A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

E l’impero diventò cristiano

Ultimo Aggiornamento: 12/07/2013 23:26
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 259
Sesso: Maschile
30/06/2009 18:24
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

E l’impero diventò cristiano

 di Massimo Borghesi

La persecuzione, le restrizioni, ma anche la tolleranza e la benevolenza degli imperatori romani mentre le fondamenta dell’impero si distruggono, sono descritte nel libro di Marta Sordi “I cristiani e l’impero romano”.


[Da «30Giorni», anno II, n. 9, ottobre 1984, pp. 74-77]

«Polemone disse: Sacrifica! Rispose Pionio: Non lo farò! Ribattè Polemone: Perché no? Pionio, dal canto suo: Perché sono cristiano. Domandò Polemone: Quale Dio adori? Rispose Pionio: Il Dio onnipotente, che ha creato il cielo e La terra, il mare e tutte le creature che vivono in questi elementi e tutti noi; il Dio che ci elargisce e ci dona ogni cosa, il Dio che abbiamo conosciuto per il Verbo di lui, Gesù Cristo. Infine Polemone disse: Per lo meno sacrifica all’imperatore. Pionio rispose: Non sacrificherò a un uomo. Dopo ciò Polemone, mentre un notaio riportava le risposte su una tavoletta di cera, chiese a Pionio: Come ti chiami? Pionio rispose: Cristiano. Polemone: A quale chiesa appartieni? Pionio: Alla Chiesa cattolica». Così nella cronaca dell’ interrogatorio tramandataci da Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica (IV, 15, 47) il sacerdote Pionio di Smirne, presumibilmente durante la persecuzione dell’imperatore Decio, offre i capi di accusa che lo porteranno a morte. Il rifiuto di sacrificare agli dei e, parallelamente, l’appellarsi cristiani rappresentano i termini del contrasto che divide, drammaticamente, il Cristianesimo nascente dall’impero romano.

È un contrasto, come sottolinea opportunamente Marta Sordi nel suo I Cristiani e l’impero Romano (Jaca Book, Milano 1984) che fu di natura «religiosa» e non, come comunemente si crede, primariamente politica. Il Cristianesimo non apparve all’impero — con l’unica eccezione della confusione determinata dall’eresia Montanista sotto Marco Aurelio — come un movimento «sovversivo», pericoloso per i suoi risvolti sociali e politici. Fu invece avvertito come pericolo dal punto di vista del culto tradizionale che legava l’autorità imperiale e la solidità stessa delle istituzioni e dell’impero alla fede negli antichi dei. Solo in questo senso la religione cristiana poteva apparire nemica dello Stato.

Cionondimeno Roma, nel periodo che va dalla prima persecuzione — quella di Nerone del 62 — alla pace costantiniana non fu sempre, anche qui contro un modo di vedere usuale, costantemente intollerante nei confronti dei cristiani. Nella sua articolata e puntuale ricostruzione Marta Sordi documenta il diverso atteggiarsi degli imperatori e del potere romano di fronte all’espandersi della nuova fede, le esitazioni, le restrizioni ma anche la tolleranza e, in taluni casi, la benevolenza di fronte ad essa. Nel periodo che precede la persecuzione neroniana il potere di Roma fu spesso, come risulta dagli Atti degli Apostoli nel caso di Paolo, garanzia e tutela contro il fanatismo della folla e le istigazioni e le accuse della comunità ebraica.

La svolta, improvvisa e subitanea, la si ha nel 62-63 dopocché Nerone, secondo la testimonianza di Tacito, gettò sui cristiani la responsabilità dell’incendio di Roma. In effetti «il mutamento dell’atteggiamento di Nerone verso il cristianesimo corrisponde al mutamento generale della sua politica. La coincidenza non è solo cronologica; e non è un caso che i processi e le condanne contro gli stoici della classe dirigente romana abbiano seguito di poco, nel 65/66, la persecuzione contro i cristiani: allo stesso modo, nel 93, i processi e le condanne contro gli stoici precedettero di poco la persecuzione anticristiana e segnarono l’accentuazione teocratica e autocratica del regno di Domiziano» (p. 37).

Dopo Nerone l’accusa dal punto di vista giuridico è quella di superstitio illicita. Ad essa si unisce, sempre più diffusa, la diffidenza della folla che, sempre secondo Tacito, odiava i cristiani per i loro delitti (flagitia), espressione questa con cui li si sospettava di infanticidio (così i pagani interpretavano il banchetto eucaristico) e di incesto (a motivo dell’uso del cristiani di chiamarsi fratelli e sorelle). Nonostante Nerone tuttavia, sotto la cui persecuzione cadranno Paolo e poi Pietro, la dinastia Flavia che gli succede con Vespasiano e Tito, sino al’ultimo periodo del dominio di Domiziano, non dimostrerà ostilità alcuna verso il cristianesimo. Esso, anzi, è presente addirittura in taluni membri della casa imperiale, da Flavio Clemente, poi mandato a monte, alla nipote Flavia Domitilla.

La svolta domiziana del 95 implica per i cristiani l’accusa di ateismo (impietas), cioè di negare il culto agli dei di Roma nonché all’imperatore quale dominus et deus. In tal modo la persecuzione di Domiziano avrà «un significato fondamentale per tutto lo sviluppo successivo dei rapporti tra Cristianesimo e Impero» (p. 60) e questo sia nel senso che la nuova fede non potendo nemmeno più godere della liceità giuridica concessa al giudaismo apparirà «oltre che come superstitio illicita, anche come ateismo», sia nel senso che «la persecuzione di Domiziano colpisce il cristianesimo non solo a Roma, ma in tutto l’impero». Dopo la sua morte la dinastia Antonina si atterrà come modello di comportamento al rescritto di Traiano del 110/113 con il quale l’imperatore, scrivendo a Plinio il Giovane governatore della Bitinia, affermava non potersi istituire nei confronti dei cristiani «una regola generale, che abbia per cosi dire valore di norma fissa. Non devono essere perseguiti d’ufficio. Se sono stati denunciati e confessi, devono essere condannati, però in questo modo: chi negherà di essere cristiano, e ne avrà data prova manifesta, cioè sacrificando ai nostri dei, anche se sia sospetto circa il passato, sia perdonato per il suo pentimento. Quanto alle denunce anonime, esse non devono aver valore in nessuna accusa». È il primo documento ufficiale sui rapporti fra il cristianesimo e lo stato romano. In esso viene definito il carattere strettamente religioso ed individuale della colpa di cristianesimo nonché vietata la ricerca d’ufficio.

Nell’unire insieme questi due fattori — il riconoscimento di una «colpa» e insieme il divieto di fare indagini dirette a punirla — risiede tutta l’«ambiguità» del rescritto. Questa caratteristica del documento consentirà l’oscillazione tra le interpretazioni pin favorevoli ai cristiani (Adriano) e quelle pin restrittive (Antonino Pio). «Lo stato, che col rescritto di Traiano regola ora in modo ambiguo ma stabile, i suoi rapporti con i cristiani con una norma che rimarrà in vigore fino a Valeriano, appare ugualmente lontano, nel periodo di Antonino, sia dalla benevolenza simpatizzante di alcuni imperatori del I secolo, sia dalla volontà persecutoria di altri» (p. 65).

È un fatto però che la cultura dominante appare sempre più ostile ai cristiani. Essa «con Tacito, Plinio, Svetonio, condanna la nuova religione come superstitio prava e immodica, nova e malefica, riscopre con Frontone le vecchie calunnie dei flagitia, maledice con Elio Aristide l’empietà dei nuovi «atei»; solo gli scettici o i razionalisti, come Luciano o come Galeno, guardano ad essi con beffardo distacco o con tollerante rispetto» (ivi).

È all’interno di questo clima ostile da parte della cultura pagana nonché del diffondersi tra i cristiani dell’eresia Montanista avversa pregiudizialmente allo stato che si situano le rinnovate persecuzioni del 177, sotto Marco Aurelio, a cui appartiene il noto processo ai martin di Lione. L’elemento nuovo apportato dall’imperatore «filosofo» al rescritto di Traiano fu la possibilità di estendere ai cristiani la ricerca d’ufficio precedentemente vietata. Sotto Commodo e la dinastia dei Seven la tolleranza tornò però, salvo persecuzioni locali talvolta dure e spietate, usuale. Durante l’età severiana la tolleranza fu altresì favorita dal sincretismo religioso che, proveniente dall’Oriente, tendeva a unificare a concepire la molteplicità degli dei come immagini e simboli dell’unico dio solare.

È sotto i Severi che ha modo di formarsi e di espandersi la grande scuola catechetica di Alessandria con Clemente e, soprattutto, con Origene. La fine della dinastia e segnata da Alessandro Severo in cui la tolleranza diviene aperta simpatia per la nuova fede. La simpatia diverrà condivisione con M. Giulio Filippo l’Arabo il primo cristiano a salire sul trono dei Cesari nel 244. La figura di Filippo genererà però la coalizione del paganesimo ufficiale, soprattutto della classe senatoria, che con il suo successore Decio scatenerà la prima persecuzione sistematica nell’arco dell’intero impero romano. Nel 250 uscì un editto che imponeva a tutti i cittadini dell’impero di sacrificare: si trattava di un gigantesco censimento che, con logica caratteristica degli stati totalitari, doveva colpire proprio i cristiani.

Dopo Decio l’altra grande persecuzione: quella di Valeniano. Ora «per la prima volta nella storia dei rapporti fra cristianesimo e impero, l’apostasia non basta per l’impunità. Ma c’è di più: per la prima volta si mira a eliminare i cristiani, indipendentemente dalla loro decisione di perseverare o no nella fede delle classi dirigenti» (p. 122). Inoltre, ed è forse la novità più importante, Valeriano «colpisce i cristiani direttamente, per la prima volta nella loro organizzazione; colpisce i cristiani come Chiesa, modificando per primo la legislazione anticristiana e, fin dal 257, impone la chiusura delle chiese, la confisca dei cimiteri e degli altri luoghi di riunione . Nel 258, poi, egli ordina di mettere a morte, senza nessun altro preliminare che la semplice identificazione, tutti gli ecclesiastici precedentemente arrestati e, con essi, i senatori e i cavalieri cristiani, previa la perdita della dignità e la confisca delle sostanze; esilia le matrone, condanna ai lavori forzati i cesariani» (p. 125).

Con il successore di Valeriano, Gallieno, la pace ritorna, i beni ecclesiastici sono restituiti. I quarant’anni che separano l’editto di Gallieno dalla persecuzione dioclezianea saranno di coesistenza pacifica non solo di fatto ma anche di diritto. La rottura, con Diocleziano, avviene mediante le persecuzioni del 297 e soprattutto, su istigazione di Galerio, del 303. Esse riprendevano gli editti di Valeriano contro la Chiesa in quanto tale con l’ingiunzione a tutti i cristiani dell’impero di sacrificare e di fare libazioni agli dei. La morti furono numerose. Dopo l’abdicazione di Diocleziano, in Occidente con Costanzo Cloro e Massenzio le persecuzioni cesseranno. Proseguiranno invece in Oriente fino al 311/313 con Galerio, Licinio e Massimino Daia.

La bufera volgeva però alla fine. Nel febbraio del 313 Costantino si incontrava con Licinio a Milano. Ne nasceva il famoso editto in cui per la prima volta gli imperatori concedevano «ai Cristiani e a tutti» la libertà di seguire la religione desiderata. L’editto sanzionava di fatto la fine del paganesimo come religione ufficiale dell’impero. Non si trattò, come opportunamente evidenzia l’Autrice, di una semplice strumentalizzazione politica della religione da parte di Costantino, quanto, dopo la battaglia sul ponte Milvio, «dell’alleanza con Dio più forte» (p. 145) a cui ora veniva legata la sorte dell’impero romano. In questa sostituzione risiedevano rischi e problemi che sul momento non potevano ancora apparire ma che costituiranno di fatto il terreno di scontro tra Chiesa ed Impero per i secoli a venire.

Tramontata la figura dello stato pagano persecutore, il nuovo pencolo, più insidioso, sarà dato dall’impero «cristiano» incentrato sull’imperatore-sacerdote. Per liberarsi da un abbraccio che rischierà di farsi soffocante la Chiesa dovrà impegnarsi in una dura battaglia per la propria libertà la quale segnerà, in misura diversa, il proprio destino ad Oriente e ad Occidente.
Il 313 fu però per i cristiani, e giustamente, un anno di letizia e di vittoria. Dopo quindici anni di persecuzioni accanite e sanguinose, ultime di una dolorosa serie, la loro fede otteneva alfine, proprio grazie alla resistenza e al sangue dei martiri, pieno e completo riconoscimento.
OFFLINE
Post: 259
Sesso: Maschile
30/06/2009 18:25
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota



Tre domande all’autrice

CRISTIANI, RELIGIONE E POTERE


È opinione corrente che la persecuzione dei cristiani nell’Impero Romano sia avvenuta per cause politiche. Il suo studio afferma invece che il dissidio fu in primo luogo di natura religiosa. Ci può spiegare questo ribaltamento interpretativo?


MARTA SORDI:
Chi afferma che la persecuzione fu politica, mette di solito sullo stesso piano due valutazioni diverse e contrastanti della religione romana e della persecuzione: quella secondo cui per i romani la religione era solo instrumentuum regni e la persecuzione colpiva, con pretesti religiosi, i cristiani in quanto politicamente pericolosi (per il rifiuto del culto imperiale, comune in effetti a tutti i cristiani, o per il rifiuto del servizio militare, che inizia invece solo con il montanismo e che non è mai generalizzato, o per altri motivi analoghi) e quella secondo cui la salvezza stessa dello stato dipendeva per i romani dalla divinità (il concetto di pax deorum) e chi offendeva la divinità minacciava lo stato e doveva essere perseguitato. In questo caso, a mio avviso, la persecuzione era religiosa e non politica e se vogliamo chiamarla politica dobbiamo dire che si trattava di «politica verso la divinità». Le vere grandi persecuzioni anticristiane, quelle di Decio, di Valeriano, di Diocleziano, furono di questo tipo, non del primo.
Diverso è il caso di Nerone e Domiziano (ma qui il rifiuto del culto imperiale era condiviso con i cristiani della miglior classe dirigente romana) e diverso e il caso di Marco Aurelio, che confondendo il cristianesimo con l’eresia montanista, molto diffusa al suo tempo, credette di dover difendere l’Impero da una setta di ribelli.

Per i cristiani dei primi secoli ci fu continuità o cambiamento nella concezione del potere e dei propri rapporti con l’Impero?

SORDI: Nell’atteggiamento dei cristiani di fronte al potere e di fronte all’Impero romano, c’è continuità e non frattura: sia negli scritti del Nuovo Testamento (prescindendo dall’Apocalisse, la cui simbologia non allude però, secondo studi recenti, all’Impero e che in ogni caso riguarda il periodo di Nerone e di Domiziano) sia negli autori cristiani dei primi secoli prima di Costantino, da Clemente Romano a Giustino martire, da Melitone a Tertulliano prima del montanismo, l’atteggiamento di fronte all’Impero è di profondo e sincero lealismo. Da questo punto di vista non si può parlare di un cristianesimo precostantiniano diverso dal cristianesimo postcostantiniano; almeno per quel che riguarda la «grande Chiesa». Diverso è semmai l’atteggiamento di certi eretici e di certi scismatici.

A proposito dell’editto di Milano del 313 lei scrive che «la libertà religiosa che scaturisce dall’accordo di Milano rappresenta un equilibrio ideale che difficilmente una situazione storica riesce a conservare». Ci può chiarire il senso di questa riflessione?

SORDI:
La tolleranza del cosiddetto editto di Milano non nasce dall’indifferenza dello stato a tutte le religioni, ma dalla convinzione che la protezione divina è il problema fondamentale dell’Impero (pax deorum), ma che l’Impero in quanto tale non è in grado di definire come la divinità vuol essere onorata e confessa la sua incompetenza teologica, lasciando a tutti di onorarla come ritengono in coscienza necessario. La libertà religiosa dei singoli si fonda cosi sul diritto della divinità di essere onorata come vuole: il principio, che ha le sue radici nel senso giuridico e religioso dei romani, è già presente nel Senatoconsulto dei Baccanali del 186 a.C. La sua fragilità storica e le numerose violazioni dipendono dal fatto che l’Impero era fatto da uomini.

© 30Giorni nella Chiesa e nel mondo
www.30giorni.it/
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
21/09/2009 18:50
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

I cristiani nella Roma del I secolo

Faccia a faccia con l'impero




di Timothy Verdon


Tra le sorprese che una visita, anche sbrigativa e superficiale, riserva al turista in Vaticano è la scoperta di un paradosso: del fatto cioè che il cristianesimo è nato praticamente assieme all'antico impero romano.

L'evangelista Luca, introducendo il racconto della nascita di Gesù, specifica infatti che "in quei giorni un decreto di Cesare Augusto - cioè del primo imperatore romano - ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra" (Luca, 2, 1); era per registrarsi in obbedienza a questo decreto che il falegname giudeo Giuseppe, con la moglie incinta, Maria, si recò nella sua cittadina d'origine, Betlemme, dove il bambino venne alla luce.

Al primo degli imperatori, Augusto, morto nel 14, succede Tiberio, sotto la cui autorità Gesù è processato e condannato a essere crocifisso; i seguaci di Gesù, con Pietro per portavoce, incominciano ad annunciare pubblicamente la sua risurrezione meno di due mesi dopo (Atti, 2, 42). Alla morte di Tiberio nel 37, il trono passa a Gaio Caligola; nel medesimo anno si forma una comunità di credenti in Cristo ad Antiochia, la più importante città delle province orientali dell'impero, e "ad Antiochia per la prima volta i discepoli (di Gesù) erano chiamati cristiani" (Atti, 11, 26).

La Chiesa, nata in Oriente e a tutti gli effetti ignorata dai primi tre imperatori, conosce la persecuzione sotto il quarto, Claudio, venuto al potere nel 41. Nel 49 Claudio espelle da Roma "i giudei che si agitano per istigazione di un certo Cresto (Cristo)", come racconta confusamente lo storico romano Svetonio: Judaeos impulsore aracol assidue tumultuantes Roma expulit (Vita di Claudio, 25); uno di questi profughi diventerà amico di san Paolo a Corinto: un certo Aquila, "arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i giudei" (Atti, 18, 2).

Il quinto imperatore, Nerone, succeduto a Claudio nel 54, intensifica la persecuzione, infliggendo punizioni crudeli sui cristiani, considerati "una setta che professava una nuova e sovversiva fede religiosa", come dice sempre Svetonio (Vita di Nerone, 16). Sarà Nerone a mettere a morte sia san Paolo sia san Pietro intorno all'anno 64: Paolo sulla via che portava da Roma a Ostia, Pietro nel circo costruito da Caligola e fatto ingrandire dallo stesso Nerone.
Non sappiamo quando la nuova fede sia approdata nella capitale, ma deve essere stata assai presto se già nel 49 il numero dei credenti fu tale da attirare l'attenzione dell'imperatore. Dalla frase di Svetonio, si capisce che i "tumulti" che preoccupavano Claudio erano interni alla comunità giudaica, primo alveo dei credenti in Cristo, e che facevano parte del sofferto processo di differenziazione di coloro che accettavano Gesù come "il Cristo", il Messia e redentore atteso dagli Ebrei, dagli altri che si rifiutarono di credere in lui. Dire "comunità giudaica" non implica tuttavia un gruppo chiuso: Aquila era oriundo di Ponto, sul Mar Nero (Atti, 18, 2), e san Paolo proveniva da Tarso sulla costa meridionale dell'odierna Turchia.

Ciò fa pensare che, nel crogiuolo di etnie e razze che era Roma, la primitiva comunità cristiana doveva apparire quasi un microcosmo dell'impero che la perseguitava; del resto, san Paolo era fiero di essere nato cittadino romano (Atti, 22, 27-29), e fu proprio l'impero, con la sua superba rete viaria ed efficiente sistema postale, a rendere possibili i continui spostamenti e le epistole di Paolo e di altri missionari della nuova fede.

Nonostante l'espulsione decretata da Claudio, la comunità cristiana romana si è presto ricostituita, tanto che quando Paolo scrive loro la sua lettera, intorno al 57, può salutare - tra molti amici e conoscenti - anche Aquila e Priscilla (Prisca), apparentemente tornati nella patria adottiva (cfr. Romani, 16, 3). E quando, poco dopo, l'apostolo con due compagni sbarca in Italia alla volta di Roma, "i fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne" (Atti, 28, 15).
E Pietro? Un testo antico colloca il suo arrivo nella capitale nel 30, praticamente subito dopo la Pentecoste, ma ciò è improbabile.

Lo storico Eusebio, scrivendo nel IV secolo, lo fa arrivare nel 42; in tal caso sarebbe stato uno degli "espulsi" sotto Claudio nel 49. Un altro scrittore cristiano del IV secolo, Lattanzio, è forse più vicino alla verità, affermando che Pietro arrivò a Roma solo nel regno di Nerone, e quindi dopo, dal 54 in poi. In ogni caso, è quasi certo che Pietro come Paolo, al momento del suo arrivo nella capitale, abbia trovato una comunità credente già funzionante, forse numerosa, con le caratteristiche cosmopolite sopra accennate ma con anche una sua identità culturale specifica, che possiamo definire in termini di romanitas.

Roma allora era diversa da quanto sarebbe diventata dopo l'incendio del 64. La maggior parte dei monumenti che oggi associamo con l'antica capitale non erano ancora realizzati: il Colosseo, ad esempio, sarebbe stato costruito solo sotto Vespasiano nel tardo I secolo mentre il Pantheon (nella forma attuale) sotto Adriano nel II secolo. Ma c'erano altre strutture, sufficientemente magnifiche per stupire visitatori provenienti anche da grandi centri provinciali, quale Antiochia: san Pietro, ad esempio, che giunse a Roma da quella città, dove era stato per più anni a capo della comunità cristiana.
Oltre agli innumerevoli templi del culto ufficiale, alle basiliche civili, ai portici e all'antico foro con l'aula del Senato, Roma alla metà del I secolo abbondava di teatri e circhi.

Il gusto dello spettacolo risaliva all'era della Repubblica, e il più grande dei circhi, denominato appunto circus maximus, funzionava già nel IV secolo prima dell'era cristiana. Numerose nuove strutture di intrattenimento pubblico vennero realizzate tra la fine della Repubblica e il regno del primo imperatore, Ottaviano Augusto, nella vasta pianura a nord dell'area urbana antica: il cosiddetto campus martius o "campo di Marte", che nell'epoca repubblicana era servito per le esercitazioni militari e di cavalleria. Questi teatri, assieme ad altri nuovi monumenti nel Campo di Marte - l'Altare della Pace, l'Orologio solare e il Mausoleo di Augusto - costituivano praticamente un nuovo quartiere monumentale, luccicante di marmo e adorno di statue.

I teatri romani erano enormi. Il più antico, il Teatro di Pompeo - vicino all'attuale Campo dei Fiori - inaugurato nel 55 prima dell'era cristiana, aveva una cavea di circa 150 metri di diametro e una scena di 90. Il Teatro di Balbo (resti in Via Paganica), inaugurato nel 13 prima dell'era cristiana, aveva un diametro di 90 metri; il Teatro di Marcello, a nord del Colle Capitolino, inaugurato nel 13 o forse 11 prima dell'era cristiana, era alto 33 metri, con un diametro della cavea di 130 metri e una capienza di quindicimila spettatori.
Più grandi ancora erano le strutture adibite ai corsi di cavalli e di bighe: il Circus Flaminius, demolito sotto Augusto, misurava 400 metri per 260, e il Circo Massimo raggiungeva l'incredibile lunghezza di 600 metri, con una larghezza di 200! Fonti del IV secolo parlano di una capienza di 385.000 posti nel circo Massimo, e anche se riteniamo esagerata questa cifra, una stima sobria arriva comunque a un quarto di milione di persone.

In confronto, il Circo di Caligola e Nerone sull'altra riva del Tevere, dove ci sono ora la Piazza e Basilica di San Pietro, era poca cosa: appena 323 metri per 74! Queste colossali strutture, che con incontrovertibile autorevolezza annunciavano il potere dell'impero e la sua capacità di convogliare folle oceaniche verso un determinato punto di coagulo, fanno parte dell'esperienza della primitiva Chiesa di Roma. Anche se i convertiti alla nuova fede non dovevano essere assidui frequentatori del teatro e del circo, non potevano certo ignorare il fascino che simili luoghi esercitavano sui loro contemporanei.

Ciò significa che non solo l'idea di magnifici spazi di vita collettiva, ma anche quella dello spettacolo - di raduni per vedere insieme eventi che univano la moltitudine mediante l'emozione condivisa da migliaia e addirittura centinaia di migliaia di persone - faceva parte del bagaglio culturale e umano della primitiva Chiesa romana.



(©L'Osservatore Romano - 21-22 settembre 2009)


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
OFFLINE
Post: 39.988
Sesso: Femminile
12/07/2013 23:26
 
Email
 
Scheda Utente
 
Quota

quos Deus vult perdere prius dementat

 

Sant'Antonio Abate
I Befera stroncano gli imperi
 



Un piccolissimo imprenditore si dà fuoco davanti a una sede dell’Agenzia delle Entrate. Una cinquantina di piccoli imprenditori si sono già tolti la vita, schiacciati dalla triplice ganascia delle banche che non fanno credito, della recessione, dei clienti (o dello Stato) che non pagano, e dell’esazione fiscale.

«Contiamo di fare ancor meglio nel 2012», dichiara Attilio Befera, il capitesta di Equitalia (450 mila euro annui), nel comunicare i trionfi della sua torchia: 12,7 miliardi di euro incassati l’anno scorso, con un aumento del 15,5% rispetto all’anno prima. Sono anni che gli intriti tributari aumentano del 10-15% annuo – senza che l’economia aumenti affatto. Significa che si taglia nella carne di un Paese che la torchia immiserisce e devasta.

Ma, dice Befera, «LAgenzia è complessivamente cresciuta in tutti i settori... Un risultato raggiunto grazie alla professionalità dei nostri dipendenti e alle strategie adottate che hanno puntato sempre più ad una maggiore efficacia ed efficienza».

L’efficienza di cui si vanta Befera è quella che ha fatto crollare l’impero romano. Lo illustrò l’oratore ed apologista Lattanzio (240–320 dopo Cristo), africano. L’imperatore Diocleziano, che regnò dal 284 al 305, spiega Lattanzio, aveva messo in atto una riforma fiscale così efficiente, riorganizzando gli uffici in modo così perfetto, che le tasse venivano prelevate molto meglio di prima. Tanto bene, che i contadini, per la «enormitas indictionum», ossia per il «peso enorme delle tasse», fuggivano di casa per non farsi trovare dagli esattori, «e i campi tornavano a inselvatichirsi».

Nella sua provincia, l’Africa (che comprendeva il territorio di Tunisia e Algeria), Lattanzio aveva visto strade, villaggi e campagne resi insicuri dall’infuriare dei circumcelliones, lavoratori stagionali – precarii, si direbbe oggi – rovinati dalle tasse e dalla crisi. Abituati a muoversi in gruppi organizzati, percorrevano la provincia prima mendicando e poi taglieggiando, strappando i ricchi dalle loro carrozze e trucidandoli nelle loro ville, ammazzando preti e bruciando chiese (erano donatisti, piissimi, ammazzavano al grido «Deo laudes»).

Sant’Agostino, vescovo di Ippona, africano, li definisce banditi e pazzi furiosi «perditorum hominum dementissimi greges» che «vagano per la campagna senza partecipare al lavoro dei campi e disturbano il sonno degli innocenti» che «per mangiare si aggirano attorno ai granai». Da ciò – spiega Agostino – il nome di circumcelliones. Ma loro si definivano Agonisticis, lottatori di Cristo e per la giustizia sociale.

Lattanzio, giunto a Treviri come istitutore del figlio dell’imperatore Costantino, poté constatare che la Gallia era ridotta al disastro da un simile fenomeno sociale: qui erano i «bagaudi» (qualcosa che nel dialetto celtico significava «ribelli autonomisti»), bande ben organizzate di disertori e contadini-evasori fiscali per necessità, che funestavano le campagne spinti dalla fame e dalla disperazione, ma anche da sete di giustizia sociale. Dovunque poterono costituire centri autonomi, eliminarono il latifondo e la schiavitù.

In Egitto – granaio di Roma e proprietà dell’imperatore, quindi più tartassato di tutte le altre provincie – la spoliazione messa in atto dalla macchina fiscale è ben llustrata dal caso di Sant’Antonio del deserto, il copto Abba Antonio. Antonio ereditò dai genitori 300 arurae di fertili di campi (circa 80 ettari), contro le 40 arurae medie di un fellah egiziano di allora. Era dunque un fellah benestante. O lo sarebbe stato, senza l’efficienza spietata del fisco. Per il pagamento delle tasse, (in sacchi di granaglie), era stato inventato il «sostituto d’imposta»: nel senso che dopo aver fissato una quantità di grano per ogni villaggio egiziano, i funzionari imperiali sceglievano due o tre dei più ricchi del Paese, e li rendevano responsabili del pagamento della tassa da parte della intera comunità: ne rispondevano con il loro patrimonio privato. In tal modo, i designati, per non ridursi essi stessi all’insolvenza, si dovevano fare aguzzini dei loro vicini di casa, estraendo l’ultimo sacco di grano ai contadini più poveri, che già vivevano ai limiti della sussistenza.

 Antonio si trovò sicuramente, data la sua ragguardevole proprietà nella condizione di esattore-sostituto, o «curiale», come erano ufficialmente definiti questi malcapitati, che si facevano odiare dai membri del villaggio. Così non è strano che – lui analfabeta – ascoltò da un predicatore cristiano la frase di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’ vendi quello che possiedi e dallo ai poveri», ebbe l’lluminazione: fuggire al fisco diventava possibile! Bastava non aver più reddito alcuno. E allontanarsi, per prudenza, dove la macchina esattoriale aveva difficoltà a reperire i contribuenti: nel deserto. Il suo biografo (Sant’Atanasio vescovo) attesta che Antonio immediatamente «regalò il suo terreno ai vicini». Il particolare è di cruciale importanza: Antonio non potè «vendere» la sua terra per dare il ricavato ai poveri, dovette «regalarla», perché nessuno la voleva essendo legato a quella proprietà il dubbio privilegio di farsi torchiare a sangue, e diventare aguzzino dei compaesani. Oppure, perché i vicini non gli avrebbero consentito di andarsene nel deserto, se prima non dava loro il cespite e i raccolti con cui placare i funzionari romani.

Fatto sta che, una volta constatato che nel deserto (ossia probabilmente dietro casa, essendo in Egitto) Antonio riusciva a sopravvivere, attesta Attanasio, «molti uomini facoltosi seguirono Antonio nella fuga (e nell’evasione) del deserto, «per scaricarvi i pesi di questa vita». Nacque così il monachesimo. Gli anacoreti diventarono sempre più numerosi attorno alla caverna di Antonio Abate (Abba, in copto), fino quasi a formare una città di anacoreti. Vivendo in estrema frugalità (due pani di segale al giorno, qualche volta fave e lattuga) ma – Atanasio lo sottolinea espolicitamente – «lì nessuno veniva tormentato dall’esattore delle tasse».

Il monachesimo fu un successo travogente. Migliaia di egiziani, non solo contadini ma soldati (per lo più giovani copti arruolati a forza in retate e gettati a combattere barbari biondi nel gelidi Nord) avevano trovato il modo migliore per salvarsi dal demonio e dai Befera del tempo: salvarsi l’anima rinunciando a consumare e praticando l’ascesi, e cessando di produrre ricchezza; niente produzione, niente tassazione. All’impero che aveva voluto (dovuto) tassare troppo, cominciarono a mancare i contribuenti e anche i soldati, che dopo che il cristianesimo era stato riconosciuto dallo Stato (l’editto di Costantino) avevano un modo legale di sottrarsi alla leva, facendosi monaci. Si arrivò al punto che l’imperatore Valente, nel 375, mandò i suoi legionari nel deserto di Nitria a rastrellare sistematicamente gli eremiti nei loro affollatissimi romitaggi. Furono presi e portati in carcere, oppure «stanati dai loro nascondigli» e obbligati a tornare a casa «perché adempissero il loro dovere nella comunità d’origine», narra San Gerolamo: ossia la funzione di sostituti d’imposta. Molti si rifiutarono di tornare a casa, e furono uccisi a bastonate. Valente, nel suo gergo militaresco, li aveva bollati come «ignaviae sectatores», che significa «banda di lavativi», ma anche «volontariamente inattivi, improduttivi». Oppure renitenti alla leva e al fisco «sub specie religionis», con la scusa della religione.

Ma ormai l’efficiente fiscalità romana aveva raggiunto il punto, in cui non valeva più la pena affannarsi a produrre nulla. Questo punto è stato raggiunto in Italia. Che faccia nascere santi eremiti come Antonio del Deserto, pare improbabile data la mentalità corrente. Ma almeno, circumcelliones e bagaudi, sarebbe ora.

(30 marzo 2012)
 
Tratto da: 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 13:20. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com