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San Tommaso d'Aquino il Dottore Angelico

Ultimo Aggiornamento: 24/10/2016 11:24
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Il san Paolo di Tommaso d'Aquino

Un vaso ricolmo
di sapienza


Presso l'Accademia San Tommaso d'Aquino in Vaticano si è svolto un convegno su san Tommaso lettore di san Paolo. Pubblichiamo la sintesi di una delle relazioni.

di Inos Biffi

Tommaso parte dalla definizione che di Paolo è data negli Atti degli apostoli, dov'è denominato "vaso di elezione" (9, 15), e dallo sviluppo di questa immagine ne disegna - in apertura al suo commento paolino - la figura spirituale.

"Il beato Paolo viene chiamato vaso di elezione, e quale vaso egli fosse risulta da ciò che si dice nel Siracide:  "Come un vaso d'oro massiccio, ornato con ogni specie di pietre preziose" (50,9). Fu un vaso d'oro per lo splendore della sua sapienza. Perciò il beato Pietro gli rende testimonianza dicendo:  "Come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto secondo la sapienza che gli è stata data"(i Pietro, 3 15)".
 
"Egli fu inoltre saldo nella virtù della carità (...). Nella Lettera ai Romani, dice:  "Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire ecc. potrà mai separarci dall'amore di Dio" (8, 38)".

"E di che genere fosse questo vaso risulta da quanto esso elargiva:  insegnò i misteri dell'eminentissima divinità che riguardano la sapienza, come appare da 1 Corinzi:  "Tra i perfetti parliamo di sapienza"(2,6); elogiò inoltre altamente la carità, in 1 Corinzi, 13; insegnò agli uomini le varie virtù, come risulta da Colossesi, 3, 12:  "Rivestitevi dunque come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine"".

Volgendo l'attenzione su quanto Paolo, quale "vaso" di elezione, contenesse, Tommaso premette il rilievo che, come "ci sono vasi di vino, vasi di olio e altri vasi diversi secondo il genere", così ci sono "uomini (...), riempiti divinamente con diverse grazie, come si dice in 1 Corinzi:  "A uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro il linguaggio della scienza..."(12,8)".
 
Ora, Paolo fu ripieno del liquido prezioso che è "il nome di Cristo, del quale nel Cantico dei Cantici si dice:  "Profumo olezzante è il tuo nome"(1, 2)". Perciò si dice "Egli è il vaso eletto per me affinché porti il mio nome". E infatti si mostra tutto ripieno di questo nome, come si afferma nell' Apocalisse:  "Inciderò su di lui il mio nome (3,12)".

E l'Angelico precisa:  "Ricevette questo nome nella conoscenza dell'intelletto, secondo quanto si dice in 1 Corinzi:  "Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo e questi crocifisso" (2,2). Inoltre ebbe questo nome nei suoi affetti, conformemente a Romani:  "Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo?" (8,35); e a 1 Corinzi:  "Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema" (16,22). Si tenne poi stretto a lui in tutto il suo modo di vivere. Per cui in Galati dichiara:  "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (2,20)".

Ma Paolo non solo fu personalmente colmo del nome di Cristo, ma fu anche destinato a portare questo nome agli altri. "Era infatti necessario - scrive Tommaso - che il nome fosse portato perché si trovava lontano dagli uomini". Quel nome "è lontano da noi a causa del peccato", "a causa dell'oscurità dell'intelletto". Ora "il beato Paolo portò il nome di Cristo anzitutto nel corpo, imitando la sua condotta e la sua passione, secondo Galati "Difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo"(6,17); e poi nella sua bocca, e questo risalta dal fatto che nelle sue lettere nomina spessissimo Gesù Cristo:  "Poiché la bocca parla della pienezza del cuore" come si asserisce in Matteo (12, 34)".

In particolare, Paolo - paragonato dal Dottore Angelico alla colomba che recò all'arca del diluvio il ramoscello d'ulivo, simbolo della misericordia - "recò quel ramoscello alla Chiesa, allorché espresse in molti modi la sua virtù e il suo significato, mostrando la grazia e la misericordia di Cristo. Per cui in 1 Timoteo dice:  "Appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità"(1,16)".

E al riguardo l'Angelico annota:  "Come tra le Scritture dell'Antico Testamento nella Chiesa si usano più frequentemente i Salmi di Davide, che dopo il peccato ottenne il perdono, così nel Nuovo Testamento si usano le lettere di Paolo, che ottenne il perdono, perché i peccatori siano innalzati verso la speranza".

Per Tommaso le lettere di Paolo contengono soprattutto un messaggio di misericordia e di speranza, ed è la ragione per la quale la Chiesa le legge spesso. Ma egli aggiunge un'altra ragione ed è che nei Salmi e nelle Lettere paoline "è contenuta quasi l'intera dottrina della teologia - fere tota theologiae continetur doctrina".

Paolo, inoltre, portò il nome di Cristo "non solo ai presenti, ma anche agli assenti e ai futuri, trasmettendo il senso della Scrittura", esattamente coincidente con il nome di Cristo.

È proprio "in questo ufficio consistente nel portare il nome di Dio" una triplice "eccellenza" di Paolo.

In primo luogo, un'eccellenza quanto alla "grazia dell'elezione". Paolo è chiamato "vaso di elezione" - in virtù, quindi, di una scelta divina avvenuta "prima della creazione del mondo" (Efesini, 1, 4). In secondo luogo, un'eccellenza quanto "alla fedeltà":  "Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore" (2 Corinzi, 4, 5).

Infine, un'eccellenza singolare nella sua fatica apostolica:  lui stesso in 1 Corinzi afferma:  "Anzi ho faticato più di tutti loro". Per questo viene espressamente definito "un vaso di elezione per me".



(©L'Osservatore Romano - 25 giugno 2009)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Nella memoria liturgica del Dottore Angelico 28 gennaio 

Il piccolo Tommaso
e l'"appetito" per i libri


di Sandra Isetta

Èdifficile presentare una breve biografia di Tommaso. Le fonti sono spesso contraddittorie e il santo, al contrario di Agostino, non parla quasi mai di sé, tranne alcuni cenni. Ma sfogliando la fonte principale e altre più tarde (Guglielmo di Tocco, Historia beati Thomae de Aquino; Raimondo Spiazzi, Vita di san Tommaso d'Aquino. Biografia documentata, 1995), appare una costellazione di segni della sua futura santità. Cominciamo dai suoi natali:  patria, stirpe, educazione sono i tre elementi nodali delle biografie pagane, i cui valori sono destrutturati nella vita di un santo, il cui modello, come già quello del martire, è Gesù, figlio di un falegname, che ha nobilitato e eletto a popolo di Dio proprio i diseredati e gli umili. Tommaso è però monaco e nobile, unendo l'antico esempio cenobitico a quello tardo e celebrativo di epoca merovingia e carolingia.

Nacque sotto Papa Onorio III (1216-1227), quando Federico II, figlio di Enrico II, svevo, e di Costanza d'Altavilla, normanna, era imperatore di Germania e Italia e re di Sicilia. Esponente della nobiltà germanica era il padre di Tommaso, figlio di Francesca di Svevia sorella di Federico Barbarossa, mentre da una casata di principi normanni di Sicilia discendeva la madre Teodora.
 
L'intreccio tedesco/normanno accomuna il rappresentante del Sommo potere e quello della Somma teologia:  Eusebio di Cesarea avrebbe letto questa coincidentia come segno della provvidenza divina, analogo a quello della nascita di Gesù sotto Augusto, al sorgere di quell'impero che Costantino avrebbe sacralizzato. "Segni" del suo futuro compaiono già prima della sua nascita:  un eremita esorta Teodora, prossima al parto, a rallegrarsi perché il nascituro nella vita avrebbe brillato di tale sapienza e santità, che nessuno l'avrebbe eguagliato:  "Buono di nome ma più buono ancora per la vita santa". È il dodicesimo figlio - anche la numerologia ha un rilievo - come Beniamino, il figlio più amato da Giacobbe, dalla cui tribù discese l'Apostolo delle genti. Troveremo analogia tra alcuni episodi della vita di Paolo e quella di Tommaso.

Un segno nel cielo, secondo una fonte tarda, fa coincidere la nascita del santo nello stesso giorno di Ambrogio di Siena e Iacopo di Bevagna:  in pieno giorno a Bevagna si videro tre mezze lune con assisi i tre dottori mentre i bambini gridavano ad scholas, annunciandone la grandezza. Il segno, di stampo cristologico come la cometa su Betlemme, è predizione che Tommaso avrebbe abbandonato l'ordine benedettino per entrare in quello domenicano.

Ancora, Tommaso ha pochi mesi e una tempesta si abbatte sul castello di Roccasecca. Un fulmine colpisce il torrione, proprio nella stanza dove dorme il piccolo con una domestica e la sorellina, che resta uccisa, mentre Tommaso rimane incolume. Il fulmine poi raggiunge la stalla uccidendo i cavalli. Il padre di Tommaso, leggendo l'evento come un segno divino, affida il figlio come oblato ai benedettini del vicino monastero di Montecassino.
 
La simbologia è duplice, l'incolumità che preserva l'uomo di Dio e il complesso segno dei cavalli uccisi. Diretto a Damasco a perseguitare i cristiani, dal fulmine è colpito Paolo che cade da cavallo divenendo da soldato in armi cavaliere spirituale di Cristo. Anche a Tommaso è indicata la via di una milizia mistica e di sapienza insieme alla rinuncia alla superbia e all'onore mondano, di cui il cavallo è figura secondo Agostino. Lo confermano alcuni episodi. Per fargli indossare le vesti di monaco benedettino o di nobile cavaliere e impedire la sua adesione all'ordine domenicano, il padre ridurrà a brandelli il suo abito, ma Tommaso si riavvolgerà nelle sue vesti lacere lieto di subire quell'ingiuria in nome di Cristo.

Rinuncerà anche all'ordinazione di arcivescovo di Napoli offertagli da Clemente IV, preferendo la vita monacale a onori e ricchezze. Invitato a cena da re san Ludovico insieme al priore, nel periodo della sua lotta contro il manicheismo, durante il convito batte ripetutamente la mano sul tavolo, continuando a pensare e a parlare dell'eresia, dimenticandosi, novello san Martino, di essere alla corte di un re.

D'altronde, l'ingresso nella sua ultima dimora, l'abbazia di Fossanova, avviene non a cavallo, ma in groppa a un asino, a perfetta imitazione di Cristo, che entra trionfalmente in Gerusalemme per esservi crocifisso, come il martire e vescovo Policarpo in groppa a un asino è condotto al martirio. Tommaso avrebbe pronunciato queste parole:  "Se il Signore verrà a prendermi, è meglio che mi trovi in una casa di religiosi che in un castello". Il cavallo ha anche simbologia positiva:  Girolamo e Ambrogio rappresentano la quadriga della virtù che conduce al cielo, le virtù cardinali con cui Orcagna personifica il santo (Santa Maria Novella, Firenze).

Nella storia di Tommaso appare anche il "segno" del libro ingoiato. Ancora in fasce è ai bagni pubblici di Napoli, dove la madre l'ha condotto perché le truppe papali hanno invaso Roccasecca. Tommaso stringe nella manina un pezzetto di pergamena e lo porta alla bocca. Invano la nutrice cerca di aprirgli il pugno chiuso e deve immergerlo nell'acqua con quella carta nella mano. Quando la madre riesce a farsi dare la pergamena vede che vi è scritta l'Ave Maria. Fonti più tarde raccontano che il bambino ingoiò la pergamena.

Tommaso, come Giovanni nell'Apocalisse, ingoia il libro, dolce come il miele nella bocca e amaro come il fiele nello stomaco. In lui entra la sapienza del Verbo incarnato in Maria, con le verità dolci per chi crede e amare per gli increduli. Con la benedizione della Vergine, quasi a ricevere un secondo battesimo, Tommaso è immerso nell'acqua in modo prodigioso. Il santo è tale fin dalla nascita, è puer senex, bambino senza infanzia, secondo la definizione di Curtius:  Tommaso rifiuta il divertimento dell'acqua per tenere stretta la pergamena, come Antonio non frequentava i coetanei per recarsi in chiesa, come Ilario dalla culla alzava le due piccole dita per benedire e come Ambrogio da piccolo giocava a fare il vescovo. Fin da bambino, Tommaso avrebbe dato prova di carità. La famiglia era solita recarsi a Chieti nella stagione autunnale. Una tradizione locale lo descrive mentre distribuisce pane ai poveri.

Uscito dalla dispensa col grembo colmo di scorte, si imbatte nel padre che severamente gli impone di aprire la veste, da cui il pane era prodigiosamente scomparso per lasciare il posto a petali e fiori, medesimo miracolo attribuito alla contemporanea santa Zita. Il pane è il simbolo della carità, dell'eucaristia, di Gesù vita disceso dal cielo (Giovanni, 6, 15) partorito da Maria, secondo gli apocrifi da bambina nutrita da cibo angelico e nel Cantico dei Cantici sposa di Cristo nel giardino fiorito. La pergamena ingoiata e il pane tramutato in fiori si chiariscono nella simbologia mariana.


Alla vocazione dei santi spesso si oppongono uno o entrambi i genitori, fin nei primi Atti dei Martiri, quando il cristianesimo era oppresso dal paganesimo, e poi in successive realtà storico-geografiche in fase di evangelizzazione. È il caso di Martino e dell'ostilità del padre che voleva per il figlio il successo della carriera militare. Analogo il caso di Tommaso, che però sceglie di abbandonare un ordine, quello benedettino filoimperiale, per quello dei mendicanti-predicatori. Il santo è figura eccezionale e il suo essere straordinario sorge in primo luogo dal modo in cui emerge in un gruppo di appartenenza:  Martino è un soldato, Benedetto è studente, Ambrogio è magistrato.

Quando cresce il desiderio della virtù, il santo lascia questo gruppo, vi ritornerà dopo avere superato una prova. Antonio apre la porta della tomba in cui si era rinchiuso e rientra nel mondo, Martino e Ambrogio sono chiamati all'episcopato, Benedetto entra in una nuova comunità, come Tommaso, dopo la prova della prigionia. Si trovava bene nell'abbazia di Montecassino ma, verso i quattordici anni, fu costretto a lasciarla, perché nel 1239 fu occupata dalle truppe di Federico ii, allora in contrasto con il Papa Gregorio ix, che scacciò tutti i monaci. L'abate accompagnò personalmente l'adolescente Tommaso dai genitori, raccomandando loro di farlo studiare presso l'università di Napoli, allora sotto la giurisdizione dell'imperatore.

A Napoli conobbe, nel vicino convento di san Domenico, i frati predicatori e restò conquistato dal loro stile di vita e dalla loro profondità dottrinale; quasi ventenne, decise di entrare nell'Ordine domenicano, nel 1244; i suoi superiori, intuito il talento del giovane, decisero di mandarlo a Parigi per completare gli studi. La scelta provocò l'ira dei suoi familiari, soprattutto della madre Teodora, rimasta vedova, che riponeva in Tommaso speranze per gestire gli affari del casato.

Teodora chiese all'imperatore di dare una scorta ai figli, ufficiali nell'esercito, perché questi potessero bloccare Tommaso, già in viaggio verso Parigi, con il padre generale dell'ordine, Giovanni di Wildeshausen detto il Teutonico. Viene fermato e praticamente rapito dai fratelli nei pressi di Acquapendente; ritrovato in un prato, presso una fonte, è strappato dal locus coelestis della vita monacale per essere rinchiuso nel locus horridus del castello di Monte San Giovanni, di proprietà della famiglia.

Il sequestro dura un anno, durante il quale la famiglia cerca in tutti i modi di farlo desistere da una scelta ritenuta non consona alla dignità della casata:  arriva a introdurre nella sua cella una fanciulla vestita con abiti provocanti. Tommaso scaccia fuori della stanza la prostituta con un tizzone ardente, e disegna il segno della croce sulla parete con la punta annerita. Prostrato a terra, prega il Signore di preservare la sua castità:  appaiono due angeli che gli stringono una stretta cintura ai reni. Come Gesù, il santo è assalito e resiste alle tentazioni; l'archetipo della seduzione femminile è, nella Vita Antonii, uno dei tanti travestimenti del demonio.

Dopo due anni, temendo l'ira del Signore, la madre infine cede, in coincidenza anche con la deposizione di Federico ii (17 luglio 1245), e consente ai domenicani di riprendersi Tommaso, che viene fatto fuggire, calato dalla finestra in una cesta. È condotto a Napoli dove prende i voti monastici e da qui a Roma.

La fuga è un tòpos paolino:  l'apostolo, venuto a conoscenza della congiura ordita contro di lui dagli ebrei di Damasco, nottetempo viene fatto calare dalle mura dai cristiani suoi amici in una cesta (II Corinzi, 11, 32-33). I precedenti veterotestamentari sono nella fuga dei due ebrei inviati da Giosuè come spie a Gerico, aiutati dalla prostituta Raab, e in Davide, ricercato a morte da Saul, fatto fuggire da Mikal.

Studente a Colonia, alla scuola di Alberto Magno (Dante, Paradiso, x, 97-99, "frate e maestro fummi"; Beato Angelico, Scuola di Alberto Magno, ritratto ai piedi del maestro), suscita la curiosità dei compagni.

C'era una certa attesa nei confronti di questo ragazzo del sud che aveva combattuto per farsi domenicano. Racconta Guglielmo di Tocco che divenne straordinariamente silenzioso, assiduo nello studio, devoto nella preghiera. I confratelli cominciarono a chiamarlo "bue muto", ignorando ancora l'irrompente muggito e l'armonia del canto teologico della sua dottrina. È un caso di nomen/omen. Il referente testamentario è I Corinzi, 9, 9 (Deuteronomio, 25, 4):  non mettere la museruola al bue che trebbia, che già nei primi Padri della Chiesa significa che non si possono mettere a tacere gli Apostoli e tutti coloro che annunciano la verità.
 
Si cercò di farlo tacere, quando a Parigi, a causa della contestazione degli ordini mendicanti, fu scacciato dall'università insieme a san Bonaventura. Tommaso continuò a predicare e a scrivere fino a quando Papa Alessandro non ricompose la controversia. "Bue muto" è dunque nomen del silenzioso rimuginare del lògos da parte di Tommaso (la pergamena ingoiata) che avrebbe proferito una delle più alte parole teologiche. Conversava con gli Apostoli, così testimonia un altro episodio. Immerso nella comprensione di un difficile passo di Isaia, restò per tre giorni digiuno e in preghiera. Cominciò quindi a dettare il suo commento con una rapidità eccezionale, mentre sembrava parlare con qualcuno:  riferì che Pietro e Paolo e la Vergine gli avevano suggerito l'interpretazione di passi oscuri.

Dunque l'epiteto indica la santità della sua parola ispirata:  san Bonaventura, entrato nello studio di Tommaso mentre scriveva, vide la colomba dello Spirito accanto al suo volto. Ultimato il trattato sull'eucaristia, lo depose sull'altare davanti al crocifisso per ricevere dal Signore un segno. Subito fu sollevato da terra e udì le parole:  Bene scripsisti, Thoma, de me quam ergo mercedem accipies? E rispose Non aliam nisi te, Domine. Anche Paolo fu rapito al terzo cielo, e poi Antonio e tutta una serie di santi fino a Caterina; il volo, il levarsi in aria indica la vicinanza con il cielo e con Dio, con archetipo nelle figure di Enoch e Elia.

Nonostante le precarie condizioni di salute, Tommaso ricevette l'ordine di recarsi al Concilio che si sarebbe aperto a Lione per la riconciliazione fra Chiesa greca d'Oriente e la Chiesa di Roma. Dovette fermarsi al monastero cistercense di Fossanova. Già sul letto di morte volle lasciare ai fratelli una expositio sul Cantico dei cantici. Quando arrivò al commento del versetto veni, dilecte mi, esalò l'anima (7 marzo 1274), come Gesù, come tutti i santi, Tommaso muore recitando la Scrittura. Un religioso vide l'apostolo Pietro sollevare  in  cielo Tommaso (Zurbaran, Trionfo di san Tommaso, Siviglia); sant'Alberto Magno, che si trovava a tavola nel convento di Colonia, in lacrime ne annunciò la morte. Ritroviamo lo stesso episodio nella Vita Antonii:  l'eremita percepì la morte del monaco Paolo a molte miglia di distanza.

Le ricognizioni delle reliquie di Tommaso portano alla luce un corpo pressoché intatto che emana quel profumo di fiori caratteristico già della prima letteratura agiografica, simbolo delle virtù, della santità, della partecipazione del santo allo spirito divino. L'inviolabilità è il segno visibile dell'incontro tra divino e umano, dimensione sacrale che ha come referente centrale l'incarnazione-morte-resurrezione del Verbo. Come uno dei miracoli in vita, la guarigione dell'emorroissa, anche i miracoli di Tommaso post mortem sono cristologici (restituisce la vista al cieco e la vita al morto, libera molti indemoniati).

Guglielmo di Tocco, riferendosi ai numerosi prodigi avvenuti attraverso la reliquia della mano di Tommaso afferma che quella mano, con il dito dell'intelletto, aveva aperto il libro ricevuto da Colui che siede alla destra del trono:  la pergamena ingoiata dal piccolo Tommaso aveva restituito la Parola divina.


(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2010)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Il liberatore dell'intelletto


di mons. Inos Biffi


"Come si diventa teologi?", chiesero un giorno a Tommaso d'Aquino:  "Ponendosi, egli rispose, alla scuola di un valido maestro", e fece il nome di Alessandro Halense. Anche l'Angelico, per parte sua, si era posto alla scuola di un maestro, Alberto Magno, il solo che, con singolare perspicacia, intuì l'ingegno eccezionale del silenzioso discepolo "siciliano", preannunziandone la splendida riuscita. Quando venne a conoscenza della sua scomparsa (il 7 marzo 1274) esclamò:  "È morto fra Tommaso d'Aquino, figlio mio in Cristo, luce della Chiesa".

Mettersi alla scuola di Tommaso è, senza ombra di dubbio, una via sicura per diventare non solo teologi, ma anche filosofi o, più in generale e semplicemente, per essere capaci di pensare bene, di ragionare
.
È vero che non sono mancati, ai nostri giorni, soprattutto dei teologi, che, o non conoscendolo, se non per sentito dire, o fraintendendolo, ne hanno deciso l'inattualità. Ma non bisogna prenderli sul serio. In generale, essi sono convinti che prima di loro ci sia stato il diluvio, e si compiacciono di professarsi "senza padre, senza madre e senza genealogia"; e anche se talora studiano gli autori del passato, non lo fanno tanto per sapere quello hanno detto, ma per insegnare quello che avrebbero dovuto dire.
 
Si sente spesso affermare che, per essere attuali, non ci si deve fermare a san Tommaso. Solo che, per non fermarsi a lui, bisognerebbe esserci arrivati, senza dire che ad aver valore e a importare non è affatto l'attualità, ma la verità, che rappresentò la passione fondamentale del Dottore Angelico.


Egli fu sensibilissimo alla storia, a "quello - diceva - che gli uomini hanno pensato":  basti richiamare le sue "lezioni" bibliche e il suo impegno a commentare le opere di Aristotele, impresa, questa, certamente singolare per un "maestro in Sacra Pagina". Né, d'altronde, si accontentava di ripetere le parole degli autori studiati, fosse pure sant'Agostino, ma ne ricercava "l'intenzione profonda", di là dall'espressione (quae sit intentio profundior). Neppure questa, tuttavia, era la tappa conclusiva della sua indagine:  quello che alla fine gli premeva era di trovare "quale fosse la verità" (veritas rerum circa hoc). Ed era il momento della liberazione.

Anche nel suo continuo accostamento ad Aristotele, la sua preoccupazione ultima non era tanto quella di ricostruirlo storicamente, quanto, in un certo senso, di renderlo più compiutamente vero e coerente fino in fondo, salvandolo da Averroè.

Scrive Chesterton che la rivoluzione aristotelica di Tommaso è consistita non nel "riconciliare Cristo con Aristotele, ma Aristotele con Cristo", e che egli è stato "uno dei grandi liberatori dell'intelletto umano". Tommaso è infatti un incomparabile educatore dell'intelligenza, un "apostolo dell'intelligenza" (Maritain) e lo poteva essere anzitutto per la grande stima che nutriva verso la ragione, che, egli riteneva, non depressa, o confusa dalla fede o dalla grazia, ma, al contrario, intimamente risanata:  "La fede non distrugge la ragione, ma la oltrepassa e la porta alla perfezione" (De veritate, 14, 1, 9). Egli si spinge fino a dire:  "Il sapiente ama e onora l'intelletto, che, tra le realtà umane, è quella a cui Dio riserva l'amore più intenso" (In x Ethicorum, lectio 13).
In questo cammino educativo Tommaso parte andando "diritto all'esse" (Maritain), ossia riconoscendo innata nella struttura dell'intelletto la capacità di percepire l'essere - "l'essere è la prima conoscenza dell'intelletto" - (2 Sententiae, 19, 5, 1, 2m) e i principi primi indimostrabili che gli sono naturalmente intrinseci, la conoscenza dei quali "ci è innata" (De veritate, 11, 1, c.) ed è condizione di ogni conoscenza.

L'uomo, partendo dall'autocoscienza (notitia sui) (De veritate 15, 1, 6), può allora interpretare quanto è oggetto immediato della sua esperienza, gli "esseri" o gli enti, e avvertirne l'intima insufficienza. Infatti, a motivo della loro mobilità, precarietà o contingenza, e frammentarietà non possono radicalmente autogiustificarsi:  hanno il pregio dell'essere, ma insieme sono afflitti dal non-essere.

Conducendo la ragione su questa strada, Tommaso la porta a riconoscere la necessità, si direbbe l'"ovvietà", dell'esistenza di un "Essere" non toccato da alcun limite, Atto o perfezione pura, che sia all'inizio e quale fonte dell'attualità di ogni ente. Ed è come dire di ogni ente l'intima relazione e professione "religiosa", "teologica". Per questa relazione gli esseri possono esistere:  lasciati a sé sono per la morte assoluta, ossia per la caduta nel non essere; possono continuare nell'esistenza solo perché "Dio continua a elargire a essi l'essere", in cui consiste la perfezione (Summa Theologiae, i, 4, 1, 3m).

Secondo Tommaso, il vertice di questo avvincente ed entusiasmante cammino è raggiunto col riconoscimento che l'essenza di Dio è quella di "essere":  "Dio è essere per essenza" (Summa Theologiae, i, 4, 3, 3m); è l'ipsum esse (Summa Theologiae, i, 3, 4, c). E questa è una "sublime verità". Sembra di sentire una silenziosa ma viva emozione in lui, quando nella Summa contra Gentiles afferma:  "In Dio l'essenza si identifica con l'essere. Di questa sublime verità Mosè fu ammaestrato dal Signore". Certamente, nella persuasione che di Dio "non possiamo sapere quello che è, ma piuttosto quello che non è" (Summa Theologiae, i, 3, intr.). D'altronde, affermare che la ragione può e deve arrivare a Dio, non significa svalutare il ruolo dell'affetto, anche perché per Tommaso "volontà e intelletto si includono reciprocamente" (Summa Theologiae, i, 16, 4, 1m) e "si accede a Dio con l'affetto dell'anima" (Summa Theologiae, i, 3, 1, 5m).

È nota, poi, la dottrina di Tommaso relativa alla conoscenza "per connaturalità" o "nella modalità dell'inclinazione" (cfr. Summa Theologiae, i, 6, 3m).
Riconoscere, in ogni caso, il primato dell'intelletto originariamente fatto per conoscere l'essere, significa affacciarsi già al mistero dell'essere stesso, che può solo stupire e portare a una sua mistica, che verrà sublimata all'accorgersi che l'Essere è "personalmente" Dio.

Abbiamo parlato di Tommaso come di liberatore dell'intelletto. E, infatti, se all'inizio sta la conoscenza dell'essere, vuol dire vi sta l'oggettività, la verità, non l'arbitrio, o l'emozione, o il desiderio "a essere appetibile (come bene) è l'essere" (Summa Theologiae, i, 5, 2, 3m). È quello che fa scrivere a Tommaso:  "La verità non varia a seconda della diversità delle persone" - sia in bocca a un superiore o a un suddito, a un professore o a un alunno, a un padre o a un figlio, a Dio o all'uomo - "per cui quando uno dice la verità non può essere vinto da nessuno" (Expositio super Iob ad litteram, xiii, 19).

È il senso dell'oggettività, del suo valore, del suo essere assoluto, non manipolabile a piacere. Perciò l'Angelico amava ripetere:  "La verità, chiunque sia chi l'asserisca, ha lo Spirito Santo come genesi" (In Titum, 1, 13).


(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2010)

Fraternamente CaterinaLD

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LEGGETE ANCHE QUI:


Benedetto XVI alle Accademie Pontificie raccomanda san Tommaso d'Aquino 




E un grazie a Francesco Colafemmina dal blog Fides et Forma:


SAN TOMMASO E LA BELLEZZA


In occasione della memoria del Doctor Angelicus San Tommaso d'Aquino vorrei consigliare ai lettori il saggio del Prof. Rodolfo Papa dal titolo "Bellezza ed arte alla luce di San Tommaso". Il saggio lo trovate a questo link. Buona lettura!





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Umanesimo simbolico di san Tommaso d'Aquino

L'ottimismo dell'imperfezione


Il 5 marzo il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura riceve ad Aquino il premio internazionale "Tommaso d'Aquino Veritas et amor" organizzato dal Circolo San Tommaso. Anticipiamo il testo del discorso dell'arcivescovo.

di Gianfranco Ravasi



Nel prologo della Prima secundae del suo capolavoro teologico, san Tommaso d'Aquino propone questa dichiarazione programmatica:  "Ci interesseremo dell'uomo in quanto egli è il principio del suo operare, essendo dotato di libero arbitrio e quindi della sovranità delle proprie azioni". Al centro della sua investigazione, espressa in quella sorta di oceano testuale che sono gli scritti del Dottore Angelico, brilla senz'altro la figura di Dio perché quella di Tommaso è pur sempre una teologia e non una pura e semplice speculazione filosofica sistematica; ma la luce che emana da quel centro irradia la prima delle sue creature per eccellenza e dignità, cioè l'uomo.

L'umanesimo di Tommaso è, perciò, squisitamente teologico e cristiano, eppure si articola tenendo conto anche del contributo della natura umana, della razionalità, una delle ali per il volo nell'orizzonte dell'essere. Un intreccio, quindi, sapiente tra fede e ragione. Egli è, certo, cosciente della fragilità della nostra conoscenza perché noi "imperfettamente conosciamo e imperfettamente amiamo" (Summa theologiae, i-ii, 68, 2).
 
Nel proemio all'Expositio in Symbolum - con una metafora divenuta celebre - egli riconosce che "la nostra conoscenza è talmente debole che nessun filosofo ha mai potuto investigare in modo esaustivo la natura di una singola mosca". È la consapevolezza della nostra creaturalità che impedisce l'hybris di un umanesimo immanentista e autosufficiente:  "Come gli occhi della nottola sono abbagliati dalla luce del sole che non riescono a vedere, ma vedono bene le cose poco illuminate, così si comporta l'intelletto umano di fronte ai primi principi che sono tra tutte le cose, per natura, le più manifeste" (In metaphysicam, ii, 1, 10).

Questo senso del limite esorcizza, dunque, nel pensiero di Tommaso la deriva in un umanesimo razionalistico e autoreferenziale (sia pure "teologico" alla maniera hegeliana), ma esclude anche la caduta nel gorgo oscuro di un umanesimo esistenzialistico pessimistico alla Sartre o in un umanesimo soggettivistico, rinchiuso nel baluardo di un "io" solipsistico, incapace di uscire nel dialogo varcando la porta della sua torre d'avorio.

C'è, invece, in Tommaso d'Aquino un ottimismo di fondo davanti all'essere, alla creazione e alle capacità conoscitive dell'uomo, per usare un'idea di un suo grande ammiratore, lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton nel suo saggio St. Thomas Aquinas (1933). Infatti, alla creatura umana è riconosciuta la possibilità di raggiungere la verità sia pure non nella sua pienezza esaustiva.

Con la ragione essa può approdare almeno alla spiaggia di mondi tematici immensi come l'esistenza di Dio, la creazione dell'universo, la spiritualità dell'anima. Inoltre, c'è nell'uomo una potenza etica positiva, anche se non assoluta; la creazione è dotata di ordine e bellezza così da poter condividere l'asserto del libro biblico della Sapienza secondo il quale "dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore" (13, 5), asserto ripreso da san Paolo, convinto che le divine "perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute" (Romani, 1, 20).

Per questo, lo stesso Chesterton suggeriva di assegnare al Dottore Angelico il titolo di san Tommaso del Creatore, così come si avrà san Giovanni della Croce e così come ci sarà santa Elisabetta della Trinità e ci sono le "Suore dello Spirito Santo".

In questa luce è da marcare anche la famosa tesi tomista dell'intima e sostanziale unione tra anima e corpo, esaltata sulla scia di Aristotele, ma con un'impronta profondamente cristiana e biblica, consapevoli come siamo dell'unità psicofisica celebrata nelle Sacre Scritture contro ogni antitesi di matrice dualistica.

Il corpo cessa, allora, di essere prigione o tomba dell'anima, ma è la materia necessaria  di  cui  l'anima  è  forma  in un nesso inscindibile, è la potenza di cui l'anima è atto, è la carne che è vivificata dallo spirito. Le alte espressioni della persona come l'amore, l'arte, la stessa preghiera si svolgono attraverso la corporeità che è, così, epifania dell'intera grandezza della creatura umana.
 
Si ha in tal modo un umanesimo veramente personalistico che, prescindendo dalle appartenenze alle diverse etnie, culture o società, assegna alla persona in quanto tale una radicale dignità e nobiltà:  "La persona è quanto di più perfetto esista in tutta la natura" (Summa theologiae, i, 28, 3). A differenza di Averroè e di altri commentatori di Aristotele che concepivano l'intelletto come una sostanza separata, destinata a trasmettere le idee alle singole anime, Tommaso afferma che l'intelletto, essendo strutturale alla natura umana, è una facoltà personale che ogni uomo e donna posseggono ed esercitano in proprio.

In sintesi possiamo dire che nel pensiero dell'Aquinate si ha una piena conferma dell'interrogativo biblico colmo di ammirazione per la grandezza di questa che rimane pur sempre una creatura limitata ma dotata di gloria:  "Che cos'è mai l'uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell'uomo, perché te ne curi? Davvero l'hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato!" (salmo 8, 5-6).

Certo, ripetiamo che questo umanesimo è monco e incompleto se non riconosce l'ordine della grazia. Nel De veritate il Dottore Angelico afferma:  "Tu non possiedi la Verità, ma è la Verità che possiede te". La Verità ci precede e ci eccede, ci è svelata e rivelata e in essa noi ci inoltriamo, di luce in luce, attraverso la nostra ragione. Come scriveva Adorno nei Minima moralia, "la verità è come la felicità:  non la si "ha", ci si "è"", o come aveva già dichiarato Robert Musil nell'Uomo senza qualità, "la verità non è una gemma da mettere in tasca, è un mare infinito in cui ci si immerge".
 
La trascendenza è necessaria non solo per la verità, ma anche e soprattutto per la redenzione e la salvezza ed è, quindi, fondamentale per una corretta concezione umana. La grazia non cancella la libertà, ma la porta a pienezza, la soprannatura non elide la natura ma la trasfigura, la Verità divina non si oppone alla verità umana ma la unisce a sé, conducendola a pienezza, l'immagine divina nell'uomo e nella donna (Genesi, 1, 27) non elimina l'identità creaturale coi suoi limiti e il suo  peccato,  ma  ne  rivela  la  grandezza.

Quello di Tommaso è, perciò, un vero umanesimo "simbolico" e integrale che permette di concludere che "il modo di esistere che comporta la persona umana è il più degno di tutti" (De potentia, 9, 4).

Vorremmo porre qui, a suggello di questa minima antropologia tomistica da noi ritagliata all'interno di un immenso orizzonte ideale, la voce stessa dell'Aquinate al quale, tra l'altro, mi unisce un particolare legame personale, avendo per anni custodito, come prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, un importante anche se parziale autografo della Summa contra gentiles (ii, 42-44, segnatura S.P. 38), proveniente dal convento dei domenicani di Bergamo e donato al cardinale Federico Borromeo dal provinciale di Lombardia dei frati predicatori, Paolo da Garessio.

Lo facciamo attraverso alcuni brevi frammenti testuali che possono diventare un appello rivolto alla nostra ricerca:  "Tra gli impegni a cui si possa dedicare un uomo nessuno è più perfetto, più sublime, più fruttuoso e più dolce della ricerca della Sapienza... Il sapiente onora l'intelletto perché, tra le realtà umane, è quella a cui Dio riserva l'amore più intenso".
 
Dobbiamo, tuttavia, invocare Dio perché "penetri le tenebre del nostro intelletto con un raggio della sua luce, allontanando da noi le doppie tenebre in mezzo alle quali siamo nati, quelle del peccato e dell'ignoranza". E di ogni nostro pensare e agire Dio "ispiri l'inizio, guidi il progresso e coroni la fine".


(©L'Osservatore Romano - 5 marzo 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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06/03/2010 19:40
 
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Tommaso d'Aquino e la libertà fondata sulla verità

Maestro concreto e passionale


di Inos Biffi

Chi frequenti le opere di Tommaso d'Aquino - morto il 7 marzo 1274 presso il monastero cistercense di Fossanova - resta sorpreso vedendo convivere in lui l'acutezza speculativa e l'attenzione all'esperienza, la rigorosa sottigliezza logica e la penetrante lettura della fenomenologia. Se la sua capacità astrattiva e riflessiva nell'ambito del pensiero è altissima, non meno lucida e fine appare la sua sagacia nel campo dell'azione, che specialmente risalta nella meravigliosa Pars secunda della Summa Theologiae
.

E sia nella scienza speculativa sia nella scienza pratica Tommaso procede con un linguaggio preciso e insieme trasparente e semplice, dove gli importa "il significato dell'espressione" (significatio nominis), ma soprattutto si rivela interessato alla "realtà significata" (res significata), convinto com'è che "la realtà" (res) eccede sempre il "nome" (vox) e ne rappresenta l'inesauribile risorsa. Egli sa che in ogni porzione del sapere l'"enunciazione" (l'enuntiabile) non traduce mai adeguatamente l'"enunciato".

Tommaso non si compiace degli intrecci linguistici, che finiscono nell'aridità e talora nella stravaganza; e neppure trova gusto nell'esuberanza del linguaggio appariscente delle immagini a cascata:  egli non è né Scoto né Bonaventura. Da qui il tono pacato, preciso e denso della sua scrittura, appunto interamente tesa a far trasparire la "sostanza" della cosa.


L'Angelico non si propone di meravigliare, ma di dire la realtà, cioè la verità:  disinteressatamente. Il che non vuol dire senza passione. L'indole di Tommaso è passionale e, quando occorra, sa essere sferzante. Si pensi al De unitate intellectus che termina con queste parole:  "Se qualcuno, vantandosi di conoscenze pseudo-scientifiche, intende dire qualcosa contro ciò che abbiamo scritto, non parli nei crocicchi o di fronte a dei ragazzi, che non sono in grado di giudicare cose così difficili, ma scriva contro questo opuscolo, se ne ha il coraggio", e troverà gente capace di ribattere e di "colmare le lacune della sua ignoranza".

Del resto, possiamo ricordare i limiti e le imperfezione della "scrittura" di Tommaso, stesa in stato di normale assillo, quasi di impazienza, come ha ben messo in luce Pierre-Marie Gils.
In ogni caso, il clima diffuso che si respira nelle opere dell'Angelico è quello della libertà fondata sulla verità. Egli appare totalmente allergico sia al conformismo sia all'eccesso; solo che il suo "equilibrio" nasce proprio dalla sua preoccupazione di essere vero, la quale fonda e spiega la sua audacia.

Egli scrive tranquillamente che, per esaltare Dio, non si devono umiliare e misconoscere le creature; anzi:  "Sminuire la perfezione delle creature significherebbe sminuire la perfezione delle prerogative di Dio" (detrahere perfectioni creaturarum est detrahere perfectioni divinae virtutis); "Sottrarre le azioni proprie alle cose, significherebbe sottrarre qualche cosa alla bontà di Dio" (Detrahere ergo actiones proprias rebus, est divinae bonitati derogare (Summa contra Gentiles, ii, 69).
 
È la vittoria radicale sul manicheismo, che aveva lasciato qualche sua pericolosa traccia nella tradizione cristiana; ed è un atteggiamento appartenente al "talento istintivo", o "caratteriale" del Dottor Comune:  il rilievo è del geniale Chesterton, nel suo San Tommaso d'Aquino, che Étienne Gilson considerava "senza possibilità di paragone il miglior libro mai scritto su san Tommaso".

Ho accennato alla diligente attenzione che questi aveva per la scienza sperimentale o per la fenomenologia, riscontrabile, in particolare, nella Pars secunda della Summa Theologiae.

Qui la materia è offerta dall'agire umano, dai suoi principi, dalle "passioni", dalle virtù, teologali e cardinali, destinate a rifrangersi e a ramificare in una molteplicità di temi. Si può allora percorrere specialmente la Pars secunda secundae della stessa Summa, e ritrovare le considerazioni tomistiche per esempio sull'amicizia e l'ironia, la presunzione e la vana gloria, l'ambizione e la pusillanimità, la studiosità e la curiosità, dove ricorre tutta una sapienza pratica filosofica illustrata e ritratta dal profilo cristiano e dove l'etica di Aristotele rivive e si rinnova:  sarà "verso la fine dell'epoca medievale" che "l'aristotelismo finì per irrancidire" (Chesterton).

Questa parte offre tutto un programma di formazione spirituale umana e cristiana di alta qualità:  uno splendido trattato e tracciato di educazione. Bisogna solo aver il coraggio di percorrerlo, anche se il cammino è molto arduo. La forma e disposizione scolastica delle questioni e degli articoli non è di immediato accesso; la lingua stessa può essere un'obiezione non lieve. È però possibile oltrepassare questa osticità, con l'ascolto paziente dei testi, lo scioglimento dell'apparato tecnico scolastico. E allora si raggiunge - rimanendone attratti - la vena che scorre in fondo all'espressione.
Vorrei cogliere un esempio di questo amore di san Tommaso per la verità, di questa sua audacia e senso della misura, là dove tratta della correzione di un "prelato", di un superiore, da parte di un suddito (Summa Theologiae, ii-ii, 33, 4).

Dalla Scrittura e da alcune "autorità" patristiche, sembrerebbe, osserva l'Angelico, che "i prelati non debbano essere corretti dai loro sudditi" (Praelati non sunt corrigendi a subditis). Ma c'è, al riguardo, un'affermazione di sant'Agostino, secondo il quale bisogna aver misericordia anche dei superiori, e "la correzione fraterna è un atto di misericordia" (correctio fraterna est opus misericordiae). L'Angelico risponde:  "La correzione fraterna, proprio perché è un atto di carità, è un dovere che riguarda tutti nei confronti di qualsiasi persona verso la quale siamo tenuti ad avere la carità, qualora troviamo in essa qualche cosa da correggere" (correctio fraterna, quae est actus caritatis, pertinet ad unumquemque respectu cuiuslibet personae ad quam caritatem debet habere, si in eo aliquid corrigibile invenitur).

In altre parole:  la correzione fraterna non ammette eccezioni.

D'altra parte, perché un atto sia virtuoso bisogna tener conto delle circostanze. Perciò "nelle correzioni che i sudditi fanno ai loro superiori si deve rispettare il debito modo:  essa cioè non va fatta con insolenza, né con durezza, ma con mansuetudine e con rispetto. E infatti l'Apostolo (1 Timoteo, 5, 1) ammonisce:  "Non essere aspro nel riprendere un anziano, ma esortalo come se fosse tuo padre"".

Tommaso si chiede anche se sia lecito un rimprovero pubblico, e non esita a rispondere:  "Quando ci fosse un pericolo per la fede, i sudditi sarebbero tenuti a rimproverare i loro prelati anche pubblicamente" e, citando Agostino (Glossa ordinaria su Galati, 2, 14), prosegue:  "Pietro stesso diede l'esempio ai superiori di non sdegnare di essere corretti dai sudditi, quando capitasse loro di allontanarsi dalla giusta via".

Né questo significherebbe presunzione:  "Presumere di essere in modo assoluto migliore del proprio prelato è un atto di presuntuosa superbia, ma stimarsi migliore in qualcosa non è presunzione, poiché nessuno in questa vita è senza qualche difetto. E si deve anche notare che, quando un suddito ammonisce con carità il suo prelato, non per questo si stima superiore a lui, ma offre solo un aiuto a colui che, stando a S. Agostino (Epistola, 211), "quanto più si trova in alto, tanto più è in grave pericolo"".

Più avanti, realisticamente, aggiungerà:  "Quando perciò si giudica probabile che il peccatore non accetterà l'ammonizione, ma farà peggio, si deve desistere dal correggerlo".
Esattamente questo senso della misura, che coincide con la forza della verità, conferisce a Tommaso la libertà del pensiero e della parola, e fa di lui un maestro non invadente, ma esigente.


(©L'Osservatore Romano - 7 marzo 2010)
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Il tomismo nella Scuola romana

Quel Novecento sedotto dal pensiero dell'Aquinate


Pubblichiamo stralci della conferenza che si tiene il 25 marzo presso la Pontificia Università Lateranense sul tema "Il tomismo nella "scuola romana" del Novecento", nell'ambito di un ciclo di incontri dedicato a san Tommaso nel xx secolo.

di Brunero Gherardini

Tomisti "romani" nel Novecento; sarebbe interessante delineare, anche solo sommariamente, la storia delle maggiori figure che hanno attinto alla ricca fonte del pensiero dell'Aquinate accanto a una visione storica dei lontani inizi di questa scuola filosofico-teologica, del suo consolidarsi nel Collegio romano e quindi nelle due Pontificie Università di Sant'Apollinare e della Gregoriana, dei suoi uomini, del suo declino - che però non fu la sua morte - negli anni successivi al Vaticano ii.
 
Vorrei fissare l'attenzione sul periodo che chiamerei aureo di questa scuola, il secolo scorso, ma non posso parlarne senz'aver prima osservato che nei secoli XVII XVIII, sotto l'urto di correnti varie e spesso contrapposte, la teologia s'inaridì nella controversia, preparando, ciò nonostante, l'avvento di quello che Otto Dibelius avrebbe più tardi definito "il secolo della Chiesa".
La preparazione immediata e diretta di esso appartiene a due scuole d'altissima qualità e non univoco indirizzo:  la scuola di Tubinga e quella romana.

L'indirizzo di quest'ultima espresse subito un tomismo serio e conseguente, prevenendo la felice ripresa dell'interesse all'Angelico, che l'enciclica Aeterni Patris di Leone xiii avrebbe presto avviato. E l'epocale intervento leoniano fu il suggello della Scuola romana.

Nei secoli xii e xiii la Scolastica aveva avuto il suo massimo splendore; declinò nei secoli successivi, sotto i colpi del nominalismo e quindi del protestantesimo. Il concilio di Trento tentò di risollevare le sorti del sapere cattolico, incontrando la pronta risposta dei somaschi, dei barnabiti, degli scolopi  e soprattutto dei gesuiti. La ripresa, peraltro, nel XVIi-XVIii secolo rivelò  difetti di metodo, contro i quali teologi come Billuart e Gotti, religiosi come i benedettini di Salzburg e i gesuiti di Würzburg e santi come Alfonso Maria de' Liguori, instradarono la teologia in senso speculativo e positivo.

È questa l'atmosfera che prelude all'Aeterni Patris:  quella del Collegio romano, dei suoi più celebrati esponenti e quindi della Scuola romana; sostantivo e aggettivo vengono usati in riferimento a una corrente di pensiero filosofico e teologico che ebbe in Roma il suo principale centro d'irradiazione  e  amplificazione,  ma  annoverò  cultori e perfino promotori anche fuori dell'urbe; i suoi echi, inoltre, si diffusero felicemente un po' dovunque.

Romana non definisce, quindi, anche se non li esclude, i confini geografici della scuola, il cui indirizzo ideale fu condiviso, per esempio, anche da Matthias-Joseph Scheeben (1835-1888) "romano" e tomista a tutti gli effetti, non come un arido ripetitore, ma come un pensatore che nutre della dottrina dell'Aquinate il proprio genio speculativo per affrontare decisive questioni di metodo nella scienza teologica. C'è, tuttavia, un motivo diretto che giustifica il nome dato a questa corrente di pensiero:  Roma è il suo terreno di coltura e la romanità è la scaturigine della sua tensione ideale universale.

Tra l'Otto e il Novecento, ricordiamo, tra gli altri, Riccardo Tabarelli (1851-1909), stimmatino, professore di filosofia e di teologia dogmatica sia all'Apollinare, sia all'Accademia di San Tommaso d'Aquino, e come tale partecipe al rinnovamento neoscolastico per neutralizzare i crescenti influssi del pensiero tedesco, ch'egli conosceva perfettamente.

E proprio perché aveva una diretta conoscenza di tutto il movimento culturale dell'epoca, non solo non fu sfiorato dal pericolo modernista, ma lo combatté efficacemente, così come combatté ciò che d'insicuro e discutibile trovava in Rosmini, da lui onestamente scagionato dall'accusa di panteismo.
Superata la soglia del Novecento, vanno ricordate anzitutto le due Pontificie Accademie, la Teologica Romana e quella di San Tommaso d'Aquino, che prima e dopo il Vaticano ii, in un contesto storico non sempre favorevole, hanno contribuito con intelligenza e costanza all'affermazione del tomismo, l'una soprattutto con "Divinitas", fondata da Antonio Piolanti nel 1957 e tuttora validamente sulla breccia, e l'altra con i memorabili congressi tomistici e con il suo prestigioso organo "Doctor communis".

Ambedue rifondate nel 1999, hanno perso non poco della loro motivazione originaria. Epigoni della scuola furono pure alcuni grandi maestri; pongo in prima linea Cornelio Fabro (1911-1995) che, nella nostra epoca, fu il più originale, il più profondo, il più creativo fra i pur dotti e fedeli tomisti. Nessuno, infatti, riuscì come lui a coniugare "essere" e "libertà" come fondamenti di quello ch'egli chiamava tomismo essenziale.

Sul versante più teologico che filosofico operò Pietro Parente (1891-1986), insigne dogmatico di Propaganda Fide e del Laterano, che presentò - Thoma magistro - l'intero curricolo teologico in chiave cristologica, espositore brillante, mai chiuso ma capace d'"inverare" nei limiti del possibile gli sforzi talvolta devianti dell'intelletto umano. Fu vescovo di Perugia, assessore al Sant'Uffizio e cardinale di Santa Romana Chiesa.

Colonna della Lateranense come professore e come rettore, nonché rinomatissimo professore di Propaganda Fide, fu Antonio Piolanti (1911-2001), il più infaticato cultore di san Tommaso d'Aquino. Succedendo a un altro benemerito del tomismo, il gesuita Charles Boyer, divenne l'anima dei congressi tomistici, il motore dell'interesse all'Aquinate, il promotore delle più varie iniziative per la diffusione del pensiero tomista e dell'amore a san Tommaso.

Anche altri, e non pochi, tra i quali Luigi Bogliolo, Dario Composta e Raimondo Spiazzi, da vario tempo mancati, hanno tenuto alta la bandiera della Scuola romana.


(©L'Osservatore Romano - 25 marzo 2010)
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30/03/2010 16:33
 
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San Tommaso d’Aquino

Sant’Alberto Magno ebbe a dire di Tommaso: . Tommaso era quel genere di studente che preferisce di gran lunga passare per somaro…,piuttosto che lasciar invadere i propri sogni da somari più attivi o dinamici di lui!

Tommaso d’Aquino è considerato il più celebre teologo della cristianità, patrono delle scuole cattoliche, fu anche un modello di vita evangelica sposando la povertà alla preghiera, l’umiltà alla sapienza seguendo proprio l’insegnamento del Fondatore del suo Ordine, Domenico di Guzman, quello Domenicano.
Nato nel 1220, proprio quando l’Ordine era stato da pochi anni approvato (1215) da papa Onorio III Tommaso, all’età di cinque anni, viene mandato presso l’abbazia di Montecassino per essere educato alla fede. Verso i 14 anni si ferma a Napoli per studiare alla facoltà di arti all’Università. Qui conosce i Domenicani e, nel 1244, chiede di poter essere ammesso nell’Ordine. I superiori ben presto si accorgono del talento eccezionale di Tommaso e lo mandano a Parigi per completare gli studi.

Nel 1252, fra il suggerimento del Maestro Generale dell’Ordine, fr. Giovanni di Wildeshanen, e l’interessamento di Alberto Magno, Tommaso cominciò ad insegnare alla Cattedra degli stranieri sotto Elia Brunet. Purtroppo, in quel periodo, si aggravano i rapporti dei professori parigini del clero secolare, contro i colleghi scientificamente più preparati degli Ordini Mendicanti…All’ombra di questa tempesta che minacciava tutti i frati mendicanti (Francescani e Domenicani), pare che Bonaventura, il Francescano, diventò così amico di Tommaso il Domenicano, che i contemporanei li paragonavano a “Davide e a Golia”…Entrambi si recarono a Roma per difendere le ragioni e la libertà dei Frati. E’ la prima “battaglia” di Tommaso che, a ragione, difende i diritti del suo Ordine inserendo anche un suo primo scritto molto interessante, “Contra impugnantes”, per poter rispondere ad alcune serie obiezioni di carattere dottrinale.
Queste incomprensioni durarono fino al 1256 e, Tommaso, appoggiato anche da papa Alessandro IV, potè tenere la prima lezione. Nel 1259 viene chiamato in Italia dove continua ad insegnare e a predicare. Tra il 1262-1264, viene assegnato ad Orvieto, dove aveva la residenza estiva papa Urbano IV. Il pontefice si avvalse della sua collaborazione sia per la compilazione della “Catena Aurea”, che per le trattative con la Chiesa Orientale, per la quale scrisse un opuscolo che per molti secoli esercitò un influsso positivo nei rapporti ecumenici!

L’otto settembre del 1264 venne istituita la festa del “Corpus Domini” e Tommaso venne incaricato a scrivere una serie di Inni. Da qui il celebre e meraviglioso “Pange Lingua gloriosi Corporis mysterium”, la cui quinta strofa, che inizia con “Tantum ergo”, è cantata solennemente ogni volta che si impartisce la benedizione con il SS.mo Sacramento.

Nel 1265 è a S.Sabina a Roma e, nel 1267, a Viterbo (era lì la sede papale), dove lo vuole vicino a se papa Clemente IV. In questi anni compone le opere più importanti ed illuminanti, come la “Summa contra gentiles; De unitate intellectus; De regimine principum” e gran parte della “Summa theologica”, un capolavoro che ha ispirato la teologia cattolica fino ai giorni nostri.

Tuttavia, Tommaso d’Aquino, era un profondo sacerdote: celebrava la Messa tutti i giorni ma con una viva intensità che un giorno fu visto levitare. Dormiva pochissimo perché, sull’esempio del suo amato Fondatore, trascorreva molte ore a pregare o in camera, o in chiesa davanti al SS.mo per il Quale nutriva un amore indescrivibile! Appena poteva, donava quel che aveva raccolto per se ai poveri, una volta donò anche i propri vestiti e, prima di mettersi a scrivere, si tratteneva davanti al crocifisso o al Tabernacolo (una volta restò in estasi con la testa appoggiata dentro), dal quale chiedeva e traeva lume di verità! Si tramanda che una volta, mentre pregava sotto al Crocifisso, udì la voce del Signore: rispose: Una volta scrisse: “La fede è un assaggiare in anticipo quella conoscenza che ci fa beati nel futuro.> E come dargli torto? Tommaso asserisce che “Fede e Ragione” possono compensarsi senza, necessariamente, opporsi…e diceva: “i doni della Grazia si adeguano alla natura così che non annullano ma, piuttosto, la perfezionano. Perciò la luce della fede che entra in noi per grazia, non spegne la luce della conoscenza naturale che è una nostra dote naturale.>


Nel 1273, dopo la Messa alla festa di S.Nicola, confidò all’amico Reginaldo di non voler più scrivere la “Summa” perché, disse: , e la Summa rimase interrotta al trattato “De Poenitentia”.
L’anno dopo si mise in viaggio verso Lione, per partecipare al concilio dell’unione fra Roma e Oriente, per ordine di papa Gregorio X.
Nel viaggio si fermò all’abbazia di Fossanova dove, il suo primo pensiero era di entrare in Chiesa per adorare il SS.mo Sacramento. All’amico Reginaldo confiderà di sentire prossima la fine! Dopo circa un mese, sentendosi ormai vicino al traguardo, chiese di ricevere l’Eucarestia ma non sul letto, si alzò e prostrato a terra recitò alcune preghiere, aggiungendo:
Tommaso d’Aquino muore il 7 marzo del 1274. Canonizzato nel 1323, la sua festa è stata spostata al 28 gennaio per ricordare la traslazione avvenuta nel 1368. (1)

Ma chi era s. Tommaso d’Aquino?

Nel suo libro, Chesterton, ci presenta un Tommaso forse un po’ inedito, accompagnato dalla figura di Francesco d’Assisi, scrive: <…questi due grandi uomini, lavoravano alla stessa grande opera; uno nello studio e l’altro per la strada. Non portavano qualcosa di nuovo al cristianesimo…portavano il cristianesimo dentro la cristianità. Ma lo riportavano all’indietro, andando contro la pressione di certe tendenze storiche, cresciute fino a diventare atteggiamenti consolidati presso molte grandi scuole e autorità della Chiesa; usavano “strumenti” e armi che a molti apparivano associabili con l’eresia o il paganesimo: Francesco usava la Natura e la povertà evangelica nella sua radicalità (la dove si rendeva necessario), un po’ come Tommaso usava Aristotele…Forse potrei essere frainteso se dicessi che s. Francesco con tutto il suo amore per gli animali, ci salvò dall’essere buddisti; e che san Tommaso con tutta la sua passione per la filosofia greca, ci salvò dall’essere platonici. Ma è meglio dire la verità nella maniera più semplice e cioè: che entrambi riaffermarono l’Incarnazione, “riportandoci” Cristo sulla Terra! (2) . (Questione disputate “De potentia Dei” q.VI, a.8). Con queste parole Tommaso da vigore a quella “sconcertante dottrina dell’Incarnazione”, a cui gli scettici trovano difficile credere!

San Tommaso d’Aquino è stato uno dei grandi liberatori dell’intelletto umano! Egli riconciliò la religione alla ragione, ribadendo che “i sensi sono le finestre dell’anima e che la ragione, ha il diritto divino di nutrirsi di fatti”. L’intera lezione della sua vita, la storia della sua infanzia, ci insegnano che Tommaso, fu da subito un “innamorato devoto”; che amò appassionatamente la fede cattolica, molto prima di scoprire che per essa avrebbe dovuto combattere!

Francesco e Tommaso avevano un altro aspetto, molto importante, in comune: entrambi amavano, imitavano e “correvano dietro” al Maestro…che non era la Natura, né Aristotele, più semplicemente: Gesù Cristo, Dio stesso fatto Uomo!

Così, se Francesco diventava sempre più simile a Cristo quando contemplava la Natura; Tommaso diventava più cristiano, quando ribadiva che Dio e l’immagine di Dio erano entrati in contatto col mondo materiale attraverso la materia. Entrambi davano vigore alla sconcertante dottrina dell’Incarnazione!
Tommaso d’Aquino era più che un teologo, più che un dogmatico, avendo ristabilito tramite Aristotele, il provocatorio di tutti i dogmi: lo sposalizio di Dio con l'uomo e, dunque, con la materia…(3)
Può sembrare un paradosso dire che “Tommaso rese più cristiana la cristianità, rendendola più aristotelica”…se, coloro che sanno cosa vuol dire “aristotelico” hanno, però, dimenticato cosa voglia dire “cristiano”. In poche parole: i crociati volevano riconquistare il luogo dove era stato il corpo di Cristo perché credevano, a torto o a ragione, che fosse un luogo cristiano. San Tommaso, invece, voleva riconquistare quello che era, in sostanza, il corpo stesso di Cristo; il corpo santificato dal Figlio dell’uomo, che era diventato un miracoloso mediatore tra Cielo e Terra!

Rispetto alla mentalità platonica, Tommaso scelse la via più umile, più bassa, quando si inserì nella scia di Aristotele…un po’ come fece Dio, quando scelse e si mise all’opera…nella “bottega” di Giuseppe di Nazareth, per portare a compimento il Suo progetto di salvezza!
Aristotele prendeva le cose come le trovava; Tommaso accettava le cose come Dio le aveva create!


Per concludere

Nel 1215, Domenico di Guzman, fondò un Ordine molto simile a quello di Francesco d’Assisi. Domenico aveva lo scopo di predicare la filosofia cattolica agli eretici Albigesi. Entrambi compaiono nella storia come una sorte di ponte tra il mondo moderno e quello medievale. La differenza fra i due Ordini (a parte i disegni della Provvidenza, verso i quali nutriamo poco interesse!) è che a Domenico toccò il confrontarsi con una enorme campagna per la conversione degli eretici, non dimenticando le impervie zone in cui doveva muoversi e lavorare con i suoi frati. Mentre Francesco ebbe il compito della conversione diretta di esseri umani, con un ritorno alle radici del Vangelo.(4)

Entrambi si compensano e…di entrambi la Chiesa non può fare a meno! Abbiamo bisogno di uno come Domenico di Guzman, di un Tommaso d’Aquino, di una Caterina da Siena…per convertire i pagani al cristianesimo; e abbiamo ancora bisogno di un Francesco d’Assisi per convertire i cristiani al…cristianesimo!
Il giudizio storico su entrambi, ha un sapore ironico, in sostanza dice questo: che Francesco è definito “più umano” perché cercò di convertire i saraceni, ma fallì, anche se contribuì ad un arresto delle successive invasioni! Domenico è definito un “bigotto, un ottuso” (e con Lui l’Ordine stesso), perché cercò di convertire gli albigesi e ci riuscì, contribuendo ad una riforma intellettuale della Chiesa.

Ma tra i due Santi della Provvidenza, e di quanti hanno abbracciato il loro carisma, c’è un legame assai più sostanziale: l’amore per la Chiesa Cattolica, l’obbedienza al Magistero, l’affetto filiale verso i successori della Cattedra di Pietro, l’autentico desiderio di voler appartenere a Cristo che resta, per loro, un obbiettivo da condividere e da raggiungere con il proprio prossimo.



Caterina, terziaria domenicana, 6 Gennaio 2001 – Epifania di nostro Signore Gesù Cristo.

NOTE

(1) “Santi d’Italia”, di Alfredo Cattabiani, ed. Rizzoli, 1993, pag.893 e ss.
(2) “S.Tomma d’Aquino” di G.K.Chesterton, ed. Piemme, 1935 (ristampa 1998), pag.18.
(3) “ibidem, pag.28”
(4) “ibidem, pag.29”

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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L'Aquinate e il pensiero contemporaneo

Il sistema aperto
di san Tommaso


Pubblichiamo una sintesi di una delle lezioni tenute alla Pontificia Università Lateranense per la "Cattedra san Tommaso" diretta da monsignor Mario Pangallo.

di Antonio Livi

Già dagli ultimi decenni del 1900 e soprattutto in questo primo decennio del Duemila il panorama filosofico mondiale non è più caratterizzato solo dal pensiero "post-metafisico", ma registra anche una vigorosa ripresa della metafisica. Ciò si deve soprattutto alla passione teoretica e alla competenza storiografica di insigni studiosi europei e americani di ispirazione tomista che sono stati capaci di dimostrare criticamente la possibilità e la necessità della metafisica, in serrata polemica con i sostenitori del suo "oltrepassamento" (Überwindung) ma anche in dialogo costruttivo con le istanze teoretiche presenti nelle più importanti scuole filosofiche, da quella fenomenologica a quella ermeneutica e a quella analitica.

È stato grazie a questo dialogo fecondo con il pensiero contemporaneo che la nuova fioritura di studi tomistici è stata in grado di riportare alla luce i fondamenti epistemologici della metafisica, dimostrandone criticamente l'incontrovertibilità come scienza e la necessità come sapienza. L'innegabile presenza del pensiero di Tommaso d'Aquino nel dibattito filosofico contemporaneo si deve appunto allo specifico contributo fornito dai pensatori cristiani alla soluzione dei problemi che stanno al centro della ricerca epistemologica moderna.

Tale contributo consiste nella soluzione data al problema della metafisica (se sia possibile o addirittura imprescindibile), ma presuppone i risultati cui è pervenuta la celebre querelle (iniziata nel 1931 alla Sorbona e alla quale parteciparono Maurice Blondel, Émile Bréhier, Léon Brunschivicg, Étienne Gilson e Jacques Maritain) sull'esistenza storica e sulla possibilità teorica di una filosofia cristiana.

La discussione è continuata fino ai nostri giorni e ha finito per coinvolgere tutti i pensatori cristiani che ben comprendevano come essa implicasse la soluzione del problema se possa esserci un terreno d'incontro tra ragione e fede. Ma finora la possibilità della metafisica e la possibilità di una filosofia cristiana sono stati considerati come problemi separabili l'uno dall'altro, e di fatto sono stati affrontati separatamente, mentre andrebbero compresi come due aspetti della medesima questione. Già Giovanni Paolo ii li aveva opportunamente collegati tra loro nell'enciclica Fides et ratio (14 settembre 1998), la quale può considerarsi un intervento del magistero ecclesiastico a favore della metafisica proprio come struttura portante della filosofia cristiana, che Giovanni Paolo ii, riallacciandosi agli insegnamenti di Leone xiii (cfr. l'enciclica Aeterni Patris del 1879), considera indispensabile strumento dell'interpretazione teologica della verità rivelata. Insomma, il richiamo alla necessità della metafisica - e alla sua possibilità anche nell'epoca attuale - ha senso, in un'ottica teologica, all'interno del riconoscimento della possibilità e della necessità di una filosofia cristiana.

Riassumendo anni di studi e di discussioni sul problema della filosofia cristiana, la Fides et ratio ne prospetta la soluzione alla luce della storia della Chiesa, mostrando cioè il fecondo cammino della teologia dalle origini patristiche alle sintesi medioevali, per poi additare il metodo di Tommaso come il modello, oggi più che mai valido, di una speculazione capace di penetrare a fondo nel significato delle verità rivelate (accolte con assoluta certezza dalla fede) facendo ricorso anche a quelle verità naturali (certificate dalla ragione nella sua funzione critica) che risultano sostanzialmente connesse al contenuto razionale della rivelazione divina.

Ciò che in Tommaso può chiamarsi "filosofia cristiana" altro non è, appunto, se non il necessario e congruo uso della filosofia in teologia:  uso che risponde certamente a finalità primariamente teologiche ma anche al rilevamento critico (cioè filosofico) degli elementi di razionalità che sono comuni alla conoscenza delle realtà create e alla cono scenza dei misteri soprannaturali. In Tommaso d'Aquino l'autonomia formale e l'unità intenzionale di filosofia e teologia costituiscono un "sistema aperto", nel quale, come ha saputo dimostrare Gilson, la filosofia è autenticamente razionale e capace di giustificare dialetticamente i propri asserti, ma non può essere separata dal contesto teologico che le fornisce un'impareggiabile motivazione esistenziale alla ricerca filosofica.

Tornando al nesso tra il problema della filosofia cristiana e quello della metafisica, Giovanni Paolo ii non manca di rilevare che l'affermazione del principio dell'armonia di ragione e fede in teologia dipende in Tommaso d'Aquino da un fondamentale presupposto metafisico, quello dell'unità dell'ordine naturale (ordo creationis) e di quello soprannaturale (ordo gratiae) nella nozione cristiana di Dio Creatore e Redentore dell'uomo. A questo proposito la Fides et ratio riporta un celebre passo del Liber de veritate catholicae fidei (i, 7) e lo commenta osservando che Tommaso "argomentava a partire dal principio che la luce della ragione e quella della fede provengono entrambe da Dio, e quindi non possono contraddirsi tra loro" ( 43).

Proprio in virtù di questo fondamento metafisico - un fondamento reale e non arbitrario, incontrovertibile e non postulatorio - la filosofia cristiana è stata feconda di risultati propriamente razionali e ha segnato un effettivo progresso nella storia della filosofia. Già agli inizi del Novecento gli elementi più rilevanti di questo progresso erano stati individuati e valorizzati da Gilson sul piano storico-critico. Nella sua opera su L'Esprit de la philosophie médiévale (1931) Gilson dimostrava che le nozioni metafisiche più caratteristiche del pensiero medioevale sono tutte di derivazione teologica:  esse fanno seguito alla rivelazione biblica e non ve n'è traccia nella filosofia pre-cristiana; inoltre, sono nozioni dalle quali il pensiero moderno non ha potuto più prescindere, anche se talvolta si è prefisso di contrapporsi al pensiero cristiano medioevale.

Gilson poteva documentare questa sua tesi storiografica sulla base dei suoi studi, criticamente ineccepibili, sulla derivazione scolastica delle principali nozione metafisiche del sistema cartesiano. A distanza di oltre mezzo secolo, questa rilevazione gilsoniana ha trovato conferma nel magistero di Giovanni Paolo ii (cfr. Fides et ratio, 76). Ma allora non si deve perdere di vista il nesso intrinseco che esiste tra filosofia cristiana e metafisica. L'originalità e il valore propriamente filosofico della filosofia cristiana altro non è se non l'originalità e il valore propriamente filosofico della metafisica cristiana, che trova il suo culmine speculativo all'interno della teologia di Tommaso.
 
Occorre dunque ricordare che la metafisica di Tommaso, incentrata com'è noto sulla nozione originalissima e feconda di esse ut actus, dipende totalmente dalla rivelazione biblica, grazie alla quale il rapporto tra mondo e Dio è inteso come rapporto tra creatura e Creatore, e Dio è l'Essere assolutamente trascendente (ipsum esse subsistens) che per amore dona l'essere a ogni cosa che noi vediamo esistere e che così è habens esse, un ente per partecipazione. Per sottolineare la derivazione biblica della metafisica creazionistica Gilson coniò l'espressione métaphysique de l'Exode, da molti non correttamente compresa e pertanto ingiustamente criticata.

Tutta l'opera filosofica e teologica di Tommaso è in stretta connessione con il principio metafisico della creazione/partecipazione, dal quale derivano i criteri epistemologici fondamentali, come quello cui Tommaso si ispira nel formulare la sua dottrina dei praeambula fidei, ossia dei rapporti tra fede nella rivelazione e ragione naturale:  Fides praesupponit rationem, sicut gratia naturam et perfectio perfectibile.


(©L'Osservatore Romano - 2 giugno 2010)
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San Tommaso d’Aquino al centro della catechesi del Papa all’udienza generale
di oggi mercoledì 2.6.2010

All’udienza generale di stamani in Piazza San Pietro, il Papa ha ripreso le catechesi sui grandi teologi del periodo medioevale presentando la vita di un santo teologo che la Chiesa chiama il Doctor communis: san Tommaso d’Aquino. Giovanni Paolo II – ha ricordato - nella sua Enciclica Fides et ratio ha sottolineato che San Tommaso “è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia”. “Non sorprende – ha rilevato - che, dopo sant’Agostino, tra gli scrittori ecclesiastici menzionati nel Catechismo della Chiesa Cattolica, san Tommaso venga citato più di ogni altro, per ben sessantuno volte! Egli è stato chiamato anche il Doctor Angelicus, forse per le sue virtù, in particolare la sublimità del pensiero e la purezza della vita”.


Dopo aver ricordato che Tommaso nacque tra il 1224 e il 1225 nel castello che la sua famiglia, nobile e facoltosa, possedeva a Roccasecca, nei pressi di Aquino, vicino alla celebre abbazia di Montecassino, dove fu inviato dai genitori per ricevere i primi elementi della sua istruzione, ha sottolineato come qualche anno dopo si trasferì nella capitale del Regno di Sicilia, Napoli, dove Federico II aveva fondato una prestigiosa Università. Qui – ha proseguito il Papa – “veniva insegnato, senza le limitazioni vigenti altrove, il pensiero del filosofo greco Aristotele, al quale il giovane Tommaso venne introdotto, e di cui intuì subito il grande valore. Ma soprattutto, in quegli anni trascorsi a Napoli, nacque la sua vocazione domenicana. Tommaso fu infatti attratto dall’ideale dell’Ordine fondato non molti anni prima da san Domenico. Tuttavia, quando rivestì l’abito domenicano, la sua famiglia si oppose a questa scelta, ed egli fu costretto a lasciare il convento e a trascorrere qualche tempo in famiglia”. Il Papa ha quindi ricordato che nel 1245, “ormai maggiorenne, poté riprendere il suo cammino di risposta alla chiamata di Dio. Fu inviato a Parigi per studiare teologia sotto la guida di un altro santo, Alberto Magno”. I due “strinsero una vera e profonda amicizia e impararono a stimarsi e a volersi bene, al punto che Alberto volle che il suo discepolo lo seguisse anche a Colonia, dove egli era stato inviato dai Superiori dell’Ordine a fondare uno studio teologico. Tommaso prese allora contatto con tutte le opere di Aristotele e dei suoi commentatori arabi, che Alberto illustrava e spiegava. In quel periodo – ha proseguito Benedetto XVI - la cultura del mondo latino era stata profondamente stimolata dall’incontro con le opere di Aristotele, che erano rimaste ignote per molto tempo. Si trattava di scritti sulla natura della conoscenza, sulle scienze naturali, sulla metafisica, sull’anima e sull’etica, ricchi di informazioni e di intuizioni che apparivano valide e convincenti”.

Il Papa ha rilevato come “alcuni accolsero con entusiasmo acritico questo enorme bagaglio del sapere antico, che sembrava poter rinnovare vantaggiosamente la cultura”. Altri, invece temevano che il pensiero pagano di Aristotele “fosse in opposizione alla fede cristiana, e si rifiutavano di studiarlo” a ciò condotti “anche dalla presentazione che di Aristotele era stata fatta dai commentatori arabi Avicenna e Averroè”: questi avevano insegnato che “gli uomini non dispongono di un’intelligenza personale, ma che vi è un unico intelletto universale”, una sostanza spirituale comune a tutti. “Un altro punto discutibile veicolato dai commentatori arabi – ah aggiunto - era quello secondo il quale il mondo è eterno come Dio”. Queste tesi scatenarono grandi dispute nel mondo universitario e in quello ecclesiastico mentre la filosofia aristotelica si andava diffondendo addirittura tra la gente semplice.

Il Papa ha ricordato che “Tommaso d’Aquino, alla scuola di Alberto Magno, svolse un’operazione di fondamentale importanza per la storia della filosofia e della teologia” studiando a fondo Aristotele e i suoi interpreti, procurandosi nuove traduzioni latine dei testi originali in greco; commentò gran parte delle opere aristoteliche, “distinguendovi ciò che era valido da ciò che era dubbio o da rifiutare del tutto, mostrando la consonanza con i dati della Rivelazione cristiana e utilizzando largamente e acutamente il pensiero aristotelico nell’esposizione degli scritti teologici che compose. In definitiva – ha spiegato - Tommaso d’Aquino mostrò che tra fede cristiana e ragione sussiste una naturale armonia”. Nella elaborazione delle sue opere – ha proseguito - “tra cui eccelle la Summa Theologiae”, Tommaso era coadiuvato da alcuni segretari, tra i quali il confratello Reginaldo di Piperno, che lo seguì fedelmente e al quale fu legato da fraterna e sincera amicizia, caratterizzata da una grande confidenza e fiducia. “È questa una caratteristica dei santi: coltivano l’amicizia, perché essa è una delle manifestazioni più nobili del cuore umano e ha in sé qualche cosa di divino”.

Benedetto XVI ha poi ricordato che Papa Urbano IV, che nutriva per lui una grande stima, gli commissionò la composizione dei testi liturgici per la festa del Corpus Domini, istituita in seguito al miracolo eucaristico di Bolsena. “Tommaso ebbe un’anima squisitamente eucaristica. I bellissimi inni che la liturgia della Chiesa canta per celebrare il mistero della presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore nell’Eucaristia sono attribuiti alla sua fede e alla sua sapienza teologica”. Il Papa ha poi sottolineato come alle lezioni di Tommaso all’università di Parigi partecipavano con entusiasmo tanti studenti. Ma oltre che allo studio e all’insegnamento, - ha notato - Tommaso si dedicò anche alla predicazione al popolo, che volentieri andava ad ascoltarlo. “È veramente una grande grazia – ha aggiunto - quando i teologi sanno parlare con semplicità e fervore ai fedeli. Il ministero della predicazione, d’altra parte, aiuta gli stessi studiosi di teologia a un sano realismo pastorale, e arricchisce di vivaci stimoli la loro ricerca”.

Gli ultimi mesi della vita terrena di Tommaso - ha osservato - restano circondati da un’atmosfera particolare. Nel dicembre del 1273 “chiamò il suo amico e segretario Reginaldo per comunicargli la decisione di interrompere ogni lavoro, perché, durante la celebrazione della Messa, aveva compreso, in seguito a una rivelazione soprannaturale, che quanto aveva scritto fino ad allora era solo ‘un mucchio di paglia’. È un episodio misterioso, che ci aiuta a comprendere non solo l’umiltà personale di Tommaso, ma anche il fatto che tutto ciò che riusciamo a pensare e a dire sulla fede, per quanto elevato e puro, è infinitamente superato dalla grandezza e dalla bellezza di Dio, che ci sarà rivelata in pienezza nel Paradiso”. Qualche mese dopo, sempre più assorto in una pensosa meditazione, Tommaso morì mentre era in viaggio verso Lione, dove si stava recando per prendere parte al Concilio Ecumenico indetto dal Papa Gregorio X. Si spense nell’Abbazia cistercense di Fossanova, dopo aver ricevuto il Viatico con sentimenti di grande pietà. “La vita e l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino – ha concluso il Papa – si potrebbero riassumere in un episodio tramandato dagli antichi biografi. Mentre il Santo, come suo solito, era in preghiera davanti al Crocifisso, al mattino presto nella Cappella di San Nicola, a Napoli, Domenico da Caserta, il sacrestano della chiesa, sentì svolgersi un dialogo. Tommaso chiedeva, preoccupato, se quanto aveva scritto sui misteri della fede cristiana era giusto”. E il Crocifisso rispose: “Tu hai parlato bene di me, Tommaso. Quale sarà la tua ricompensa?”. E la risposta che Tommaso diede è quella che anche noi, amici e discepoli di Gesù, vorremmo sempre dirgli: “Nient’altro che Te, Signore!”.

 Radio Vaticana


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Il Papa: San Tommaso d’Aquino mostrò che tra fede cristiana e ragione sussiste una naturale armonia


CICLO DI CATECHESI SUI GRANDI SCRITTORI DELLA CHIESA DI ORIENTE ED OCCIDENTE NEL MEDIOEVO

CICLO DI CATECHESI SULLA TEOLOGIA MONASTICA E LA TEOLOGIA SCOLASTICA



L’UDIENZA GENERALE, 02.06.2010

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa, riprendendo il ciclo di catechesi sui grandi teologi del Medioevo, si è soffermato sulla figura di San Tommaso d’Aquino.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti. Quindi ha pronunciato un appello per la pace e la ripresa del dialogo nei territori della Striscia di Gaza, dopo le tragiche vicende dei giorni passati.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

San Tommaso d’Aquino

Cari fratelli e sorelle,

dopo alcune catechesi sul sacerdozio e i miei ultimi viaggi, ritorniamo oggi al nostro tema principale, alla meditazione cioè di alcuni grandi pensatori del Medio Evo.
Avevamo visto ultimamente la grande figura di
san Bonaventura, francescano, e oggi vorrei parlare di colui che la Chiesa chiama il Doctor communis: cioè san Tommaso d’Aquino.
Il mio venerato Predecessore, il Papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica
Fides et ratio ha ricordato che san Tommaso "è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia" (n. 43). Non sorprende che, dopo sant’Agostino, tra gli scrittori ecclesiastici menzionati nel Catechismo della Chiesa Cattolica, san Tommaso venga citato più di ogni altro, per ben sessantuno volte! Egli è stato chiamato anche il Doctor Angelicus, forse per le sue virtù, in particolare la sublimità del pensiero e la purezza della vita.

Tommaso nacque tra il 1224 e il 1225 nel castello che la sua famiglia, nobile e facoltosa, possedeva a Roccasecca, nei pressi di Aquino, vicino alla celebre abbazia di Montecassino, dove fu inviato dai genitori per ricevere i primi elementi della sua istruzione. Qualche anno dopo si trasferì nella capitale del Regno di Sicilia, Napoli, dove Federico II aveva fondato una prestigiosa Università. In essa veniva insegnato, senza le limitazioni vigenti altrove, il pensiero del filosofo greco Aristotele, al quale il giovane Tommaso venne introdotto, e di cui intuì subito il grande valore. Ma soprattutto, in quegli anni trascorsi a Napoli, nacque la sua vocazione domenicana. Tommaso fu infatti attratto dall’ideale dell’Ordine fondato non molti anni prima da san Domenico. Tuttavia, quando rivestì l’abito domenicano, la sua famiglia si oppose a questa scelta, ed egli fu costretto a lasciare il convento e a trascorrere qualche tempo in famiglia.

Nel 1245, ormai maggiorenne, poté riprendere il suo cammino di risposta alla chiamata di Dio. Fu inviato a Parigi per studiare teologia sotto la guida di un altro santo,
Alberto Magno, sul quale ho parlato recentemente. Alberto e Tommaso strinsero una vera e profonda amicizia e impararono a stimarsi e a volersi bene, al punto che Alberto volle che il suo discepolo lo seguisse anche a Colonia, dove egli era stato inviato dai Superiori dell’Ordine a fondare uno studio teologico. Tommaso prese allora contatto con tutte le opere di Aristotele e dei suoi commentatori arabi, che Alberto illustrava e spiegava.

In quel periodo, la cultura del mondo latino era stata profondamente stimolata dall’incontro con le opere di Aristotele, che erano rimaste ignote per molto tempo. Si trattava di scritti sulla natura della conoscenza, sulle scienze naturali, sulla metafisica, sull’anima e sull’etica, ricchi di informazioni e di intuizioni che apparivano valide e convincenti.

Era tutta una visione completa del mondo sviluppata senza e prima di Cristo, con la pura ragione, e sembrava imporsi alla ragione come "la" visione stessa; era, quindi, un incredibile fascino per i giovani vedere e conoscere questa filosofia. Molti accolsero con entusiasmo, anzi con entusiasmo acritico, questo enorme bagaglio del sapere antico, che sembrava poter rinnovare vantaggiosamente la cultura, aprire totalmente nuovi orizzonti. Altri, però, temevano che il pensiero pagano di Aristotele fosse in opposizione alla fede cristiana, e si rifiutavano di studiarlo.

Si incontrarono due culture: la cultura pre-cristiana di Aristotele, con la sua radicale razionalità, e la classica cultura cristiana. Certi ambienti erano condotti al rifiuto di Aristotele anche dalla presentazione che di tale filosofo era stata fatta dai commentatori arabi Avicenna e Averroè. Infatti, furono essi ad aver trasmesso al mondo latino la filosofia aristotelica.

Per esempio, questi commentatori avevano insegnato che gli uomini non dispongono di un’intelligenza personale, ma che vi è un unico intelletto universale, una sostanza spirituale comune a tutti, che opera in tutti come "unica": quindi una depersonalizzazione dell'uomo. Un altro punto discutibile veicolato dai commentatori arabi era quello secondo il quale il mondo è eterno come Dio. Si scatenarono comprensibilmente dispute a non finire nel mondo universitario e in quello ecclesiastico. La filosofia aristotelica si andava diffondendo addirittura tra la gente semplice.

Tommaso d’Aquino, alla scuola di Alberto Magno, svolse un’operazione di fondamentale importanza per la storia della filosofia e della teologia, direi per la storia della cultura: studiò a fondo Aristotele e i suoi interpreti, procurandosi nuove traduzioni latine dei testi originali in greco.

Così non si appoggiava più solo ai commentatori arabi, ma poteva leggere personalmente i testi originali, e commentò gran parte delle opere aristoteliche, distinguendovi ciò che era valido da ciò che era dubbio o da rifiutare del tutto, mostrando la consonanza con i dati della Rivelazione cristiana e utilizzando largamente e acutamente il pensiero aristotelico nell’esposizione degli scritti teologici che compose.

In definitiva, Tommaso d’Aquino mostrò che tra fede cristiana e ragione sussiste una naturale armonia. E questa è stata la grande opera di Tommaso, che in quel momento di scontro tra due culture - quel momento nel quale sembrava che la fede dovesse arrendersi davanti alla ragione - ha mostrato che esse vanno insieme, che quanto appariva ragione non compatibile con la fede non era ragione, e quanto appariva fede non era fede, in quanto opposta alla vera razionalità; così egli ha creato una nuova sintesi, che ha formato la cultura dei secoli seguenti.

Per le sue eccellenti doti intellettuali, Tommaso fu richiamato a Parigi come professore di teologia sulla cattedra domenicana. Qui iniziò anche la sua produzione letteraria, che proseguì fino alla morte, e che ha del prodigioso: commenti alla Sacra Scrittura, perché il professore di teologia era soprattutto interprete della Scrittura, commenti agli scritti di Aristotele, opere sistematiche poderose, tra cui eccelle la Summa Theologiae, trattati e discorsi su vari argomenti. Per la composizione dei suoi scritti, era coadiuvato da alcuni segretari, tra i quali il confratello Reginaldo di Piperno, che lo seguì fedelmente e al quale fu legato da fraterna e sincera amicizia, caratterizzata da una grande confidenza e fiducia. È questa una caratteristica dei santi: coltivano l’amicizia, perché essa è una delle manifestazioni più nobili del cuore umano e ha in sé qualche cosa di divino, come Tommaso stesso ha spiegato in alcune quaestiones della Summa Theologiae, in cui scrive: "La carità è l’amicizia dell’uomo con Dio principalmente, e con gli esseri che a Lui appartengono" (II, q. 23, a.1).

Non rimase a lungo e stabilmente a Parigi. Nel 1259 partecipò al Capitolo Generale dei Domenicani a Valenciennes dove fu membro di una commissione che stabilì il programma di studi nell’Ordine. Dal 1261 al 1265, poi, Tommaso era ad Orvieto. Il Pontefice Urbano IV, che nutriva per lui una grande stima, gli commissionò la composizione dei testi liturgici per la festa del Corpus Domini, che celebriamo domani, istituita in seguito al miracolo eucaristico di Bolsena. Tommaso ebbe un’anima squisitamente eucaristica. I bellissimi inni che la liturgia della Chiesa canta per celebrare il mistero della presenza reale del Corpo e del Sangue del Signore nell’Eucaristia sono attribuiti alla sua fede e alla sua sapienza teologica. Dal 1265 fino al 1268 Tommaso risiedette a Roma, dove, probabilmente, dirigeva uno Studium, cioè una Casa di studi dell’Ordine, e dove iniziò a scrivere la sua Summa Theologiae (cfr Jean-Pierre Torrell, Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, Casale Monf., 1994, pp. 118-184).

Nel 1269 fu richiamato a Parigi per un secondo ciclo di insegnamento. Gli studenti - si può capire - erano entusiasti delle sue lezioni. Un suo ex-allievo dichiarò che una grandissima moltitudine di studenti seguiva i corsi di Tommaso, tanto che le aule riuscivano a stento a contenerli e aggiungeva, con un’annotazione personale, che "ascoltarlo era per lui una felicità profonda".

L’interpretazione di Aristotele data da Tommaso non era accettata da tutti, ma persino i suoi avversari in campo accademico, come Goffredo di Fontaines, ad esempio, ammettevano che la dottrina di frate Tommaso era superiore ad altre per utilità e valore e serviva da correttivo a quelle di tutti gli altri dottori. Forse anche per sottrarlo alle vivaci discussioni in atto, i Superiori lo inviarono ancora una volta a Napoli, per essere a disposizione del re Carlo I, che intendeva riorganizzare gli studi universitari.

Oltre che allo studio e all’insegnamento, Tommaso si dedicò pure alla predicazione al popolo. E anche il popolo volentieri andava ad ascoltarlo.

Direi che è veramente una grande grazia quando i teologi sanno parlare con semplicità e fervore ai fedeli. Il ministero della predicazione, d’altra parte, aiuta gli stessi studiosi di teologia a un sano realismo pastorale, e arricchisce di vivaci stimoli la loro ricerca.

Gli ultimi mesi della vita terrena di Tommaso restano circondati da un’atmosfera particolare, misteriosa direi. Nel dicembre del 1273 chiamò il suo amico e segretario Reginaldo per comunicargli la decisione di interrompere ogni lavoro, perché, durante la celebrazione della Messa, aveva compreso, in seguito a una rivelazione soprannaturale, che quanto aveva scritto fino ad allora era solo "un mucchio di paglia".

È un episodio misterioso, che ci aiuta a comprendere non solo l’umiltà personale di Tommaso, ma anche il fatto che tutto ciò che riusciamo a pensare e a dire sulla fede, per quanto elevato e puro, è infinitamente superato dalla grandezza e dalla bellezza di Dio, che ci sarà rivelata in pienezza nel Paradiso. Qualche mese dopo, sempre più assorto in una pensosa meditazione, Tommaso morì mentre era in viaggio verso Lione, dove si stava recando per prendere parte al Concilio Ecumenico indetto dal Papa Gregorio X. Si spense nell’Abbazia cistercense di Fossanova, dopo aver ricevuto il Viatico con sentimenti di grande pietà.

La vita e l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino si potrebbero riassumere in un episodio tramandato dagli antichi biografi. Mentre il Santo, come suo solito, era in preghiera davanti al Crocifisso, al mattino presto nella Cappella di San Nicola, a Napoli, Domenico da Caserta, il sacrestano della chiesa, sentì svolgersi un dialogo.

Tommaso chiedeva, preoccupato, se quanto aveva scritto sui misteri della fede cristiana era giusto. E il Crocifisso rispose: "Tu hai parlato bene di me, Tommaso. Quale sarà la tua ricompensa?". E la risposta che Tommaso diede è quella che anche noi, amici e discepoli di Gesù, vorremmo sempre dirgli: "Nient’altro che Te, Signore!" (Ibid., p. 320).

The Italian Air Force aerobatic unit Frecce Tricolori (Tricolor Arrows) spread green, white and red smoke to recall the colours of the Italian flag over St. Peters's square during Pope Benedict XVI weekly general audience at the Vatican on June 2, 2010. Italy celebrates the 64th anniversary of Republic Day.

The Italian Air Force aerobatic team "Frecce Tricolori" performs during Pope Benedict XVI's weekly Wednesday general audience in St. Peter's Square at the Vatican June 2, 2010.

Pope Benedict XVI speaks during the weekly Wednesday general audience in St. Peter's Square at the Vatican June 2, 2010.

Pope Benedict XVI touches a child on June 2, 2010 during his weekly general audience in Saint-Peter's square at the Vatican.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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CICLO DI CATECHESI SUI GRANDI SCRITTORI DELLA CHIESA DI ORIENTE ED OCCIDENTE NEL MEDIOEVO

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San Tommaso d'Aquino [1] (udienza generale, 2 giugno 2010) - leggi anche messaggio precedente a questo



L’UDIENZA GENERALE, 16.06.2010

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato ancora sulla figura di San Tommaso d’Aquino.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

San Tommaso d'Aquino (2)

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei continuare la presentazione di san Tommaso d’Aquino, un teologo di tale valore che lo studio del suo pensiero è stato esplicitamente raccomandato dal Concilio Vaticano II in due documenti, il decreto
Optatam totius, sulla formazione al sacerdozio, e la dichiarazione Gravissimum educationis, che tratta dell’educazione cristiana. Del resto, già nel 1880 il Papa Leone XIII, suo grande estimatore e promotore di studi tomistici, volle dichiarare san Tommaso Patrono delle Scuole e delle Università Cattoliche.

Il motivo principale di questo apprezzamento risiede non solo nel contenuto del suo insegnamento, ma anche nel metodo da lui adottato, soprattutto la sua nuova sintesi e distinzione tra filosofia e teologia.

I Padri della Chiesa si trovavano confrontati con diverse filosofie di tipo platonico, nelle quali si presentava una visione completa del mondo e della vita, includendo la questione di Dio e della religione.

Nel confronto con queste filosofie, loro stessi avevano elaborato una visione completa della realtà, partendo dalla fede e usando elementi del platonismo, per rispondere alle questioni essenziali degli uomini. Questa visione, basata sulla rivelazione biblica ed elaborata con un platonismo corretto alla luce della fede, essi la chiamavano la "filosofia nostra".

La parola "filosofia" non era quindi espressione di un sistema puramente razionale e, come tale, distinto dalla fede, ma indicava una visione complessiva della realtà, costruita nella luce della fede, ma fatta propria e pensata dalla ragione; una visione che, certo, andava oltre le capacità proprie della ragione, ma che, come tale, era anche soddisfacente per essa. Per san Tommaso l'incontro con la filosofia pre-cristiana di Aristotele (morto circa nel 322 a.C.) apriva una prospettiva nuova.

La filosofia aristotelica era, ovviamente, una filosofia elaborata senza conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento, una spiegazione del mondo senza rivelazione, per la sola ragione. E questa razionalità conseguente era convincente. Così la vecchia forma della "filosofia nostra" dei Padri non funzionava più. La relazione tra filosofia e teologia, tra fede e ragione, era da ripensare. Esisteva una "filosofia" completa e convincente in se stessa, una razionalità precedente la fede, e poi la “teologia”, un pensare con la fede e nella fede.

La questione pressante era questa: il mondo della razionalità, la filosofia pensata senza Cristo, e il mondo della fede sono compatibili? Oppure si escludono? Non mancavano elementi che affermavano l'incompatibilità tra i due mondi, ma san Tommaso era fermamente convinto della loro compatibilità - anzi che la filosofia elaborata senza conoscenza di Cristo quasi aspettava la luce di Gesù per essere completa.

Questa è stata la grande “sorpresa” di san Tommaso, che ha determinato il suo cammino di pensatore. Mostrare questa indipendenza di filosofia e teologia e, nello stesso tempo, la loro reciproca relazionalità è stata la missione storica del grande maestro.

E così si capisce che, nel XIX secolo, quando si dichiarava fortemente l'incompatibilità tra ragione moderna e fede, Papa Leone XIII indicò san Tommaso come guida nel dialogo tra l'una e l'altra. Nel suo lavoro teologico, san Tommaso suppone e concretizza questa relazionalità.

La fede consolida, integra e illumina il patrimonio di verità che la ragione umana acquisisce. La fiducia che san Tommaso accorda a questi due strumenti della conoscenza – la fede e la ragione – può essere ricondotta alla convinzione che entrambe provengono dall’unica sorgente di ogni verità, il Logos divino, che opera sia nell’ambito della creazione, sia in quello della redenzione.

Insieme con l'accordo tra ragione e fede, si deve riconoscere, d'altra parte, che esse si avvalgono di procedimenti conoscitivi differenti. La ragione accoglie una verità in forza della sua evidenza intrinseca, mediata o immediata; la fede, invece, accetta una verità in base all’autorità della Parola di Dio che si rivela. Scrive san Tommaso al principio della sua Summa Theologiae: “Duplice è l’ordine delle scienze; alcune procedono da principi conosciuti mediante il lume naturale della ragione, come la matematica, la geometria e simili; altre procedono da principi conosciuti mediante una scienza superiore: come la prospettiva procede da principi conosciuti mediante la geometria e la musica da principi conosciuti mediante la matematica. E in questo modo la sacra dottrina (cioè la teologia) è scienza perché procede dai principi conosciuti attraverso il lume di una scienza superiore, cioè la scienza di Dio e dei santi” (I, q. 1, a. 2).

Questa distinzione assicura l’autonomia tanto delle scienze umane, quanto delle scienze teologiche. Essa però non equivale a separazione, ma implica piuttosto una reciproca e vantaggiosa collaborazione.

La fede, infatti, protegge la ragione da ogni tentazione di sfiducia nelle proprie capacità, la stimola ad aprirsi a orizzonti sempre più vasti, tiene viva in essa la ricerca dei fondamenti e, quando la ragione stessa si applica alla sfera soprannaturale del rapporto tra Dio e uomo, arricchisce il suo lavoro. Secondo san Tommaso, per esempio, la ragione umana può senz’altro giungere all’affermazione dell’esistenza di un unico Dio, ma solo la fede, che accoglie la Rivelazione divina, è in grado di attingere al mistero dell’Amore di Dio Uno e Trino.

D’altra parte, non è soltanto la fede che aiuta la ragione. Anche la ragione, con i suoi mezzi, può fare qualcosa di importante per la fede, rendendole un triplice servizio che san Tommaso riassume nel proemio del suo commento al De Trinitate di Boezio: “Dimostrare i fondamenti della fede; spiegare mediante similitudini le verità della fede; respingere le obiezioni che si sollevano contro la fede” (q. 2, a. 2).

Tutta la storia della teologia è, in fondo, l’esercizio di questo impegno dell’intelligenza, che mostra l’intelligibilità della fede, la sua articolazione e armonia interna, la sua ragionevolezza e la sua capacità di promuovere il bene dell’uomo.

La correttezza dei ragionamenti teologici e il loro reale significato conoscitivo si basano sul valore del linguaggio teologico, che è, secondo san Tommaso, principalmente un linguaggio analogico. La distanza tra Dio, il Creatore, e l'essere delle sue creature è infinita; la dissimilitudine è sempre più grande che la similitudine (cfr DS 806). Ciononostante, in tutta la differenza tra Creatore e creatura, esiste un'analogia tra l'essere creato e l'essere del Creatore, che ci permette di parlare con parole umane su Dio.

San Tommaso ha fondato la dottrina dell’analogia, oltre che su argomentazioni squisitamente filosofiche, anche sul fatto che con la Rivelazione Dio stesso ci ha parlato e ci ha, dunque, autorizzato a parlare di Lui. Ritengo importante richiamare questa dottrina.

Essa, infatti, ci aiuta a superare alcune obiezioni dell’ateismo contemporaneo, il quale nega che il linguaggio religioso sia fornito di un significato oggettivo, e sostiene invece che abbia solo un valore soggettivo o semplicemente emotivo. Questa obiezione risulta dal fatto che il pensiero positivistico è convinto che l'uomo non conosce l'essere, ma solo le funzioni sperimentabili della realtà.

Con san Tommaso e con la grande tradizione filosofica noi siamo convinti, che, in realtà, l'uomo non conosce solo le funzioni, oggetto delle scienze naturali, ma conosce qualcosa dell'essere stesso - per esempio conosce la persona, il Tu dell'altro, e non solo l'aspetto fisico e biologico del suo essere.

Alla luce di questo insegnamento di san Tommaso, la teologia afferma che, per quanto limitato, il linguaggio religioso è dotato di senso - perché tocchiamo l’essere -, come una freccia che si dirige verso la realtà che significa. Questo accordo fondamentale tra ragione umana e fede cristiana è ravvisato in un altro principio basilare del pensiero dell’Aquinate: la Grazia divina non annulla, ma suppone e perfeziona la natura umana. Quest’ultima, infatti, anche dopo il peccato, non è completamente corrotta, ma ferita e indebolita. La Grazia, elargita da Dio e comunicata attraverso il Mistero del Verbo incarnato, è un dono assolutamente gratuito con cui la natura viene guarita, potenziata e aiutata a perseguire il desiderio innato nel cuore di ogni uomo e di ogni donna: la felicità. Tutte le facoltà dell’essere umano vengono purificate, trasformate ed elevate dalla Grazia divina.

Un’importante applicazione di questa relazione tra la natura e la Grazia si ravvisa nella teologia morale di san Tommaso d’Aquino, che risulta di grande attualità. Al centro del suo insegnamento in questo campo, egli pone la legge nuova, che è la legge dello Spirito Santo. Con uno sguardo profondamente evangelico, insiste sul fatto che questa legge è la Grazia dello Spirito Santo data a tutti coloro che credono in Cristo. A tale Grazia si unisce l’insegnamento scritto e orale delle verità dottrinali e morali, trasmesso dalla Chiesa.
 
San Tommaso, sottolineando il ruolo fondamentale, nella vita morale, dell’azione dello Spirito Santo, della Grazia, da cui scaturiscono le virtù teologali e morali, fa comprendere che ogni cristiano può raggiungere le alte prospettive del “Sermone della Montagna” se vive un rapporto autentico di fede in Cristo, se si apre all’azione del suo Santo Spirito. Però – aggiunge l’Aquinate – “anche se la grazia è più efficace della natura, tuttavia la natura è più essenziale per l’uomo” (Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 3), per cui, nella prospettiva morale cristiana, c’è un posto per la ragione, la quale è capace di discernere la legge morale naturale. La ragione può riconoscerla considerando ciò che è bene fare e ciò che è bene evitare per il conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche una responsabilità verso gli altri, e, dunque, la ricerca del bene comune. In altre parole, le virtù dell’uomo, teologali e morali, sono radicate nella natura umana.

La Grazia divina accompagna, sostiene e spinge l’impegno etico ma, di per sé, secondo san Tommaso, tutti gli uomini, credenti e non credenti, sono chiamati a riconoscere le esigenze della natura umana espresse nella legge naturale e ad ispirarsi ad essa nella formulazione delle leggi positive, quelle cioè emanate dalle autorità civili e politiche per regolare la convivenza umana.

Quando la legge naturale e la responsabilità che essa implica sono negate, si apre drammaticamente la via al relativismo etico sul piano individuale e al totalitarismo dello Stato sul piano politico. La difesa dei diritti universali dell’uomo e l’affermazione del valore assoluto della dignità della persona postulano un fondamento.

Non è proprio la legge naturale questo fondamento, con i valori non negoziabili che essa indica? Il Venerabile Giovanni Paolo II scriveva nella sua Enciclica
Evangelium vitae parole che rimangono di grande attualità: “Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano, ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere” (n. 71).

In conclusione, Tommaso ci propone un concetto della ragione umana largo e fiducioso: largo perché non è limitato agli spazi della cosiddetta ragione empirico-scientifica, ma aperto a tutto l’essere e quindi anche alle questioni fondamentali e irrinunciabili del vivere umano; e fiducioso perché la ragione umana, soprattutto se accoglie le ispirazioni della fede cristiana, è promotrice di una civiltà che riconosce la dignità della persona, l'intangibilità dei suoi diritti e la cogenza dei suoi doveri. Non sorprende che la dottrina circa la dignità della persona, fondamentale per il riconoscimento dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo, sia maturata in ambienti di pensiero che hanno raccolto l’eredità di san Tommaso d’Aquino, il quale aveva un concetto altissimo della creatura umana. La definì, con il suo linguaggio rigorosamente filosofico, come “ciò che di più perfetto si trova in tutta la natura, cioè un soggetto sussistente in una natura razionale” (Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 3).

La profondità del pensiero di san Tommaso d’Aquino sgorga – non dimentichiamolo mai – dalla sua fede viva e dalla sua pietà fervorosa, che esprimeva in preghiere ispirate, come questa in cui chiede a Dio: “Concedimi, ti prego, una volontà che ti cerchi, una sapienza che ti trovi, una vita che ti piaccia, una perseveranza che ti attenda con fiducia e una fiducia che alla fine giunga a possederti.


Pope Benedict XVI waves during his weekly general audience in Saint Peter's Square at the Vatican on June 16, 2010.

Pope Benedict XVI waves as he arrives for the weekly general audience in Saint Peter's Square at the Vatican on June 16, 2010.

Pope Benedict XVI blesses a child after his weekly general audience in Saint Peter's Square at the Vatican on June 16, 2010.



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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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23/06/2010 16:23
 
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Il Papa: Solo chi vive con Dio e con i misteri può anche capire che cosa essi dicono


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San Tommaso d'Aquino [1] (udienza generale, 2 giugno 2010)

San Tommaso d'Aquino [2] (udienza generale, 16 giugno 2010)


                         Pope Benedict XVI looks on during a general audience in Aula Paolo VI at the Vatican on June 23, 2010.


L’UDIENZA GENERALE, 23.06.2010

L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta alle ore 10.30 in Piazza San Pietro dove il Santo Padre ha incontrato gruppi di pellegrini e di fedeli giunta dall’Italia e da ogni parte del mondo.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa si è soffermato ancora sulla figura e gli insegnamenti di San Tommaso d’Aquino.
Dopo aver riassunto la Sua catechesi in diverse lingue, il Santo Padre Benedetto XVI ha rivolto particolari espressioni di saluto ai gruppi di fedeli presenti.
L’Udienza Generale si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica impartita insieme ai Vescovi presenti.

CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

San Tommaso d’Aquino [3]

Cari fratelli e sorelle,

vorrei oggi completare, con una terza parte, le mie catechesi su san Tommaso d’Aquino. Anche a più di settecento anni dopo la sua morte, possiamo imparare molto da lui.
Lo ricordava anche il mio Predecessore, il Papa Paolo VI, che, in un
discorso tenuto a Fossanova il 14 settembre 1974, in occasione del settimo centenario della morte di san Tommaso, si domandava: "Maestro Tommaso, quale lezione ci puoi dare?". E rispondeva così: "la fiducia nella verità del pensiero religioso cattolico, quale da lui fu difeso, esposto, aperto alla capacità conoscitiva della mente umana" (Insegnamenti di Paolo VI, XII[1974], pp. 833-834). E, nello stesso giorno, ad Aquino, riferendosi sempre a san Tommaso, affermava: "tutti, quanti siamo figli fedeli della Chiesa possiamo e dobbiamo, almeno in qualche misura, essere suoi discepoli!" (Ibid., p. 836).

Mettiamoci dunque anche noi alla scuola di san Tommaso e del suo capolavoro, la Summa Theologiae.

Essa è rimasta incompiuta, e tuttavia è un’opera monumentale: contiene 512 questioni e 2669 articoli. Si tratta di un ragionamento serrato, in cui l’applicazione dell’intelligenza umana ai misteri della fede procede con chiarezza e profondità, intrecciando domande e risposte, nelle quali san Tommaso approfondisce l’insegnamento che viene dalla Sacra Scrittura e dai Padri della Chiesa, soprattutto da
sant’Agostino.

In questa riflessione, nell’incontro con vere domande del suo tempo, che sono anche spesso domande nostre, san Tommaso, utilizzando anche il metodo e il pensiero dei filosofi antichi, in particolare di Aristotele, arriva così a formulazioni precise, lucide e pertinenti delle verità di fede, dove la verità è dono della fede, risplende e diventa accessibile per noi, per la nostra riflessione. Tale sforzo, però, della mente umana – ricorda l’Aquinate con la sua stessa vita – è sempre illuminato dalla preghiera, dalla luce che viene dall’Alto. Solo chi vive con Dio e con i misteri può anche capire che cosa essi dicono.

Nella Summa di Teologia, san Tommaso parte dal fatto che ci sono tre diversi modi dell’essere e dell'essenza di Dio: Dio esiste in se stesso, è il principio e la fine di tutte le cose, per cui tutte le creature procedono e dipendono da Lui; poi Dio è presente attraverso la sua Grazia nella vita e nell’attività del cristiano, dei santi; infine, Dio è presente in modo del tutto speciale nella Persona di Cristo unito qui realmente con l'uomo Gesù, e operante nei Sacramenti, che scaturiscono dalla sua opera redentrice. Perciò, la struttura di questa monumentale opera (cfr. Jean-Pierre Torrell, La «Summa» di San Tommaso, Milano 2003, pp. 29-75), una ricerca con "sguardo teologico" della pienezza di Dio (cfr. Summa Theologiae, Ia, q. 1, a. 7), è articolata in tre parti, ed è illustrata dallo stesso Doctor Communis – san Tommaso - con queste parole: "Lo scopo principale della sacra dottrina è quello di far conoscere Dio, e non soltanto in se stesso, ma anche in quanto è principio e fine delle cose, e specialmente della creatura ragionevole. Nell’intento di esporre questa dottrina, noi tratteremo per primo di Dio; per secondo del movimento della creatura verso Dio; e per terzo del Cristo, il quale, in quanto uomo, è per noi via per ascendere a Dio" (Ibid., I, q. 2). È un circolo: Dio in se stesso, che esce da se stesso e ci prende per mano, così che con Cristo ritorniamo a Dio, siamo uniti a Dio, e Dio sarà tutto in tutti.

La prima parte della Summa Theologiae indaga dunque su Dio in se stesso, sul mistero della Trinità e sull’attività creatrice di Dio. In questa parte troviamo anche una profonda riflessione sulla realtà autentica dell’essere umano in quanto uscito dalle mani creatrici di Dio, frutto del suo amore. Da una parte siamo un essere creato, dipendente, non veniamo da noi stessi; ma, dall’altra, abbiamo una vera autonomia, così che siamo non solo qualcosa di apparente — come dicono alcuni filosofi platonici — ma una realtà voluta da Dio come tale, e con valore in se stessa.

Nella seconda parte san Tommaso considera l’uomo, spinto dalla Grazia, nella sua aspirazione a conoscere e ad amare Dio per essere felice nel tempo e nell’eternità. Per prima cosa, l’Autore presenta i principi teologici dell’agire morale, studiando come, nella libera scelta dell’uomo di compiere atti buoni, si integrano la ragione, la volontà e le passioni, a cui si aggiunge la forza che dona la Grazia di Dio attraverso le virtù e i doni dello Spirito Santo, come pure l’aiuto che viene offerto anche dalla legge morale.

Quindi l'essere umano è un essere dinamico che cerca se stesso, cerca di divenire se stesso e cerca, in questo senso, di compiere atti che lo costruiscono, lo fanno veramente uomo; e qui entra la legge morale, entra la Grazia e la propria ragione, la volontà e le passioni. Su questo fondamento san Tommaso delinea la fisionomia dell’uomo che vive secondo lo Spirito e che diventa, così, un’icona di Dio. Qui l’Aquinate si sofferma a studiare le tre virtù teologali - fede, speranza e carità -, seguite dall’esame acuto di più di cinquanta virtù morali, organizzate attorno alle quattro virtù cardinali - la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. Termina poi con la riflessione sulle diverse vocazioni nella Chiesa.

Nella terza parte della Summa, san Tommaso studia il Mistero di Cristo - la via e la verità - per mezzo del quale noi possiamo ricongiungerci a Dio Padre. In questa sezione scrive pagine pressoché insuperate sul Mistero dell’Incarnazione e della Passione di Gesù, aggiungendo poi un’ampia trattazione sui sette Sacramenti, perché in essi il Verbo divino incarnato estende i benefici dell’Incarnazione per la nostra salvezza, per il nostro cammino di fede verso Dio e la vita eterna, rimane materialmente quasi presente con le realtà della creazione, ci tocca così nell'intimo.

Parlando dei Sacramenti, san Tommaso si sofferma in modo particolare sul Mistero dell’Eucaristia, per il quale ebbe una grandissima devozione, al punto che, secondo gli antichi biografi, era solito accostare il suo capo al Tabernacolo, come per sentire palpitare il Cuore divino e umano di Gesù. In una sua opera di commento alla Scrittura, san Tommaso ci aiuta a capire l’eccellenza del Sacramento dell’Eucaristia, quando scrive: "Essendo l’Eucaristia il sacramento della Passione di nostro Signore, contiene in sé Gesù Cristo che patì per noi. Pertanto tutto ciò che è effetto della Passione di nostro Signore, è anche effetto di questo sacramento, non essendo esso altro che l’applicazione in noi della Passione del Signore" (In Ioannem, c.6, lect. 6, n. 963). Comprendiamo bene perché san Tommaso e altri santi abbiano celebrato la Santa Messa versando lacrime di compassione per il Signore, che si offre in sacrificio per noi, lacrime di gioia e di gratitudine.

Cari fratelli e sorelle, alla scuola dei santi, innamoriamoci di questo Sacramento! Partecipiamo alla Santa Messa con raccoglimento, per ottenerne i frutti spirituali, nutriamoci del Corpo e del Sangue del Signore, per essere incessantemente alimentati dalla Grazia divina! Intratteniamoci volentieri e frequentemente, a tu per tu, in compagnia del Santissimo Sacramento!

Quanto san Tommaso ha illustrato con rigore scientifico nelle sue opere teologiche maggiori, come appunto la Summa Theologiae, anche la Summa contra Gentiles è stato esposto anche nella sua predicazione, rivolta agli studenti e ai fedeli. Nel 1273, un anno prima della sua morte, durante l’intera Quaresima, egli tenne delle prediche nella chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli. Il contenuto di quei sermoni è stato raccolto e conservato: sono gli Opuscoli in cui egli spiega il Simbolo degli Apostoli, interpreta la preghiera del Padre Nostro, illustra il Decalogo e commenta l’Ave Maria.

Il contenuto della predicazione del Doctor Angelicus corrisponde quasi del tutto alla struttura del Catechismo della Chiesa Cattolica. Infatti, nella catechesi e nella predicazione, in un tempo come il nostro di rinnovato impegno per l’evangelizzazione, non dovrebbero mai mancare questi argomenti fondamentali: ciò che noi crediamo, ed ecco il Simbolo della fede; ciò che noi preghiamo, ed ecco il Padre Nostro e l’Ave Maria; e ciò che noi viviamo come ci insegna la Rivelazione biblica, ed ecco la legge dell’amore di Dio e del prossimo e i Dieci Comandamenti, come esplicazione di questo mandato dell'amore.

Vorrei proporre qualche esempio del contenuto, semplice, essenziale e convincente, dell’insegnamento di san Tommaso. Nel suo Opuscolo sul Simbolo degli Apostoli egli spiega il valore della fede. Per mezzo di essa, dice, l’anima si unisce a Dio, e si produce come un germoglio di vita eterna; la vita riceve un orientamento sicuro, e noi superiamo agevolmente le tentazioni. A chi obietta che la fede è una stoltezza, perché fa credere in qualcosa che non cade sotto l’esperienza dei sensi, san Tommaso offre una risposta molto articolata, e ricorda che questo è un dubbio inconsistente, perché l’intelligenza umana è limitata e non può conoscere tutto. Solo nel caso in cui noi potessimo conoscere perfettamente tutte le cose visibili e invisibili, allora sarebbe un’autentica stoltezza accettare delle verità per pura fede. Del resto, è impossibile vivere, osserva san Tommaso, senza fidarsi dell’esperienza altrui, là dove la personale conoscenza non arriva. È ragionevole dunque prestare fede a Dio che si rivela e alla testimonianza degli Apostoli: essi erano pochi, semplici e poveri, affranti a motivo della Crocifissione del loro Maestro; eppure molte persone sapienti, nobili e ricche si sono convertite in poco tempo all’ascolto della loro predicazione. Si tratta, in effetti, di un fenomeno storicamente prodigioso, a cui difficilmente si può dare altra ragionevole risposta, se non quella dell’incontro degli Apostoli con il Signore Risorto.

Commentando l’articolo del Simbolo sull’Incarnazione del Verbo divino, san Tommaso fa alcune considerazioni.

Afferma che la fede cristiana, considerando il mistero dell’Incarnazione, viene ad essere rafforzata; la speranza si eleva più fiduciosa, al pensiero che il Figlio di Dio è venuto tra noi, come uno di noi, per comunicare agli uomini la propria divinità; la carità è ravvivata, perché non vi è segno più evidente dell’amore di Dio per noi, quanto vedere il Creatore dell’universo farsi egli stesso creatura, uno di noi.

Infine, considerando il mistero dell’Incarnazione di Dio, sentiamo infiammarsi il nostro desiderio di raggiungere Cristo nella gloria. Adoperando un semplice ed efficace paragone, san Tommaso osserva: "Se il fratello di un re stesse lontano, certo bramerebbe di potergli vivere accanto. Ebbene, Cristo ci è fratello: dobbiamo quindi desiderare la sua compagnia, diventare un solo cuore con lui" (Opuscoli teologico-spirituali, Roma 1976, p. 64).

Presentando la preghiera del Padre Nostro, san Tommaso mostra che essa è in sé perfetta, avendo tutte e cinque le caratteristiche che un’orazione ben fatta dovrebbe possedere: fiducioso e tranquillo abbandono; convenienza del suo contenuto, perché – osserva san Tommaso – "è assai difficile saper esattamente cosa sia opportuno chiedere e cosa no, dal momento che siamo in difficoltà di fronte alla selezione dei desideri" (Ibid., p. 120); e poi ordine appropriato delle richieste, fervore di carità e sincerità dell’umiltà.

San Tommaso è stato, come tutti i santi, un grande devoto della Madonna. L’ha definita con un appellativo stupendo: Triclinium totius Trinitatis, triclinio, cioè luogo dove la Trinità trova il suo riposo, perché, a motivo dell’Incarnazione, in nessuna creatura, come in Lei, le tre divine Persone inabitano e provano delizia e gioia a vivere nella sua anima piena di Grazia. Per la sua intercessione possiamo ottenere ogni aiuto.

Con una preghiera, che tradizionalmente viene attribuita a san Tommaso e che, in ogni caso, riflette gli elementi della sua profonda devozione mariana, anche noi diciamo: "O beatissima e dolcissima Vergine Maria, Madre di Dio..., io affido al tuo cuore misericordioso tutta la mia vita... Ottienimi, o mia dolcissima Signora, carità vera, con la quale possa amare con tutto il cuore il tuo santissimo Figlio e te, dopo di lui, sopra tutte le cose, e il prossimo in Dio e per Dio".





          Pope Benedict XVI arrives for his weekly general audience in Aula Paolo VI at the Vatican on June 23, 2010.

          Pope Benedict XVI looks on during his weekly Wednesday general audience in Paul VI hall at the Vatican June 23, 2010.

                       Pope Benedict XVI blesses a statue during his weekly Wednesday general audience in Paul VI hall at the Vatican June 23, 2010.

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Non c'è filosofia più libera e ardita di quella del teologo Tommaso

Penso, agisco e posso anche morire
perché prima di tutto sono


di mon. Inos Biffi


Non ogni filosofia conviene alla teologia. Ma la conseguenza di questo non è che il teologo per dedicarsi alla sacra doctrina debba prima scegliere una determinata filosofia, da applicare poi all'intelligenza della fede, anche se, avviando questa intelligenza, già dispone normalmente di una filosofia. Se ci si propone la professione teologica, l'officium sapientis, come lo chiama Tommaso d'Aquino, si parte anzitutto e da subito con l'ascolto della Parola di Dio, accolta nella fede, ed esattamente non al fine di averne una comprensione "razionale".

Definire la teologia come la comprensione "razionale" della fede è impreciso e improprio, se non errato. Certo, la teologia si propone l'intellectus fidei, ma collocando l'intelletto, se così si può dire, dalla parte della Rivelazione o dal lato della "scienza divina".

Essa non si prefigge di inserire il mistero nei confini della ratio, per poterlo capire, quanto invece di attrarre la ratio e, per così dire, di dilatarne gli spazi e di incrementarne le risorse. San Tommaso, citando Paolo (2 Corinzi, 10, 5), parla di sottomissione dell'intelletto all'obbedienza di Cristo (Summa Theologiae, i, 1, 8, 2m).

Senonché, questa attività dell'intelletto all'interno della fede, suscitando e animando il pensiero, induce a ricorrere ai principi, alle strutture e alle esigenze del pensare stesso, e in questo senso comporta un far filosofia, non però in esercizio filosofico, ma teologico. Si pensi a quanto il proposito di "comprendere" il mistero trinitario o la transustanziazione eucaristica ha stimolato e raffinato le categorie filosofiche.
 
Quella del teologo è una filosofia, che viene esercitata o che addirittura sorge e si istituisce nel suo impegno di pensare la fede. Non per questo, tuttavia, la filosofia del teologo cessa di essere filosofia, risultandone "alterata" e perdendo la sua specificità filosofica. Fosse così, non avremmo più l'"intelletto" della fede. È di Tommaso la distinzione tra "specificazione" ed "esercizio" (Summa Theologiae, i-ii, 10, 2, c.).

Lo stesso Angelico, svolgendo il suo intento teologico, elabora la filosofia della creazione, inducendo Aristotele, che non l'aveva insegnata, a "insegnarla", in perfetta coerenza con la sua dottrina relativa all'"essere". Le prime questioni della Prima Pars della Somma di Teologia sono splendide e, se non l'Aristotele "storico", l'Aristotele compiutamente "vero" non potrebbe non compiacersene ed essere grato che sui suoi fondamenti, sempre applicando la ragione, si sia potuto giungere a tali altezze.

Lasciando trasparire una profonda, anche se come sempre contenuta, emozione, ancora Tommaso definirà la coincidenza tra l'essere e l'essenza di Dio una "Verità sublime" (Summa contra Gentiles, i, 22, n. 10), ampiamente dimostrata con la ragione e insieme rivelata a Mosè, il quale la imparò da Dio, quando alla sua domanda si sentì rispondere che "il suo nome era Colui che è".

Scrive, al riguardo, Étienne Gilson in Le thomisme:  "San Tommaso ha pensato che Dio aveva rivelato agli uomini che la sua essenza è quella di esistere. Tommaso non è prodigo di epiteti. Mai filosofo ha ceduto meno alla tentazione dell'eloquenza. Questa volta tuttavia, vedendo questi due fasci di luce convergere al punto da confondersi, non ha potuto trattenere una parola di ammirazione per la strabiliante verità che scaturisce dal loro incontro. Questa verità san Tommaso l'ha salutata con un titolo che la esalta al di sopra di tutte:  l'essenza di Dio". "Felici le filosofie pagane - esclama Gilson in Le philosophe et la théologie - che una teologia tutelare ha condotto di là dal termine della loro corsa".

Sempre, poi, esercitando l'intelletto nel corso della riflessione sulla fede, il teologo può essere indotto a diventare un critico della filosofia stessa. Non potrebbe, infatti, non rifiutare una forma di pensiero che nei suoi principi o nei suoi sviluppi contraddicesse o alterasse il contenuto della Rivelazione. Il teologo non è disponibile a qualsiasi filosofia.

Così, immediatamente per ragioni teologiche egli non potrebbe, ad esempio, condividere e assumere una filosofia di tipo idealistico o kantiano:  questo dissolverebbe o snaturerebbe la fede, e impedirebbe di pensarla realmente. Non solo. Questo rigetto teologicamente motivato induce non di rado chi pensa la fede - e così è avvenuto storicamente:  come nel caso della questione sull'"unità dell'intelletto" - a considerazioni di tipo specificamente filosofico, e quindi a mostrare le incongruenze di una teoria dal profilo razionale.

D'altra parte, il teologo, svolgendo una tale critica all'interno dell'esercizio della teologia, in concreto non lascia il suo campo e il suo interesse teologico. Non passa, come avrebbero detto i medievali, dalla facoltà di teologia a quella delle "arti":  l'intento del suo procedimento rimane quello di salvaguardare e di pensare i dogmi di fede. Non diviene per questo formalmente un "filosofo".

Gilson parlava in tal caso - e a mio avviso in modo pertinente, se bene ci si intende - di "filosofia cristiana":  non perché fosse cristiana quanto a "specificazione", ma perché cristiano era il suo "esercizio" e la sua "finalità". Il risultato e il vantaggio in tale caso è una specie di gioiosa "luminosità" delle verità rivelate. Un "intelletto" che si trova tra la fede e la "visione" (species), direbbe sant'Anselmo, che si spinge fino a parlare, crederei imprudentemente, di "ragione necessaria".

È anche possibile, e potrebbe essere utile, "raccogliere", evidenziare e disporre secondo un ordine filosofico le risorse razionali raggiunte ed emerse grazie al lavoro di intelligenza della fede. È stato fatto, forse non sempre con la necessaria attenzione e la debita finezza, e non senza aspre critiche dello stesso Gilson, che d'altronde sempre in Le philosophe et la théologie scrive:  "Il teologo, in quanto teologo, non fa della filosofia; il suo intento ultimo non è mai quello di produrne, ma ne usa, e, se non trova già fatta quella di cui ha bisogno, la produce al fine di poterne usare".

Ma lasciamo questo, per domandarci di quale filosofia o di quale forma di pensiero occorre disporre per poter fare teologia. Potremmo enunciarlo in breve:  alla teologia occorre una filosofia che riconosca e non fraintenda il valore e la figura della metafisica.

Se non si riconosce il primato dell'essere, dei suoi principi; se si sostituisce un tale primato con quello dell'azione, del desiderio o dell'intuizione affettiva; se si afferma che all'inizio sta l'"esistenza" aperta, indefinibile e quindi in se stessa priva di un'oggettiva essenza o natura, che comparirebbe, in ogni caso, soltanto in seguito, semplicemente non si può fare teologia, perché sarebbe impossibile pensare.

Vengono in mente due limpidi testi di san Tommaso, in accordo con Aristotele:  "L'essere di una cosa, non la sua verità, causa la verità dell'intelletto" (Summa Theologiae, i, 16, 1, 3m); e:  "Ogni cosa è conoscibile nella misura in cui partecipa dell'essere" (ibid., 3, c.). Non è il caso di ricordare che la perdita del senso del ridicolo è arrivata a far parlare della "morte" di Dio o di Dio senza l'essere.

Da parte sua - lo osserva Maritain in Le docteur angélique - Tommaso è "andato diritto all'esse" e, "perché teologo, ha avuto cura di scegliere, e di scegliere bene, il suo filosofo", Aristotele, che ha però rifatto "da capo a piedi", diventando "apostolo dell'intelligenza, dottore della verità, restauratore dell'ordine intellettuale".

È il motivo per cui Gilson può affermare, ancora nel citato Le philosophe et la théologie:  "Non conosco una teologia più libera e più ardita di quella di san Tommaso".


(©L'Osservatore Romano - 26 giugno 2010)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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San Tommaso e il pensiero contemporaneo

Voglia di libertà (usando la ragione)


Pubblichiamo alcuni stralci dell'intervento che il direttore della cattedra "San Tommaso e il pensiero contemporaneo" ha tenuto a conclusione del ciclo annuale di lezioni alla Pontificia Università Lateranense.

di Mario Pangallo

La filosofia di san Tommaso non mortifica ma esalta la ragione umana e fa sua la formula d'origine neoplatonica dell'uomo "microcosmo":  Propter hoc homo dicitur "minor mundus" quia omnes creaturae mundi quodammodo inveniuntur in e (Summa Theologiae). Definizione che in Tommaso non conosce le deformazioni naturalistiche di alcune correnti della filosofia rinascimentale e dell'antropocentrismo illuministico. L'uomo che, con un cattivo uso del libero arbitrio, voglia sganciarsi dall'Essere, dalla Verità e dal Bene, per diventare egli stesso artefice dei valori, rinuncia a essere soggetto veramente pensante, per piegarsi al dominio di un volere disordinato.
 
Per san Tommaso la vera essenza della libertà è radicata nella ragione e il suo dispiegamento si realizza grazie alla volontà. La libertà dell'uomo si realizza pienamente sviluppando nella sua storia concreta il naturale orientamento al bene della facoltà volitiva; e la ratio boni appetibilis è riconosciuta dal pensiero. Per questo la volontà è "appetito razionale", cioè una tendenza del soggetto al bene in quanto tale motivata dalla natura razionale dello spirito umano; se l'anima umana non fosse anima "intellettiva" o "razionale", la volontà non si distinguerebbe dall'appetito sensibile.

Il fatto che il libero arbitrio possa orientare la vita umana a un fine scelto anche contro la retta ragione o manipolando il proprio pensiero affinché giustifichi le proprie scelte esistenziali, non è un segno di supremazia del volere sul sapere, anzi è un segno di debolezza e di limite.

Le filosofie che si lasciano affascinare dal volontarismo e dall'irrazionalismo rendono un pessimo servizio alla cultura e in particolare ai giovani. Il volontarismo e le cosiddette filosofie della libertà assumono forme spesso insidiosamente attraenti per la cultura religiosa e per la stessa teologia, sicché non sempre è facile riconoscerne tutte le implicazioni soggettivistiche.
 
Il tomismo del terzo millennio non potrà prescindere dal confronto con le filosofie della libertà e anche con nuove forme di pensiero cristiano, che proseguono sulle vie tracciate dallo spiritualismo di fine Ottocento e dall'esistenzialismo teistico del xx secolo. Perciò sarebbe importante l'approfondimento dei testi di san Tommaso, oltre che nell'ambito tradizionale di una metafisica dell'essere, anche nella direzione, "tomistico-agostiniana", di una metafisica del soggetto e di una metafisica dell'esperienza morale e religiosa. Un'antropologia filosofica né spiritualista né materialista è valido presupposto di una filosofia morale che affermi il primato della legge morale naturale nell'ethos umano. Il rischio delle filosofie che proclamano il primato della libertà sul pensiero non è soltanto il relativismo etico, ma è, come ultimo esito, l'agnosticismo, o addirittura l'ateismo. Sennonché queste filosofie non possono non riconoscere che un'etica oggettiva è pur sempre necessaria nella vita sociale e politica, e allora spesso propongono modelli come l'utilitarismo sociale, il convenzionalismo, il contrattualismo, il positivismo giuridico.

Da qui la necessità di intraprendere percorsi intellettuali sulla questione del diritto naturale, della giustizia, del legame tra etica, diritto, politica ed economia, evidenziando la fecondità della filosofia sociale di san Tommaso d'Aquino, adeguatamente attualizzata, dopo il naufragio del socialismo marxista e di fronte ai rischi provenienti dal neoliberismo. Un'impresa del genere non potrà avere efficacia culturale se si darà l'impressione di voler dedurre la filosofia politica o la filosofia del diritto immediatamente dalla teologia cristiana. L'ordine soprannaturale illumina tutto l'ordine naturale e ne permette una più profonda e completa comprensione, elevando l'ordine morale e l'ordine sociale umano a un orizzonte di valori e di obiettivi a noi dischiuso dalla Divina Rivelazione; resta tuttavia la possibilità di distinguere i due livelli, come sapientemente sa fare il Dottore Angelico.

Quando invece si nega ogni forma di distinzione tra ordine naturale e ordine soprannaturale, allora ciò va a scapito o dell'ordine soprannaturale (naturalismo, razionalismo, secolarismo, laicismo) o a scapito dell'ordine naturale (negazione del concetto di natura, fideismo, integrismo, fondamentalismo). Dalla confusione di ordine naturale e ordine soprannaturale provengono non solo problemi per il dialogo interculturale ma anche difficoltà nel proporre una filosofia cristiana che non si riduca a ideologia.
 
Così facendo viene a cadere la distinzione tra filosofia e teologia, tra natura e grazia, tra creazione e rivelazione. Perciò è importante sottolineare l'importanza della teologia naturale e dell'uso della analogia entis nel linguaggio teologico. La difesa della teologia naturale come il momento più alto della scienza metafisica non giova soltanto alla filosofia, ma anche alla stessa teologia della Rivelazione, in particolare alla teologia fondamentale. Alla luce della sintesi filosofico-teologica dell'Aquinate, la teologia cattolica nel Terzo Millennio, di fronte a una società "multiculturale" e "multireligiosa", dovrebbe sentirsi nuovamente "provocata" da tematiche cruciali, come la "ragionevolezza" del Cristianesimo e la credibilità della Rivelazione.

È importante condurre l'interlocutore verso il riconoscimento delle verità rivelate, presentandole come realtà vitali che è più ragionevole accettare che non accettare e sollecitando una presa di posizione della libertà, nella speranza di una conversione del cuore, che può realizzarsi solo con la Grazia.


(©L'Osservatore Romano - 16 luglio 2010)
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04/10/2010 15:29
 
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[SM=g1740722] un bellissimo passo "a braccio" del Papa mentre parla di san Tommaso (testi integrali sopra riportati)
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San Tommaso e l’Eucaristia oggi


Intervista al presidente della Società Internazionale Tommaso D’Aquino



di Antonio Gaspari e Maurizio Tripi

ROMA, giovedì, 21 ottobre 2010 (ZENIT.org).- L’Eucaristia è il tema su cui la Società Internazionale Tommaso D’Aquino (SITA) discuterà nel convegno annuale in programma a Roma il 5 novembre presso la Pontificia Università San Tommaso “Angelicum”.

La scelta del tema ha preso spunto dal discorso tenuto da Benedetto XVI durante l’Udienza generale del 2 giugno scorso, in cui il Papa ha definito san Tommaso d’Aquino come “un’anima squisitamente eucaristica”, ricordando la composizione dei testi liturgici per la festa del Corpus Domini, commissionatigli da Papa Urbano IV.

A partire dalla riflessione teologica di Tommaso d’Aquino, i partecipanti al convegno rifletteranno su alcuni aspetti della questione della Eucaristia: scritturistici, teologici, liturgici, artistici.

Tra i relatori: il Cardinale Antonio Cañizares Llovera, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti; padre Vincenzo Benetollo, O.P., presidente della SITA; padre Stefano Philip, O.P. (Università di Olomuc, Repubblica Ceka); il prof. Rodolfo Papa (Pontificia Università Urbaniana, Roma), il prof. Padre Manlio Sodi (Università Pontificia Salesiana, Roma); il rev. prof. Robert Wielock (Pontificia Università della Santa Croce, Roma), padre Cesare Giraudo S.I. (Pontificia Università Gregoriana, Roma); e padre Arturo Ruiz Freites IVE (Centro di Alti Studi San Bruno Vescovo di Segni, Roma).

Il convegno si concluderà il 6 dicembre con una visita al Duomo di Orvieto e Bolsena, a ricordo del miracolo eucaristico.

Per meglio conoscere ragioni e contenuti dell’interessante convegno, ZENIT ha intervistato padre Vincenzo Benetollo.

Come è perchè avete scelto l’Eucaristia come tema di riflessione per il convegno annuale della SITA?

Benetollo: Anzitutto perché l'Eucaristia è il cuore della vita cristiana, e quindi è sempre attuale. Con questo sacramento Gesù prolunga tra noi, sacramentalmente, la sua passione, morte e risurrezione perché anche noi, in Lui, viviamo giorno per giorno la nostra passione, morte e risurrezione. Un altro motivo è che san Tommaso, a cui si richiama la nostra Società Internazionale Tommaso d'Aquino (SITA), è ancora il maestro insuperato della teologia eucaristica. Pensi, solo per fare un esempio, che la sua dottrina sulla transustanziazione è talmente azzeccata che il Concilio di Trento l'ha fatta propria.

La secolarizzazione e l’indebolimento della pratica religiosa che ha toccato la Chiesa cattolica nel periodo post-Concilio ha  influenzato negativamente la conoscenza e la frequenza all’Eucaristia. Era così anche ai tempi di san Tommaso? E in che modo il santo Aquinate spiega e invita i fedeli all’Eucaristia?

Benetollo: Non c'è dubbio che ogni affievolimento della fede si traduce immediatamente in un minor apprezzamento dell'azione della Chiesa e dei suoi sacramenti, soprattutto del sacramento più importante, cioè dell'Eucaristia. Il Medioevo, in genere, aveva una fede che trasportava le montagne, cioè costruiva le cattedrali.

L'opera di san Tommaso è stata efficace soprattutto in questo. Egli, che ha dato le spiegazioni teologiche più adeguate del sacramento, non ha prodotto solo concetti astratti, ma ha trasmesso negli scritti anche il suo sentimento e la sua passione di anima innamorata del sacramento. Per averne conferma è sufficiente pregare con i suoi inni eucaristici, che non a caso sono diventati il patrimonio unico, e quasi esclusivo, della spiritualità eucaristica.

Qual è l’attualità e l’efficacia degli insegnamenti di san Tommaso oggi?

Benetollo: Nell’Eucaristia è racchiuso il mistero e la forza del cristianesimo. Il mistero della Passione del figlio di Dio e l’amore per l’umanità del Signore.

In che modo il convegno cercherà di illustrare i fondamenti dell’Eucaristia?

Benetollo: Il convegno presenterà il nucleo dell'insegnamento di san Tommaso sul mistero eucaristico. Presenterà anche qualche arricchimento storico, liturgico ed esegetico. Ma forse il convegno vuole anche sottolineare che l'Eucaristia si capisce e si penetra nella misura in cui si ama, perché l'Eucaristia è vita, è amore che si dona, è Dio che vuole incontrare la sua creatura cuore a cuore.

 Tra gli approfondimenti scritturistici, teologici, liturgici, c’è anche la via della bellezza artistica consigliata dal Santo Padre e che sembra molto efficace. Qual è il suo parere in proposito?

Benetollo: L'Eucaristia è il dono più grande, più bello e più sublime che Dio ha lasciato all'umanità. Ora, per esprimere il sublime, noi uomini non abbiamo altro che l'arte nelle sue varie forme, come la poesia, la musica, la pittura ecc. L'arte ha il grande pregio di elevare non solo la mente, ma anche il cuore e il sentimento, tanto che il suo effetto assomiglia a quello del rapimento dalla realtà in cui viviamo.

A proposito della visita da voi programmata al Duomo di Orvieto dove ha avuto luogo uno dei più noti miracoli eucaristici, lei sa che ancora oggi alcuni studiosi tedeschi mettono in dubbio quell’evento strabiliante.  Che cosa ne pensa?

Benetollo: Penso che dobbiamo tornare a essere più semplici, secondo l'esortazione evangelica, perché nessun miracolo è evidente per coloro che hanno il cuore chiuso o lontano. Ma era così anche ai tempi di Gesù.

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12/11/2010 11:51
 
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[SM=g1740733] CORSO DI METAFISICA, padre Giovanni Cavalcoli spiega, ascoltiamolo....

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[SM=g1740717]

seconda parte

it.gloria.tv/?media=109526

[SM=g1740717]


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Professione teologo

Quelli che riflettono
sull'invisibile


di mons. Inos Biffi

Elaborare una teologia per il nostro tempo, che risponda alle attese del mondo, che ne assuma il linguaggio e le aspirazioni:  è l'incombenza abitualmente assegnata a quanti fanno di professione il teologo.

Intanto giustifichiamo questo modo di esprimersi:  fare di professione il teologo. Qualcuno parla di carisma o di ministero del teologo, il che può anche aver senso, se si intende mettere in luce che la teologia è un servizio nella Chiesa. Solo che si deve subito aggiungere che non si diventa teologi per grazia o per una speciale missione ricevuta, ma perché si ha una particolare capacità e attitudine a riflettere sulla fede o a esplorare il mistero cristiano; se a questo ci si dedichi assiduamente come a un lavoro arduo ed esigente, facendone una laboriosa scelta di vita.

Oggi si è molto larghi e facili nel concedere o nel concedersi il titolo di teologo:  nella storia della teologia troviamo un criterio ben differente.
Tommaso d'Aquino era di parere diverso. Egli riteneva che la professione del teologo - o, come egli la definisce, l'officium sapientis - sia impresa che oltrepassa le possibilità umane (proprias vires excedit) e può esercitarsi solo affidandosi alla bontà divina (assumpta ex divina pietate fiducia).

D'altra parte, lo stesso Dottore è persuaso che fare teologia sia la sua vocazione e che Ego hoc vel praecipuum vitae meae officium debere me Deo conscius sum, ut eum omnis sermo meus et sensus loquatur ("l'impegno principale a cui è chiamato da Dio consista nel dedicarsi, con tutte le sue energie, spirituali e materiali, a parlare di Lui", Summa contra Gentiles, i, 2).

Ma, proprio per questo, nulla lo distrarrà da questo suo proposito (propositum nostrae intentionis); non lo alletterà neppure l'offerta di prestigiose prelature; di fatto giungerà al termine della sua vita esausto, proprio per aver consumato tutte le sue risorse in questo studium, che, tra tutti, considerava perfectius, sublimius, utilius et iucundius ("il più perfetto, il più sublime, il più utile e il più gioioso", ibidem).

Oggi, ancora, si sente anche rivendicare un diritto quasi sindacale di fare teologia:  diritto anche dei laici e anche delle donne, ma tutto questo non ha molto senso. È ovvio che anche i laici e le donne possano esercitare la professione del teologo. La teologia non è né clericale né laicale, né maschile né femminile:  quel che importa è che sia "teologia" e non altro, cioè che sia - come diceva Tommaso - un "discorso (sermo) che dica Dio", e che esponga la verità della fede cattolica (veritas quam fides catholica prophitetur) eliminando gli errori contrari (errores eliminando contrarios). Tutto il resto è chiacchiera. E lo stesso vale per la filosofia:  pensiamo a due donne, Edith Stein e, da noi in Italia, a Sofia Vanni Rovighi.

Ma qui, sempre prendendo spunto dall'Angelico, vorremmo riprendere il rilievo iniziale sulla teologia a cui spetterebbe il compito di ammodernarsi, per rispondere alle attese del nostro tempo.
In realtà, crederei che si debbano variare leggermente i termini della questione e cioè affermare esattamente il contrario:  non è la teologia che deve aggiornarsi all'evolversi del tempo, ma è il tempo che deve stare al passo della teologia, o meglio della Rivelazione, ricevuta nella fede. Non è Dio che si deve porre in ascolto dei bisogni e dei desideri dell'uomo, ma è l'uomo che deve accogliere l'eterno progetto divino, che sarà sempre "inattuale" per ogni uomo in ogni epoca.

La teologia si occuperà, quindi, delle Tre Persone della Trinità, di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, morto e risuscitato, dell'elezione in lui di tutta la realtà terrena e celeste, e specialmente dell'uomo, predestinato a condividere la gloria del Signore; tratterà quindi della Chiesa, che è il Corpo mistico di Cristo e il segno della sua riuscita; del peccato e della grazia; del Paradiso e dell'Inferno e di tutto quanto appartiene alla Parola rivelata.

Proprio facendo questo la teologia risulterà aggiornata, dal momento che tutte queste cose riguardano il perenne disegno di Dio sull'uomo storico e sul mondo in cui viviamo. Non è Dio che deve apprendere le attese umane per corrispondervi, ma è l'uomo che deve imparare le attese divine per conformarvisi.

La teologia fissa lo sguardo sulle cose invisibili, e perciò la sua materia, a cominciare dalla Trinità, rappresenta la realtà più concreta che si possa immaginare. Secondo quanto dichiara Paolo:  "Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne" (2 Corinzi, 4, 18) per cui non hanno bisogno di aggiornarsi.

Nella misura in cui la sacra dottrina scruta e propone il piano di Dio mostra ciò che assolutamente conta per l'uomo - l'uomo non solo di oggi o di domani, ma di sempre -, ossia la sua salvezza così come Dio l'ha concepita e l'ha attuata in Cristo. Invece, nella misura in cui la medesima sacra dottrina si mette alla scuola dell'uomo, fraintende l'uomo stesso e lo inganna o lo illude, e solo in apparenza lo ha a cuore. In fondo siamo in una visione di alternativa o di dialettica tra Dio e l'uomo, come preoccupati di non cedere troppo al primo a scapito del secondo, mentre nel mistero dell'Incarnazione è proprio Dio a mostrare quando l'uomo sia in cima alla sua predilezione e al suo amore.

Detto questo, aggiungiamo che è senza dubbio un dovere del teologo usare un linguaggio trasparente, incisivo, sgombro di questioni inutili appartenenti a discussioni del passato, capace di illuminare le scelte che i diversi tempi con le loro urgenze impongono. Ma questo dovere verrà assolto appunto se lo sguardo della teologia sarà rivolto verso il mistero di Dio che è Gesù Cristo, cioè verso il mondo autentico e stabile della Grazia.

Abbiamo parlato della teologia:  ovviamente tutto questo vale non meno per la predicazione e la catechesi, che ugualmente, stemperandosi in un'apparente "attualità", alla fine suscitano disinteresse, se non disgusto, e rendono omelie ed esortazioni di una noia mortale; invece che sorprendenti e attraenti per la novità, insopportabili per la monotonia.


(©L'Osservatore Romano - 19 gennaio 2011)

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27/01/2011 18:46
 
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La teologia secondo san Tommaso d'Aquino

In adorazione
discorrendo sull'essere


di Inos Biffi


Nelle attuali ricerche o, come si dice, nel dialogo sul monoteismo - riguardo al quale la fede cattolica professa l'esistenza di un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo - è diffusa la discussione sull'essenza di Dio e sulla possibilità di nominarlo e quindi sul valore dei nomi che vengano attribuiti.

Quanto alla denominazione di Dio:  parrebbe che nessun nome gli convenga e che nessuna idea ci si possa fare di lui, a motivo della sua trascendenza assolutamente inarrivabile e inattingibile e quindi inconcepibile dalla conoscenza umana, pena la sua riduzione ai confini e quindi ai limiti umani. Ed è come dire che di Dio non si può avere nessun concetto e che ogni concetto a suo riguardo sia destinato a essere equivoco:  di Dio non si può parlare, ma solo tacere.

Ma, se questo fosse vero, la conseguenza sarebbe un'assoluta teoria dell'ateismo, nel senso che qualsiasi tentativo di raggiungere Dio sarebbe destinato al fallimento, e la stessa Rivelazione risulterebbe vana e impossibile, per l'impotenza e l'improprietà di ogni concetto o "immagine" a riferirsi a Dio.

San Tommaso ha riflettuto acutamente e ampiamente sui "Nomi di Dio", sia nel Commento al De divinis nominibus dello Pseudodionigi - uno dei testi più luminosi e vibranti dell'Angelico - sia in altre sue opere, tra cui la vasta e analitica questione 13 della Summa theologiae.

In queste ultime possiamo notare come programmatica, l'affermazione:  "Noi possiamo denominare Dio a partire dalle creature, ma non in modo tale che il nome che lo significa (nomen significans ipsum) esprima la sua essenza così com'essa è (exprimat divinam essentiam secundum quod est)" (Summa theologiae, i, 13, 1, c.). Noi diciamo che "Dio non ha nome o sta al di sopra di qualsivoglia nome dal momento che la sua essenza oltrepassa ciò che di Dio possiamo comprendere con l'intelletto o significare con la voce" (Ea ratione dicitur Deus non habere nomen, vel essere supra nominationem, quia essentia eius et supra id quod de Deo intelligimus et voce significamus, ibidem, 1m).

Non ci è noto il modo di essere di Dio, ma solo il suo riflettersi in modo imperfetto nelle creature:  "Così com'è, il nostro intelletto, in questa vita, non lo conosce" (intellectus noster non cognoscit eum ut est, secundum hanc vitam, ibidem, 2m). Infatti, "in questa vita noi lo conosciamo secondo quello che di lui si trova rappresentato nelle perfezioni delle creature" (ibidem, c.).
L'affermazione è ripetuta:  nessun nome è in grado di esprimere perfettamente quello che Dio è (quod est Deus perfecte):  "Qualsiasi nome lo significa in modo imperfetto, così come in modo imperfetto egli si trova rappresentato nelle creature" (unumquodque [nomen] imperfecte eum significat, sicut et creaturae imperfecte eum repraesentant, ibidem, 2, 1m).

In altre parole, bisogna distinguere tra "perfezioni significate" (perfectiones ipsae  significatae)  e  "modo di significare" (modus significandi, ibidem, 3, c.).
Quanto alle "perfezioni" significate alcuni nomi convengono a Dio in senso proprio, anzi, valgono primariamente per lui - come i nomi indicanti vita, bontà, sapienza, e così via; quanto invece al "modo di significare" non gli convengono in senso proprio:  noi conosciamo solo il modo con cui tali perfezioni si ritrovano e si predicano nelle creature, mentre ignoriamo "come" esse si trovino in Dio, come siano in lui la vita, la bontà, la sapienza.

In conclusione:  noi non siamo in grado di oltrepassare lo schermo, il prisma creaturale per collocarci all'interno di Dio, evadendo lo spazio del mondo creato.

D'altronde in san Tommaso sono chiare due convinzioni.

La prima convinzione è che "di Dio non possiamo sapere quello che è, ma quello che non è; non siamo in grado di riflettere su come Dio sia, ma piuttosto su come non sia" (De Deo scire non possumus quid sit, sed quid non sit; non possumus considerare de Deo quomodo sit, sed potius quomodo non sit, Summa theologiae, i, 3, introduzione). Dio - ed è il pensiero di Agostino nel De verbis Domini (38, 2, 3) - "non può essere alla portata del nostro intelletto, ma il modo più perfetto di conoscerlo nello stato presente sta nel conoscere che egli è superiore a tutto ciò che il nostro intelletto è capace di concepire, per cui ci uniamo a lui come a uno sconosciuto" (Ipse non potest esse pervius intellectui nostro; sed in hoc eum perfectissime cognoscimus in statu viae quod scimus eum esse super omne id quod intellectus noster concipere potest; et sic ei quasi ignoto conjungimur, In iv Sententiarum, 49, 2, 1, 3m). Anche se la Rivelazione ci ha fatto senza dubbio conoscere Dio più pienamente (plenius), manifestandoci perfezioni e proprietà ignote alla "ragione naturale" (ratio naturalis) - si pensi al suo essere uno e trino.

Con tutto questo, la seconda convinzione  di  san Tommaso è che l'impossibilità  di  conoscere  Dio  univocamente,  cioè  nella sua  essenza,  non  rende equivoco il nostro parlare di lui, ma lo rende  analogico,  inadeguato  sì,  ma   vero e  provveduto  di  sen- so  (analogice,  et non equivoce pure, neque univoce, Summa theologiae, i, 13, 5, c).

Lo pensano alcuni filosofi che, dopo aver sostenuto vanamente che il Dottor Angelico includeva Dio nell'àmbito degli enti, adesso fraintendono la dottrina sull'assoluta trascendenza divina, giungendo a concepire l'ineffabilità di Dio come una equivocità e a parlare di non-Essere di Dio.
Senza dire che una logica alternativa alla conoscenza analogica dovrebbe essere un completo silenzio su Dio, o una teologia totalmente "negativa". Che Tommaso rifiuta per affermare che "Dio si onora sì con il silenzio, non perché non si dica o non si conosca nulla di lui, ma perché, qualsiasi cosa impariamo o conosciamo di lui, ci rendiamo conto che la nostra intellezione ha fallito" (Deus honoratur silentio, non quod nihil de ipso dicatur vel inquiratur, sed quia quidquid de ipso discamus vel inquiramus, intelligimus nos ab eius comprehensione defecisse, Super Boetium de Trinitate, 2, 1, 6m):  Dio sta sempre, inarrivabilmente, di là; imprendibile e impercorribile.

È la prospettiva anselmiana:  Dio è il sempre "Oltre", Colui che non è disposto nella serie, neppure come il primo e il più alto, perché sta nella inconcepibilità (quo magis cogitari nequit). La teologia di Tommaso nasce dall'incessante e gioioso desiderio di comprendere Dio:  desiderio che tiene vigile e impegnata la ricerca, che la nutre di speranza, in attesa della visione.

Un ultimo rilievo sul Nome divino che ha incantato l'Angelico, quello di Essere. In Dio - egli ripete - l'essenza e l'essere coincidono; "la sua essenza è il suo essere (essentia eius est suum esse)", e questo significa che egli è l'Atto puro e Perfezione illimite. Lasciando trasparire una profonda, anche se come sempre contenuta, emozione, Tommaso definirà la coincidenza tra l'essere e l'essenza di Dio una "Verità sublime" (Haec sublimis veritas, Summa contra Gentiles, i, 22, n. 10), ampiamente dimostrata con la ragione e insieme rivelata a Mosè, il quale la imparò da Dio, quando alla sua domanda si sentì rispondere che il suo nome è "Colui che è".

Qualcuno confonde il puro Essere di Dio con la staticità o una distaccata mancanza di sentimenti, per cui sente il bisogno di definirlo come essenzialmente relativo alla creatura, dotato a sua volta di mobili sentimenti, in tal modo concependo Dio a immagine dell'uomo.
È vero invece che, se Dio è l'Essere, non lo è nel modo in cui noi abbiamo l'esperienza dell'essere:  egli non "è", come "siamo" noi, bensì è in modo tutto proprio, che lui solo conosce e che a noi sfugge, legati tuttora come siamo alle insuperabili restrizioni di creature.

Ma ciò non produce tristezza o risentimento; al contrario genera stupore e incontenibile ammirazione, o una specie di confusione che si risolve in adorazione, che diventa sconfinata e si confonde al pensiero che Dio in ogni istante, dal nostro intimo, ci comunica il dono dell'essere che ci fa esistere. Non è necessario aggiungere la preghiera alla teologia o anche alla filosofia dell'essere:  esse sono oranti per natura loro.


(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2011)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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29/01/2011 17:57
 
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Videomessaggio del Papa per i 400 anni dell'università San Tommaso di Manila

Con l'ateneo cattolico Filippine più ricche di cultura


La Pontificia università San Tommaso d'Aquino di Manila renderà le Filippine sempre più ricche culturalmente e spiritualmente. Lo dice il Papa nel videomessaggio registrato per i quattrocento anni dell'istituzione. Ecco una traduzione italiana del messaggio.

Eminenze, Eccellenze, cari Amici,
Sono lieto di inviare i miei cordiali saluti agli studenti, al personale e agli ex alunni della Pontificia Università di San Tommaso mentre si celebra il quattrocentesimo anniversario della sua fondazione. È un evento importante nella vita della Chiesa e, pur non potendo essere con voi fisicamente, sono lieto di rivolgermi a voi di persona in questo modo, di unirmi a voi nello spirito e di porgere a tutti voi i miei affettuosi auguri per questa fausta occasione.

È con gratitudine che ricordo i molti sacerdoti, religiosi e laici che a San Tommaso hanno trasmesso a generazioni di filippini la fede, la conoscenza e la sapienza che si trova nelle scienze religiose e secolari. In particolare rendo omaggio alla memoria del vostro fondatore, il vescovo Miguel de Benavides, e al grande impegno dei Domenicani, che hanno guidato l'istituzione attraverso le numerose sfide degli ultimi quattro secoli.

Come sapete, l'Università di San Tommaso è l'istituzione per l'educazione cattolica superiore più antica dell'Estremo Oriente e continua a svolgere un ruolo molto importante nella Chiesa in tutta la regione.

Sono fiducioso che, tenendo presente la fede e la ragione, che fanno sempre parte di un approccio veramente completo all'educazione, la vostra Università continuerà a contribuire all'arricchimento intellettuale, spirituale e culturale delle Filippine e anche di altri Paesi. Prego anche affinché cerchiate sempre una conoscenza delle questioni umane e divine alla luce di quella chiarezza ultima che si trova nella persona di Gesù Cristo (cfr. Gv 8, 12).

Invocando la saggia intercessione del vostro patrono celeste, san Tommaso d'Aquino, vi imparto volentieri la Benedizione Apostolica come pegno di grazia e di pace.



(©L'Osservatore Romano - 30 gennaio 2011)

                                       Pope Benedict XVI waves during his weekly general audience in paul VI hall at the vatican on January  26, 2011.


Videomessaggio del Papa alla Pontificia Università "Santo Tomas" di Manila (You Tube)




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Tommaso d'Aquino e la vera libertà dei teologi.
Gli occhi della Chiesa

(di mons. Inos Biffi)

Tommaso d'Aquino chiama i «sacri dottori (sacri doctores)», gli «occhi» della Chiesa: «Come nel corpo c'è l'occhio, così nella Chiesa ci sono i dottori» (sicut [...] oculus est in corpore, ita doctores sunt in Ecclesia; Contra impugnantes, 2, 2, c).

Tra questi «sacri dottori» sono compresi i teologi, quelli cioè che dedicano la loro vita, direbbe lo stesso Tommaso, allo studium sapientiae o alla contemplazione, nell'intento di ottenere l'«intelligenza della fede» (intellectus fidei), secondo l'espressione cara ad Anselmo d'Aosta (Proslogion).

I filosofi, seguendo «l'inclinazione naturale che c'è nell'uomo di conoscere la verità riguardante Dio» (Summa Theologiae, i-ii, 2, 94, 2, c), considerano le cose del mondo per salire a lui; i teologi, grazie alla Rivelazione, considerano i segreti di Dio per discendere nel mondo. La teologia, quindi, come lo sguardo proprio di Dio sulla realtà.

Nel 1256, alla prima lezione inaugurale del suo magistero dottorale, in cui commenta il versetto 13 del Salmo 103: «Colui che irriga i monti dalle sue alte dimore» (Rigans montes de superioribus suis), parlando della «dignità» (dignitas) dei dottori, Tommaso d'Aquino afferma: «I monti sono illuminati per primi dai raggi del sole; similmente i dottori ricevono per primi lo splendore dell'intelligenza.
Come i monti, infatti, i dottori sono i primi a essere illuminati dai raggi della sapienza divina; ed è detto nel salmo 75, 5: Quando tu illumini in modo meraviglioso dai monti eterni, sono turbati tutti gli stolti di cuore, cioè dai dottori che partecipano dell'eternità, di cui in Filippesi 2, 15 è detto: In mezzo a loro splendete come astri nel mondo»
(Primo enim montes radiis illustrantur. Et similiter sacri doctores mentium splendorem primo recipiunt. Sicut montes enim doctores primitus radiis divinae sapientiae illuminantur, Psal. 75, 5: illuminans tu mirabiliter a montibus aeternis, turbati sunt omnes insipientes corde; id est a doctoribus qui sunt in participatione aeternitatis, Philipp. 2, 15: inter quos lucetis sicut luminaria in mundo).

Veramente, la visione teologica appartiene a ogni credente che, accogliendo nella fede la Parola di Dio, si ritrova in dono «gli occhi illuminati del cuore» (cfr. Efesini, 1, 18) o il «lume della fede» (lumen fidei), com'è chiamato nella tradizione patristica e scolastica, che anche parlava dell'«occhio della fede» (oculus fidei), mentre già Tertulliano parlava di «fede dotata degli occhi» (fides oculata).

È, infatti, intrinseco alla fede l'«istinto» della sua comprensione. Manifestandosi all'uomo, Dio gli affida i suoi segreti, perché li iscriva nell'intelletto e nell'affetto e diventino, così, oggetto del suo pensiero e del suo amore. È nota la definizione agostiniana della fede: «un aderire accompagnato dalla riflessione» (cum assensione cogitare), che san Tommaso commenta dicendo: l'atto del credere «comporta un'adesione ferma, tuttavia la sua conoscenza non si compie mediante una percezione evidente» (habet firmam adhaesionem [...] et tamen eius cognitio non est perfecta per manifestam visionem; Summa Theologiae, ii-ii, 2, 1, c).

Ecco perché, continua ad affermare l'Angelico, «la conoscenza della fede non acquieta il desiderio; anzi, lo accende ancora di più, perché tutti desiderano vedere ciò che credono» (cognitio [...] fidei non quietat desiderium, sed magis ipsum accendit, quia unusquisque desiderat videre quod credidit; Summa contra Gentiles, III, 40).
In altri termini: «Il fine della fede è quello di giungere a capire quelle cose che crediamo» (finis fidei est nobis, ut perveniamus ad intelligendum quae credimus; Super Boetium de Trinitate, 2, 2, 7m).

Da questo profilo ogni credente appare istintivamente inclinato a essere teologo.
È, dunque, la forza stessa della fede a premere per diventare quanto possibile contemplazione, e così soddisfare l'intelligenza, che, vedendo quello che ama, provoca compiacenza e gioia. Più uno crede, «vede»; e più uno «vede», ama. È la peripezia del teologo.
Il quale, tuttavia, non va considerato isolato e a sé, ma nella sua appartenenza alla Chiesa, alla quale viene anzitutto affidato il mistero. I sacri dottori sono gli occhi nel corpo che è la Chiesa, perché è in essa che la teologia diviene una scelta di vita.

La radice della loro professione è la fede custodita e vivente nella Chiesa, semplicemente comune a tutti i credenti. Da qui la natura profondamente ecclesiastica della teologia. Quello dei teologi non è un pensare né sopra né a prescindere dalla fede della Chiesa. Il sapere globale della Chiesa è sempre maggiore del sapere di qualsiasi, per quanto acuto, teologo, il quale rimane sempre da essa giudicabile, in particolare dal Magistero dei «sacri dottori» intesi come i maestri della fede.

Questo non vuol dire che la Chiesa riconosca subito il valore di un pensiero teologico, né che il suo giudizio in merito sia sempre infallibile: la storia dimostra che spesso il riconoscimento richiede tempo e che non sempre sono risparmiate al teologo dolorose afflizioni. Un teologo deve prepararsi ad attendere, in questa vita o anche nell'eternità. Una volta ancora possiamo citare come esempio ammirevole il biblista Padre Lagrange, con le sue traversie.

Uno degli indici di serietà teologica è anche la pazienza, il senso delle proporzioni, la «modestia» o la «misura», l'attesa, la diffidenza nei confronti della facile pubblicità, la non facilità a porsi nello stato di vittima o di genio incompreso. A chi vi si dedichi, senza ulteriori mire, la teologia ha sempre di che soddisfare l'esistenza di uno studioso cristiano.

Oggi forse troppo gratuitamente ci si autoproclama teologi: oppure si perde vanamente il tempo a discutere della libertà del teologo invece di faticare a tempo pieno per diventarlo.
Senza dubbio, va precisato che la finalità della teologia non è propriamente né solo quella di spiegare o giustificare il Magistero, che d'altronde è per il teologo, come per tutti i credenti, un punto imprescindibile di riferimento, né è quella di limitare le sue indagini all'area delineata dallo stesso Magistero.

Guida del teologo è la Parola di Dio situata e autorevolmente interpretata nella Chiesa, il cui magistero è per lui come per tutti riferimento e dimensione imprescindibile. Egli tende, cioè, a pensare tutta la Rivelazione, quand'anche essa non abbia trovato la forma di un'esplicita proposizione magisteriale, e sarà l'intera Chiesa a beneficiare di questi approfondimenti. Si pensi ai due casi più illustri, quello di Agostino e quello di Tommaso d'Aquino, che hanno indagato su tutto l'arco del mistero cristiano, col risultato di segnare profondamente il contenuto e il linguaggio dello stesso Magistero.

D'altra parte, una teologia che reclami autonomia e indipendenza rispetto all'insegnamento della Chiesa si pone metodologicamente fuori strada, dal momento che il suo oggetto non è la Parola che Gesù Cristo ha consegnato alla sua Chiesa tramite gli Apostoli e la successione apostolica, da lui disposta come testimonianza e garanzia infallibile dell'autenticità dell'insegnamento evangelico. La libertà della teologia non significa riflessione arbitraria e indipendente.
Su questa via semplicemente non avremmo più la teologia cristiana e la pretesa di esserlo sarebbe abusiva.

Per tornare a san Tommaso: il suo appare un modello chiarissimo di teologia «libera» ma insieme consapevole della sua «relatività», che le assicura l'«ortodossia».

Proporre una dottrina in contrasto con quella insegnata dai «sacri doctores» -- intesi come i maestri autorevoli nella Chiesa (cfr. Atti degli Apostoli, 20, 28) -- vorrebbe dire perdere la prerogativa di essere un «dottore della verità cattolica» (catholicae veritatis doctor, come Tommaso chiama il teologo (Summa Theologiae, i, 1).

Deplorevolmente oggi parrebbe che l'eresia non esista più. In ogni caso già Paolo raccomandava a Tito di insegnare «quello che è conforme alla sana dottrina» (Tito, 2, 1), mentre, esortando Timoteo ad annunciare la Parola di Dio, gli prediceva: «Verrà un giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina» (2 Timoteo, 4, 2-3).

Quanto a Tommaso, sempre nel discorso inaugurale del suo insegnamento, assegnava al teologo il compito di difendere la fede contro gli errori: «I monti difendono la terra dai nemici; allo stesso modo i dottori della Chiesa devono essere impegnati a difendere la fede dagli errori» (Per montes terra ab hostibus defenditur. Ita et doctores ecclesiae in defensionem fidei debent esse contra errores).

Ma sembra un compito che oggi non entusiasma molto i teologi, intenti a dialogare e a complimentarsi e ad ammirarsi a vicenda.
Importa, comunque, chiarire che la libertà di insegnare l'eresia è altra cosa rispetto alla libertà della ricerca teologica, ossia di una ricerca nell'ambito di una scienza che per definizione è «scienza della fede» (scientia fidei), che, d'altronde, lascia uno spazio immenso e stimolante alla più sorprendente originalità.

Possiamo fare ancora una considerazione, per distinguere tra la teologia come frutto dell'ingegno, dello studio, della ricerca che abilitano a occupare una cattedra, con una «licenza di insegnare» (licentia docendi), e la teologia «sapienziale», che si riceve in virtù della grazia.
Si possono certamente «sentire le cose di Dio» (pati divina), averne l'esperienza, anche se non si è teologi «di professione». Basta essere in grazia di Dio, come una volta si diceva, e avere quindi il dono dello Spirito Santo, che è la sapienza.

Lo rileva san Tommaso, quando parla della conoscenza sapienziale «per inclinazione» o «per una certa connaturalità», distinguendola nettamente dalla teologia come «giudizio che si ottiene attraverso lo studio e la ricerca» (Summa Theologiae, I, 1, 6, 3m).
È questo secondo il senso da noi qui assegnato al termine teologia, la quale, così compresa, richiede lavoro assiduo, spesso non gratificante, restìo a improvvisazioni, o folgorazioni, esigente di disciplina e di assidua esercitazione dell'intelletto nel campo sia storico sia speculativo.

Con la conclusione che senza una vera ascesi rigorosa, severa e prolungata, difficilmente si diviene dei veri teologi. La scienza teologica, del resto come ogni scienza, non fa sconti a nessuno e non la si acquista a buon prezzo.
Per finire, può essere illuminante ricordare un testo forse meno noto di san Tommaso sulla «gratuità» della teologia.

La teologia o la «contemplazione della sapienza» ha in se stessa il proprio fine e la propria ricompensa. Essa «si può giustamente paragonare al giuoco, per due ragioni: la prima perché il giuoco è motivo di gioia, e la contemplazione della sapienza è fonte della più grande gioia; la seconda perché gli atti del giuoco sono ricercati per se stessi, e non sono ordinati ad altro: lo stesso avviene nel piacere che provoca la sapienza e che non ha la sua causa al di fuori di essa, per cui non produce nessuna ansietà, come se mancasse di qualcosa che attende»
(Sapientiae contemplatio convenienter ludo comparatur, propter duo quae est in ludo invenire. Primo quidem, quia ludus delectabilis est, et contemplatio sapientiae maximam delectationem habet [...]. Secundo, quia operationes ludi non ordinantur ad aliud, sed propter se quaeruntur. Delectatio contemplationis sapientiae in seipsa habet delectationis causam: unde nullam anxietatem patitur, quasi expectans aliquid quod desit; In Boëthii de Hebdomadibus, Prologus).

È come dire che la ricompensa a una vita trascorsa a far teologia è in un certo senso la teologia stessa, che nasce dalla passione della visione di Dio e in certa misura ne è il preludio. Si può anche diventare più buoni a far teologia, ma Tommaso giungeva a dire, a differenza di Bonaventura, che non si fa teologia per essere buoni, semmai la si puo fare perché si è buoni. Infatti, la sacra dottrina non è una scienza pratica, ma speculativa: attratta tutta ed esaurientemente a Dio, oltre il quale non c'è nulla.

(L'Osservatore Romano - 13 febbraio 2011)


[Modificato da Caterina63 13/02/2011 17:06]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il mistero della provvidenza

Nel progetto di Dio non ci sono trovatelli

di Inos Biffi

Come ogni creatura apparteniamo totalmente a Dio: da lui riceviamo l'esistenza, che è la perfezione originaria, ed è donata ogni istante, non solo nell'evento della creazione, per cui parliamo di «conservazione», equivalente a una creazione continuata. «La conservazione delle cose da parte di Dio -- scrive perspicuamente Tommaso d'Aquino -- non avviene con un'azione nuova, bensì col prosieguo dell'azione che consiste nel dare l'essere» (Summa Theologiae, I, 104, 4m).

All'infuori di Dio, tutto quello che c'è si trova in se stesso intrinsecamente segnato dalla precarietà; separato da lui, tutto è fatalmente per la morte assoluta, per il non-essere. Potremmo allora dire che l'esistenza degli enti è un «miracolo» continuo. Essa non è mai un diritto e non è mai autosufficiente, ma è sempre una grazia.
Afferma con parole limpide e incisive Tommaso d'Aquino: «Occorre dire, sia dal profilo della fede sia dal profilo della ragione, che le creature sono conservate nell'essere da Dio».

Ecco perché anche il filosofo, constatando l'essere e sentendosi esistente, è tenuto a rendere grazie, a pregare e ad adorare. È stato scritto su «Preghiera e poesia»; ma anche si dovrebbe scrivere su «Preghiera e filosofia».
Dio tuttavia non si limita a creare gli esseri, per poi abbandonarli a se stessi, a un loro confuso destino o a una accidentale casualità, senza che a ognuno presieda un disegno, una ragione per cui sono stati creati e che non può che essere una ragione di amore.
Dio, infatti, non fu spinto a chiamare gli esseri dal nulla da un suo incoercibile bisogno di effusione o di espansione. Ogni essere appare come frutto di una scelta di Dio, dettata dall'amore, e anche per la filosofia Dio, proprio perché pienezza di essere e perfezione somma, è Bontà somma e incomparabile -- extra genus -- «ultimo fine di tutte le cose» (ibidem, 6, 2, 3m; 3, c), ed è Amore.

Lo deve sapere il filosofo che, argomentando razionalmente con rigore, giunge alla dottrina della creazione, che rappresenta il vertice di tutta la filosofia. Di fatto non pare che gli antichi pensatori ci siano arrivati, ma Aristotele con la sua metafisica vi pose le premesse, che Tommaso d'Aquino sviluppò coerentemente giungendo appunto all'affermazione che «Dio dà l'essere» con la sua volontà, e perciò questo dono è fondato e guidato da un disegno, cioè disposto in una provvidenza, per cui ogni essere è sottratto dall'inutilità, dalla confusione, o dall'occasionalità fortuita priva di senso.

«La luce della ragione» giunge a dire che il mondo non viene alla luce per caso (Summa Theologiae, i, 22, 2, c); che tutti gli esseri sono disposti in un progetto divino, e quindi sono destinati a un fine, e in particolare «al fine ultimo che è la bontà di Dio» (ibidem, 22, 1, c). Ed esattamente questa è la Provvidenza, la quale riguarda gli esseri non solo nel loro insieme, ma nella loro singolarità. Che, se vale per tutto ciò che esiste, soprattutto è vero per l'uomo, che raggiunge il suo fine mediante l'esercizio del libero arbitrio e tramite gli atti personalmente posti» (Summa Theologiae, i-ii, Prologus).

A questo punto, mentre con procedimento rigorosamente logico abbiamo esaltato le possibilità della ragione, ci avvediamo di trovarci in concreto all'oscuro non sulla verità che la comunione con Dio è il compimento del desiderio dell'uomo, ma sulla forma concreta che esso assuma e sulla via storica per arrivarci. Soprattutto siamo presi da invincibile sconcerto di fronte agli eventi di dolore e di male o alle «irrazionalità» di ogni genere che attraversano l'esistenza umana e la lasciano attonita. In modo poi tutto speciale ci sentiamo smarriti di fronte all'esperienza della morte, che sembra in certa misura smentire tutta la nostra illuminata e teoreticamente ineccepibile riflessione.

L'Angelico parla della grande angustia patita dai «preclari ingegni» nell'individuare il fine ultimo (Summa contra Gentiles, III, 48, 16). Se, da un lato, il filosofo è pervaso dalla luce che proviene dall'Essere di Dio, al quale perviene ragionando e al quale si affida, dall'altro lato non sa vincere le ombre che ricoprono il volto della sua Sorgente prima e del suo Fine ultimo, mentre gli rimangono incomprensibili le vicissitudini e le contraddizioni del cammino della sua vita.
Le ombre sono dissipate e la comprensione si apre quando all'uomo viene narrato il «mistero di Dio che è Cristo» (Giovanni, 1, 22; Colossesi, 2, 2).

Egli apprende allora che Dio è Padre, Figlio e Spirito Santo; che ogni uomo è stato tratto dal nulla grazie a un amore paterno immenso e personale; che dall'eternità è stato ideato a immagine del Figlio, morto e risuscitato, per mezzo del quale, nel quale e in vista del quale tutto è stato fatto (cfr Colossesi, 1, 16); che nel medesimo Signore assiso alla destra del Padre è stato predestinato; che la misericordia della croce ha preceduto tutto e ha motivato la creazione dello stesso uomo; che tutti, nascendo, si ritrovano in dono l'Unigenito di Dio; che il fine ultimo del risveglio dell'uomo all'esistenza è quello di riuscire consorte del Crocifisso glorioso.

E, ancora, che ogni itinerario umano lungo il tempo è stato concepito come un rinnovarsi dell'itinerario di Gesù, un ripetersi dei suoi «misteri» di passione, di morte e di risurrezione.
Emerge, allora, che cosa sia la Provvidenza: essa è esattamente Gesù risorto da morte e il disegno eterno che in lui si avvera. Quelli che nascono, nessuno escluso, da quando è incominciato il genere umano fino a quando si consumerà, non possono avere origine dal caso, ma dalla scelta del Padre, che li chiama a essere figli nel Figlio, conformi a lui, «il primogenito di molti fratelli» (Romani, 8, 29).
Nel progetto di Dio non ci sono illegittimi, o «trovatelli», nati senza il suo amore e senza la sua incessante cura. Non solo: nessuna circostanza potrà vincere la potenza dell'amore misericordioso per cui abbiamo aperti gli occhi alla luce di questo mondo; nessuna forza terrena riuscirà a strapparci dal disegno di Cristo.
La filosofia, per quanto penetrante sia il suo sguardo, non è stata né potrà mai essere in grado di conoscere tutto questo.

Ne è invece al corrente la fede, che riceve dallo Spirito il dono di avere «illuminati gli occhi del cuore» (Efesini, 1, 18), che riescono a leggere «i segreti di Dio» (1 Corinzi, 2, 11).
Se però diciamo la fede, non diciamo la visione. Per questo il credente prova difficoltà e turbamenti, oscurità. I «segreti di Dio» con i loro lati per noi ancora insolubilmente enigmatici e dolorosi perdurano; e ugualmente ignoriamo come le singole evenienze si compongano a formare la trama dell'azione divina della nostra vita. Tutto ciò è noto unicamente a Dio.

Come scrive Newman, i particolari della «rotta silenziosa della Provvidenza», adesso li ignoriamo: essa «opera dietro a un velo», e «ciò che è visibile nel suo cammino offusca e a volte oscura e maschera ciò che è invisibile». I particolari della Provvidenza li scopriremo alla fine. Le grazie di Dio ci sono elargite «in silenzio e in segreto, cosicché non le discerniamo sul momento, eccetto che per fede».

E la fede è la grande e prolungata passione del credente, il quale, a dispetto di tutte le obiezioni e le smentite della storia, quella universale e la sua personale, non cessa di esser certo che Gesù risorto sostiene il mondo, che lo sottrae al disfacimento dell'inutilità e della casualità irragionevole, e che proprio nella contraddizione e nella debolezza della croce (cfr 1 Corinzi, 1, 22-25; 2, 2) egli rappresenta la speranza e la riuscita.
E la missione della Chiesa sarà sempre quella di predicare «la sapienza di Dio che è nel mistero» (ibid., v. 7.); spronerà la ragione e i suoi dialoghi, ma soprattutto annuncerà Cristo «speranza della gloria» (Colossesi, 1, 27), senza la quale alla fine la ragione perde la parola e rimane ammutolita.

(©L'Osservatore Romano - 28 febbraio - 1 marzo 2011)


Il Papa come San Tommaso

Intervista a John Finnis: nel suo libro "Aquinas" indica il dottore della Chiesa come uno dei fondatori del pensiero moderno. Per il filosofo di Oxford Benedetto XVI nei suoi discorsi ricalca le orme del Santo.


Andrea Gagliarducci

La modernità vista da Tommaso. Che sul dialogo con l'Islam avrebbe detto le stesse cose del Papa a Ratisbona, e cioè di partire dalla razionalità delle religioni. Le sfide dell'uomo moderno, viste da un tomista inglese: il lassismo dei leader d'Europa, in tutti i campi, rischiano di far scomparire la cultura europea. E la scomparsa di una cultura non è un bene per nessuno. La questione bioetica vista da un moderno pensatore tomista: si potrebbe anche andare a comprendere come funzioniamo, ma resterebbe il mistero della nostra essenza spirituale. Parola di John Finnis, professor delle università di Oxford e Notre Dame, che ha dedicato proprio all'Aquinate una monografia sui "fondatori del pensiero moderno".

Nel suo libro «Aquinas» lei ha indicato Tommaso d'Aquino come uno dei fondatori del pensiero moderno. Perché?

«Parlare di Tommaso come uno dei fondatori del pensiero moderno mi ha permesso di parlarne come una persona alla quale indirizzare questioni e problemi che sono tanto importanti oggi quanto lo erano nell'Atene del IV secolo a.C., nella Roma del V secolo o nella Parigi del XIII secolo. Lo considero un fondatore del pensiero moderno perché è alla lunga il più lucido e comprensivo divulgatore delle parti migliori della migliore tradizione filosofica della storia umana. Una tradizione la cui rilevanza e validità non sono ancora esaurite o realmente sorpassate, al di là di alcuni aspetti delle scienze naturali».

In che modo si possono applicare i pilastri del pensiero di Tommaso alle questioni di questo tempo: la bioetica, il dialogo tra le civiltà, le neuroscienze?

«Per rispondere, ci si deve basare sul suo realismo riguardo la verità e la sua accessibilità alla ragione naturale, cioè a un continua ricerca fatta con rigore e aperture mentale, portata avanti attraverso fonti di informazione accessibili a tutti. Tommaso è molto cosciente che le posizioni filosofiche dovrebbero essere abbandonate se le ragioni a favore della loro validità sono inconsistenti. È il caso di alcune teorie post-moderniste, ma anche, e certamente, il caso delle posizioni empiriste e idealiste. Circa il dialogo - ma possiamo anche parlare di uno scontro - tra le civiltà, Tommaso direbbe essenzialmente ciò che è stato detto dal Santo Padre nella lezione all'università di Ratisbona. Sulla questione delle neuroscienze, affermerebbe molto serenamente che ci sono cose che potrebbero portarci a comprendere le precodinzioni fisiche delle decisioni umane, ma il carattere spirituale del pensiero e della scelta trascende quelle precondizioni materiali. Questa è l'origine della dignità e delle individualità e della radicale eguaglianza di tutti gli esseri viventi, che è poi la questione centrale e la verità della bioetica».

Qual è la sfida dell'essere umano oggi?

«Ci sono molte sfide che tutti oggi devono affrontare: la malattia, la morte, la slealtà, la malizia. Oggi poi ci sono nuove sfide, anche se in alcuni casi la loro novità è esagerate. Alcune sfide sono quasi mitologiche. Le società europee ovviamente affrontano la possibilità di essere sovrastate da popolazioni demograficamente più vive, che potrebbero non condividere, o persino distruggere, molto di quanto abbiamo considerato valido per millenni. Questo è un destino che hanno dovuto affrontare molti popoli nella storia. Ma è ancora un destino non necessario, favorito dalle follie e il lassismo dei nostri leader (in ogni campo). Se accadrà, questa sarà una grande perdita per molte società non europee e popolazioni che avrebbero potuto essere i benificiari di ciò che le società e la cultura europee sono».

Il Tempo, 6 marzo 2011 consultabile online anche qui.





[Modificato da Caterina63 06/03/2011 21:54]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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A colloquio con Emmanuele Morandi, presidente dell'Istituto di studi tomistici di Modena

Il pensiero soffoca
senza silenzio

 

di SILVIA GUIDI

Un istituto pensato per far conoscere l'opera di Tommaso d'Aquino, ma soprattutto per far dialogare professionisti del pensiero e dilettanti della filosofia (nel senso etimologico del termine: delectantes, persone che si dilettano nel praticare l'amore alla verità), professori dai lunghi curricula e giovani lavoratori, pensionati e studenti ricchi solo della loro curiosità. Un programma un po' troppo ambizioso per essere realista, potrebbe sembrare a un primo sguardo. Ma la quadratura del cerchio esiste: si chiama Istituto filosofico di studi tomistici ed è nato a Modena nel 1988 per iniziativa di un gruppo di studiosi e ricercatori. Il nome - ci tengono a precisare i fondatori - può far pensare a una realtà di nicchia, ma è vero il contrario: l'Istituto è prima di ogni cosa un progetto culturale. L'ispirazione della metafisica tomista è stata, ed è, il propulsore centrale delle attività svolte, ma su questo intento originario si sono via via innestate nuove discipline, tentando di aprire un sentiero di dialogo fra il pensiero metafisico e i temi più vivi del pensiero contemporaneo. "Accanto alle normali attività di ricerca - spiega a "L'Osservatore Romano" il presidente Emmanuele Morandi - l'Istituto conduce anche una Scuola di studi filosofici e, per aprire la filosofia a un pubblico più ampio, organizza ogni anno il ciclo di incontri Filosofica-mente".

Come è nato l'Istituto?


Eravamo quattro giovani studenti di filosofia dell'università di Bologna. Iniziammo a incontrarci regolarmente, ogni settimana, e ognuno di noi preparava un tema tratto dalle opere di Tommaso, spesso anche da importanti autori tomisti contemporanei (ricordo i seminari su Maritain, Gilson e molti altri). Presto però maturò la convinzione che non fosse possibile vivere questo profondo magistero in termini semplicemente personalistici. La filosofia, e in generale i saperi umanistici, hanno una vocazione pubblica e non possono crescere e vivere senza comunicarsi. Del resto la verità è sempre anche bellezza, e la bellezza accende il desiderio; insomma il bene, cioè le cose buone e desiderabili, tendono a diffondersi, a donarsi. Fu così che nacque la consapevolezza della necessità dell'impegno pubblico e si delineò la struttura organizzativa dell'Istituto. Da una parte la ricerca che ruota intorno alle attività seminariali ed editoriali, e dall'altra l'attività pubblica, che ruota intorno a convegni, conferenze e corsi di formazione. La ricerca, nel corso degli anni, si è fortemente strutturata nelle attività editoriali. L'Istituto infatti dirige tre collane per l'Editore Marietti; i "Kaladri", i "piccoli Kaladri" e "Tolkien e dintorni". Vi è poi la rivista. Oltre dieci anni fa promuovemmo la rivista "Contratto: rivista di filosofia tomista e di filosofia contemporanea", poi, dopo un lungo periodo di silenzio, siamo ripartiti con la nuova serie, che riprenderà tra pochi mesi, dal nome "Realitas: rivista internazionale di filosofia, teoria sociale e scienze umane".

Come ha scoperto l'amore per la filosofia e per Tommaso in particolare?


La filosofia è stata una scoperta che mi ha coinvolto fin da subito, dalle prime volte che ne ho sentito parlare. Frequentavo addirittura le medie inferiori. Una sorta di infatuazione che ti colpisce profondamente e che, in qualche modo, senti che sarà una delle tue dimensioni fondamentali. Poiché l'incontro con la filosofia avviene normalmente attraverso insegnanti, docenti, subito impari a definirla come una materia, una disciplina. Ma se vuoi che questa passione, questo amore, cresca e diventi sempre più consapevole è necessario superare questo geometrico "incasellamento". Diventa fondamentale scoprire l'esperienza che istituisce questo "amore del sapere" e l'esperienza che istituisce la ricerca filosofica non è la professionalità attraverso la quale la insegni, ma è riportare ogni cosa, dalle più semplici alle più complesse, alle radici ultime, ai significati fondamentali della vita dell'uomo. Devi sperimentare che le "cose ultime", cioè quelle che contengono le domande fondamentali sulla nostra esistenza e su quella del mondo, sul Divino e sulla vita sociale, sono il tessuto del nostro essere uomini, sono più importanti del pane quotidiano, sono la nostra essenza, la nostra storia e il suo futuro. Tommaso, nonostante i secoli che ci separano dal suo linguaggio, dalla sua cultura e dal suo orizzonte di pensiero, è uno straordinario maestro, proprio perché sa coniugare la profondità con la superficie, la mitezza con la passione e il pensiero con la concretezza della realtà.

A quali maestri è più grato, e di quali si sente più debitore?


Sono tanti, tantissimi. Quello però a cui devo una riconoscenza particolare è Cornelio Fabro. Attraverso Tommaso e Kierkegaard Fabro ha riproposto una metafisica che, anziché arenarsi nel razionalismo metafisico, si nutre alle sorgenti delle più vitali scoperte dell'esistenzialismo. Quali sono secondo lei le attività che rispondono meglio al profondo bisogno di cultura della nostra epoca? Il bisogno di cultura esiste, ma ha due terribili nemici da affondare per essere veramente interiorizzato e appagato. Bisogna come prima cosa prendere atto che il proprio rapporto con la cultura, piccolo o grande che sia, non può essere coltivato all'interno di stili di vita frenetici, dove lavoro e consumo erodono le nostre vite giorno dopo giorno. Bisogna fermarsi, bisogna recuperare la "necessità" dell'otium per difendere e portare avanti una civiltà. C'è bisogno, allo stesso tempo, di silenzio e di comunità per innalzare la cosiddetta qualità della vita. L'accelerazione del tempo è una delle più terribili minacce; essa impedisce ai saperi di diventare beni comuni. L'altro grande nemico è la spettacolarizzazione della cultura. Non sono tanto importanti gli eventi culturali, quelli che spesso richiamano l'attenzione di molti, se non viene costruito un percorso che trasforma un semplice spettacolo in un ambiente in cui i significati forti diventano beni vissuti e amati.

"Sono una zotica tomista", era solita dire Flannery O'Connor; in quali altri artisti vede l'impronta creativa del pensiero dell'Aquinate?


Nelle prossime settimane uscirà nella collana Marietti che dirigiamo un libro di Gilson, mai tradotto in italiano, Pittura e Realtà. È un'acuta riflessione del grande tomista sulla pittura e sull'arte alla luce delle scoperte di Tommaso. La Bellezza è una delle più straordinarie rivelazioni della Trascendenza e l'uomo partecipa a questa rivelazione non solo intellettualmente ma proprio attraverso l'agire artistico. La Bellezza non è una "prodotto" dell'uomo, ma l'uomo vi partecipa attraverso quella peculiare forma d'azione che è l'arte. Se ci avviciniamo al mondo dell'arte nelle sue grandi espressioni, oggi come ieri, troveremmo la riflessione di Tommaso incarnata nella coscienza di tanti artisti, anche se non conoscono la riflessione dell'Aquinate. Nella tradizione di studi tomistici vi è stato, intorno alla metà degli anni Sessanta, un vivace dibattito sulla bellezza, o meglio, sul "bello". Tale dibattito ha cercato di capire se il pulchrum fosse un trascendentale (in senso tomistico). Detto in termini più semplici: la bellezza è una proprietà che hanno solo alcuni "manufatti", o è una proprietà di tutto ciò che è ed esiste? La questione è molto interessante perché indica l'esistenza di un misterioso legame tra l'essere e la bellezza. In questo senso, oserei dire che tutta l'arte quando non si perde dietro a se stessa - a volte vanitosamente, altre volte stupidamente - ma cresce nella consapevolezza che il suo oggetto è la bellezza, è improntata al pensiero dell'Aquinate; o se si vuole, l'Aquinate coglie l'anima profonda dell'arte e dell'artista proprio riconoscendo la sua naturale e indefessa inclinazione (pratica) alla con-creazione della bellezza.

Quale aspetto della filosofia di Tommaso, secondo lei, un europeo contemporaneo dovrebbe assolutamente conoscere?


Sarei tentato di risponderle: tutto Tommaso. Ma mi rendo conto della stupidità di questa risposta. L'opera di Tommaso non esprime semplicemente se stessa, ma un'intera civiltà. Penso che l'uomo europeo abbia la necessità di recuperare con grande passione le proprie radici culturali, perché chi non ha un rapporto alle radici non può avere futuro. È attraverso le radici che ci si nutre. Si parla molto di futuro, ma l'ignoto futuro non è costruibile senza la forza e l'eredità di ciò che ci ha preceduto. La capacità di dialogare che Tommaso e la sua opera hanno incessantemente promosso nei confronti della cultura greca, islamica e di quella ebraica ci dice che l'uomo europeo medievale aveva in sé il grande respiro della libertà. Amava il confronto con la grandezza delle altre culture, senza per questo negare la propria identità. La capacità di "assumere" intellettualmente ed eticamente tutto ciò che è l'esito della ricerca della verità è la grande lezione che l'europeo contemporaneo dovrebbe recuperare alla scuola di Tommaso; non a caso non c'è mai stata una sola attività promossa dal nostro Istituto che non si preoccupasse di avere un contraddittorio.



(©L'Osservatore Romano 22 giugno 2011)
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«Dio dà inizio a una storia»


Cenni della concezione cristiana di tempo e di eternità. Dall’intervento del cardinale Joseph Ratzinger alla Pontificia Università Lateranense il 15 dicembre 1998 all’interno del Colloquio su «San Tommaso e lo Spirito Santo»


Brani da un intervento del cardinale Joseph Ratzinger alla Pontificia Università Lateranense


Aristotele ha tratteggiato una visione del mondo orientata in modo cosmocentrico, che oggi ancora ci colpisce per la chiarezza della sua logica e la coerenza della sua concezione. Questa visione del mondo è determinata dalla correlazione reciproca di tempo e di non tempo. Il cosmo stesso è perpetuo movimento circolare, che non ha né inizio né fine.

Ma questo movimento ha bisogno per così dire di un motore, di una forza, che deve essere come esso stesso infinita, ma non può essere ancora una volta movimento. Il motore immobile è l’energia continua dell’universo. Poiché è immobile, è collocato al di fuori del tempo, dal momento che il tempo dipende dal movimento. La semplice immobilità, immutabilità, eternità è pertanto da caratterizzare come atemporalità. Il tempo è agganciato all’eternità, all’atemporalità. Il tempo dipende da ciò che è atemporale, riceve da lì la sua energia, ma l’eternità non è toccata dal tempo, bensì rimane pura in se stessa. Diversamente infatti sarebbe anch’essa movimento, diverrebbe anch’essa relativa e non potrebbe più sostenere ciò che è relativo. Il condizionato postula l’incondizionato. Poiché però questa realtà senza movimento è per sua essenza senza principio e senza fine, quindi anche il tempo può sempre essere senza principio e senza fine: la sua temporalità non dipende dal cominciare e dal venir meno, ma dalla persistenza del suo muoversi. Il tempo è puro movimento ed è definito dal movimento, come l’eternità è definita dal non movimento, dalla pura semplicità dell’essere.


L’idea che l’eternità sia atemporalità e che così venga descritta l’essenza di Dio ha in qualche modo determinato anche il pensiero cristiano. Tommaso d’Aquino a partire da qui ha insegnato che fondamentalmente un cosmo senza principio e senza fine sarebbe perfettamente conciliabile con la fede cristiana; solo per una specifica rivelazione si verrebbe a conoscere che il mondo ha come creazione un principio e come storia una fine, ma dal punto di vista filosofico questo non sarebbe deducibile e non sarebbe in sé un concetto necessariamente connesso con la fede in Dio.

Nel nostro tempo, andando oltre questa certamente convincente concezione aristotelico-cristiana di san Tommaso si è affermato un singolare sviluppo dell’idea di eternità come atemporalità, che è importante per la nostra questione. In una vasta corrente di teologia si sostiene l’opinione che la temporalità è legata alla corporeità e pertanto l’uscire dell’uomo dal corpo nella morte significa anche l’uscire dal tempo nell’atemporalità – un’idea che naturalmente nel sistema aristotelico non poteva emergere. Chi dunque abbandona la corporeità determinata in modo fisico-biologico non potrebbe entrare in una fase intermedia nell’attesa della fine del tempo.


Egli si troverebbe di fatto totalmente al di fuori del tempo nell’eternità, che sarebbe atemporalità. Egli sarebbe situato al di là del tempo. In questo caso il giudizio e la fine del tempo non potrebbero essere pensati come ancora da attendere, perché ciò significherebbe introdurre nuovamente elementi temporali, laddove non esiste più nessun tempo. Essendo situati là ove è Dio, nell’atemporalità dell’eternità, ci si troverebbe ormai nel mondo già compiuto della risurrezione, al di là della storia, perché presso Dio, in quanto totalmente atemporale, tutto è già compiuto e ciò che all’interno del tempo è ancora da attendere là sarebbe già continuo presente.

Così la storia come tempo potrebbe continuare tranquillamente senza fine, mentre essa dall’altra parte sarebbe in realtà sempre già compiuta. Le sofferenze, che da una parte vengono patite, sarebbero dall’altra parte sempre già superate nella definitiva vittoria di Dio. L’identificazione di eternità con atemporalità e l’appiattimento di tutto ciò che non è fisico nell’atemporalità introduce qui un dualismo di due mondi, nel quale la storia – a mio parere – perde ogni aspetto di serietà: mentre noi crediamo di operare in essa con fatica, di là essa è ormai già passata. La fine della storia non riguarda la storia stessa, ma si situa laddove semplicemente non vi è nessuna storia.


Devo confessare che questo dualismo rimane per me incomprensibile, per quanto ampiamente oggi esso sia diffuso con la teoria della “risurrezione nella morte”, che di fatto presuppone proprio questa idea della morte come uscita dal tempo, in cui tutto ciò che a noi sembra futuro, già è presente senza tempo. Una cosa comunque, a mio parere, emerge con evidenza: per la chiarificazione del concetto di tempo è necessario anche l’approfondimento del concetto di eternità così come la distinzione dei livelli di tempo. Il tempo non è solo un fenomeno fisico.

L’esistenza del tempo non dipende solo dal movimento degli astri, vi è movimento anche nell’ambito del cuore, dello spirito. Ed a partire da qui ci si deve chiedere se la relazione di Dio con il mondo e con il tempo possa essere descritta in modo adeguato semplicemente con il concetto dell’atemporalità. Ciò che nel sistema cosmico di Aristotele è perfettamente logico e corretto diviene contraddittorio se lo si mette in relazione con la concezione cristiana di Dio, con il Dio che non solo muove il mondo restando immobile, ma lo crea – con il Dio che dà inizio ad una storia, che contrae un’alleanza e questo fino al punto che egli stesso diviene un uomo.

Naturalmente non può semplicemente essere attribuita a Dio quella medesima modalità di temporalità che caratterizza l’uomo inserito nel cosmo e neppure l’uomo che nella morte è uscito dalla corporeità. Se mi contrappongo qui ad un certo tipo di aristotelismo cristiano, mi contrappongo quindi anche ad Oscar Cullmann, che in comprensibile reazione all’aristotelismo ed al platonismo riteneva che nella Bibbia anche Dio appartenga al tempo e di conseguenza denomina tutto allo stesso modo tempo e storia. Più precisa mi sembra già essere la proposta di Emil Brunner di definire l’eternità di Dio a partire dall’immagine cristiana di Dio, non come atemporalità, ma come dominio del tempo.


Il Dio della Bibbia non è una forza che riposa in se stessa, che tiene in movimento il mondo senza muovere se stessa. Quando Dante definisce Dio «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso XXXIII, 145), riecheggia certo chiaramente la visione aristotelica, ma con il concetto di «amor» è nondimeno enunciato qualcosa di nuovo: l’idea della relazione, che assume in sé l’altro e si lascia assumere in lui. L’immagine delle mani, che abbracciano il tempo e così gli divengono contemporanee, mi sembra rendere nel modo migliore una rappresentazione della relazione di Dio con il tempo ed insieme della sua superiorità su di esso.
Troppo a lungo siamo qui restati all’interno della struttura concettuale aristotelica. Ripensare l’essenza dell’eternità a partire dalle conoscenze e dalle esperienze della fede cristiana mi sembra essere un compito ancora ampiamente aperto. Quando ci si inoltra in tale via, allora il rigido cosmocentrismo della visione aristotelica si dissolve da solo, perché non conta più soltanto il fenomeno del movimento fisico, ma anche il movimento dello spirito e così la storia, l’uomo, ottiene una sua propria dignità di collocazione.


Dal numero di Nuntium del giugno 1999


«Cristo è l’inizio della fine del mondo»


La teologia della storia di Gioacchino da Fiore, ripresa in chiave ortodossa da Bonaventura, segna il decisivo passaggio da Cristo riconosciuto come «fine dei tempi» a Cristo «centro dei tempi», idea estranea a tutto il primo millennio cristiano.
L’attualità di uno studio di Joseph Ratzinger 


di Lorenzo Cappelletti da 30giorni 2002


Cristo è mostrato in posizione elevata, nello splendore della sua regalità, come Signore e legislatore del cielo e della terra. Dal mosaico absidale della basilica dei Santi Cosma e Damiano a Roma (prima metà del VI secolo)

Cristo è mostrato in posizione elevata, nello splendore della sua regalità, come Signore e legislatore del cielo e della terra. Dal mosaico absidale della basilica dei Santi Cosma e Damiano a Roma (prima metà del VI secolo)

Quando si mette a tema l’escatologia, o meglio quando, senza alcuna tematizzazione, ci si figurano le realtà ultime, anche fra cristiani si immagina, in un futuro più o meno imminente, o un’èra nuova di pace e fraternità interna alla storia o la fine, senza riferimento a Cristo, del cosmo e della storia. Questo sentire, che oggi sembra la quintessenza del sentire cristiano tradizionale, è in realtà il risultato di una svolta nella concezione cristiana della storia. Una svolta che si può far risalire a Gioacchino da Fiore, l’abate calabrese di cui quest’anno ricorre il settecentesimo anniversario della morte (31 marzo 1202).
Joseph Ratzinger, da teologo, mostrò che Gioacchino fece scuola anche perché la sua teologia della storia, emendata degli elementi eterodossi da san Bonaventura, entrò a far parte del patrimonio cristiano delle idee.

Lo fece in un bel libro del 1959 tradotto in italiano dall’editore Nardini una decina d’anni fa: San Bonaventura. La teologia della storia. Ne riparliamo oggi non perché il libro sia una novità, naturalmente, ma perché ci sembrano attuali le riflessioni che contiene.


Bonaventura da Bagnoregio, che nel 1257 aveva preso il posto del generale Giovanni da Parma dimissionato e relegato a Greccio perché accusato di simpatizzare per gli spirituali, fra il 9 aprile e il 28 maggio del 1273 poco prima di essere nominato cardinale, scrive o meglio detta l’ultima sua opera, le Collationes in Hexaemeron (Paralleli coi sei giorni della creazione), in «discussione critica con l’abate calabrese e i suoi seguaci. Senza Gioacchino quest’opera sarebbe incomprensibile. [...] Bonaventura non poteva tacere su Gioacchino essendo egli ministro generale di un ordine che era quasi giunto al suo punto di rottura a causa della questione gioachimita. [...] Bonaventura non rifiuta totalmente Gioacchino (come aveva fatto Tommaso): egli lo interpreta piuttosto in modo ecclesiale, creando una alternativa ai gioachimiti radicali» (San Bonaventura, p. 15).

Bonaventura rifiuta, infatti, l’idea eterodossa che il messaggio del Nuovo Testamento sia transitorio e che debba essere superato e sostituito, come ritenevano gli spirituali, dal vangelo eterno di cui sarebbe stato portatore Gioacchino. Da Bonaventura è il Nuovo Testamento che «viene designato quale testamento eterno e perciò comprendente tutto il corso restante della storia. In questo modo viene qui chiaramente accettato il fatto che il nuovo schema storico sia abbracciato da quello antico, agostiniano» (ivi, p. 64).

Ma, fatta salva l’ortodossia, Bonaventura per la sua teologia della storia sceglie il nuovo schema che Gioacchino aveva elaborato nella Concordia Veteris et Novi Testamenti.

Schema settenario
semplice e duplice
Si tratta di una opzione del tutto legittima fa capire Ratzinger (in fondo siamo nel campo della teologia della storia, non del dogma), ma tale opzione non si identifica, come potrebbe apparire a prima vista, con la tradizionale comprensione del tempo della storia, con lo schema «antico, agostiniano». L’equivoco potrebbe nascere dal fatto che non solo Bonaventura, ma lo stesso Gioacchino non hanno mai abbandonato completamente, scrive Ratzinger, la dottrina delle sei o sette età, «dato il carattere quasi dogmatico che ad essa veniva riconosciuto» (ivi, p. 216).
Questa dottrina, risalente ad Agostino, consisteva molto semplicemente nel prendere a modello i giorni della creazione per dividere senza soluzione di continuità l’intera storia universale in sei/sette periodi: da Adamo fino alla fine dei tempi, fino cioè al giorno eterno settimo/ottavo della resurrezione della carne e del giudizio universale. L’età di Adamo (o di Noè); di Abramo; di Davide; dell’esilio babilonese; di Cristo; della fine; l’eternità.


Si parla indifferentemente di sei o sette età della storia (non esiste ancora «in Agostino nessuna esplicita armonizzazione tra i due schemi» [ivi, p. 51 nota 2]), perché l’idea del settimo giorno, come atto a rappresentare l’eternità, fin dall’inizio fu affiancata da quella dell’ottavo giorno, il dies dominicus, il giorno del Signore, che sembrava altrettanto se non più consona. «Finché non si trovò la soluzione nell’assioma “septima aetas currit cum sexta”» a dire che «da quando esiste la Chiesa esiste anche questa storia parallela, nascosta e gloriosa, la storia dei cieli, ed accanto al faticoso e tormentato sesto giorno, si snoda nascosto ma reale lo splendore del settimo giorno.
A questi due giorni reciprocamente legati, segue poi l’ottavo giorno eterno, introdotto con la resurrezione e il giudizio» (ivi, pp. 51-52).


Proprio questa contemporaneità di sesta e settima età insieme correnti (che è in fondo un modo di esprimere quella dualità tipica della visione delle due città di Agostino) viene abbandonata da Gioacchino, e in sua dipendenza da Bonaventura, a favore di un rigido schema settenario, per di più un duplice schema settenario. Con Gioacchino, si perde proprio la flessibilità di uno schema sei/settenario semplice, rispettoso del mistero, a favore di un rigido schema settenario duplice, fondato su complicate allegorie costruite dall’uomo.

«Per Agostino lo schema tramandato delle [sei o] sette età del mondo svolge solo un ruolo molto secondario» (ivi, p. 43). Egli in realtà rappresenta «gli accadimenti terreni nel giuoco di contrapposizione tra civitas Dei e civitas terrena, tra corpus Christi e corpus diaboli; in questa dualità, che su entrambi i versanti (passato e futuro) trascende la storia umana, viene fissato l’intero corso di questa storia dell’uomo» (ivi).

Bonaventura considera questa chiave di lettura agostiniana non un paradigma di teologia della storia, ma solo il modo di far emergere i tipi, le figurae sacramentales della Scrittura, e, sulla scorta di un «pensiero tratto dalla Concordia di Gioacchino» (ivi, p. 45), fonda invece la conoscenza della storia in «una corrispondenza tra la storia dell’Antico Testamento e quella del Nuovo Testamento, che Agostino aveva non insegnato bensì decisamente rifiutato» (ivi, p. 46). Seguito in tale rifiuto, come vedremo, da Tommaso d’Aquino.

I due approcci dunque non vanno confusi, anche se utilizzano entrambi uno schema a base settenaria. «Lo schema settenario duplice va tenuto nettamente distinto dallo schema settenario semplice di Agostino e della Chiesa antica, come pure dalla teologia medievale pregioachimita, perché in esso si esprime una ben diversa consapevolezza del tempo e della storia. [...] Nello schema agostiniano Cristo è la fine dei tempi, laddove in quello bonaventuriano egli è il centro dei tempi» (ivi, p. 54). Ecco il punto. C’è da aggiungere, nota Ratzinger, che «il cristianesimo primitivo non ha mai inteso l’avvenimento di Cristo come “centro” ma sempre e soltanto come “pienezza”, cioè sostanzialmente come “fine” dei tempi. [...] Per ragioni di chiarezza sarebbe preferibile dunque lasciar cadere il concetto di centro quando si tratta di esporre il modo in cui il Nuovo Testamento e i Padri comprendevano la storia» (ivi, p. 54 nota 8).

Cristo al centro dei tempi
cioè al margine
L’idea di considerare Cristo come l’asse dei tempi risulta estranea a tutto il primo millennio cristiano. «Per questo millennio Cristo non è il perno della storia con cui un mondo mutato e redento ha inizio ed una storia irredenta durata sino a quel momento viene abbandonata; per esso Cristo è piuttosto il principio della fine. Egli è “redenzione” nella misura in cui con lui la “fine” comincia a risplendere nella storia. La redenzione consiste (da un punto di vista storico) in questa fine iniziata mentre la storia, per così dire, procede “per nefas” ancora per un certo tempo, conducendo l’antico evo di questo mondo alla sua fine. L’idea di vedere in Cristo l’asse della vicenda del mondo emerge invece propriamente [...] solo in Gioacchino» (ivi, pp. 210-211).

Benché tale idea sia dissimulata dal fatto che in Gioacchino gli assi sono due e non uno, per la sua nota concezione di una terza età dello Spirito. Ma «l’esclusione di quest’ultima idea si verificò tuttavia obbligatoriamente con la vittoria della dogmatica ortodossa; restò l’altra idea; e Gioacchino divenne in questo modo, proprio nella Chiesa stessa, l’antesignano di una nuova comprensione della storia che oggi ci appare essere la comprensione cristiana in modo così ovvio da renderci difficile credere che in qualche momento non sia stato così» (ivi, p. 211).
Dunque, paradossalmente, si può affermare che la comprensione cristocentrica della storia, benché legittimata fino al punto da ritenersi oggi la sola legittima, è originariamente figlia di una volontà illegittima di andare oltre Cristo.

Accanto alla accentuazione della centralità assoluta di Cristo (cfr. ivi, pp. 216-219), si fa largo in Bonaventura «un’interpretazione gioachimito-escatologica dell’ordine di Francesco» (ivi, p. 223). Confortata dalle profezie (che d’altra parte anche Tommaso riconosce essersi in qualche modo avverate) e dalla dottrina di Gioacchino riguardo all’avvento di un novus ordo, come ciò che caratterizzerà il tempo nuovo ormai prossimo.

«Nello stesso momento in cui in Bonaventura, in virtù della logica del suo pensiero, matura l’idea di Cristo come centro dei tempi e dunque l’altra idea, quella di Cristo come fine dei tempi viene rifiutata, in questo stesso momento nasce in Bonaventura la coscienza del fatto che “la fine è ora veramente vicina” [...]. Queste due linee di sviluppo si contraddicono reciprocamente solo in modo apparente. Infatti la realtà dell’attesa escatologica può acquisire un’urgenza nuova nell’istante in cui viene dissipata la mancanza di chiarezza [sull’ora della fine] che deriva dalla designazione di tutta la storia cristiana come tempo ultimo. E tuttavia questa forma di pensiero escatologico non si identifica con quella del Nuovo Testamento [...]. Viene qui infatti istituita, in certo qual modo, una nuova seconda fine accanto a Cristo, e se pure, in quanto centro, egli sostiene e mantiene tutte le cose, ciò nonostante egli non è più semplicemente quel Telos in cui tutto sfocia e in cui il mondo è condotto alla sua fine e superato» (ivi, pp. 225-226). Paradossalmente l’essere al centro di Cristo si coniuga col suo potenziale accantonamento.

Fronte del ciborio (fine X secolo), basilica di Sant’Ambrogio, Milano

Fronte del ciborio (fine X secolo), basilica di Sant’Ambrogio, Milano

Dalla vittoria di Cristo
sul mondo alla costruzione
cristiana del mondo

Ratzinger, citando il noto saggio di Erik Peterson Il monoteismo come problema politico, mostra che – benché in epoca antica e medievale sia restata sempre viva una coscienza comune della storia «che fa dire: Cristo è la fine dei tempi, la sua nascita cade alla “fine dei tempi”» (p. 193) – c’è già nell’antichità una teologia della storia a cui è possibile riconnettere il pensiero escatologico di Gioacchino.
Abbandonando «la teologia pneumatica della vittoria cristiana sul mondo nel senso del Nuovo Testamento» (ivi), Gioacchino si connette infatti alla teologia imperiale di Eusebio di Cesarea «quale teologia di una costruzione cristiana del mondo» (ivi, p. 192). Tale orientamento, afferma Ratzinger «trasferisce qualcosa dello spirito teocratico del pensiero dell’Antico Testamento nella nuova epoca» (ivi, p. 193), mentre l’altro (il rappresentante più significativo del quale è Agostino) conservava, seppure con qualche trasformazione, l’eredità escatologica del Nuovo Testamento.


È un ulteriore paradosso del gioachimismo: mentre sembra che esso si lasci alle spalle il passato per guardare soltanto al futuro, si scopre che in realtà esso giudaizza. Collocandosi appieno in quella temperie spirituale della fine del XII secolo, illustrata mirabilmente da padre Chenu ne La Théologie au XII siècle (recentemente la Jaca Book ne ha ristampato la traduzione italiana), quando in mezzo a feroci polemiche antigiudaiche si giudaizzava, con quell’«aggrovigliarsi del Nuovo Testamento nell’Antico» (p. 244). «I teologi del tempo [...] fanno ripiegare in un certo senso gli elementi della nuova alleanza sull’antica [...]. La continuità delle due alleanze è utilizzata contro il senso del loro sviluppo e del cammino della storia. [...] L’Antico Testamento grava sul Nuovo. Esso esercita sulla sua interpretazione, potremmo dire, una pressione giudaizzante [...] nel curioso miscuglio di una allegorizzazione violenta dell’Antico Testamento e di un escatologismo talvolta dissolvente per il Nuovo» (ivi, pp. 238-239).


Il cristocentrismo
della Scrittura e dei Padri
In effetti l’uso invadente dell’allegoria gioca un ruolo non indifferente nella costruzione della nuova teologia della storia. Ratzinger afferma che la teologia della storia di Bonaventura non è altro che il risultato dell’«influsso esercitato dall’esegesi di Gioacchino sulla comprensione bonaventuriana della Scrittura» (San Bonaventura, p. 170).

Si capisce allora perché la critica della teologia della storia di Gioacchino da parte di Tommaso d’Aquino, che «prima di Bonaventura si era addentrato nella discussione teologica con Gioacchino» (ivi, p. 228) sia di carattere esegetico.

Secondo Tommaso, infatti, fa notare Ratzinger, se si presuppone una specularità di Antico e Nuovo Testamento viene a cadere la sacrosanta ignoranza riguardo al momento della resurrezione finale, perché esso sarebbe conoscibile in base al momento corrispondente dell’Antico Testamento, come tale storicamente determinato.
Per questo, secondo Tommaso, la prefigurazione del Nuovo Testamento nell’Antico non può «intendersi nel senso di un rimando del particolare al particolare, ma nel senso che il tutto rimanda a Cristo, “nel quale tutti gli esempi dell’Antico Testamento sono compiuti”. A buon diritto Tommaso si richiama a questo proposito al De civitate Dei di Agostino che ha rifiutato di applicare l’interpretazione delle piaghe d’Egitto alle persecuzioni dei cristiani, respingendo in questo modo di fatto quella forma di esegesi che sostiene l’intera teologia della storia di Gioacchino. [...] I segni e i tempi dell’Antico Testamento non rimandano a loro volta ad un analogo sviluppo temporale nel Nuovo Testamento – la qual cosa di necessità rappresenterebbe una deformazione del Nuovo Testamento sulla base dell’Antico – ma a Cristo che è pienezza e compimento dell’Antico Testamento. [...] Tommaso d’Aquino oppone alla speculazione sulla storia dell’abate calabrese il cristocentrismo della Scrittura e dei Padri» (ivi, p. 229).


Con ciò Ratzinger può affermare che la posizione di Bonaventura «coincide in fondo con la posizione tomistica, dal momento che anch’essa significa l’affermazione del cristocentrismo» (ivi, p. 231). Infatti, «se Bonaventura riprende ed afferma il parallelismo dei tempi respinto da Tommaso, a questo lo guida una tendenza molto diversa da quella di Gioacchino nello stabilire il suo computo del tempo. Se a quest’ultimo, infatti, premeva prevalentemente rendere visibile l’autosuperamento del secondo periodo in direzione del terzo, per Bonaventura si tratta, sulla base di un raffronto parallelo dei due periodi, di manifestare Cristo come il vero centro, il punto di svolta della storia» (ivi, p. 232). Intorno al cristocentrismo della Scrittura e dei Padri si realizza così una vicinanza di Bonaventura a Tommaso maggiore della distanza che li separa.

Resta che l’unicità della mediazione di Cristo non coincide col suo essere concepito al centro dei tempi. Anzi, l’unicità della mediazione di Cristo, quanto l’unicità di Dio e la sua volontà salvifica universale (cfr. 1Tm 2,1-8), sembrano tanto più salvaguardate quanto più si tiene distinta la “pienezza” dal “centro” dei tempi, in altre parole quanto più è il magnanimo finalismo della Scrittura e dei Padri ad abbracciare il cristocentrismo e non viceversa: «Fintantoché la vicenda di Cristo viene concepita come fine dei tempi tutto il tempo è tempus remedii, seppure con intensità diversa. Nel momento in cui Cristo diviene centro dei tempi, nasce anche quella nota divisione dei tempi che ad un periodo di non-redenzione e di tenebre affianca un periodo di redenzione e di luce» (ivi, p. 217 nota 6).

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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"Oggi celebriamo la memoria di San Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa. La sua dedizione allo studio, favorisca in voi, cari giovani, l’impegno dell’intelligenza e della volontà al servizio del Vangelo; la sua fede aiuti voi, cari ammalati, a rivolgervi al Signore anche nella prova; e la sua mitezza indichi a voi, cari sposi novelli, lo stile dei rapporti tra i coniugi all’interno della famiglia. " (Papa Francesco oggi Udienza generale 28.1.2015)



 



 ‘BARZAGHI’, 32 DI CIRCA 33
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Carlo Moro     21/02/2012 20:20
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Carlo Moro     23/02/2012 06:17
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Carlo Moro     21/02/2012 21:19
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Carlo Moro     23/02/2012 06:35
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Carlo Moro     18/10/2013 03:55
Padre Giuseppe Barzaghi o.p. Bologna, 10 settembre 2013. Visita il sito …
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l'etica di padre giuseppe barzaghi op
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federonconi     07/12/2010 16:11
la metafisica di padre giuseppe barzaghi op
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la cosmologia di padre giuseppe barzaghi op
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la logica di giuseppe barzaghi op
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Carlo Moro     20/07/2013 08:43
Padre Giuseppe Barzaghi o.p. Omelia di Domenica 14 luglio 2013 … Per conoscere Padre Giuseppe Barzaghi o.p. visita il sito www.accademiadelredentore.it
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Padre Giuseppe Barzaghi o.p. www.accademiadelredentore.it Bologna, 2012.
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Padre Giuseppe Barzaghi o.p. www.accademiadelredentore.it Quarta …
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Carlo Moro     22/03/2013 05:25
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… ed è buono, perchè c'è il male? Padre Giuseppe Barzaghi o.p. Prima conferenza di "Lo sguardo della …
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Carlo Moro     19/10/2013 03:16
Padre Giuseppe Barzaghi o.p. Bologna, 4 giugno 2013. Visita il sito www …
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Cristiano Maria     06/06/2015 16:10
Conferenza di Padre Giuseppe Barzaghi o.p. Brescia, 2012.
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Cristiano Maria     08/06/2015 15:01
… e filosofico? Conferenza di P. Giuseppe Barzaghi O.P.
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S. Em. Card. Carlo Caffarra - p. Giuseppe Barzaghi OP
"In una cattedrale. Dove fissare lo sguardo.
La teologia di san Tommaso d'Aquino"
Bologna, Convento San Domenico, 16/12/2014
I Martedì di San Domenico

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qui Omelia su san Domenico di Padre Barzaghi 4 agosto 2013, ascolta audio:
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Cari Amici, ricordando che siamo dentro l'Anno di grazia con ben due Giubilei: quello degli 800 anni per i Domenicani e quello straordinario della Misericordia indetto dal santo Padre Francesco, veniamo qui ad offrirvi un breve video con la sintesi della vita e delle opere, di uno tra i più grandi teologi della Chiesa, San Tommaso d'Aquino, stella lucente dell'Ordine dei Predicatori, Dottore della Chiesa, l'insuperato Dottore angelico.

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www.youtube.com/watch?v=pe9MbAXHKUo

Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org





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Il concetto della verità in Tommaso d'Aquino - Lectio magistralis, 4 ottobre 2016
Prof. P. Giovanni Cavalcoli o.p.


L’essenza della verità
La verità è quello stato felice dell’intelletto, per il quale esso è proporzionato al reale ed è conforme al reale. Rispecchia – ecco la speculatio - o rappresenta fedelmente il reale. Riflette la realtà. S.Tommaso, come si sa, parla di adaequatio: l’intelletto si adegua al reale. Diventa, in certo modo, come vedremo, uguale e identico al reale, s’identifica col reale. Verità è il “sapere come stanno le cose”. Verità è la presenza del reale al pensiero, la realtà in quanto presentata o rappresentata o “ri-presentata” dal concetto o dal giudizio all’intelletto (re-praesentatio).
La verità comporta dunque un rapporto del pensiero con l’essere, dell’idea con la realtà. Indubbiamente, col termine “verità” si può intendere anche la realtà, quella che vien chiamata “verità ontologica”, distinta dalla “verità gnoseologica”, che è l’adaequatio dell’intelletto alla cosa o della cosa all’intelletto. La realtà è il fondamento e regola della verità. Il pensiero invece è l’orizzonte e l’ambiente della verità. Come dice S.Agostino: in interiore homine habitat veritas.
La verità ontologica, che è la verità degli esistenti, può denominarsi anche verità esistenziale. Essa comprende la verità degli enti, cioè degli spiriti, ossia la verità spirituale, la verità dei fatti e la verità storica.
Invece la verità gnoseologica è la verità del pensiero e delle idee. La verità ontologica è la verità concreta, particolare e singolare; la verità gnoseologica è la verità universale ed astratta. “Tutte le cose, come dice S.Tommaso[1], sono vere in forza di una sola verità, cioè Dio, come loro principio efficiente ed esemplare”. Dio non solo conosce la verità, come noi, ma è la verità: e ciò appartiene solo a Lui. Ego sum Veritas, come dice Cristo.
Riguardo al pensiero, si parla anche di ente ideale o di ragione (ens rationis), un ente che è atto di pensiero, prodotto dal pensiero ed esiste solo all’interno del pensiero. Per esempio, gli enti logici, negativi (il nulla, il male), matematici o immaginari. Qui il pensiero si adegua a se stesso, ed abbiamo la verità logica. Per esempio, una giusta idea del concetto o del numero o del male.
La verità gnoseologica, nella sua relazione al pensiero, è di per sè immutabile, in quanto, nella sua universalità, astrae dal tempo. Dato però che essa è adeguazione all’oggetto, è immutabile la verità dei valori immutabili, ed è mutevole la verità delle cose che mutano. Mutare ciò che non va mutato col pretesto della modernità è modernismo. Conservare ciò che è superato è conservatorismo.
Esistono due forme di verità immutabile, atemporale, indipendente dal tempo. C’è la verità dei valori immutabili, i quali costituiscono l’insieme di quelle che S.Agostino chiamava “verità eterne”, che costituiscono gli eterni ideali e princìpi dell’essere, del vero e del bene, quelli che Benedetto XVI ha chiamato “valori non negoziabili”. Tra questi valori, che si estendono ad ogni tempo[2], eccelle la stessa eternità divina, Dio stesso, verità infinita, principio supremo, regola e modello di ogni verità eterna e temporale.
Invece la verità delle cose mutevoli, generabili e corruttibili, migliorabili o peggiorabili, è la verità temporale, mutevole come loro. Anche la verità che ha per oggetto cose mutevoli, in quanto verità gnoseologica, è immutabile. Garibaldi non esiste più, ma sarà sempre vero che Garibaldi è stato un condottiero.
La verità è cogliere la cosa in sé così come è. E’ possibile cogliere della cosa ciò che di essa appare a noi, ossia il fenomeno, senza poter sapere come la cosa sia in se stessa. Questa famosa osservazione di Kant in sé è giusta, ma egli sbagliava nel volerne fare un principio universale del conoscere.
Non bisogna tuttavia confondere – e anche qui Kant ha ragione - l’apparizione, il fenomeno (Erscheinung) con l’apparenza, il sembrare (videtur, Schein). Il fenomeno dà la verità, anche se l’essenza della cosa resta nascosta, e può essere oggetto di scienza; l’apparenza, invece, oggetto dell’opinione o dell’ipotesi, ad un ulteriore esame può essere confermata ed esser elevata a scienza, ma può anche rivelarsi falsa.
Non tutte le cose in sé sono inconoscibili in se stesse, ma solo quelle che sono più avvolte nella materia. Qui Kant sbagliò. In alcune, infatti, le più intellegibili, come l’uomo, è possibile riconoscere sia il fenomeno, sia la cosa in sé. Del resto, come Kant avrebbe potuto scrivere la sua critica della ragion pura, se non fosse stato convinto di conoscere la ragione in se stessa?
La conoscenza della verità è frutto dell’umiltà. Dall’umiltà, infatti, dipende la adaequatio ad rem, che comporta un’obbedienza della mente al reale, che fonda il realismo gnoseologico, nel quale S.Tommaso è sommo maestro. L’opposto del realismo è l’idealismo, che è frutto di superbia, perché l’idealista non adegua il suo pensiero all’essere, ma pretende che l’essere si adegui a quello che pensa lui, o, come egli dice, “l’essere è l’essere pensato” (da me), oppure “l’essere coincide col pensiero”, cioè col mio pensiero. Dunque l’idealista non sbaglia mai.

Vero e falso
Se l’intelletto fallisce, per vari motivi, nel suo adeguarsi al reale, esso cade nell’errore, per cui prende per vero – volontariamente o involontariamente – ciò che è falso. Dà per esistente ciò che non esiste e viceversa. Scambia la fantasia per la realtà e viceversa. La verità poi si esprime nel giudizio, per il quale, se il giudizio è vero, l’intelletto dichiara esser vero ciò che è vero, ed esser falso ciò che è falso. E fa questo attribuendo un predicato ad un soggetto. Se l’attribuzione è giusta, il giudizio è vero; se è sbagliata, il giudizio è falso.
Il vero si oppone assolutamente al falso, ma non al diverso. Vi sono alcuni che rifiutano il diverso, riducendolo al falso. Altri accolgono il falso scambiandolo per il diverso. Il diverso, anche se contrario a un vero, è compatibile con un altro vero, anche se non può coesistere con lui simultaneamente. Una stanza non può essere simultaneamente calda e fredda; ma caldo e freddo possono succedersi nel tempo. I diversi coesistono insieme nell’orizzonte della verità. Si esprime questo fatto con la formula et-et.
Invece vero e falso si escludono assolutamente e contradditoriamente a vicenda. Se Dio esiste, non può esser vero che Dio non esiste. L’ateismo non è un’idea “diversa” dal teismo. E’ un’idea falsa. Qui vale il principio del terzo escluso: A o è B o non è B. Tertium non datur. Non può essere che A sia e non sia B simultaneamente e sotto il medesimo aspetto. Non può essere che Dio esista e non esista. Questo si esprime con la formula aut-aut.
Questa confusione facilmente va assieme con un’idea relativistica della verità: non esiste una verità universale, immutabile, oggettiva, assoluta, valida per tutti. Ma quello che è vero per me, può essere falso per te. Da qui per esempio gli eufemismi ipocriti della “diversità” delle idee e il principio del “rispetto delle idee degli altri” per evadere dalla questione del vero del falso. Qui si sottende una falsa concezione della verità, detta appunto “relativismo”.
Esiste invece una sana relatività della verità, che nulla ha a che vedere col relativismo. Che sia bene, per esempio, mangiar biada è vero relativamente al cavallo, ma non all’uomo. Tuttavia in questa tesi sono salve l’oggettività e l’universalità della verità, solo che distinguiamo il bene dell’uomo dal bene del cavallo.
La verità è una sotto un certo aspetto ed è molteplice sotto un altro. E’ una, se è intesa come relazione all’oggetto (adaequatio). Infatti l’oggetto è uno. Ora, dato che la verità è l’ente posto nelle condizioni del pensato, se l’ente è uno, non può esser molti o altro da sè. Parlare qui di “diversità” sarebbe fuori luogo e segno di relativismo.
Invece le verità oggettive sono molte, in quanto ogni cosa ha la sua verità. Qui vale il principio della diversità. E anche qui si ripropone la distinzione fra il vero e il diverso e bisogna evitare di confondere il diverso col falso. L’eresia non è solo “diversa” dall’ortodossia, ma è una falsità. Il principio che la verità è una, fa capo all’opposizione vero-falso. Invece la molteplicità dei veri è connessa col valore della diversità. Verità oggettiva è la verità in sé; verità soggettiva è ciò che appare al soggetto in buona fede, anche se oggettivamente è falso.
L’errore può dipendere dall’ignoranza, che può essere o scusabile o colpevole.L’ignoranza, in linea di principio, consegue alla limitatezza naturale del nostro potere conoscitivo, per cui naturalmente infinito è il dislivello tra le cose e ciò che di esse sappiamo.
Ma essa è ulteriormente accentuata a seguito del peccato originale, a causa del quale capita che ignoriamo o dimentichiamo, magari involontariamente, verità importanti. Qui distinguiamo una verità infinita totale e una verità parziale. La nostra è sempre una verità finita e parziale, spesso incerta, insufficiente o unilaterale, a differenza della verità divina che è la verità perfettissima e totale.
La verità del pensiero deve poi tradursi nella veracità del linguaggio. Il pensiero, infatti, o giudizio, si esprime nella parola o linguaggio. Se il linguaggio è conforme al pensato (indipendentemente dal fatto che il giudizio sia vero o falso), il pensante è sincero e verace – può errare in buona fede - ; se invece la parola non è conforme al pensiero, il pensante è menzognero.
La sincerità, quindi, non comporta sempre necessariamente un giudizio che rispecchi la realtà, ma soltanto che il soggetto dica ciò che c’è nella sua coscienza, fosse anche – supposto che sia in buona fede – oggettivamente falso.
Da notare che esiste anche una verità del senso, che ha le stesse proprietà di quella dell’intelletto definite sopra, con la differenza che l’intelletto aderisce meglio e più intimamente, in modo diverso, all’oggetto – intus legit - e conosce la realtà spirituale, che il senso non conosce. La verità dunque è atto del potere conoscitivo in generale, che può essere sia l’intelletto che il senso. In tal modo può esistere non solo l’errore dell’intelletto, ma anche del senso.
Ed esiste anche un giudizio del senso, non necessariamente formulato in concetti: prendiamo ad esempio quello degli animali. E’ chiaro che solo il giudizio concettuale si esprime nella parola. Solo l’uomo può essere sincero o bugiardo, in forza del libero arbitrio, per il quale può dire o non dire la verità, ossia quello che c’è nella coscienza intellettuale. L’animale, invece, che non ha questo tipo di coscienza, né per conseguenza possiede il libero arbitrio, esprime sempre a suo modo, col suo linguaggio, ciò che sente. L’animale sente di sentire, ma non intende di intendere.

La conoscenza della verità
L’atto del pensiero o intelletto, ossia l’atto conoscitivo, si può intendere o in senso psicologico – il pensare - o in senso logico – il pensato -. Nel primo senso il pensiero pensa il reale; nel secondo pensa se stesso, per esempio, la coscienza. Nel primo caso si ha la conoscenza della realtà, il cui funzionamento e metodo sono oggetto dell’epistemologia o della gnoseologia; nel secondo caso, si ha la coscienza della verità. E qui abbiamo la scienza e l’arte della logica.
L’esame critico di questa coscienza costituisce la critica della conoscenza. Essa giustifica riflessivamente la verità e la certezza del conoscere. In entrambi i casi si ha conoscenza della verità. E questa è la vera conoscenza. Errare non è vero conoscere, ma conoscere e riconoscere gli errori è vero conoscere.
Comunque, il concetto o ragione (ratio) di verità mette sempre in campo il pensiero o l’intelletto o perché c’è relazione del pensiero col reale – verità speculativa - o perchè il reale dipende dal pensiero – verità pratica - . Senza relazione reciproca tra pensiero ed essere non si dà verità. Per questo S.Tommaso definisce la verità adaequatio intellectus et rei[3]: l’adeguazione dell’intelletto e della cosa tra di loro.
Nella verità speculativa adeguiamo il nostro intelletto ad una realtà data, preesistente o presupposta, che non abbiamo fatto noi, ma che scopriamo esistente. Scopriamo la verità dell’essere. Invece nella verità pratica è la realtà che si adegua alla nostra idea, intenzione o progetto, si tratti di un atto morale da compiere (praxis) o di un’opera artificiale da fare (tecne o poiesis). Qui invece scopriamo la verità sul bene, bene dell’uomo, ossia il bene morale, nel primo caso; e bene dell’opera, nel secondo caso.
Questa reciprocità di intelletto e cosa è il motivo per il quale S.Tommaso dice che la verità sta più nel pensiero che nell’essere[4]. Il reale, l’ente come tale, dal punto di vista nozionale, non è ancora il vero. La nozione dell’ente è distinta dalla nozione del vero, anche se ogni ente è trascendentalmente vero. L’ente e il vero si convertono tra di loro (ens et verum convertuntur). Tuttavia “il vero – come dice S.Tommaso[5] - aggiunge all’ente un rapporto di intellegibilità con l’intelletto”.
Ma ciò non vuol dire che si identifichino tra di loro, se non in Dio, Essere assoluto e Vero assoluto. La separabilità e contrapposizione tra intelletto e realtà rende possibile l’errore, che è appunto la discordanza fra pensiero ed essere.Dio non erra mai appunto perchè in Lui il suo pensiero è identico col suo essere. Per noi invece una cosa può essere falsa perché non è conforme al suo modello ideale. Un giudizio è falso perchè non è conforme al reale.
Eppure nell’atto conoscitivo, siccome ciò che si pensa in atto si suppone essere ciò che è in atto, ossia l’oggetto conosciuto, appunto perché l’intelletto sia nel vero, come pare sia stato già intuito da Parmenide (to autò to noèin kai to èinai), occorre, come ho già accennato, una certa identità tra l’intelletto e la cosa, tra il pensiero e l’essere.
Per questo S.Tommaso, a proposito dell’atto conoscitivo, proprio per spiegare la verità del conoscere, dice che intellectus in actu est intellectum in actu: l’intelletto in atto è l’inteso in atto. Lo è, però – e questo è fondamentale – solo intenzionalmente, spiritualmente e rappresentativamente e non ontologicamente; altrimenti si avrebbe il panteismo, ossia si identificherebbe il conoscere umano con la scienza divina. Ma è chiaro che l’intelletto in potenza è ben distinto dall’ente reale, intellegibile in potenza da noi.
Dunque, con l’attività dell’intelletto, mentre appare la dignità dello spirito, appare anche la distinzione fra il pensiero e l’essere, l’ideale e il reale, l’ente di ragione (ens rationis) e l’ente reale o, come diceva Aristotele, tra l’on e l’alethès. La esistenza o il fatto della verità del conoscere obbliga a riconoscere questa distinzione, che peraltro vale nella creatura, non nel Creatore.
Questa distinzione tra l’essere e il pensiero obbliga altresì a riconoscere un’esistenza della cosa in se stessa, fuori dell’anima (extra animam) ed un’esistenza della cosa conosciuta in quanto conosciuta nell’anima (in anima). Si tratta del concetto della cosa formato dall’intelletto, che consente appunto all’intelletto di conformarsi all’oggetto, e quindi di essere nella verità.
Stante la distinzione fra il reale e il pensiero, la questione della verità non sta solo nell’aderenza dell’intelletto alla realtà, ma anche nella comprensione del vero significato dell’espressione del pensiero altrui nei segni del linguaggio. E’ questa la questione dell’interpretazione, la quale è vera, se coglie ciò che il parlante intende dire; è falsa, se fallisce in questa comprensione.
La conformazione iniziale dell’intelletto alla cosa è data dalla formazione del concetto, che è una rappresentazione mentale dell’essenza cosa, rappresentazione interiore, con la quale e nella quale la mente vede la cosa ed esprime ciò che capisce della cosa.
Il primo concetto che la mente forma, il più universale ed astratto di tutti, dal quale scaturiscono tutti gli altri e nel quale tutti si risolvono, è il concetto dell’ente, ovvero di ciò che esiste o è in atto d’essere, nonchè delle proprietà trascendentali dell’ente. Tale concetto è inizialmente implicito nella mente del fanciullo e può essere esplicitato nell’età adulta, ma viene già espresso nell’uso del verbo “essere”.
La piena conformazione dell’intelletto alla cosa, ossia la verità del conoscere in senso perfetto, è raggiunta dall’intelletto nel giudizio, per il quale l’intelletto non si limita ad apprendere nel concetto l’essenza della cosa, ma prende posizione o si pronuncia circa l’esistenza della cosa mediante la predicazione dell’essere. Nel giudizio la mente non conosce solo la verità, come avviene nella conoscenza sensibile, ma sa di conoscerla. Il giudizio richiede dunque una forma almeno implicita di autocoscienza.
Occorre tuttavia evitare l’errore di Cartesio di credere che il sapere inizi dall’autocoscienza (cogito). Questo è falso. Il sapere,ossia l’esperienza della verità, inizia dall’attività dei sensi, passa nel concetto e solo nel giudizio giunge all’autocoscienza. Solo la scienza divina inizia con l’autocoscienza, con la quale termina tornando su se stessa.
Nel giudizio, l’intelletto, mediante la copula, congiungendo il concetto-soggetto “animale” col concetto-predicato “razionale”, dichiara identico nella realtà quel razionale e quell’animale, che esso distingue ed unisce nell’atto del giudizio, col quale dichiara appunto che l’uomo è un animale razionale. Infatti, mentre nella mente (in anima) il concetto di animale è distinto dal concetto di razionale, nella realtà esterna (extra animam) il razionale e l’animale si identificano in quell’unico soggetto reale che è l’uomo. In tal modo, benchè nella realtà sia uno ciò che nel pensiero è molteplice, il pensiero, nella sintesi del giudizio, può realizzare l’adaequatio al reale.
La conoscenza della verità circa il bene e il fine dell’agire umano è principio di libertà, che è quella perfezione dello spirito, per la quale il soggetto, agendo mediante la ragione e la volontà, perfeziona se stesso. Infatti, all’azione dell’intelletto segue l’atto del volere. L’intelletto speculativo per estensione diventa pratico per il fatto che esso, considerando il vero sotto la ragion di bene e di fine, offre alla volontà il suo oggetto.

Il progresso nella verità
All’atto intellettuale del giudizio subentra l’opera della ragione, sicchè la mente passa dalla verità del giudizio alla verità scientifica, che è appunto l’effetto dell’opera della ragione. Il giudizio si pronuncia sulla verità o sulla realtà di una cosa.
La ragione è il moto, regolato da leggi, dell’intelletto verso la verità. Comporta due orientamenti o funzioni: è ragione speculativa, in quanto cerca la verità per se stessa, innalzandosi fino a Dio. E’ ragion pratica, in quanto cerca il vero bene dell’uomo, e quindi guarda in basso, alle cose di questo mondo, per regolarle secondo la legge morale.
La ragione speculativa sa che c’è un oltre, un al di là delle singole cose, per cui va oltre la singola cosa, la quale non soddisfa appieno la sete umana della verità. Si interroga sulle cause e sui fini, e si mette alla loro ricerca, e così comincia un cammino ascensionale, una salita, perchè la causa è più dell’effetto.
La ragione infatti possiede per sua natura in se stessa un dinamismo, che la porta non solo a interrogarsi sull’essenza, qualità, costituzione e proprietà delle cose, ma anche a cercare la causa e il fine delle cose. La ragione elabora un metodo per la ricerca della verità, che è il metodo scientifico.
Esso insegna come procedere speditamente, ordinatamente, facilmente, con rigore, sicurezza e senza errare. E’ oggetto della scienza e dell’arte della logica e dell’epistemologia. Nelle materie invece dove non è possibile la certezza, ossia nel campo delle opinioni, occorre la dialettica, che è la scienza e l’arte delle conclusioni probabili.
La ricerca della verità non ha mai fine, se non nella visione beatifica del cielo. In molti casi, con la perseveranza, con un buon metodo, e con un lavoro collettivo, si riesce a trovare ciò che si cerca, per cui il progresso del sapere quaggiù non ha mai fine. Ma capita anche di voler comprendere o dimostrare ciò che supera le nostre possibilità, come per esempio i misteri della divinità. Qui non si può ottenere altro che un falso sapere, chiamato “gnosi”, come è successo ad Hegel.
La ragione, nel suo cammino verso la verità e nel bisogno di verità, s’incontra con un fenomeno antipatico, e cioè col dubbio, che è un impaccio del pensiero, per il quale esso non riesce a procedere e non vede la verità per il fatto di trovarsi tra due alternative senza sapere qual è quella giusta.
Alcuni dubbi si possono sciogliere; altri no. Non ogni dubbio è sincero, ossia mosso da un reale bisogno di verità e causato quindi da una reale impotenzadell’intelletto; ma può essere pretestuoso e segno di doppiezza, di quel “servire a due padroni”, dal quale Cristo ci mette in guardia. Il crogiolarsi nel dubbio, magari con varie scuse, è un fenomeno morboso, segno di una mente infida e sleale.
Ci sono infatti verità originarie, fondamentali, primarie, immediate, evidenti, certissime,intuitive,indubitabili, per cui il dubitare di esse non è segno di saggezza, ma di stoltezza. Sono le verità primarieed iniziali del senso e della ragione. Sono la base dell’edificio del sapere. Esse non hanno bisogno di essere dimostrate, tanto sono evidenti.
Ed ogni tentativo di dimostrarle, si distruggerebbe da sé per il fatto che il dimostrante dovrebbe ricorrere a quella stessa verità della quale dubita o che proclama inesistente. Chi dice infatti che la verità non esiste, si suppone che ritenga vero che la verità non esiste. Ebbene, allora è costretto ad affermare che la verità esiste, nel momento in cui vorrebbe sostenere che non esiste.
Appena la ragione inizia a funzionare nel fanciullo, egli scopre di essere in un mondo sconosciuto, che egli non ha fatto e che comincia ad esplorare. Fa l’esperienza della verità. Parte dalle verità più evidenti e più alla mano, di carattere sensibile. Ma presto gli appare il bisogno del vero e l’idea del bene.
Presto è chiamato a dar senso alla sua vita e gli si apre la possibilità di scegliere tra il vero e il falso, il bene e il male. Presto si trova davanti all’Assoluto. E’ questo il cammino della ragione. Ognuno fa la sua scelta. Si tratta di un’opzione fondamentale, magari inconscia o implicita, o per Dio o contro Dio, che fa da orientamento alla sua vita futura.
La ragione procede nel vero secondo due direzioni, rappresentate da due immagini nella Bibbia: l’immagine dell’edificazione di una casa su solide basi e l’immagine della salita su di un monte. La prima immagine rappresenta il procedimento induttivo, che pone le fondamenta e costruisce su di esse.
E’ la scoperta della causa tramite l’effetto. La seconda immagine rappresenta la deduzione delle conseguenze pratiche, il criterio dell’agire. La ragione scopre il fine ultimo salendo dalla pianura delle cose alla cima del monte, e dalla cima del monte, ossia dalla contemplazione del sommo bene, discende per operare secondo la virtù.
Le prime ed iniziali verità – i primi princìpi della ragione[6] - vengono scoperte da chiunque spontaneamente ed inevitabilmente nel momento in cui si comincia a pensare; giacchè, se il pensiero c’è, si intuiscono quelle verità; se non si intuiscono o non si capiscono, vuol dire che manca il pensiero.
Per procedere nella verità occorre l’esercizio metodico della ragione e la volontà animata dall’amore per la verità. Deve evidentemente trattarsi di buona volontà, dato che la verità è il bene supremo dell’intelletto e nella visione beatifica celeste dell’essenza di Dio è il bene supremo ed ultimo dell’uomo.
La ragione, partendo dalla considerazione della limitatezza e contingenza delle cose, ed applicando il principio di causalità, giunge spontaneamente e con certezza a sapere che Dio, Verità somma, infinita e suprema, esiste (Sap 13,5 e Rm 1,19-20).
L’ateismo, quindi, è infondato e irragionevole. Suppone un disprezzo per la verità accompagnato da superbia. L’ateo, per proprio comodo e sua disgrazia, blocca volontariamente la ragione nelle realtà terrene ed in esse resta prigioniero, impedendo alla ragione di salire alla sua suprema altezza e dignità.
La ragion pratica, incaricata di giudicare su ciò che è bene fare e come agire, considerando il bene in universale, fonda la possibilità del libero arbitrio di scegliere un certo bene o fine concreto, o Dio o la creatura, all’interno dell’universale astratto. Esercitando il libero arbitrio nella scelta del vero bene, secondo Dio, l’uomo conquista la libertà.

Dalla verità di ragione alla verità di fede
Ragione e volontà devono aiutarsi e sostenersi a vicenda nella ricerca della verità. Come dice S. Agostino, nihil volitum, nisi cognitum: il cammino dello spirito comincia con un atto di conoscenza, che mostra alla volontà il vero bene. A questo punto la volontà si muove al conseguimento del bene. Ma, in fin dei conti, non trova la verità, se non chi la vuol trovare. E dunque il moto si inverte e nasce una specie di circolarità: la conoscenza del vero è effetto del buon volere.
In questo dinamismo non si tratta solo di un lavoro personale, ma deve trattarsi anche di un lavoro collettivo organizzato e sistematico, di una ricerca comune nei secoli, in vicendevole collaborazione, nella coscienza dell’universalità e dell’oggettività del vero, dell’importanza del dialogo, così da consentire un arricchimento continuo del sapere, così da illuminarsi, istruirsi e correggersi a vicenda, dove è importante l’esperienza e la scoperta personale, ma sono altrettanto importanti l’apprendimento e l’acquisizione delle verità precedentemente scoperte dall’umanità.
E’ qui che appaiono chiari i gravi difetti del metodo cartesiano, che, oltre a concepire un dubbio irragionevole circa la verità dei sensi, pretende presuntuosamente di dispensarci dal prender atto delle verità già scoperte da chi ci ha preceduto e quindi viene a minare il principio di autorità, con gravissimo pregiudizio per la possibilità stessa di una fede religiosa.
Da qui allora l’importanza non solo dello studio e della riflessione personale, ma anche dell’educazione, della scuola e della cultura. Ed è importante la fiducia nell’autorità di chi conosce e sa più di noi. E’ qui che si inserisce la questione della fede religiosa in generale e della fede cristiana in particolare. Se è ragionevole accettare l’autorità fallibile degli uomini, tanto più sarà ragionevole accogliere l’autorità infallibile di Dio, che ci parla per mezzo del Magistero della Chiesa.
Per questo, abbracciando la fede, la ragione allarga all’infinito i suoi orizzonti, rendendosi partecipe della verità stessa del Pensiero di Dio. Nel recepire la verità di fede, l’intelletto non è necessitato nel suo giudizio dall’evidenza dell’oggetto, come avviene nella scienza, ma è determinato a dare il suo assenso dalla volontà, mossa dalla grazia, perché il soggetto, persuaso dagli argomenti e segni di credibilità del predicatore evangelico o di Dio stesso, giudica bene ed anzi doveroso aderire alla Verità divina, anche se essa trascende la verità razionale.
Similmente a quanto avviene sul piano naturale, la fede, che è conoscenza del bene sul piano soprannaturale, spinge la carità a cercare questo bene. Avviene anche qui qualcosa di simile al piano naturale: la ricerca della verità divina è mossa dalla carità, quella che Agostino chiama caritas veritatis.
Per quanto riguarda la questione dell’uso della carità nella comunicazione della verità, occorre tener presente che la verità va sempre detta con carità, benchè in certe circostanze la stessa carità richieda il modo della severità. La carità non è vera, se non è illuminata e mossa dalla verità. Ma d’altra parte, la semplice conoscenza della verità non genera necessariamente la carità, ma occorre un ulteriore atto di volontà per mettere in pratica la verità conosciuta.
Il livello più alto della verità cristiana in questa vita è dato dalla verità della contemplazione mistica, per la quale l’intelletto illuminato dalla fede e la volontà infiammata dal fervore della carità – quello che S.Caterina chiamava “ardentissimo desiderio” – in forza della mozione del dono della sapienza, gustano ineffabilmente l’azione della grazia, che fa sentire la presenza di Dio nell’anima, in preparazione alla beata visione del cielo.

[1] Summa Theologiae, I, q.16,a.6.
[2] Summa Theologiae, I, q.16, a.7.
[3]Quaestio disputata De Veritate, q.1, a.1.
[4] Summa Theologiae, I, q.16, a.1.
[5] Ibid., a.3.
[6] Cf J.Maritain, Sept leçons sur l’ȇtre et les premiers principes de la raison spéculative, Téqui, Paris 1934.

www.youtube.com/watch?v=XhIRHK_XQGE





[SM=g1740771]

[Modificato da Caterina63 24/10/2016 11:24]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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