosto del 1942 a Washington si sapeva che i nazisti avevano progettato di sterminare tutti gli ebrei dall'Europa e che "solo l'incapacità, l'indolenza e gli indugi burocratici dell'America impedirono la salvezza di migliaia di vittime di Hitler" mentre, oltre Atlantico, "il Ministero degli Esteri inglese si preoccupava di più di politica che di carità umana".


Vi è inoltre da considerare come la cattiva coscienza storiografica, o parastoriografica, al servizio delle potenze, tenda a celare talune responsabilità e coperture dettate dal più gelido e spregiudicato pragmatismo politico, sviando per quanto possibile l'attenzione pubblica su più indifesi capri espiatori.

Le maggiori potenze d'Europa, Inghilterra e Francia, che avevano tenuto un contegno inerte e perfino acquiescente di fronte all'Anschluss (l'annessione dell'Austria del marzo 1938) e all'invasione della Cecoslovacchia - prima la conquista dei Sudeti, poi, nel marzo 1939, fu la volta della Boemia e della Moravia - non si discostarono dalla loro condotta passiva. Ora l'intesa Molotov-Ribbentrop conteneva anche clausole segrete in base alle quali di lì a poco i due lupi si sarebbero ferocemente spartiti le spoglie sanguinanti della Polonia oltreché i territori della Finlandia, dell'Estonia, della Lettonia, della Lituania e della Bessarabia rumena. E tuttavia il pretesto per aggredire la Polonia era evidente e consisteva com'è noto, nel rifiuto polacco di subire un torto lasciando includere nella Germania la città di Danzica con l'autostrada extraterritoriale e la linea ferroviaria che univa la Germania e la Prussia Orientale.

Il 24 agosto 1939 vi fu solo un'unica autorità mondiale a levare alta la voce e a incitare gli uomini di buona volontà alla riconciliazione e al dialogo:  "Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra!". Ma più che parlare alle coscienze e a spendersi in una articolata e intensissima azione diplomatica, protrattasi perfino nel crepuscolo stesso delle speranze, il Papa Pio XII e i suoi più stretti collaboratori non potevano fare, e rimasero inascoltati.

Il Vaticano - come Stalin avrebbe un giorno sarcasticamente osservato - non ha divisioni da mettere in campo. Invece il 1° settembre 1939 la Germania aggredì la Polonia senza preavviso e il 17 settembre, da est, scattò l'aggressione sovietica. I tedeschi forti di un milione e mezzo di soldati misero in campo 2800 carri armati, 2000 aerei e 11000 cannoni; i sovietici attaccarono con cinquecentomila uomini, 5000 carri armati, 3000 aerei e 13.500 cannoni. I polacchi potevano opporre un milione di uomini, 800 carri armati, 400 aerei e 4500 cannoni. E tuttavia resistettero per 35 giorni a fronteggiare da soli forze tanto soverchianti.

Vale la pena ripercorrere alcuni momenti anticipatori dello scoppio della seconda guerra mondiale alla luce dei documenti. Nel recente volume Polish documents on Foreign Policy curato da Wlodzmierz Borodziej e Slawomir Debski (Warsaw, The Polish Institute of International Affairs, 2009) è trascritto in data 2 agosto 1939 il rapporto dell'ambasciatore di Polonia presso la Santa Sede Kaziermiez Papée al ministro degli Affari esteri dell'udienza avuta con Pio XII il 24 luglio precedente in occasione della presentazione delle sue credenziali.

Dopo il discorso ufficiale il Papa si era trattenuto con l'ambasciatore per un'altra mezz'ora a parlare in termini informali della situazione internazionale illustrando gli sforzi di mediazione della Santa Sede in favore della pace benché fosse "molto difficile fare qualcosa a Berlino". Ma il Papa diceva di più. Egli non manifestava alcuna fiducia ricordando - sono parole dell'ambasciatore - come l'anno precedente, alla fine di settembre, il cancelliere Hitler dopo l'annessione dei Sudeti avesse detto che la Germania non avrebbe avanzato altre rivendicazioni sui territori europei. Ma che cosa resta di tutto questo oggi? si chiedeva Pio XII. "Al momento è Danzica, ma domani sarà altro".
 
Le rassicurazioni verbali sulle quali Hitler diceva di basare la propria politica erano infatti state regolarmente smentite per ben due volte:  prima con l'occupazione della Boemia e della Moravia e poi riguardo all'atteggiamento tenuto nei confronti del Sud Tirolo dove il cancelliere Hitler si stava mostrando pronto a strumentalizzare a proprio favore il concetto della purezza razziale germanica della popolazione. La Chiesa in Germania e soprattutto l'Azione cattolica - lamentava Pio XII - dovevano fare i conti con ostacoli continui:  ci si poteva esprimere solo in ambito religioso e "neppure tanto".

Ma ciò che veramente risulta al vertice delle preoccupazioni di Papa Pacelli è la sorte della Polonia che tanto dall'est come dall'ovest egli vedeva ormai stretta tra due blocchi:  l'uno anticristiano e l'altro acristiano.
In poche parole egli temeva che un avvicinamento germano-sovietico avrebbe portato non solo alla guerra in Europa. ma che, in caso di uno scontro portato dalla Germania alle altre potenze del continente, vi sarebbe stato alla fine il bolscevismo a rivestire le parti del tertius gaudens che, tenutosi inizialmente ai margini del conflitto, avrebbe potuto godere dei vantaggi della situazione intervenendo al momento opportuno ai danni degli altri due contendenti sfiancati dalla lotta per imporsi definitivamente sull'Europa (cfr. pp. 335-338).

In una nota in data 16 agosto 1939 il cardinale Luigi Maglione, segretario di Stato di Pio XII, riferisce di un colloquio con l'ambasciatore di Polonia che lo ha messo al corrente dello scambio di note di protesta tra il suo Paese e la Germania e si ribadisce che la questione di Danzica non è altro che un pretesto per attaccare la Polonia. "La Polonia è calma, attende con tranquillità l'attacco ed è sicura di essere soccorsa dalle Potenze occidentali. L'ambasciatore non teme complicazioni da parte della Russia". Poi la nota del cardinale Maglione prosegue:  "Notizie d'altra fonte mi confermano che la questione di Danzica è un pretesto per la Germania e che questa si propone di fare una guerra di sterminio alla Polonia. Si pensa che è d'intesa con la Russia per una spartizione della povera Polonia.

Si illudono a Berlino che né l'Inghilterra, né la Francia interverranno per la Polonia" (cfr. Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1970, ristampa corretta e ampliata, i, pp.214-215). In realtà Berlino non s'illudeva affatto, poiché sapeva di poter agire senza disturbi esterni.

Nel suo intervento agli ufficiali della Wehrmacht del 22 agosto 1939, Hitler così aveva presentato gli obbiettivi da realizzare in Polonia:  "La nostra forza è la nostra rapidità e la nostra brutalità (...) mi è indifferente quali voci farà circolare su di me la debole civilizzazione occidentale. Ho dato l'ordine e farò sparare a chiunque vorrà, anche con una sola parola, criticare l'affermazione che l'obbiettivo della guerra non sia raggiungere determinate linee, ma la distruzione fisica del nemico. A questo fine ho predisposto, per ora solo all'est, le mie truppe Totenkopf, ordinando loro di uccidere senza pietà e senza misericordia uomini, donne e bambini di origine polacca e di lingua polacca. Solo in questo modo acquisteremo lo spazio vitale di cui abbiamo bisogno. Chi oggi parla ancora della strage degli armeni?" (cfr. Robert Szuchta, Campi tedeschi dei nazisti sulla terra polacca occupata durante la ii Guerra mondiale, Ministero degli Affari Esteri di Polonia, Dipartimento di promozione, senza data, p. 9).

I territori polacchi incorporati dal Reich furono sottoposti a un'intensa germanizzazione sin dall'inizio della guerra. E bisogna ricordare che gli ebrei polacchi erano prima del conflitto tre milioni e quattrocentomila:  ne sopravvisse solo il dieci per cento. Com'è noto i campi di concentramento e di sterminio in Polonia furono otto a cominciare da Auschwitz-Birkenau.

Anche la Chiesa cattolica polacca fu sottoposta a dure persecuzioni:  numerosi sacerdoti cattolici furono arrestati e deportati in campi di concentramento tedeschi, per lo più a Dachau. Molti di essi furono uccisi:  in alcune diocesi quasi la metà. (cfr. Robert Szuchta, cit., pp. 7-9). I prigionieri arrivati ad Auschwitz-Birkenau durante il primo appello così venivano salutati dal capo del campo Karl Fritzsch:  "Vi avverto che qui siete arrivati non in una casa di cura, ma in un campo di concentramento dal quale si esce solo dal camino del forno crematorio. Se a qualcuno non piace può buttarsi subito sul filo ad alta tensione. Se nel gruppo ci sono ebrei quelli non hanno diritto di rimanere in vita per più di due settimane, i preti per un mese, gli altri per tre mesi" (ivi, p. 23).

In questi giorni la cronaca internazionale ci ha costretto - dolorosamente - a ricordare i massacri di Katyn perpetrati dai sovietici nel marzo del 1940:  ventiduemila ufficiali polacchi furono trucidati per ordine di Stalin su consiglio del suo duro braccio destro Lavrentij Berija e gettati in fosse comuni. Per lungo tempo il crimine, scoperto nel 1943, fu scaricato sui nazisti. E neppure Joseph Goebbels il capo della propaganda nazionalsocialista riuscì a inchiodare Stalin grazie anche al silenzio complice di Churchill e Roosevelt che non vollero rischiare di incrinare l'alleanza antihitleriana formatasi dopo il 1941. Le responsabilità comuniste furono ammesse ufficialmente solo nel 1990, in piena glasnost gorbaceviana.

Indicativo per opposte ragioni lo spietato processo mediatico a cui è stato esposto Pio XII per i suoi silenzi, dai tempi di Der Stellvertreter di Rolf Hochhuth (1963) ai nostri giorni. Il Papa non aveva difese se non quelle fornitegli dalla fragile sovranità acquisita nel 1929 con i Patti Lateranensi e - in una Roma occupata da un nemico che stava attendendo solo il momento più opportuno per schiacciare la Chiesa "come un rospo", per usare un espressione dello stesso Hitler - doveva ottemperare a due imperativi categorici.

L'uno di ordine spirituale derivante dal mandato petrino, l'altro di ordine morale e umanitario. Il Vicario di Cristo, in ogni caso, non può fare distinzioni o preferenze tra gli uomini, può solo battersi per la giustizia e la pace; senonché tutta la storia del Novecento pone di fronte nazioni e popoli ferocemente in lotta gli uni contro gli altri. Dovrebbe essere ormai chiaro che Papa Pacelli e la Santa Sede furono tenuti a mantenere sostanzialmente un contegno diplomatico prudente - nondimeno il radiomessaggio natalizio del 24 dicembre 1942 contiene esplicite e intense allusioni alle persecuzioni razziali - poiché anche da questo dipendeva la fragile sovranità di un piccolo Stato, unica garanzia di quel minimo di libertà di azione e di movimento che per altri versi permise di recare soccorso e protezione al maggior numero possibile di perseguitati, tra cui moltissimi ebrei.

Eppure ancora oggi, incredibilmente, sono molti quanti levano l'indice accusatore su Pio XII. Incappa nell'errore pure "Le Nouvel Observateur". Anche in tal senso la guerra è il trionfo dell'ingiustizia.

Non per nulla appena salito sul Soglio di Pietro proprio Papa Pacelli aveva assunto un motto eloquente:  Opus iustitiae pax ("la pace è opera della giustizia"). Un concetto non casuale poiché da decenni ormai la Chiesa si stava battendo per la pace nel mondo.

Pio x (1903-1914) che a suo tempo, aveva scelto il motto Instaurare omnia in Christo, contemplando il volgere degli eventi internazionali nella prima decade del secolo xx, aveva presagito il funesto incombere del "guerrone" - il primo conflitto mondiale - morendo poi di dolore alla vigilia delle ormai inevitabili ostilità. Il suo successore Benedetto xv (1914-1922) - che tanto si sarebbe prodigato per le vittime e per i prigionieri di ogni nazionalità, dopo la Nota ai Paesi belligeranti del 1° agosto 1917 in cui egli condannò l'"inutile strage" e tratteggiò i presupposti di fondo, anticipando in qualche modo i famosi "quattordici punti" del presidente statunitense Woodrow Wilson, per una pace basata su una sincera riconciliazione senza vincitori né vinti, nonché per un nuovo, e più giusto, ordine tra le nazioni - fu ripagato con l'incomprensione, l'offesa e il dileggio delle varie parti in lotta.

Venne poi Pio xi. Anch'egli nel suo motto volle ribadire il programma di pace della Chiesa di Dio:  Pax Christi in regno Christi. Papa Ratti dopo aver seguito con sofferta trepidazione nei diciassette anni del suo pontificato l'evoluzione della questione sociale - con il dilagante sviluppo del capitalismo selvaggio e la diffusione delle visioni materialistiche dialettiche e pratiche che minavano l'integrità interiore dell'uomo, della famiglia e dei popoli - avendo considerato con occhio profetico il minaccioso imporsi dei sistemi totalitari sulla scena mondiale e sentendosi venir meno, offriva a Dio la propria vita affinché l'umanità fosse risparmiata dalla guerra. Gli succedette il suo più diretto e fedele collaboratore:  il cardinale Eugenio Pacelli che significativamente volle anch'egli assumere il nome di Pio. Ma quel 23 agosto 1939 in cui la Germania di Hitler e l'Unione Sovietica di Stalin siglarono il loro famigerato patto di non aggressione le sorti del mondo erano già segnate.


(©L'Osservatore Romano - 23 aprile 2010)

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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29/05/2010 20:50
 
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Lettera del cardinale segretario di Stato per la pubblicazione del Diario del primo Delegato apostolico in Cina

Celso Costantini
e la triplice missione di Pio XII


Dalle carte emerge un pontificato aperto alla modernità che sfociò nel Vaticano ii

Venerdì 28 maggio, alla Camera dei deputati italiana, è stato presentato il volume curato da Bruno Fabio Pighin Ai margini della guerra (1938-1947) che pubblica il diario finora inedito del cardinale Celso Costantini (Venezia, Marcianum Press, 2010, pagine 640, euro 50). Erano presenti i cardinali Zenon Grocholewski, Bernard Francis Law e Giovanni Coppa, e il vescovo Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru. Per l'occasione il presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, ha inviato un messaggio e il cardinale segretario di Stato ha scritto, a nome di Benedetto XVI, una lettera al cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, che ha tenuto una relazione pubblicata a fianco quasi per intero. Il testo, qui riprodotto quasi integralmente, è stato letto dall'arcivescovo segretario della Congregazione, Robert Sarah.

di Tarcisio Bertone

Il dono del volume Ai margini della guerra (1938-1947), contenente il diario inedito del cardinale Celso Costantini, pubblicato con la fattiva partecipazione della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, è giunto particolarmente apprezzato al Sommo Pontefice.

Sua Santità ha preso diretta visione dello scritto di questa illustre figura di porporato, che fu segretario dell'importante Dicastero ordinato alla propagazione della fede cattolica, e mi incarica di esprimerle viva gratitudine per aver favorito la pubblicazione di un testo di prima mano, che fornisce preziose informazioni, acquisite per conoscenza ed esperienza diretta, dell'opera gigantesca nell'ambito. della carità, della testimonianza cristiana, della saggezza politica, della risposta alla vastità dei bisogni, che la Sede Apostolica ha realizzato nei confronti di popolazioni, di gruppi etnici, nonché culturali, durante il difficile periodo degli imperi ideologici.
 
Le carte di un prelato particolarmente vicino al Sommo Pontefice, pubblicate nel voluminoso e accurato libro raccontano le angosce di un'Europa stretta fra opposti e sanguinari estremismi, come pure l'anelito di persone ragionevoli, desiderose di pace, di giustizia e di vera legge, irrorata da venti secoli di civiltà cristiana.
 
Nel periodo testimoniato dal Diario del cardinale Celso Costantini occorre rilevare il costante, disinteressato e risoluto impegno di Papa Pio XII, della Curia romana e di ogni ecclesiastico, presule, sacerdote, religioso o religiosa per i fini della carità e non certo della propaganda. Favorire la pace, promuovere il rispetto dei diritti universali, sostenere l'equità, evitare il male, offrire rifugio, sovvenire al bisogno, escludere la partecipazione alle passioni politiche violente:  queste sono le esigenze che monsignor Costantini - collaboratore e vero amico di Papa Pacelli - ha giornalmente registrato nelle sue memorie con grande accuratezza e dovizia di particolari.

Fra queste, Sua Santità ha rilevato le seguenti parole, annotate, il 26 dicembre 1941, da monsignor Costantini dopo aver sottolineato, ripetute volte, la grande attenzione e azione di Papa Pacelli verso tutti, in particolare verso i più bisognosi e perseguitati:  in Pio XII vi è "una triplice missione sempre provvidenziale, ma specialmente in questi anni in quibus vidimus mala:  quella di Maestro, di Giudice, di Padre (...) L'attività del Sommo Pontefice, invece di diminuire e quasi chiudersi in un lutto desolato, si è prodigiosamente moltiplicata".

Signor cardinale, le memorie private del cardinale Celso Costantini non trattano esclusivamente - pur se con grande e giusta indignazione - la tristissima sorte di popoli e di categorie di persone soggette ai più inumani destini. Le carte pubblicate grazie alle fatiche e alle premure di monsignor Bruno Fabio Pighin parlano anche dell'instancabile e generosa opera evangelizzatrice della Chiesa, della sua profonda e articolata riflessione teologica che sfociò nel concilio ecumenico Vaticano ii, dell'approccio culturale, sociale, politico del papato di Pio XII nei riguardi della modernità. Si tratta, perciò, di scritti altamente significativi e utili.

Il Santo Padre, mentre auspica che esse siano vagliate con spirito equanime e adeguato, desidera manifestare nuovamente il Suo vivo apprezzamento per l'iniziativa, considerandola un valido contributo alla verità storica.


 

Vite parallele nella bufera della guerra

Smontò
le accuse a Pacelli
prima che nascessero


Ignobili pregiudizi costruiti sulla sabbia

di Ivan Dias
 

Gli studi finora compiuti sul porporato friulano hanno dimostrato che egli ha profondamente inciso nella Chiesa universale. Ricordo qui soltanto alcune delle sue strategie:  egli tracciò un ponte spirituale tra l'Occidente e l'Oriente quando fu primo Delegato apostolico in Cina; da segretario di Propaganda Fide, impresse indirizzi fortemente innovativi all'attività missionaria:  grazie alla sua opera vennero consacrati da Papa Pio xi nella basilica di San Pietro in Vaticano i primi sei vescovi cinesi (28 ottobre 1926), compiendo così il passo essenziale verso il coronamento della sua opera missionaria in Cina.

A partire dal 1939 ebbe l'ardire di proporre - unico tra i prelati della Curia Romana - la convocazione di un concilio ecumenico per la riforma della Chiesa; infine si impegnò con lungimiranza per la creazione di un'Europa unita, nella comunità solidale di tutte le nazioni. Ma Celso Costantini non manca di stupirci ancora, dopo la sua morte, con il suo Diario, scritto quando era segretario del Dicastero da me presieduto. Alla lettura del testo, ora venuto alla luce, impressiona enormemente il ruolo da lui esercitato durante il secondo conflitto mondiale.

Egli seppe intrattenere intense relazioni con uomini di governo, con esponenti politici, con presuli di tutto il mondo, con intellettuali e artisti, ma anche con gente umile, soprattutto con quella travolta nella miseria o nella disperazione. Per questi ultimi, ebrei compresi, monsignor Celso diventò un punto di riferimento talvolta essenziale nel soccorso, come lo fu a salvaguardia della vita del grande statista italiano Alcide De Gasperi, contro la minaccia della sua deportazione nei lager nazisti.

Il Diario steso da Costantini nel periodo più drammatico della storia contemporanea, cioè dal 1938 al 1947, è rimasto finora inedito per comprensibili motivi. Di quegli anni non è ancora possibile consultare i documenti conservati all'Archivio Segreto Vaticano e in molti altri siti. Pertanto l'impresa editoriale compiuta da monsignor Bruno Fabio Pighin si rivela una fonte preziosa sia per la storia d'Italia che per quella della Chiesa. Essa permette, inoltre, di colmare un vuoto consistente nella biografia del porporato, che ora splende più di prima tra i personaggi eminenti del secolo scorso.

Incoraggio la produzione di altre pubblicazioni connesse alla figura del porporato friulano, quale potrà essere il suo corposo epistolario, nella certezza che la neonata Fondazione a lui intitolata saprà sostenere iniziative di grande spessore culturale e spirituale.
Vorrei qui fare una sottolineatura, suggerita dalla copertina del libro che riproduce due personaggi in un intenso colloquio tra loro:  Pio XII e il cardinale Celso Costantini.

Essi nacquero nello stesso anno; furono ordinati sacerdoti nello stesso anno; ambedue furono a servizio della diplomazia della Santa Sede; vissero fianco a fianco nella Curia Romana, e collaborarono strettamente, in perfetta sintonia e sinergia; Costantini fu creato cardinale da Pio XII; i due morirono nello stesso anno e nello stesso mese. Tutto ciò può sembrare una semplice coincidenza, ma credo che si tratti invece di un disegno della Provvidenza, soprattutto alla lettura del presente Diario, che li vede strenuamente impegnati per la pace, per l'aiuto ai disastrati di qualsiasi fede o etnia, per la costruzione di un mondo nuovo sulle macerie provocate dalla seconda guerra mondiale.

Quest'opera, scritta una settantina d'anni fa, in tempi non sospetti - prima cioè che venissero mosse infamanti e infondate accuse a Papa Pacelli - contribuisce a distruggere un impianto costruito con la sabbia, sulla base di ignobili pregiudizi contro Pio XII. Fa emergere la sua nobile figura, resa ancor più grande dall'immane tragedia che seppe fronteggiare, come vero pastore di un'umanità smarrita e profondamente offesa.

Il tentativo di gettare fango sulla figura del Papa si ripete nella storia, ma l'operazione "verità" alla lunga prevale sulle macchinazioni costruite ad arte. Per questo credo che il valore di  questo  Diario  trascenda  i  suoi pregi intrinseci, già notevoli. Esso si colloca tra gli scritti con i quali pare inevitabile confrontarsi in tema di dialogo tra la Chiesa e il mondo contemporaneo.


(©L'Osservatore Romano - 30 maggio 2010)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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09/06/2010 20:49
 
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Su "Il Messaggero"

Il primo pensiero di Pio XII


"L'Italia è completamente incatenata senza i mezzi necessari per difendersi":  così il 30 agosto 1943, dopo le tragiche settimane seguite al primo bombardamento di Roma, Pio XII scriveva al presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt. Era una lettera dai toni imploranti in difesa di Roma e dell'Italia affinché fossero risparmiati altri lutti alle città, alle popolazioni civili, ai monumenti, alle chiese. Il documento finora inedito era custodito nell'archivio dei Cavalieri di Colombo. Lo pubblica con risalto "Il Messaggero" del 9 giugno 2010 insieme a un ampio articolo di Franca Giansoldati.

Roma risparmiata dai bombardamenti era stato il primo pensiero di Pio XII fin dal giorno dell'entrata in guerra dell'Italia, come dimostra una nota ex audientia del 10 agosto 1940, di monsignor Giovanni Battista Montini, ove risulta la raccomandazione ai rappresentanti diplomatici di Francia e Inghilterra affinché trasmettano ai rispettivi Governi di "voler rispettare Roma, in caso di guerra". Ma dal 19 luglio 1943 al 4 giugno 1944 Roma fu colpita per 51 volte:  morirono oltre tremila persone e undicimila furono i feriti.






Il 10 giugno 1940 l'Italia entrava in guerra

E il duce (abbagliato) salì sul treno in corsa


Ma "L'Osservatore Romano" mandava su tutte le furie Mussolini e i gerarchi

di Roberto Pertici

Il 10 giugno del 1940, l'Italia interrompeva la non belligeranza dichiarata il primo settembre dell'anno precedente ed entrava nel nuovo conflitto europeo. Si tratta della scelta più impegnativa e tragica che una sua classe dirigente abbia compiuto nel xx secolo, ma sul percorso che portò Mussolini e i suoi più diretti collaboratori a quel passo ancora ci si interroga. Non pochi presentano l'alleanza italo-tedesca come uno sbocco inevitabile dell'affinità ideologica dei due regimi, ma in realtà si trattò di una vicenda molto più complicata, legata a problemi geo-politici oltre che immediatamente ideologici, e che solo molto tardi giunse a un punto di non ritorno. In essa emergono nitidamente la mancanza di realismo, la sopravvalutazione del proprio peso nella politica internazionale, la colpevole sottovalutazione dell'impreparazione militare del Paese, che contrassegnarono allora la politica del duce:  limiti ancor più inescusabili in chi faceva sfoggio continuo di "realismo" e di "spirito guerriero".

L'inizio della fine fu la firma del Patto d'acciaio a Berlino (22 maggio 1939), un'alleanza militare assai impegnativa, più volte richiesta in precedenza dalla Germania. Le trattative erano state piuttosto rapide e non pienamente ponderate da parte del Governo italiano, che cercò subito di attenuare la portata del patto appena concluso:  nel documento che Mussolini fece recapitare a Hitler ai primi di giugno (il famoso "memoriale Cavallero") si escludeva infatti un impegno militare imminente da parte italiana e lo si rinviava almeno al 1942.

Il duce era convinto di avere ancora ampi spazi di manovra e di non essersi del tutto legate le mani:  accondiscendendo alla richiesta germanica, il suo scopo era probabilmente quello di "costringere" Francia e Inghilterra a una ridiscussione totale dei rapporti di forza in Europa e in Africa.

Né lui né il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano si accorsero di essere, invece, saliti su un treno in corsa, e in corsa verso la guerra. Non furono cioè in grado di valutare in tutta la sua portata la politica tedesca e le sue evidenti direttrici, credendo - al solito - di poterla condizionare e frenare, magari candidandosi ancora una volta (come nella conferenza di Monaco) al ruolo di mediatori.

Le loro illusioni si infransero il 23 agosto alla notizia del patto russo-tedesco, che suscitò rabbia e risentimento nel Governo italiano, convertendo Ciano a una tenace ostilità anti-tedesca che non lo avrebbe più abbandonato:  l'esercito russo minacciava ormai quei Balcani che l'Italia considerava da tempo una propria tradizionale zona di influenza.
È in questo contesto che nacque la decisione italiana della non belligeranza. Un funzionario del Foreign Office ne indicò acutamente il significato:  In fact they hope to win the war without taking part of it. Cercando continui contatti con gli occidentali e irritando così i tedeschi, Mussolini voleva dimostrare di essere autonomo e indipendente; ma non giunse mai a ipotizzare un rovesciamento delle alleanze, a cui invece non pochi lo esortavano. Tutt'al più puntò a una pace che prendesse atto del nuovo status quo dell'Europa orientale (quindi la finis Poloniae e le conquiste sovietiche) e che evitasse l'accendersi del conflitto sul fronte occidentale:  il presupposto di una tal politica era quindi il protrarsi della drôle de guerre al confine franco-tedesco.

Non sempre lo si tiene presente, ma nei mesi della non belligeranza il Governo italiano si impegnò in interminabili trattative soprattutto con gli inglesi:  vertevano sulla guerra economica e il blocco marittimo con cui la flotta di Sua Maestà stava paralizzando anche il commercio italiano e si trascinarono fin quasi alla vigilia della dichiarazione di guerra. Il Governo inglese si dimostrò poco propenso a fare concessioni all'Italia, non per miopia politica (come talora si è sostenuto) ma per una serie di considerazioni estremamente realistiche:  il duce - così si pensava - non poteva cambiare schieramento né restare per sempre fuori dalla guerra.

La politica italiana naufragò quando riprese la guerra di movimento:  con l'attacco tedesco alla Danimarca e alla Norvegia (9 aprile 1940) e poi alla Francia (10 maggio 1940). Le rapide vittorie tedesche ridussero drasticamente la libertà di manovra di Mussolini:  ora non era più possibile vincere la guerra senza prendervi parte, ma era necessario intervenirvi quel tanto che bastasse per sedere al tavolo della pace imminente, conducendo però un'azione militare autonoma rispetto a quella dell'alleato germanico. Insomma, i miti della "guerra breve" e della "guerra parallela", che avrebbero rivelato presto tutta la loro tragicità, costituirono come la continuazione della politica della non belligeranza.

I margini di ambiguità della politica mussoliniana in quell'inverno del 1940 erano tuttavia tali che su di essa cercarono di far leva coloro che volevano evitare l'allargamento del conflitto e quindi l'ingresso in guerra dell'Italia. Particolarmente attiva fu ancora la diplomazia vaticana guidata dal nuovo Papa Pio xii e dal suo segretario di Stato, il cardinale Luigi Maglione, che, fra l'altro, avvertivano anche i rischi che la belligeranza italiana avrebbe comportato per la Santa Sede (grave isolamento, forti e continue pressioni da parte delle potenze dell'Asse e così via). In questa azione di pace trovarono un interlocutore prezioso nel presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, che il cardinale Pacelli aveva conosciuto nel suo viaggio americano dell'autunno 1936.

Fu alla fine del 1939 che il presidente americano riuscì a superare le opposizioni del Congresso e a ristabilire - sia pure in via ufficiosa - i rapporti diplomatici con la Santa Sede:  Roosevelt considerava il Vaticano come un tramite importante per poter esercitare pressioni sul Governo italiano con una qualche possibilità di successo. Lo affermava la sua lettera a Pio xii del 23 dicembre 1939, che tuttavia non si limitava a questo:  fra le righe auspicava una collaborazione in qualche modo strategica, per ristabilire la pace e per riorganizzare il mondo del dopoguerra.

Il secondo momento dell'azione di Pio xii fu la solenne visita al Quirinale del 28 dicembre 1939 in risposta a quella che i sovrani italiani avevano compiuto in Vaticano la settimana precedente:  un passo che Pio xi, il Papa della Conciliazione, non aveva mai compiuto. Fra gli scopi di Pio xii vi era quello di far pressioni sul sovrano per il mantenimento della non belligeranza:  nel suo discorso, egli auspicò che "la pace, che, salvaguardata dalla saggezza dei Reggitori (italiani), fa grande, forte e rispettata l'Italia in faccia al mondo, diventi ai popoli, che oggi, quasi fratelli fattisi nemici, si combattono attraverso le terre, i cieli e i mari, sprone ed incitamento a future intese, le quali per il loro contenuto e per il loro spirito siano sicura promessa di un nuovo ordine tranquillo e duraturo, ordine che invano si cercherebbe fuori delle vie regali della giustizia e della cristiana carità".

Come si è accennato, fu tra il marzo e l'aprile del 1940 che Mussolini si rese conto della necessità di dare un colpo di timone alla sua politica:  la mattina del 18 marzo, al Brennero, aveva incontrato Hitler, che aveva esercitato nuove pressioni sull'alleato, e il 31 elaborava il Promemoria segretissimo 328, destinato al sovrano, ad alcuni ministri e ai vertici militari, in cui avvertiva chiaramente che "se la guerra continua, credere che l'Italia possa rimanersene estranea sino alla fine, è assurdo e impensabile".

Nella seconda metà di aprile, sia in Italia che all'estero l'intervento italiano cominciò a essere dato per imminente. Allora Pio xii volle far sentire di nuovo la sua voce. Non fu il solo:  il 22 aprile si era già mosso il nuovo presidente del consiglio francese Paul Reynaud, che in una lettera aveva chiesto al duce un incontro, avvertendo che era ancora possibile una chiarificazione fra i due Paesi, e il 29 aprile, anche su sollecitazione della Santa Sede, a Mussolini avrebbe scritto anche Roosevelt. Nella sua lettera del 24, il Pontefice formulava "il voto ardente che siano risparmiate all'Europa (...) più vaste rovine e più numerosi lutti; e in particolar modo sia risparmiato al Nostro e al Tuo diletto Paese una così grande calamità". La risposta di Mussolini fu pungente e non priva di vis polemica:  come ha notato Philippe Chenaux, sembrava quasi impartire al Pontefice una lezione di teologia morale:  "La Storia della Chiesa e Voi me lo insegnate, Beatissimo Padre, non ha mai accettato la formula della pace per la pace, della pace "ad ogni costo", della "pace senza giustizia", di una "pace" cioè che in date circostanze potrebbe compromettere irreparabilmente per il presente e per il futuro le sorti del popolo italiano".

In realtà, era dall'inizio della guerra di Norvegia che i rapporti tra la Santa Sede e il Governo italiano avevano subito un brusco raffreddamento. Fu soprattutto il tono de "L'Osservatore Romano" a infastidire Mussolini e molti dei suoi ministri:  già il 10 aprile, l'ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Dino Alfieri, aveva fatto un passo presso la Segreteria di Stato insinuando che il "pacifismo ad oltranza" del quotidiano, così contrastante con la politica del Governo tendente invece ad "animare gli spiriti e tenerli preparati per eventuali sviluppi", rispondesse a precise istruzioni dei vertici vaticani. Tassativo era stato perciò l'invito rivolto al giornale diretto da Giuseppe Dalla Torre a "moderarsi" e a essere "più imparziale".

Il 25 aprile, l'ex segretario del Pnf Francesco Giunta, in un discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, aveva parlato del Vaticano come dell'"appendicite cronica dell'Italia", e un altro gerarca di primo piano come Roberto Farinacci aveva commentato:  "Bene, bene. La Chiesa è stata la costante nemica d'Italia".

Ma fu soprattutto dopo l'attacco tedesco all'Olanda, al Belgio e al Lussemburgo che la tensione fra Italia e Vaticano giunse al massimo. Pio xii rivolse immediatamente un messaggio di solidarietà ai sovrani dei tre piccoli Stati, che suscitò ancora le rimostranze dell'ambasciatore Dino Alfieri durante la sua visita di congedo il 13 maggio 1940:  quei messaggi - egli dichiarò - erano stati causa "di vivo dispiacere per il Capo del governo, il quale vi ha ravvisato una mossa contro la sua politica" e avvertì che, dato "lo stato di grande tensione che regna negli ambienti fascisti", non era da escludere che potesse accadere "qualche cosa di grave". Pio xii rispose "di non avere alcun timore di finire, se sarà il caso, in un campo di concentramento o in mani ostili", ma "il Papa in certe circostanze non può tacere":  anzi si rimproverava di "essere stato troppo discreto e riservato di fronte a quanto era avvenuto e continua ad accadere in Polonia".

Il 12 maggio, il quotidiano vaticano pubblicava uno degli Acta diurna di Guido Gonella:  "Un conflitto crudele ha travolto nel suo turbine tre popoli che volevano la pace, che hanno lavorato per la pace. Nuove contrade sono insanguinate, nuova gioventù è chiamata al sacrificio, nuove popolazioni pacifiche e laboriose sono colpite dal furore di una guerra che si accanisce contro gli inermi e gli innocenti, contro chi ha il solo orgoglio di difendere il proprio focolare. La generosità del sacrificio è l'unica fiamma che illumina una notte così buia". Fu allora che cominciò l'attacco del Governo fascista a "L'Osservatore Romano". Lasciamo parlare lo storico inglese Owen Chadwick, che ha scritto un libro eccellente sui rapporti fra Vaticano e Gran Bretagna negli anni di guerra, basandosi sui diari dell'ambasciatore inglese Francis d'Arcy Godolphin Osborne:  "La sera del 12 maggio, i fascisti cercarono di impedire la pubblicazione.

Quando questo tentativo fallì, la polizia bloccò tutte le vendite al di fuori delle frontiere del Vaticano. I venditori dei giornali furono pestati, i chioschi furono danneggiati, i sacerdoti che camminavano per strada vennero insultati, gli acquirenti furono assaliti, gli uomini che venivano visti a leggerlo pubblicamente furono aggrediti o insultati, le borse che lo contenevano non furono fatte entrare nelle stazioni ferroviarie (...) Il blocco del giornale vaticano si stava ampliando, trasformandosi in un blocco della posta vaticana. A Messina, duemila studenti dell'università e delle superiori sfilarono per le strade cantando inni rivoluzionari fascisti e bruciarono cinquanta copie de "L'Osservatore" trovate in un chiosco". Al solito non si trattava di azioni spontanee:  il 12 maggio Mussolini aveva detto a Ciano di essere disposto a "giungere alle estreme conseguenze" e in quei giorni ripeté più volte al genero che "il Papato era il cancro che rode la nostra vita nazionale; e che lui intendeva - se necessario - liquidare questo problema una volta per tutte".

Il 15 maggio ebbe luogo un episodio non del tutto chiaro, ma che Francis d'Arcy Godolphin Osborne e l'ambasciatore francese Wladimir d'Ormesson hanno sempre dato per sicuro, narrandolo ai loro governi e poi confermandolo in successive testimonianze. Il Papa era uscito dal Vaticano in automobile per celebrare la messa in una chiesa di Roma. A un incrocio, l'auto avrebbe rallentato e sarebbe stata oggetto di varie contumelie da parte di gruppi di giovani fascisti:  "Il Papa fa schifo!", "Abbasso il Papa!". Insomma "L'Osservatore Romano" era praticamente ridotto al silenzio, il Pontefice non poteva uscire per le strade della città di cui era vescovo:  lo avrebbe fatto di nuovo solo il 19 luglio 1943, dopo il primo bombardamento alleato sulla capitale. Ma allora il contesto sarebbe stato tutto diverso.

Fu in questo clima che il Vaticano assisté all'ingresso in guerra dell'Italia. "L'Osservatore Romano" tornò a circolare a condizione che pubblicasse solo i bollettini di guerra dei Paesi belligeranti, senza commenti:  il 15 maggio Gonella pubblicava così l'ultimo dei suoi Acta diurna. Gli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia presso la Santa Sede furono accolti all'interno delle mura vaticane e quello inglese divenne un interlocutore prezioso per tutti gli anni successivi. La guerra italiana e il clima in cui fu dichiarata segnava una sconfitta per la diplomazia pontificia, sconfitta per molti aspetti inevitabile. Ma quale altra azione sarebbe stata possibile ora, in mezzo a una guerra generalizzata? Fu questo il grande interrogativo di fronte a cui si trovarono nei mesi successivi il Papa e i suoi più diretti collaboratori.


(©L'Osservatore Romano - 10 giugno 2010)




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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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21/08/2010 19:37
 
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Albert Einstein


Albert Einstein (fisico e Premio Nobel per la Fisica)


Essendo un amante della libertà, quando avvenne la rivoluzione nazista in Germania, guardai con fiducia alle università sapendo che queste si erano sempre vantate della loro devozione alla causa della verità. Ma le università vennero zittite, e non protestarono. Allora guardai ai grandi editori dei quotidiani che in ardenti editoriali proclamavano il loro amore per la libertà. Ma anche loro, come le università vennero ridotti al silenzio, soffocati nell'arco di poche settimane, e non protestarono.

Solo la Chiesa rimase ferma in piedi a sbarrare la strada alle campagne di Hitler per sopprimere la verità. Io non ho mai provato nessun interesse o stima particolare per la Chiesa prima, ma ora provo nei suoi confronti grande affetto e ammirazione, perché la Chiesa da sola ha avuto il coraggio e l'ostinazione per sostenere la verità intellettuale e la libertà morale. Devo confessare che ciò che io una volta disprezzavo, ora lodo incondizionatamente” .


(da Intervista di Albert Einstein, Time magazine, 23 dicembre 1940)


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08/01/2011 00:08
 
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Quando «L'Osservatore della Domenica»; smontò sul nascere il caso Pio XII

Il tempo svela le menzogne


Nel 2011 si celebra il centocinquantesimo anniversario del nostro giornale. Pubblichiamo uno dei saggi contenuti nel volume Singolarissimo giornale. I 150 anni dell'"Osservatore Romano" (a cura di Antonio Zanardi Landi e Giovanni Maria Vian, Torino, Allemandi & C., 2010, pagine 283, euro 30) promosso dall'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede.

di Pietro Pastorelli

Il caso Pio XII trae origine dalla rappresentazione, il 20 febbraio 1963 a Berlino Ovest al teatro "Frei Volksbühne" (trasferito da Berlino Est dove era stato chiuso), del dramma Der Stellvertreter del giovane e sconosciuto autore Rolf Hochhuth, accompagnato dalla contemporanea pubblicazione dell'opera in volume, corredata da un'appendice, intitolata Delucidazioni storiche.

Tale appendice doveva fornire allo spettatore la certezza che le parti recitate dai vari attori non erano frutto della fantasia o del genio creativo dell'autore, ma nascevano e trovavano il loro fondamento in libri di storia, diari, memorie, testimonianze postume e atti del processo di Norimberga. Essa era pertanto composta dalla riproduzione di brani, frasi, opinioni, tratte da questo materiale, e scelte in modo che risultassero utili a dare un fondamento "storico" alla sua opera.
Tutta questa fatica a quale scopo reale? Ce lo dice, nel suo stile a volte contorto, lo stesso autore nella conclusione delle sue delucidazioni storiche:  dimostrare, attraverso la triste vicenda della persecuzione agli ebrei nella Germania nazionalsocialista, cui il Papa non avrebbe pubblicamente reagito (i cosiddetti silenzi di Pio XII), che questo Pontefice, defunto ormai da cinque anni, non meritava in modo assoluto di essere beatificato.

Egli scrive infatti:  "Senza dubbio Pio XII deve aver intuito che una protesta contro Hitler, come disse rassegnato Reinhold Schneider, avrebbe risollevato la Chiesa a un livello mai raggiunto dopo il Medioevo. L'avrebbe intuito, se si fosse dato la briga di rifletterci. Se qui, nel dramma, il suo silenzio appare come una cosciente rinuncia, dolorosamente estorta (...) i fatti storici, purtroppo, parlano di un diverso e più meschino linguaggio. Questo Papa non può aver tremato e sofferto nel profondo del proprio cuore per le persecuzioni degli innocenti che si sono susseguite per tanti anni in Europa. Già i suoi discorsi - ne ha lasciati 22 volumi - dimostrano quali bagatelle lo impegnassero in quei tempi. Non era un "colpevole per ragioni di Stato", era un neutrale, un arrivista zelantissimo che impiegava spesso le sue ore con passatempi inopportuni mentre il mondo oppresso (scrive Bernard Wall) si aspettava invano da lui la parola che illumina e conforta".

E nelle ultime righe, quasi in senso fintamente assolutorio degli addetti ai campi di sterminio protagonisti dell'ultimo atto, ma anche chiaramente allusivo, si pone degli interrogativi moralistici:  "È chiaro che le grandi personalità, quelle che fanno la storia, sono poche in ogni epoca. Ma allora, fino a che punto chi resta neutrale può essere considerato colpevole? E ancora:  che cosa ci si può aspettare da un neutrale se il servizio militare obbligatorio o altre leggi analoghe lo precipitano in situazioni di cui può aver ragione solo un santo, non un uomo normale? Il rifiuto all'obbedienza, per esempio, chi può permettersi di esigerlo da un uomo che, dopo la comunione, non ha più sentito, nemmeno una volta, il bisogno di meditare sul Bene e sul Male?".

Questo violento attacco contro un probabile processo di beatificazione di Pio XII non fu immediatamente percepito dai molti commentatori dell'opera di Rolf Hochhuth, che si concentrarono a parlare dei "silenzi" di Pio XII, per sostenere la tesi che, se il Pontefice avesse pubblicamente condannato la strage degli ebrei, la Shoah, se non proprio evitata, sarebbe stata almeno contenuta, ottenendo il risultato di risparmiare centinaia di migliaia di vite umane.
A sostenere questa tesi si cimentarono pubblicisti di varia estrazione e persino qualcuno che, almeno per professione, se non per produzione, poteva definirsi storico. Il caso Pio XII toccò in Italia il suo culmine quando un professore ordinario di lingua e letteratura francese, Carlo Bo, rettore dell'università di Urbino e famoso intellettuale di estrazione cattolica, sostenne, con la sua autorità, la validità storica dell'accusa. Scriveva il professor Bo nella prefazione alla traduzione italiana, intitolata Il Vicario:  "Lo scrittore per poter far questo processo generale non si è limitato a giocar di polemica o a servirsi di ideologie ma ha cercato di documentarsi e il dramma si presenta appunto con tutta una appendice di riferimenti e indicazioni. Naturalmente la documentazione che Hochhuth ha potuto allegare è una documentazione imperfetta, dal momento che l'accesso a certi archivi gli è stato negato. Ad ogni modo quello che ha potuto scoprire è sufficiente per dare al suo dramma un piedistallo di credibilità che, del resto, è suffragata da quello che ognuno di noi sa ormai da molti anni, da quando la fine della guerra ha lasciato intravedere il volto mostruoso dell'uomo diventato macchina di morte e di distruzione".

E così proseguiva:  "Hochhuth indica i responsabili diretti che appartengono alla politica, all'esercito, all'industria e porta sulla scena quelli che, a suo giudizio, sono se non proprio i responsabili indiretti, i complici passivi della vergogna nazista e fra questi la figura più alta per l'impegno morale della sua carica, Pio XII".
E più avanti concludeva:  "Un Papa che misura il suo silenzio è un Papa che si adatta a una società che da troppo tempo è stata abituata a non tenere conto della verità del Vangelo e che ha lasciato crescere l'erba degli interessi immediati sul tronco stesso dell'uomo".

Resta da dire, per completare l'esposizione del caso Pio XII, che quanto scritto da Carlo Bo era condiviso o, meglio, rispecchiava l'opinione di una precisa corrente dei cattolici italiani, soprattutto di quelli impegnati in politica quali autorevoli membri del loro partito, che rimproveravano a Pio XII non i silenzi, ma la politica anticomunista da lui seguita nel dopoguerra, ed erano quindi anch'essi contrari all'avvio di un processo di beatificazione di Papa Pacelli, che sarebbe venuto a incrinare le loro prospettive politiche.
E passiamo al giornale della Santa Sede di fronte al caso Pio XII. "L'Osservatore Romano della Domenica" del 28 giugno 1964 uscì con il titolo Il Papa ieri e oggi, spiegato alla fine dell'ultima pagina da una nota redazionale firmata dal direttore, il giornalista Enrico Zuppi. In essa Zuppi spiegava che la composizione di quel numero, in certo senso speciale per un settimanale illustrato, era stata decisa, molto affrettatamente, "solo per la monotona insistenza di una polemica scorretta e sostanzialmente rivolta a colpire non tanto gli uomini quanto la vitalità della Chiesa. (...) Abbiamo sentito ridestarsi - con la veemenza di un tempo - l'amore riconoscente verso il Pontefice dei nostri anni più impegnati e più densi di sofferenze, di timori, di speranze e di incertezze, soprattutto nei primi passi di un nuovo corso dei tempi".

Per molti anziani, proseguiva la nota, "la presente documentazione può sembrare superflua", poiché "hanno ancora nel sangue la febbre di quei giorni", e anche perché "ci è stato detto:  la storia lascia cadere le stagionali polemiche, violente che siano. La storia macera inesorabilmente le menzogne, gli errori, ripetuti in malafede per fini contingenti, le aberrazioni di chi cerca di costituirsi un alibi".
Tutto questo è vero, osservava Zuppi, "ma le scadenze della storia si misurano con decenni e la pazienza dei secoli, ora ci sono i giovani che propendono nella eresia che la storia va interpretata, che giudicano il passato con un distacco e una freddezza che ci fanno soffrire perché offendono quello che ieri ci è costato lacrime e sangue". Oltre questi giovani, concludeva la nota, "ci sono poi gli sprovveduti di senso critico, gli impressionabili, i deboli che subiscono le suggestive insinuazioni che si imprimono nella molle cera della loro intelligenza".

Per tutti questi destinatari quel numero dell'"Osservatore della Domenica" raccoglieva in ottanta pagine, appunto sul Papa ieri e oggi, una serie di testimonianze che, a differenza di quelle inserite nelle delucidazioni storiche di Hochhuth, non consistevano in frasi staccate dal contesto con la tecnica eufemisticamente chiamata, dagli storici revisionisti americani, delle serial quotations, ma erano brevi testimonianze, responsabilmente scritte e firmate dai loro autori, a eccezione della prima, costituita dalla riproduzione del brano di un discorso tenuto nel 1960 ad Assisi da Giovanni Battista Montini, allora arcivescovo di Milano. Perché mai questa eccezione? Non si sfugge alla conclusione che Montini abbia voluto dare il suo imprimatur a quel numero dell'"Osservatore della Domenica", che usciva esattamente un anno dopo la sua ascesa al soglio pontificio con il nome di Paolo VI.

Nelle ottanta pagine della rivista si succedevano testimonianze e scritti su Eugenio Pacelli, dalla Prima guerra mondiale alla conclusione della Seconda. Insomma, una panoramica quasi completa di quanto egli aveva detto e fatto, in tanti momenti cruciali, in particolare nel campo dell'assistenza morale e materiale a quanti ne avevano bisogno durante l'ultimo conflitto mondiale. Non sono in grado di citarli tutti per motivi di spazio. Mi limiterò a ricordarne solo alcuni che a me personalmente sono apparsi molto significativi per contenuto o per firma.
Padre Angelo Martini ricordava Pacelli messo di pace di Benedetto XV, e padre Georges Jarliot trattava il tema della pace, estendendo il discorso sino alla scomparsa di Pio XII, per concludere che, dai suoi atti, "abbiamo disponibili tutti gli elementi di Pacem in terris:  chiara, maestosa e popolare sintesi che Giovanni XXIII lascerà al mondo prima di morire".

Ricordo poi lo scritto di Luigi Salvatorelli intitolato Il Pontificato romano di fronte alle due guerre e ai regimi totalitari, e quello di padre Robert Leiber sul Concordato con la Germania stipulato dal cardinale Pacelli. Ma ciò che più mi ha colpito, per il periodo prebellico, è stata la nota redazionale sulla preparazione della Mit brennender sorge, l'enciclica del 1937 di condanna del nazionalsocialismo (che nessuno dei critici ha mai menzionato), con la riproduzione di un brano di essa recante le correzioni di mano di Pacelli sulla bozza dattiloscritta. Due scritti, di Giuseppe De Marchi e di Gianluca André, riportavano il lettore agli eventi della vigilia della Seconda guerra mondiale, premessa del "monito estremo" di Pio XII del 24 agosto 1939 per scongiurarla. Il direttore dell'"Osservatore Romano", Raimondo Manzini, scriveva sul tentativo di Pio XII "ancora nel 1943 di trarre l'Italia dal disastro" e Piero Bargellini, nell'unica testimonianza polemica, scriveva su "la pretesa di voler insegnare al Vicario di Cristo come Egli debba parlare e come Egli debba agire", che è "tipica di coloro che non lo vogliono né ascoltare né seguire".

Con toni meno polemici toccava lo stesso tema Federico Alessandrini, illustrando quanto Pio XII aveva detto e fatto "per la dignità dell'uomo e per la libertà dei popoli". E Wladimir d'Ormesson sottolineava poi il carattere strumentale della polemica sollevata dal Vicario. A lui si affiancava sullo stesso argomento padre Riquet, un reduce dai campi di concentramento tedeschi.
Tra gli scritti che mi hanno più interessato cito ancora quello di Giuseppe Dalla Torre, che è la ripubblicazione di un suo articolo sul diritto di asilo, significativo perché è del 1943; e la testimonianza dell'israeliano Pinchas Lapide sull'azione svolta dal Papa in favore degli ebrei, tema che trattano anche il rabbino capo di Roma, Elio Toaff, e Raffaele Cantoni, Presidente del Comitato di Assistenza per gli ebrei d'Italia.

Il contributo del Cantoni, come la rivista chiariva nel titolo, era la riproduzione del suo intervento alla tavola rotonda organizzata dai laureati cattolici di Roma sul problema delle persecuzioni razziali. A essa era intervenuto anche il professor Mario Toscano, invitato da quelli di loro che l'avevano conosciuto all'università come storico serio e rigoroso, con una relazione intitolata La Santa Sede e le vittime del nazismo, anch'essa trasmessa alla rivista, che la pubblicava a fianco di quella del Cantoni.
Il contributo di Toscano non era quindi una testimonianza, come quasi tutti gli altri scritti precedentemente ricordati. Era una relazione scientifica su quel tema basata sul materiale pubblicato nelle raccolte diplomatiche tedesca, italiana e statunitense, negli atti del processo di Norimberga ai grandi criminali nazisti, nella raccolta documentaria presentata a quel processo dal procuratore statunitense, e infine sulla documentazione in argomento pubblicata in due numeri della "Civiltà Cattolica" del 1961.

Sono in grado di fare queste precisazioni perché ho ritrovato l'originale manoscritto di quella relazione, che è più esteso del testo pubblicato, tagliato in alcuni punti per esigenze di impaginazione e privato delle note indicanti le fonti. Peccato, perché, corredato da queste e nel suo testo integrale, sarebbe risultato un modello esemplare di relazione scientifica, nella quale non era naturalmente trascurato il problema dei "silenzi di Pio XII".

Non è questo il luogo per riprodurla nella versione originale. Basti citarne l'ultima frase. Scriveva Toscano:  "Per concludere, pur non potendosi esprimere un giudizio definitivo su questi silenzi, che tuttavia sembrano spiegabili proprio per le ragioni addotte dallo stesso Pontefice nel suo discorso del 2 giugno 1943, richiedendosi un maggior approfondimento del problema sui documenti, si può invece fin da ora considerare positivamente, per i suoi risultati, l'azione svolta dalla Santa Sede nei confronti delle vittime del nazismo".
Affidandomi l'originale della sua relazione, il professor Toscano mi riferì che essa aveva trovato un larghissimo consenso nella discussione e che egli, nelle conclusioni del dibattito, aveva tenuto a sottolineare come, a suo giudizio, il miglior modo per controbattere le polemiche e provare l'infondatezza delle accuse rivolte a Pio XII sarebbe stato la pubblicazione dei documenti della Santa Sede sul periodo bellico.

Sia che Papa Montini abbia preso in considerazione tale suggerimento sia che già per suo conto si fosse orientato in questo senso, pur conscio che si trattava di cosa senza precedenti in quanto avrebbe contenuto materiale riguardante personalmente lui stesso essendo stato sostituto del cardinale Maglione alla Segreteria di Stato e, dopo la morte di questi, prosegretario di Stato per gli affari straordinari, certo è che Paolo VI decise di far pubblicare una grande raccolta documentaria sulla Santa Sede e la Seconda guerra mondiale iniziando dall'elezione, di soli sei mesi anteriore, del cardinale Pacelli al pontificato.

Questa decisione fu rapidamente attuata. Già nel dicembre del 1965 usciva il primo volume degli Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale. Nell'Avant-propos - il francese è la lingua di edizione, ma tutti i documenti sono pubblicati nella loro lingua originale - i tre curatori gesuiti (Pierre Blet, Angelo Martini e Burkhard Schneider, cui si aggiunse dal terzo volume un altro confratello, padre Robert Graham), ricordato che "per favorire una ricerca obiettiva e una vera comprensione degli eventi, un certo numero di Stati hanno fatto eccezione alla regola che mantiene segreti i documenti diplomatici finché non siano trascorsi cinquant'anni", scrivevano:  "La Santa Sede ha voluto parimenti dare alla conoscenza della seconda guerra mondiale il contributo degli archivi vaticani. La presente collezione, che è scaturita da questa decisione, ha per tema la Santa Sede e la seconda guerra mondiale. Intende pubblicare tutti i documenti in grado di chiarire la posizione e l'azione del Vaticano di fronte al conflitto".

Quanto al tipo di documentazione pubblicato, i curatori avvertivano che essa era raggruppabile in cinque categorie:  i messaggi e i discorsi del Papa (con molti originali in facsimile); le lettere scambiate fra il Papa e i dignitari civili ed ecclesiastici; le note di servizio e quelle private della Segreteria di Stato; la corrispondenza tra la Segreteria di Stato e i nunzi, gli internunzi e i delegati apostolici; le note scambiate tra la Segreteria di Stato e gli ambasciatori e ministri accreditati presso la Santa Sede.

E questa è la suddivisione temporale e per argomento di tale materiale. I volumi i (1965) e iv (1967) hanno come sottotitolo Le Saint Siège et la guerre en Europe e comprendono la documentazione relativa al periodo tra il marzo del 1939 e il giugno del 1941. Il volume ii (1966) contiene le lettere di Pio XII ai vescovi tedeschi, mentre il iii (1967), in due tomi, è dedicato alla documentazione relativa alla Santa Sede di fronte alla situazione religiosa in Polonia e nei paesi baltici. I volumi v (1969), vii (1973) e xi (1989) hanno per sottotitolo Le Saint Siège et la guerre mondiale e contengono quindi il materiale generale delle categorie su indicate per il periodo tra il giugno del 1941 e il maggio del 1945. Infine, i volumi vi (1972), viii (1974), ix (1975) e x (1980) contengono la documentazione di ciò che la Santa Sede ha detto e fatto per les victimes de la guerre dal marzo del 1939 al luglio del 1945.

Come appare dalle date di pubblicazione di ciascun volume, Papa Montini non riuscì a vedere pubblicati, durante il suo pontificato, tutti gli undici volumi di questa grande raccolta, ricca di più di cinquemila atti e documenti.
Ma da quelle date si può anche osservare che, quando ebbero visto la luce i primi quattro, Papa Montini dette inizio, il 18 ottobre 1967, al processo per la causa di beatificazione di Pio XII. La pubblicazione in corso permetteva infatti di smentire, più che ampiamente, le accuse a lui rivolte e, in misura anche superiore, il "piedistallo di credibilità" su cui era costruito il dramma di Hochhuth, confermando la piena validità delle testimonianze presentate dall'"Osservatore della Domenica" del 24 ottobre 1964.

Da allora la fioritura di scritti polemici cominciò ad attenuarsi, fino a cessare quasi del tutto. Non si ebbe invece una parallela crescita degli studi basati anche su quella documentazione. Perché mai? Costava forse troppa fatica studiare quella massa di materiale, o forse la sua utilizzazione portava a conclusioni poco gradite da talune correnti storiografiche anche di ispirazione cattolica? Non vado oltre questi mesti interrogativi. Mi pare però opportuno ricordare che, dopo una mia relazione del 1983 su Pio XII e la politica internazionale, fondata su tale documentazione, da questa sono derivati due ottimi studi, l'uno su Pio XII e l'Italia durante la Seconda guerra mondiale, e l'altro su Pio XII e la Polonia (1939-1945), che sono un'eccellente dimostrazione di quanto questa fonte sia utile per fare storia sul periodo bellico.

Nonostante il limitato profitto tratto dagli studiosi dall'ingente quantità di materiale messa a loro disposizione dagli Actes et documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale per poter meglio conoscere almeno un periodo della vita pastorale di Pio XII, quello che era apparso il più controverso, la causa di beatificazione di quel Pontefice proseguì, sia pure a ritmi forse più lenti del consueto, e venne a incrociarsi con la politica orientale della Santa Sede, la cosiddetta Ostpolitik, mirante ad alleviare le difficilissime condizioni in cui viveva la Chiesa nei paesi dell'Europa orientale al di là del "sipario di ferro", quella correntemente chiamata la "Chiesa del silenzio".
Tale politica era stata avviata da Papa Giovanni XXIII - quell'Angelo Roncalli che di Pio XII era stato vicino collaboratore quale delegato apostolico o nunzio in Grecia, Turchia e Francia - negli ultimi mesi di vita, mentre era in pieno svolgimento il concilio Vaticano ii. Era stata poi proseguita da Papa Montini, non solo stretto collaboratore di Pio XII fino al 1954, ma anche suo vero erede spirituale, con le missioni affidate all'intelligenza e alla pazienza di monsignor Agostino Casaroli. E aveva infine dato i suoi copiosi frutti con l'elezione al soglio pontificio, nell'ottobre del 1978, del polacco Karol Wojtyla, che di quella politica doveva poi pagare personalmente il successo con l'attentato subito il 13 maggio 1981.

La successiva crisi, dalla metà degli anni Ottanta, del sistema comunista e la sua definitiva scomparsa, avvenuta ufficialmente il 31 dicembre 1991, non per effetto di sconfitte militari ma per cause interne di natura ideologica, politica ed economica che ne avevano determinato il fallimento, ha anche fatto del tutto svanire l'accusa di anticomunismo che era stata mossa a Pio XII per il suo atteggiamento verso il mondo orientale nella seconda parte del suo pontificato, del tutto coerente con l'enciclica Divini redemptoris di condanna del comunismo, coeva della già citata Mit brennender sorge.

Dal tempo del Vicario tanti anni sono trascorsi, tanti eventi e tanti documenti hanno smentito la tesi del suo autore. Tuttavia, di quel "piedistallo di credibilità" restava la convenienza, in specie per una parte del mondo tedesco, di liberarsi della responsabilità dell'olocausto, scaricandola sulle spalle di Pio XII per via dei suoi cosiddetti silenzi. Occorreva dunque far conoscere meglio il personaggio, in forma semplice e da tutti comprensibile e non attraverso ponderosi studi o astruse biografie.
È quello che ha fatto Benedetto XVI, accogliendo e promuovendo l'iniziativa del Pontificio Comitato di Scienze Storiche che, in occasione del cinquantesimo della sua scomparsa, ha allestito una mostra fotografica su Pio XII, che, attraverso le immagini, corredate da brevi testi illustrativi, ha fornito un quadro, direi vivente, dell'uomo e del suo pontificato. Per il visitatore che avesse voluto conservare precisa memoria di quanto visto, il Comitato ha predisposto un catalogo comprendente tutti i "pannelli" esposti e brevi scritti che sintetizzano gli aspetti fondamentali della sua vita pastorale. La mostra si è aperta il 4 novembre 2008 in Vaticano, nel cosiddetto Braccio di Carlo Magno del colonnato di San Pietro. Con il catalogo interamente tradotto in tedesco e con l'aggiunta di altri due testi illustrativi aventi per tema specifico l'uno Der Nuntius, die Deutschen und der Papst e l'altro Papst Pius XII und Berlin, la mostra è stata poi trasferita, all'inizio del 2009, a Berlino e a Monaco di Baviera, incontrando anche qui grande favore.

Il 19 dicembre 2009 Benedetto XVI ha concluso positivamente con suo decreto la causa di beatificazione di Pio XII. Tale conclusione è naturalmente dispiaciuta agli oppositori, che hanno dato sfogo al loro malumore cercando di riportare in scena Il Vicario per rilanciare la polemica sui silenzi di Pio XII.
Lo hanno fatto in teatri minori e con giovani attori, fornendo in tal modo, senza rendersene conto, una ulteriore testimonianza della sconfitta subita.
Nessuna eco ha infatti suscitato questo improvvisato tentativo di revival.

Questa breve esposizione mirante a inquadrare storicamente il contributo dato dal quotidiano della Santa Sede nella vicenda del Vicario ha qui naturalmente termine. Come conclusione mi pare si possa ben dire che il numero dell'"Osservatore della Domenica" del 24 ottobre 1964 non solo ha rappresentato una significativa svolta della vicenda, ma è stato anche foriero di tanti importanti sviluppi.


(©L'Osservatore Romano - 7-8 gennaio 2011)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Le carte del visitatore apostolico Giuseppe Ramiro Marcone
rivelano l'impegno della Santa Sede in aiuto degli ebrei perseguitati dai nazisti

Missione in Croazia per conto di Pio XII


 

di GIOVANNI PREZIOSI

Mentre sul continente europeo divampava il secondo conflitto mondiale, merita un'attenzione particolare la missione svolta dall'abate benedettino di Montevergine, monsignor Giuseppe Ramiro Marcone che, nell'estate del 1941, fu inviato dalla Santa Sede presso l'episcopato croato, in qualità di visitatore apostolico per tutelare gli interessi cattolici in quel Paese, senza trascurare - tuttavia - neanche i normali rapporti con il Governo del nuovo Stato balcanico nato l'11 aprile 1941 dalla dissoluzione del Regno di Jugoslavia.

Il 13 giugno 1941, su proposta del segretario di Stato della Santa Sede, cardinale Luigi Maglione, giunse l'investitura ufficiale da parte di Pio XII, che lo incaricò di recarsi nello Stato indipendente di Croazia in qualità di rappresentante papale con la missione di "Visitatore Apostolico presso l'episcopato croato". Il presule benedettino, il 23 giugno successivo, si precipitò a Roma dove fu investito ufficialmente della missione dal Santo Padre in persona, come si evince da una nota autografa dello stesso abate Marcone in cui afferma: "Oggi, 23 giugno 1941, alle ore 13 sono stato ricevuto dal Card. Maglione. Mi ha detto che la S. Sede non può riconoscere il regno di Croazia, se non dopo la guerra per ovvie ragioni. Ciò posto, essa non può inviare a Zagabria un suo rappresentante ufficiale. Dall'altro lato gli interessi religiosi di quella nazione richiedono un rappresentante della S. Sede ufficioso, sotto il nome di Visitatore Apostolico".

Difatti, come si evince chiaramente anche dalle minuziose istruzioni impartite dal segretario di Stato della Santa Sede, la missione dell'abate Marcone aveva: "un fine del tutto spirituale e religioso (...) Da ciò consegue che il Rev.mo Abbate Marcone soggiornando nel Regno di Croazia, (...) si studierà di evitare contatti ufficiali con le Autorità governative, in modo tale che la sua missione sia ed apparisca, com'è desiderio della Santa Sede, di natura strettamente religiosa. (...) In particolar modo il Rev.mo Prelato consiglierà e sosterrà Monsignor Stepinac e l'Episcopato nel combattere i funesti influssi che potrebbero esercitare nell'organizzazione del nuovo Stato la propaganda neopagana".
A distanza di sole tre settimane dal suo arrivo, il solerte visitatore apostolico già fece pervenire alla Santa Sede una dettagliata relazione nella quale descriveva, con dovizia di particolari, la precaria condizione nella quale versavano gli ebrei in Croazia.
La replica della Curia romana non si fece di certo attendere, tant'è che il 3 settembre successivo, gli giunse una lettera della Segreteria di Stato nella quale erano contenute precise direttive a cui l'inviato del Papa doveva attenersi scrupolosamente. Si leggeva, infatti: "si raccomanda moderazione riguardo al trattamento degli ebrei che risiedono nel territorio Croato".

In realtà, come scrive nella cronaca don Giuseppe Masucci, già a partire dal 10 febbraio 1942, l'abate Marcone era stato sollecitato a intervenire, con una certa celerità, presso le competenti autorità ustaša per perorare la causa degli ebrei che stavano per essere avviati verso i campi di concentramento, preludio alla scellerata "soluzione finale del problema ebraico". Questo provvedimento era stato preso su pressione dei nazisti i quali, attraverso il maggiore delle S.S. Hans Helm, avevano proposto di trasferire i prigionieri ebrei nei campi tedeschi dell'est.
Il capo della Polizia dello Stato indipendente di Croazia, Eugen "Dido" Kvaternik, naturalmente, fu subito d'accordo, tanto che non ci pensò due volte ad arrestare gli ebrei e condurli nei campi di sterminio nazisti orientali. Come vile contropartita i tedeschi permisero al Governo croato di incamerare tutte le proprietà degli ebrei deportati, i quali furono barattati per trenta marchi cadauno. Il capitano delle S.S., Franz Abromeit, fu inviato in Croazia per soprintendere alle operazioni di trasferimento dei 5.500 ebrei, i quali - tra il 13 e il 20 agosto 1942 - furono prelevati dai campi di concentramento croati e caricati su ben cinque treni per essere destinati ad Auschwitz.

Seriamente preoccupato dal precipitare degli eventi, nel tardo pomeriggio del 10 febbraio 1942, il rabbino capo di Zagabria Miroslav Shalom Freiberger, decise di rivolgersi immediatamente all'inviato del Papa. Scrive, infatti, nella cronaca il suo segretario don Giuseppe Masucci: "Il caporabbino dr. Freiberger alle 18 mi si presenta tutto trafelato e mi comunica che la città è piena di manifesti annunzianti la presentazione alla polizia di tutti gli ebrei, senza alcuna distinzione. Gli rispondo che l'indomani avrei chiesto di parlare col Capo della Polizia chiedendo spiegazioni a riguardo. Soggiunse che il caso era molto urgente, perché nella notte avrebbero già arrestati tutti. Allora telegraficamente chiesi a Dido [Eugen Kvaternik] di avere una cosa oltre modo urgente da discutere con lui e che non c'era tempo da perdere; mi dice che potevo andare alle 19. Alle 19 infatti fui da lui e a lungo parlai, implorai, pregai per questi disgraziati ebrei. Feci presente che i matrimoni misti non debbono più considerarsi come ebrei, ma come facenti parte della Chiesa Cattolica". Il capo della Polizia - si legge ancora - "fu abbastanza pensoso e subito diede ordine di pubblicare sui giornali che quanto recavano e già affisso i manifesti restava abrogato. Che in ogni caso tutti gli ebrei congiunti in matrimonio misto non dovessero ulteriormente essere molestati, anzi di concedere subito la libertà a quei tali, che erano ancora vivi nei campi di concentramento".

Pertanto, in ossequio alle direttive impartite dalla Santa Sede, avvalendosi della preziosa collaborazione del signor Théodore Schmidlin, del Dipartimento politico federale della Croce Rossa Internazionale, e del primate croato Stepinac, l'abate Marcone, in seguito, si prese la briga di organizzare persino il trasporto di un piccolo gruppo di bambini ebrei - tra cui vi era anche il figlio del rabbino capo di Zagabria - che, attraverso l'Ungheria e la Romania, furono condotti al sicuro nella neutrale Turchia.

In segno di gratitudine per i soccorsi prestati, il rabbino Freiberger, il 4 agosto 1942, fece pervenire al Pontefice un'accorata lettera con la quale esprimeva la sua più profonda gratitudine per l'abnegazione mostrata da tanti religiosi cattolici verso gli ebrei, auspicando che il Vaticano proseguisse in questa direzione. "Pieno di rispetto - scriveva - oso comparire dinanzi al trono di Vostra Santità per esprimervi come Gran Rabbino di Zagabria e capo spirituale degli ebrei di Croazia la mia gratitudine più profonda e quella della mia congregazione per la bontà senza limiti che hanno mostrato i rappresentanti della Santa Sede e i capi della chiesa verso i nostri poveri fratelli".

Monsignor Marcone, scriveva in merito il suo segretario, "si sforzò di essere un elemento di equilibrio, di distensione e di pace (...). Con tutti difese i diritti della persona umana e quelli della religione (e soprattutto nella persecuzione contro gli ebrei) si rivelò il loro appassionato difensore. Molti ne sottrasse alla forca; molti istradò per regioni più pacifiche; molti beneficò anche materialmente. E di questo diuturno intervento gli furono sempre profondamente riconoscenti". Difatti, in più di una circostanza, non esitò a interporre i suoi buoni uffici presso le autorità governative per perorare la causa degli ebrei che, proprio in quel periodo, stavano subendo ignobili ed efferate vessazioni ad opera degli ustaša nei vari campi di concentramento.

Il 5 febbraio 1942, l'abate Marcone riuscì a farsi ricevere dal capo dell'Ufficio ordine e sicurezza, Eugen Kvaternik, ed espose, senza alcuna reticenza, l'idea che si era fatto del modus operandi degli ustaša, soprattutto nei confronti degli ebrei. In una nota scritta di suo pugno proprio in questa circostanza difatti leggiamo: "L'idolatria della forza è purtroppo un morbo che si ripete nella storia delle aberrazioni umane; ma quello che si dice verificarsi quotidianamente tra il popolo croato contro gli ebrei è qualche cosa di veramente spaventevole. Per questi poveri disgraziati non si adopera più che la forza brutale, senza alcun rispetto alla giustizia. Si entra nelle loro abitazioni, spesso lussuose, si occupa tutto, come roba di nessuno ed i miseri figli di Israello vengono, alle volte mezzo ignudi, trasportati come esseri pericolosi, nei campi di concentramento. (...) Il 5 febbraio 1942 fui ricevuto dal Kvaternik. Il giovane ustaša (conta 32 anni) mi venne incontro pieno di gentilezze e modi garbati. Dopo i soliti convenevoli mi invitò a sedere dicendomi: "Se siete venuto come amico Vi prego di dirmi tutto quanto sapete sul mio conto".

Io, che anche senza tale invito, avevo tutta l'intenzione di rimproverargli il suo barbaro modo di fare, col coraggio, di cui sono capaci solo i Ministri di quel Dio che vuole dai suoi seguaci la difesa della giustizia e della carità; ecco gli parlai: "Ho già conosciuto vostro padre e, più di una volta ho avuto occasione di parlare con lui, che mi sembra un buon cattolico, tanto diverso da voi... Eppure dice un proverbio "buon sangue non mente". Voi purtroppo siete quell'eccezione che è sempre necessaria per confermare la regola... Ma è mai possibile che possiate vivere e dormire tranquillo dopo tanti e tanti efferati crimini che gravitano sulla vostra coscienza e che continuamente gridano vendetta al cospetto di Dio, giustissimo Giudice? Vi chiamano, anche in Italia, ove il vostro nome obbrobriosamente si spande e che si pente tanto di avervi, come a tutti gli esuli e gli infelici, aperto le braccia nel tempo del vostro esilio, vi chiamano, dico, il sanguinario, e, se è vero, come pare, quanto si dice di voi, voi, se non avete superato, certo molto bene avete eguagliato quel mostro umano: Nerone"".
Difatti, come scriveva egli stesso al termine della sua missione: "L'opera mia nel campo civile ebbe dei discreti risultati nella persecuzione contro gli ebrei. Salvai per lo meno i matrimoni misti, alleviai le sofferenze dei campi di concentramento a tanti infelici. Per una ventina di casi ho ottenuto la commutazione della pena capitale".

Quando poi circa 3.000 ebrei si insediarono nella zona italiana, il solerte visitatore apostolico immediatamente mise al corrente dell'accaduto la Santa Sede, che subito si attivò per contattare Mussolini il quale, grazie a questo interessamento, accordò il permesso agli ebrei di restare nel luogo dove si erano installati. Tuttavia, a distanza di alcuni mesi, le relazioni italo-tedesche in materia antisemita si arroventarono, in particolare dopo il 17 agosto del 1942 allorché, su esplicita richiesta dell'ambasciata tedesca di Roma, il duce si vide intimare la consegna degli ebrei che stazionavano nella zona di occupazione italiana della Jugoslavia e così, messo alle strette, il 21 agosto successivo Mussolini si lasciò coinvolgere nella dissennata politica delle deportazioni concepita da Hitler, dando il proprio assenso a questa operazione, pur sapendo il triste destino a cui andavano incontro gli ebrei croati.

Tuttavia, in seguito all'armistizio siglato dal governo Badoglio con gli alleati, la posizione dell'abate Marcone cominciò a diventare preoccupante; difatti durante la notte del 9 settembre, si verificò un episodio sconcertante, che vide per protagonista, suo malgrado, proprio il presule benedettino. In sostanza avvenne che, mentre si procedeva all'arresto degli ufficiali italiani e degli altri militari e civili, si cercò di estendere questa misura restrittiva finanche nei confronti dell'inviato del Papa. Il giorno dopo, tuttavia, le autorità governative croate si resero conto dell'abbaglio e subito si precipitarono dall'abate, guidati dal ministro degli Esteri Mile Budak per porgergli le scuse ufficiali a nome del Governo.

Il 7 maggio 1945, con il precipitare degli eventi, in seguito all'avvicinarsi dell'esercito popolare di liberazione capeggiato dal maresciallo Tito, anche Ante Paveli? fu costretto a lasciare precipitosamente la città preceduto dai suoi ministri, dagli alti gerarchi e dalla Polizia. Così, in una città deserta, alle ore 15 del giorno successivo, fecero ingresso a Zagabria le truppe titine.

A quel punto anche la situazione dell'inviato del Papa incominciava a farsi davvero critica; difatti, il 16 maggio fu arrestato, nella sua abitazione, il primate croato monsignor Stepinac che, tuttavia, fu rilasciato alle dieci in punto del 3 giugno successivo. La missione del visitatore apostolico in terra croata, pertanto, si concluse ufficialmente il 10 luglio del 1945 allorché, accompagnato dal segretario dell'arcivescovo Stepinac, padre Stjepan Lackovi?, fece ritorno in Italia, recandosi dapprima, il 15 luglio, presso la Segreteria di Stato, dopodiché - il 23 luglio - fece visita al ministro degli Affari esteri Alcide De Gasperi, prima di far definitivamente ritorno a Montevergine, dove giunse il 24 luglio successivo.

Da quel momento in poi, infatti, non fu più in grado di rimettere piede a Zagabria, in quanto il passaporto fu sequestrato dal consolato jugoslavo a Roma.



(©L'Osservatore Romano 10 agosto 2011)

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Pio XII restituito alla Storia. Modificata la didascalia al museo di Yad Vashem

di Maurizio Fontana (L'Osservatore Romano, 2-3 luglio 2012).
(sottolineato nostr0).

Modificata la didascalia al museo di Yad Vashem - Pio XII restituito alla Storia

«Finché tutto il materiale rilevante non sarà disponibile agli studiosi, questo tema resterà aperto a ulteriori indagini» è forse questa, tra le righe, la novità sostanziale di un cambiamento che in poche ore ha fatto il giro del mondo. Il museo di Yad Vashem dedicato alla storia della Shoah ha infatti sostituito la controversa didascalia posta sotto la foto di Pio XII, un testo che definiva «ambiguo» il comportamento del Papa di fronte allo sterminio degli ebrei.

Il 1° luglio il sito del museo ha annunciato che «di recente, seguendo le raccomandazioni dell'Istituto internazionale per la ricerca sull'Olocausto dello Yad Vashem, è stato aggiornato il pannello relativo alle attività del Vaticano e di Papa Pio XII nel periodo bellico. Tale aggiornamento rispecchia le ricerche compiute negli ultimi anni e presenta un quadro più complesso rispetto a quello precedente. Contrariamente a quanto riportato -- sottolinea il comunicato -- la modifica non è il risultato di pressioni esercitate dal Vaticano».
E così il pannello innanzitutto cambia titolo: non più «Pio XII e l'Olocausto» ma «Il Vaticano e l'Olocausto» e nelle prime righe, a proposito del concordato tra Santa Sede e Germania del 1933, mentre prima si affermava che esso «significò riconoscere il regime razzista nazista», ora si legge che "il cardinale Eugenio Pacelli, segretario di Stato, firmò il concordato «al fine di preservare i diritti della Chiesa cattolica in Germania».

La nuova didascalia sottolinea che «la reazione di Pio XII, Eugenio Pacelli, all'assassinio degli ebrei durante l'Olocausto è oggetto di controversia tra gli studiosi». La differenza di prospettiva è sostanziale.
La controversia sul ruolo del Pontefice durante le persecuzioni naziste nei confronti degli ebrei è ancora lungi dall'essere chiusa. Ma il passaggio è di quelli da segnalare come qualitativamente rilevanti. Dal terreno dell'ideologia sembra che si riesca passare a quello della valutazione storica: «Nel corso degli ultimi anni -- si legge infatti nel comunicato del museo -- nuove ricerche, basate in parte sull'apertura di raccolte d'archivio come quelli di Pio XI (fino al 1939), ma anche su altre informazioni, comprese quelle presentate durante l'iniziativa accademica internazionale “Pope Pius XII and the Holocaust. Current State of Research” che si è svolta a Yad Vashem nel 2009 [degli atti di questo convegno è imminente la pubblicazione], hanno chiarito alcune questioni, lasciandone però aperte molte altre. Solo quando si potrà disporre di tutto il materiale sarà possibile avere un quadro più chiaro (...) Lo Yad Vashem attende con ansia il giorno in cui gli archivi vaticani saranno aperti ai ricercatori, di modo che si possa giungere a una comprensione più chiara degli eventi».
Si restituisce, quindi, valore primario ai fatti, ai documenti, alle testimonianze. Per questo si è adoperato a lungo, con fermezza e rispetto, il nunzio apostolico in Israele e Cipro, l'arcivescovo Antonio Franco, e per questo ha lavorato negli ultimi anni anche «L'Osservatore Romano» cercando di recuperare voci, ricordi, sensazioni, fatti dalla memoria dei sopravvissuti e dagli archivi con lo scopo di offrire testi e documenti nuovi alla valutazione degli storici. Un impegno che ha suscitato molto interesse su più fronti, come ha mostrato l'iniziativa di un'importante editore italiano che ha voluto raccogliere in un volume parte dei contributi pubblicati sul nostro giornale (In difesa di Pio XII. Le ragioni della storia, Venezia, Marsilio, 2009, pagine 168, euro 13).

«Il pannello -- si legge sul sito di Yad Vashem -- indicava che la reazione di Pio XII era una questione controversa. Alcuni visitatori non capivano quale fosse la controversia. Ora il pannello la spiega in modo più dettagliato». E così nella didascalia viene ora citato anche il passaggio del radiomessaggio natalizio del 1942 dove Papa Pacelli fa riferimento alle «centinaia di migliaia di persone, le quali, senza veruna colpa propria, talvolta solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate a morte o a un progressivo deperimento». Il testo sottolinea come i critici del Pontefice attribuiscano a «mancanza morale» l'assenza di un'esplicita condanna dell'assassinio degli ebrei, ma apre la questione sui due versanti del dibattito.
Da una parte, infatti, la mancanza di un'indicazione netta «consentì a molti di collaborare con la Germania nazista rassicurati dall'opinione che ciò non era in contraddizione con gli insegnamenti morali della Chiesa»; d'altra parte però, oltre a riconoscere l'iniziativa del salvataggio degli ebrei da parte di singoli preti e laici, la didascalia esplicita anche le ragioni di quanti «ritengono che questa neutralità evitò più dure misure contro il Vaticano e contro le istituzioni della Chiesa in tutta l'Europa, consentendo così che avesse luogo un considerevole numero di attività segrete di salvataggio a differenti livelli della Chiesa». [nella foto a sinistra, il Venerabile Pio XII con un gruppo di persone ebree che egli fece rifugiare in Vaticano; n.d.r.; qui la foto]

E, chiosa in calce la dichiarazione pubblicata sul sito del museo: «Naturalmente nessun pannello museale potrà mai sondare pienamente un argomento, quindi a quanti sono interessati a saperne di più, la biblioteca e gli archivi dello Yad Vashem offrono un'enorme quantità di materiale». Come dire che su una materia tanto importante quanto delicata non ci si può fermare alle definizioni e agli slogan, ma occorre un serio, approfondito e rispettoso lavoro di studio e di ricerca. Finalmente, insomma, si parla di storia, di documenti, di nuove acquisizioni. E si dà conto di un dibattito aperto.
Senza dubbio aperto, almeno stando a considerare le prime reazioni all'annuncio dello Yad Vashem. Sul notiziario quotidiano in rete dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, «l'Unione informa», il 2 luglio si evidenzia già un acceso confronto. Molto dure appaiono le posizioni del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e dell'ambasciatore Sergio Minerbi convinti che la correzione del pannello del museo sia solo il frutto delle pressioni diplomatiche vaticane. Un frutto che per il primo «lascia l'amaro in bocca» e che per Minerbi è una vera e propria «vergogna». L'ambasciatore registra con disappunto la posizione dello Yad Vashem che «agisce come se fosse neutrale in materia».

Su un piano diverso si pone la valutazione della storica Anna Foa: «Non mi sembra che la nuova didascalia rappresenti un ammorbidimento del giudizio rispetto a quella precedente»; quello che emerge oggi è «un giudizio più che morale, storico: la consapevolezza che ci si trova all'interno di un dibattito ancora aperto». La didascalia precedente -- continua Foa -- «era frutto, a mio avviso, di un giudizio dogmatico, assoluto, che prescindeva dall'esistenza di un dibattito a livello storiografico e dell'esistenza di nuova documentazione a livello dell'individuazione dei fatti. La nuova apre la strada ad ulteriori modifiche, in un senso o nell'altro, a dimostrazione che la storia si basa sui documenti e sulle interpretazioni, non sui pregiudizi politici o sul senso comune. E i responsabili di Yad Vashem hanno dimostrato, con questo gesto coraggioso, di esserne pienamente consapevoli».

Su questa linea si colloca anche il diplomatico e saggista Vittorio Dan Segre che ha sottolineato: «La battaglia di chi da parte ebraica vorrebbe condannare la figura di Papa Pacelli a restare perennemente rinchiusa in una dimensione di condanna morale senza appello non è alla lunga sostenibile sotto il profilo politico e forse anche sotto quello storiografico».

fonte:
(©L'Osservatore Romano 2-3 luglio 2012)

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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