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28 Agosto Festa Liturgica di sant'Agostino

Ultimo Aggiornamento: 15/07/2013 10:21
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venerdì 28 agosto 2009 da messainlatino

28 agosto, Sant'Agostino - Meditazione di Plinio Corrêa de Oliveira


Per cortese concessione del prof. Massimo Introvigne, continuiamo la pubblicazione di una serie di vite di Santi, argomento di meditazioni del prof. Plinio Corrêa de Oliveira, tradotte dallo stesso Introvigne mantenendo lo stile parlato originale.



Leggere le opere di Sant’Agostino (354-430) è uno dei più grandi piaceri che un uomo può avere. Il libro delle “Confessioni” è meraviglioso e altamente edificante da molti punti di vista. Sant’Agostino vi descrive gli abissi morali di orgoglio e sensualità in cui era caduto, e ci narra come riuscì a uscire dai suoi numerosi peccati. Quindi racconta i suoi primi contatti con Sant’Ambrogio (340-397), e come la luce della religione cattolica cominciò a entrare nella sua anima attraverso la presenza del santo vescovo di Milano. Esprime il suo entusiasmo per il vescovo di Milano e per le sue visite presso di lui. Sant’Agostino non poteva parlare spesso con Sant’Ambrogio, perché il vescovo normalmente aveva molto da fare – oltre a esercitare il suo ufficio pastorale, leggeva e studiava – ma rimaneva volentieri solo per guardare Sant’Ambrogio al lavoro. E il vescovo sapeva che l’esempio costituiva nei confronti di Sant’Agostino un apostolato migliore di qualunque discorso.

Potete immaginare la scena. Sant’Ambrogio, il grande dottore della Chiesa, mentre scrive su un grande “infolio”. Il suo volto è quello di un vecchio venerabile e placido, illuminato dalla grazia di Dio, saggio, meditabondo, sublime nei suoi giudizi. Ogni tanto si ferma per una rapida preghiera interiore, quindi ritorna ai suoi pensieri prima di trarne una conclusione finale. A osservarlo c’è Sant’Agostino, il cui volto riflette ancora la turbolenza della crisi per cui sta passando. Ma la grazia di Dio sta entrando nell’anima di Sant’Agostino e ne sta trasformando la personalità attraverso la sua ammirazione per Sant’Ambrogio.

E così continua a raccontarci della sua crisi interiore, della pace che ha sperimentato entrando in una chiesa e ascoltando la musica sacra, i salmi, la bellezza della liturgia. Quindi le mozioni forti del pentimento e la voce misteriosa che sente e che gli ordina: “Tolle et lege”, “Prendi e leggi”. Prende in mano le Sacre Scritture. e queste si aprono su un versetto che si applica perfettamente alla sua vita passata – Romani 13, 13-14: “Non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri”. Riceve così una grazia decisiva, che completa la sua conversione.

Ancora, descrive il famoso colloquio di Ostia con sua madre, Santa Monica (331-387). Era una donna molto santa, e lui era stato un figlio molto cattivo. Mentre erano a Cartagine e si preparavano per un viaggio a Roma, Santa Monica era andata in chiesa e aveva passato la notte in preghiera. Agostino ne aveva approfittato per abbandonarla e imbarcarsi per Roma senza di lei, lasciandola sola. Ma lei lo aveva seguito, sempre piangendo e pregando per la sua conversione. Una volta andò dal vescovo di Milano, Sant’Ambrogio, per chiedergli se il figlio si sarebbe mai convertito. Il vescovo rispose con queste parole famose: “Donna, il figlio di così tante lacrime non potrà mai perire”. Voleva dire che avrebbe visto la rinascita di Agostino grazie alle sue sofferenze intense e profonde.

E potete immaginare la sua gioia quando il figlio si convertì. San Agostino e la madre passarono diversi mesi insieme mentre si preparava per il battesimo. Quindi si prepararono a tornare in Africa. Prima d’imbarcarsi si fermarono in un albergo a Ostia, la città portuale sul Mediterraneo vicino a Roma. Stando alla finestra e guardando il mare, cominciarono a conversare delle cose di Dio.

Chi legge oggi di questa conversazione fra la santa madre il figlio si convince che in realtà stavano sperimentando un fenomeno soprannaturale, un’estasi. Questo diede ad Agostino la forza per i combattimenti che presto avrebbe dovuto affrontare. Per Monica fu un anticipo di Paradiso, perché sarebbe morta lì a Ostia, prima che la nave partisse. Sant’Agostino ci descrive in modo commovente il suo funerale. Quindi parte per l’Africa, dove nel 395 diventa vescovo d’Ippona.

A Ippona scrive un altro dei suoi grandi libri, “La Città di Dio”. Il tema di quest’opera straordinaria è la lotta perpetua e inconciliabile che si svolge nella storia fra due città – “città”, qui, viene dal latino “civitas” ed è più di una singola città: è piuttosto uno Stato, una civiltà. Queste due città sono la Città di Dio e la Città del Diavolo. Concepisce tutta la storia come una battaglia tra la Chiesa Cattolica e i poteri delle tenebre.

La lotta nasce da due diversi amori. Nella Città di Dio c’è l’amore per Dio e l’oblio di se stessi, nella Città del Diavolo c’è l’amore per se stessi e l’oblio di Dio. Vivere per se stessi significa considerarsi il minuscolo centro dell’universo, e vedere ogni cosa come orientata verso i propri piaceri e interessi. Questo egocentrismo è il punto di partenza per ogni cosa cattiva. Al contrario, amare Dio significa orientarsi interamente verso le realtà trascendenti di cui ci parla la Rivelazione. Significa avere uno spirito metafisico, uno spirito religioso rivolto alle cose più alte. Questo è vivere per Dio. Con questi due principi, Sant’Agostino riassume tutta la storia.

Secoli dopo, una filosofia della storia analoga sarà insegnata da San Luigi Maria Grignion de Montfort (1673-1716). Egli spiegherà che tutto quanto viene da Dio è buono. Dunque, siccome l’inimicizia fra la Madonna e il serpente, e tra la progenie di Maria e quella del serpente, è stata voluta da Dio, questa inimicizia in quanto tale non può che essere buona. È in fondo la stessa tesi di Sant’Agostino, presentata con uno stile più combattivo tipico di un’altra epoca.

A causa della sua presentazione molto vivace del bene e del male, qualche progressista di oggi attacca Sant’Agostino e “La Città di Dio” sostenendo che ci presentano una visione del mondo “manichea”. Ma secondo questa stupida accusa chiunque sostiene che c’è un bene e che c’è un male sarebbe manicheo. Sarebbero manichei il Magistero della Chiesa e tutti i santi, il che è assurdo. Il manicheismo è una dottrina dualista di derivazione gnostica apparsa nel terzo secolo dell’era cristiana. Insegnava che c’erano due divinità uguali in origine e potere, una buona e una cattiva, in continua lotta tra loro. La dottrina cattolica è completamente diversa. Insegna che c’è un solo Dio, eterno e onnipotente, e che una sua semplice creatura, il Diavolo, si è rivoltata contro di lui e lo combatte nella storia. Il manicheismo è un’eresia perché sposta il combattimento in un diverso ordine dell’essere. Per i manichei la lotta è ontologica; per i cattolici si situa nella sfera morale. Inoltre per i manichei la lotta non finirà mai; per i cattolici finirà con il Giudizio Universale quando Dio trionferà su un nemico che non gli è uguale, ma infinitamente inferiore. Naturalmente i progressisti conoscono queste differenze, ma fa loro comodo sostenere che chiunque non sostenga la loro visione irenica ed “ecumenica” della storia è un manicheo. È un’affermazione assurda e una manifestazione di malafede.

C’è un punto molto bello da considerare quando si medita su Sant’Agostino. Scrisse i suoi grandi libri mentre l’Impero Romano d’Occidente stava cadendo, quando tutto lasciava pensare che probabilmente la religione cattolica sarebbe stata spazzata via dalle invasioni barbariche. In effetti Ippona e Cartagine furono così devastate che quasi nulla rimase in piedi di queste città, e la religione cattolica non si ristabilì mai in queste regioni nel passato splendore. E tuttavia mentre il futuro era incerto Sant’Agostino continuava serenamente a scrivere i suoi libri. Morì mentre i Vandali stavano entrando nella sua città.

Il mondo così come il santo lo conosceva cadde: e venne il Medioevo. E allora furono le opere di Sant’Agostino che ispirarono la concezione medievale dello Stato, dell’Impero, della Cristianità. Carlo Magno (742-814) usava farsi leggere “La Città di Dio” mentre pranzava, e l’impero che egli fondò s’ispirava alle idee di Sant’Agostino. In un certo senso, il Medioevo è un giglio nato sulla tomba di Sant’Agostino. Secoli dopo la sua morte, la sua fiducia fu premiata.
In tutto questo c’è una lezione per noi. Oggi ci sono nuovi Vandali impegnati a distruggere sia i valori culturali sia gli edifici materiali della civiltà cristiana. Come Sant’Agostino, dobbiamo continuare a operare serenamente con fede e fiducia, sapendo che il nostro lavoro darà frutti e fiorirà in un Regno di Maria quando Dio lo vorrà.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Memoria di Sant'Agostino. Benedetto XVI: la sua vita e la sua opera ci insegnano che Dio è la sola risposta alle nostre inquietudini



Ricorre oggi la memoria di Sant’Agostino (nella foto le reliquie venerate da Benedetto XVI), vescovo d’Ippona e dottore della Chiesa. Autore di numerosi scritti, è tra i Padri della Chiesa che hanno meglio spiegato principi e dogmi del cristianesimo. Nella sua opera più nota le "Confessioni", il Santo africano descrive il travagliato percorso verso la conversione. Al pensiero agostiniano attinge spesso Benedetto XVI, che ha dedicato proprio al vescovo di Ippona la sua tesi di dottorato in teologia. Lo chiamano anche il dottore della Grazia, perché nei suoi scritti è riuscito a spiegare quanto Dio ami la sua creatura. Sant’Agostino, uomo inquieto dinanzi agli interrogativi sull’esistenza, ha lasciato in diverse opere le risposte che ha trovato. La sua è stata una ricerca lunga, tra filosofie ed eresie, poi la scelta del cristianesimo, dove è riuscito a conciliare la ragione e la fede, come ha detto Benedetto XVI parlando del vescovo di Ippona in una delle sue catechesi del mercoledì.

“Queste due dimensioni, fede e ragione, non sono da separare né da contrapporre, ma piuttosto devono sempre andare insieme. Come ha scritto Agostino stesso poco dopo la sua conversione, fede e ragione - dice nel "Contra Academicos" - sono le due forze che ci portano a conoscere” (30 gennaio 2008).
Più volte il Papa ha sottolineato quanto sia stato affascinato dalla figura di Sant’Agostino, tanto da essersi ispirato al suo pensiero nelle sue prime Lettere Encicliche. Con “Deus caritas est”, Benedetto XVI, infatti, ha voluto spiegare Dio come amore usando quelle stesse parole che il vescovo di Ippona rivolgeva ai suoi contemporanei.

"Anche oggi, come al suo tempo, l’umanità ha bisogno di conoscere e soprattutto di vivere questa realtà fondamentale: Dio è amore e l’incontro con lui è la sola risposta alle inquietudini del nostro cuore. Un cuore che è abitato dalla speranza, forse ancora oscura e inconsapevole in molti nostri contemporanei, ma che per noi cristiani apre già oggi al futuro, tanto che San Paolo ha scritto che ‘nella speranza siamo stati salvati". (27 febbraio 2008).

Ma del filosofo di Tagaste, il Papa ha anche descritto in più occasioni le vicissitudini per far capire che l’esperienza di un Santo non è lontana da quella di ciascuno di noi. E ancora che il cammino di un uomo non termina in una opzione fondamentale di vita. Così, Agostino non si è fermato decidendo di consacrarsi a Dio e di dedicarsi alla teologia.

“Gli era molto difficile all’inizio, ma ha capito che solo vivendo per gli altri, e non solo per la sua privata contemplazione poteva realmente vivere con Cristo e per Cristo (…) Imparò, spesso con difficoltà, giorno per giorno, a mettere a disposizione il frutto della sua intelligenza a vantaggio degli altri, a comunicare la sua visione, la sua fede, alla gente semplice” (27 febbraio 2008).


Radio Vaticana


IL PAPA E SANT'AGOSTINO - IL MAGISTERO DI BENEDETTO XVI SUL VESCOVO D'IPPONA

Catechesi






Discorsi, omelie e Angelus





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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Agostino e il vescovo di Milano

L'ex nemico di Ambrogio


di mons. Inos Biffi

Nel novembre del 386 presso la villa di Cassiciacum Agostino ripensa al suo itinerario spirituale, e lo paragona a un viaggio per mare. Era partito con la giovanile lettura dell'Hortensius, dall'"amore per la filosofia" e dal proposito di dedicarsi a essa, ma il cammino si era poi snodato in una navigazione inquieta e piena di peripezie:  "Non mancarono nebbie - scrive nel De vita beata - per cui il mio navigare fu senza meta e a lungo, lo confesso, ebbi fisso lo sguardo su stelle che tramontavano nell'oceano (labentis in oceanum astra) e che mi inducevano nell'errore".
 
Prima l'errore, seducente e deludente, del manicheismo, col rinnegamento della fede cattolica, poi quello degli scettici, che "tennero a lungo il mio timone tra i marosi in lotta con tutti i venti", per arrivare infine a conoscere "la stella polare", a cui affidarsi (septentrionem cui me crederem) Ambrogio. La definizione è suggestiva e illuminante.

Ascoltando i discorsi del vescovo di Milano incominciò ad apparire ad Agostino la dimensione dello spirito, una nuova idea di Dio e la possibilità di un'esegesi "spirituale" della Scrittura contro le aberrazioni manichee.
Ma soprattutto l'incontro con Ambrogio significò per il travagliato retore di corte la conversione, quando, abbandonato tutto, poté, finalmente - sono le sue parole - "ricondurre la nave, sia pure tutta squassata, alla desiderata quiete (optatae tranquillitati)" (De vita beata, 1, 4).

Da Roma, era approdato a Milano nel 384. Nell'intenzione di Simmaco, il prefetto di Roma, parente e avversario di Ambrogio, l'invio del retore Agostino manicheo e ostile al cristianesimo aveva lo scopo di ostacolare l'opera dell'autorevole vescovo della città imperale. Il disegno provvidenziale era però tutt'altro. Agostino stesso, una decina d'anni dopo, nelle Confessiones rievoca quel soggiorno e quell'incontro.
"Quando il prefetto di Roma ricevette da Milano la richiesta per quella città di un maestro di retorica, con l'offerta anche del viaggio con mezzi di trasporto pubblici, proprio io brigai e proprio per il tramite di quegli ubriachi da favole manichee, da cui la partenza mi avrebbe liberato a nostra insaputa, perché, dopo avermi saggiato in una prova di dizione, il prefetto del tempo, Simmaco, m'inviasse a Milano. Qui incontrai il vescovo Ambrogio, noto a tutto il mondo come uno dei migliori, e tuo devoto servitore. In quel tempo la sua eloquenza dispensava strenuamente al popolo la sostanza del tuo frumento, la letizia del tuo olio e la sobria ebbrezza del tuo vino (salmo 44, 8). A lui ero guidato inconsapevole da te, per essere da lui guidato consapevole a te" (v, 13, 23).

Ambrogio e Agostino erano due personalità diversissime per ceto sociale, per indole, per formazione e stile di vita. Ambrogio - figlio di un eminente funzionario della prefettura di Treviri - era un alto e colto aristocratico, di famiglia cristiana enormemente ricca e dalla raffinata formazione latina e greca, come conveniva a chi apparteneva al ceto senatorio, cioè alla gens dei Valerii e degli Ambrosii, che aveva dietro di sé una tradizione di magistratura e consolati.

Era un clarissimus, diventato improvvisamente, sui quarant'anni, nel 374, vescovo della "meravigliosa" (Ausonio) Milano. Lo aveva richiesto a succedere all'ariano Aussenzio la volontà popolare:  "Il mio popolo ha chiesto a tuo padre - scriverà a Valentiniano ii - di aver me come vescovo" (Epistulae, 75, 7). Era stato, infatti, nominato col beneplacito dell'imperatore - che probabilmente si illudeva sulla sua docilità alla corte - ma, in ogni caso, contro la volontà del consularis della Liguria e dell'Aemilia, che non era neppure battezzato:  "Quanto ho resistito - egli dirà - perché non fossi ordinato vescovo!" (Epistulae, 14, 65).

Quella nomina, a cui non riuscì a sottrarsi nonostante tutti i suoi espedienti aveva indotto Ambrogio a una completa conversione. Sulla sua condotta  precedente non abbiamo "confessioni":  forse vi è un sobrio accenno nel De paenitentia, là dove, in un'ardente preghiera, accenna d'essersi dato al mondo:  "Conserva, Signore, la tua grazia, custodisci il dono che mi hai fatto, nonostante le mie ripulse. Io sapevo infatti che non ero degno di essere eletto vescovo, poiché mi ero dato a questo mondo" (ii, 8).

Con l'elezione incominciava una vita radicalmente nuova, resa visibile dalla rinuncia, a favore della Chiesa milanese, dei suoi cospicui averi e delle proprietà che possedeva fin in Africa e in Sicilia. E con la vita nuova iniziava il ministero, e anzitutto quella formazione teologica che gli era mancata e che frettolosamente attingeva soprattutto alle fonti largamente disponibili dei dottori greci, Origene, Basilio, Didimo e Filone.

Dichiarava ai suoi presbiteri:  "Strappato dai tribunali e dalle insegne delle magistrature e fatto vescovo, cominciai a insegnarvi ciò che nemmeno io avevo imparato" (De officiis, i, 1, 4).
Ma se così appariva Ambrogio ad Agostino, questi, più giovane di vent'anni, per il vescovo di Milano - che per le discussioni dialettiche non aveva alcun gusto (De fide, i, 42, 84) - non era che un oscuro maestro di retorica inviatogli da Roma per creargli disagi:  neppure Ambrogio poteva immaginare che quell'oscuro provinciale sarebbe diventato, a sua volta, uno dei più luminosi Dottori e Padri della Chiesa, dalla cui memoria e dalla cui affezione Ambrogio non si sarebbe più cancellato.

"Mi accolse come un padre - continua Agostino nelle Confessiones - e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo. Io pure presi subito ad amarlo, dapprima però non certo come maestro di verità, poiché non avevo nessuna speranza di trovarla dentro la tua Chiesa, bensì come persona che mi mostrava benevolenza. Frequentavo assiduamente le sue istruzioni pubbliche, non però mosso dalla giusta intenzione:  volevo piuttosto sincerarmi se la sua eloquenza meritava la fama di cui godeva, ovvero ne era superiore o inferiore. Stavo attento, sospeso alle sue parole, ma non m'interessavo al contenuto, anzi lo disdegnavo.
La soavità della sua parola m'incantava" (v, 13, 23). E, pure, lentamente e insensibilmente, la conversione si avvicinava.

Con Agostino dimorava a Milano anche la madre Monica, assidua frequentatrice della chiesa, dove "pendeva dalle labbra di Ambrogio". Quanto ad Ambrogio "amava mia madre a cagione della sua vita religiosissima, per cui fra le opere buone con tanto fervore spirituale frequentava la chiesa. Spesso, incontrandomi, non si tratteneva dal tesserne l'elogio e dal felicitarsi con me, che avevo una tal madre. Ignorava quale figlio aveva lei, dubbioso di tutto ciò e convinto dell'impossibilità di trovare la via della vita" (ibidem 2, 2).

Probabilmente Ambrogio non ignorava i tormenti spirituali, le passioni e la condotta disordinata di quel figlio, che tuttavia non riusciva, come avrebbe desiderato, a parlarne al vescovo:  "Non mi era possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo. Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell'angustia, si frapponevano tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l'alimento indispensabile, o l'anima con la lettura".

Ed ecco il grande rammarico di Agostino:  "Certo è che non mi era assolutamente possibile interrogare quel tuo santo oracolo, ossia il suo cuore, su quanto mi premeva, bensì soltanto su cose presto ascoltate. Invece le tempeste della mia anima esigevano di trovarlo disponibile a lungo, per riversarsi su di lui, ma invano. Ogni domenica lo ascoltavo mentre spiegava rettamente la parola della verità in mezzo al popolo, confermandomi sempre più nell'idea che tutti i nodi stretti dalle astute calunnie dei miei seduttori a danno dei libri divini potevano sciogliersi" (ibidem 3, 4).
Non mancava però "il lavorio della mano delicatissima e pazientissima" (vi, 5, 7) grazie alla quale il suo "cuore lentamente prendeva forma".

La lettura "delle opere dei filosofi platonici" in cui vedeva "per molti modi insinuarsi l'idea di Dio e del suo Verbo" (viii, 2, 3); la "visita a Simpliciano", anziano presbitero e neoplatonico cristiano, ricco di "grande esperienza e grande sapienza", "padre per la grazia, che aveva ricevuto da lui, del vescovo di allora Ambrogio e amato da Ambrogio proprio come un padre" l'incontro con intimi amici, una lesione polmonare e soprattutto il lavorio della grazia, fecero maturare in lui la conversione:  "Al termine delle vacanze vendemmiali avvertii i milanesi di provvedersi un altro spacciatore di parole per i loro studenti, poiché io avevo scelto di passare al tuo servizio". Trascorso, quindi l'operoso riposo in Dio "dopo la bufera del secolo" nella villa di Verecondo a Cassiciacum (ix, 3, 5) ecco il ritorno a Milano per ricevere il Battesimo.

Qui Agostino incontra una Chiesa ardente e viva. Ricorda in particolare nella Settimana Santa del 386 la resistenza di Ambrogio e dei suoi fedeli alle pretese ariane di Giustina, con la veglia prolungata a difesa della chiesa e l'uso del canto antifonato; e nel  giugno  successivo il ritrovamento e  solenne  deposizione  dei  martiri Protasio e Gervasio (ibidem, 7, 16). Agostino celebrerà un giorno anche nella sua Chiesa la loro memoria (Sermones, 286).

Ricevuto il Battesimo, era giunto per Agostino il tempo di tornare in patria. Lascia Milano nell'estate-autunno del 387. Agostino è ormai un altro:  il soggiorno a Milano, l'incontro con Ambrogio, la conversione lo hanno radicalmente trasformato.


(©L'Osservatore Romano - 28 agosto 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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27/08/2010 21:51
 
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A colloquio con padre Gioele Schiavella

Il carisma di Agostino in Vaticano


di Nicola Gori

Nel loro saio nero, con il lungo cappuccio e la cintura di cuoio in vita che quasi tocca terra, i religiosi agostiniani percorrono ogni giorno le strade del Vaticano con una familiarità radicata in quasi otto secoli di storia. Tanti ne sono passati da quando nel 1352 vennero chiamati da Clemente vi a prestare servizio nella sagrestia pontificia. La loro presenza nella parrocchia di Sant'Anna è invece relativamente più recente. Risale al 1929. Pio XI, infatti, affidò loro la cura pastorale della comunità vaticana. Da quell'anno cinque parroci si sono succeduti alla guida della parrocchia:  padre Agostino Ruelli (1929-1931), a cui seguì padre Nicola Fattorini (1931-1961), quindi padre Davide Falcioni (1961-1991). Penultimo in ordine di tempo è stato padre Gioele Schiavella, entrato tra gli agostiniani nel 1933, ordinato sacerdote nel 1940, per trent'anni docente di teologia morale all'Agostinianum e al Marianum e già vicario generale dell'ordine. È stato parroco dal 1991 al 2006, anno in cui gli è succeduto padre Bruno Silvestrini. In occasione della memoria liturgica di sant'Agostino, padre Schiavella ripercorre la storia della presenza dell'ordine in Vaticano e rilancia l'attualità del messaggio del vescovo di Ippona.

Da quando gli agostiniani sono presenti nella parrocchia di Sant'Anna in Vaticano?

La loro presenza risale al 30 maggio 1929, quando Pio xi, con la Costituzione apostolica Ex Lateranensi pacto, istituì la pontificia parrocchia e l'affidò alle loro cure pastorali. Il 7 giugno successivo venne nominato il primo parroco, padre Ruelli. Il servizio pastorale iniziò il 18 agosto, in quella che fino ad allora era la chiesa appartenente alla confraternita dei Palafrenieri. Dato che a quel tempo gli agostiniani officiavano anche la parrocchia di San Tommaso da Villanova in Castel Gandolfo, Pio XI decise di affidare quest'ultima ai salesiani. Sempre per volere di Papa Ratti, il sacrista pontificio - che fino al 1929 era anche parroco dei Sacri Palazzi - venne nominato vicario generale del Papa per la Città del Vaticano "con le necessarie facoltà, anche per il tempo della Sede vacante", come recitava la Ex Lateranensi pacto.

Che compiti svolgeva il sacrista pontificio?

Per comprendere l'importanza del suo ruolo occorre risalire al 1352, quando Clemente VI ne determinò le funzioni, decidendo di sceglierlo tra gli agostiniani. Egli era custode del sacrario, bibliotecario e confessore del Papa. L'incarico di bibliotecario, durante il pontificato di Sisto IV, venne affidato a una persona distinta dal sacrista. Alessandro VI, con una bolla del 15 ottobre 1497, confermò che l'ufficio di sacrista in perpetuo dovesse essere assegnato a un agostiniano. Molti furono i sacristi che si distinsero per santità e dottrina, tra i quali Angelo Rocca, che sotto il pontificato di Paolo V istituì la prima biblioteca pubblica di Roma, l'Angelica, con sede nel convento di Sant'Agostino.

Fino a quando fu in vigore questa carica?

Il sacrista pontificio mantenne questi incarichi fino al 1968, quando Paolo VI abolì il titolo di prefetto del sacrario apostolico e lo cambiò in vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano. Il sacrista pontificio conservò questo incarico fino al 1991. L'ultimo agostiniano a ricoprirlo fu il vescovo Pietro Canisio van Lierde. Nel 1991, infatti, Giovanni Paolo II decise di affidare la cura pastorale della Città del Vaticano, in qualità di vicario generale, al cardinale arciprete pro tempore della basilica Vaticana. Papa Wojtyla confermò che gli agostiniani rimanessero presenti in Vaticano nella parrocchia di Sant'Anna e nella sagrestia pontificia, con il compito anche di custodi del sacrario.

In che modo vivete oggi il carisma di sant'Agostino nella vita comunitaria e nel servizio pastorale in Vaticano?

L'amore per Agostino è al centro della vita cristiana, come è stato al centro della vita di Cristo, ed è l'essenza del suo messaggio. Non c'è nulla di più importante dell'amore nella vita di una persona, nulla di più gradito che si possa ricevere. Inoltre l'amore è alla base della scelta esistenziale. Per questi motivi, l'idea madre della spiritualità agostiniana è la costruzione della comunità. D'altra parte, la realizzazione di rapporti amichevoli è l'aspirazione di ogni comunità, sia familiare che civile. La peculiarità della comunità religiosa è determinata dal fatto che le persone che la compongono hanno scelto volontariamente di vivere insieme in Deum, nel cammino verso Dio, come sottolinea il primo capitolo della Regola scritta da Agostino:  "Vivete unanimi e concordi e onorate in voi stessi Dio di cui siete fatti tempio".

Che cosa significa in termini pratici?

Quando si dice onorate Dio, viene spontaneo il pensiero a una cerimonia liturgica o alla preghiera personale. Per Agostino significa invece amare il fratello nella vita in comune, e il motivo è chiaro:  l'amore è l'essenza di ogni culto a Dio e l'amore al prossimo dimostra concretamente se amiamo veramente Dio. L'umiltà è la condizione indispensabile per la costruzione della comunità, poiché solo l'umiltà consente di aprirsi agli altri. L'orgoglio, secondo il testo della Regola, è dannoso per due motivi:  perché è un vizio in sé e si insidia nelle opere buone per farle perire.

Nella catechesi dell'udienza generale di mercoledì scorso Benedetto XVI, citando il vescovo di Ippona, ha invitato i cristiani a ricercare la verità e a non temerla. Che cosa ci insegna in proposito sant'Agostino?

Per Agostino la ricerca della verità fu essenziale. Come cercarla? Sotto la guida dell'autorità o sotto la guida della scienza? Questi gli interrogativi che si pose. La scienza gli apparve la via più idonea. "Volevo raggiungere - confidava - la stessa certezza con cui ero certo che 3 più 7 fanno 10. Volevo comprendere allo stesso modo anche le altre verità, sia le corporee non sottoposte ai miei sensi, che le spirituali". La ricerca della verità sostanzialmente era la conoscenza di Dio e di se stesso:  "Che vuoi conoscere?" s'interroga nei Soliloqui, e risponde:  "Desidero avere la scienza di Dio e dell'anima. E nulla più? Proprio nulla". Il problema del dilemma tra autorità e fede lo risolse convincendosi che per conoscere la verità occorrevano la fede e la scienza. La conversione esigeva anche un cambiamento di vita, mediante il rifiuto e il rigetto delle vecchie abitudini. Determinante per la ricerca di Dio e di sé fu la purificazione del cuore con il passaggio dall'amore delle cose vane che rendono vano l'uomo all'amore per i beni eterni. Per molti anni, forse per tutta la vita, rimase nel cuore di Agostino un grande rammarico:  il rimpianto degli anni trascorsi lontano da Dio, che egli ricorda nelle Confessioni con espressioni inimitabili:  "Tardi ti ho amato, bellezza così antica e così nuova...".

Qual è l'attualità del messaggio del dottore della Chiesa?

Benedetto XVI ha riconosciuto che Agostino ha lasciato un'impronta profondissima nella vita culturale dell'Occidente e di tutto il mondo. Si potrebbe affermare che tutte le strade della cultura latina portano a Ippona, dove egli era vescovo. Di rado una civiltà ha trovato uno spirito così grande che sapesse accoglierne i valori ed esaltarne l'intrinseca ricchezza. Paolo vi giunse ad affermare che tutto il pensiero dell'antichità confluisce nella sua opera e da essa derivano correnti di pensiero che pervadono la tradizione culturale dei secoli successivi. Nessuno come Agostino - scriveva tra l'altro Paolo vi - ha tracciato l'itinerario che dagli infimi livelli della vita giunge alla rinascita nell'innocenza cristiana; nessuno prima di lui ha descritto la storia dell'io in termini più sinceri, più drammatici.


(©L'Osservatore Romano - 28 agosto 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Immagine dell'olivo millenario detto di sant'Agostino a Tagaste

L'olivo cosiddetto di sant'Agostino

 

 

TAGASTE

 

 

 

La città romana

Costruita dai Romani attorno al I sec. a. C. Tagaste è sorta nello stesso luogo dove si estende oggi l'attuale cittadina di Souk Ahras.

Le tracce delle vestigia d'antichità purtroppo sono ancora sotto terra o sono state distrutte dalle nuove costruzioni. Secondo l'archeologo M. Bergugger, nel 1850, la parte più importante delle rovine della città romana è situata fra l'odierna città di Diar Zerga e una zona dei vecchi sobborghi.

Questa tesi fu sostenuta anche dal Dottor Rouquette, un esploratore che visitò Tagaste nel 1903. Senza tuttavia specificare dove e come, egli lasciò scritto: "sotto le macerie di antiche costruzioni furono scoperte oggi le terme pubbliche di Tagaste e tutto intorno dei muri di abitazioni ornate di frammenti di mosaico e altri oggetti di metallo e d'argilla."

 

  APPROFONDIMENTI

     Il territorio di Tagaste 

 

Il piccolo Municipium di Tagaste in Numidia ma poco lontano dai confini dell'Africa proconsolare, sorgeva sulle colline lungo la riva a sinistra del Bagradas (Medjerda): i colli, a non grande distanza, s'innalzano a vere montagne, fino ai 1400 metri, e il fiume con le sue inondazioni periodiche rende feconda la vallata. Era un piccolo centro, ma posto all'incrocio di due strade che dal mare raggiungevano, a Naraggara a sud-est e a Tipsa a sud-ovest, la grande via interna per Cartagine a Cirta. Ai Numidi che abitavano la regione si erano da tempo mescolati i Fenici, e il punico era sopravvissuto, come e forse più che in tante regioni dell'Africa, anche alla dominazione romana. Questa aveva portato con sè il latino, come lingua non solo ufficiale e della gente colta, ma del commercio e degli usi quotidiani; se abbondano le iscrizioni bilingui (come del resto quelle libiche) sta di fatto che tra gli uditori di Agostino nella non lontana Ippona ve n'erano parecchi che conoscevano il punico.

E se i nomi punici abbondano, non sono rari quelli latini: spesso il medesimo personaggio dimostra, nei diversi elementi del suo nome, la mescolanza delle razze e delle culture.

Tagaste era un piccolo centro, in mezzo a una regione agricola, e discretamente popolosa. Il dominio romano aveva rispettato i suoi diritti cittadini, e per lo meno li aveva ristabiliti abbastanza presto: se la città aveva certamente amministrazione autonoma al tempo di Settimo Severo, il fatto che Plinio il Vecchio la nomini come una delle trenta città libere dell'Africa, fa ritenere che Tagaste fosse già Municipium al tempo di Traiano, e forse ottenne questo diritto da lui.

  APPROFONDIMENTI

     Numidia romana

 

Aveva già un vescovo sotto Massimiano e Diocleziano; ma non sembra che il cristianesimo vi dovesse fiorire molto prima di Costantino, se verso la metà del secolo vi si trovavano ancora numerosi pagani, che continuavano ad adorare le vecchie divinità fenicie, confuse o identificate col nome e, almeno in parte, nel culto, con quelle di Roma dominatrice. Doveva essere un centro molto tranquillo, che non attirava l'attenzione delle autorità supreme: abitato da una popolazione di carattere tradizionalista, come sono per lo più i piccoli proprietari, senza velleità novatrici di nessun genere e senza ambizioni (da A. Pincherle, Sant'Agostino d'Ippona vescovo e teologo, ed. Laterza 1930, 6-7).

 

 

La Casa di Agostino

Oggi non è possibile individuare esattamente la posizione della casa di proprietà di Patrizio, dove Agostino visse da giovane e dove ritornò dopo il suo viaggio in Italia.

Alcuni archeologi la pongono a est della città attuale, in un'area compresa fra il Mausoleo di Sidi Messaoud e l'ospedale centrale. E' una zona costeggiata dall'oued Zerga, uno degli affluenti della Medjerda, il fiume principale di questa regione che in età punica si chiamava Bagradas. Di lì passa la strada che porta a Bou-Hadjar, l'antica località romana di Lamy.

Iscrizione cristiana proveniente dalla basilica di Tagaste

Iscrizione cristiana proveniente dalla basilica di Tagaste

 

 

L'olivo di sant'Agostino

A Tagaste si conserva un gigantesco olivo che da tempo è oggetto di culto e che viene chiamato, secondo la tradizione, l'olivo di sant'Agostino. Sfidando il tempo e gli anni continua i suoi rami continuano a fiorire e perpetuano il suo ricordo, resistendo all'oblio. Nel 2006 in occasione dei 750 anni di fondazione dell'Ordine agostiniano, da Tagaste è partita una fiaccolata internazionale che ha toccato Ippona, Cartagine (Tunisi), Malta, Roma, Allumiere, Ostia, Cagliari, Genova, Casei Gerola, Cassago, Milano e Pavia, tutte località legate alla vita del santo.

In tale circostanza il sindaco di Tagaste ha staccato un ramo da questo olivo per farlo consegnare a ogni sindaco dei paesi toccati dalla fiaccolata come simbolo di pace e di dialogo.

 

 

Il Museo di sant'Agostino

Il Museo che porta il suo nome è alloggiato nella cripta di una vecchia chiesa e conserva alcuni interessanti reperti archeologici. Ci sono delle statue in marmo che raffigurano Esculapio, Ercole e il dio Silvano.

Si possono osservare anche alcune stele votive dedicate al dio Saturno ornate da curiosi basso rilievi e varie iscrizioni funerarie, oltre a utensili di metallo o d'osso e alcuni gioielli.

 

 

Iscrizione cristiana

A Tagaste è stata rinvenuta una lapide cristiana che testimonia lo sviluppo del cristianesimo anche in questa cittadina romana di cui divenne vescovo Alipio, l'intimo amico di Agostino. L'iscrizione proviene dalla basilica di Tagaste e riporta la scritta:

BEATAM ECCLESIAM CATOLICAM EX OFICINA FORTUNATIM.

 

[SM=g1740738] 


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[SM=g1740720] IL GRIDO DELL'ANIMA


Come invocare Dio?

Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l'uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l'uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come chiedere, se prima nessuno dà l'annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo cercano, perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e ti invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. Ti invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l'opera del tuo Annunziatore ( 1, 1, 1).




Perché invocare Dio?

Ma come invocare il mio Dio, il Dio mio Signore? Invocarlo sarà comunque invitarlo dentro di me; ma esiste dentro di me un luogo, ove il mio Dio possa venire dentro di me, ove possa venire dentro di me Dio, Dio, che creò il cielo e la terra? C'è davvero dentro di me, Signore Dio mio, qualcosa capace di comprenderti? Ti comprendono forse il cielo e la terra, che hai creato e in cui mi hai creato? Oppure, poiché senza di te nulla esisterebbe di quanto esiste, avviene che quanto esiste ti comprende? E poiché anch'io esisto così, a che chiederti di venire dentro di me, mentre io non sarei, se tu non fossi in me? Non sono ancora negli inferi sebbene tu sei anche là, e quando pure sarò disceso all'inferno, tu sei là. Dunque io non sarei, Dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in me; o meglio, non sarei, se non fossi in te, poiché tutto da te, tutto per te, tutto in te. Sì, è così, Signore, è così. Dove dunque ti invoco, se sono in te? Da dove verresti in me? Dove mi ritrarrei, fuori dal cielo e dalla terra, perché di là venga in me il mio Dio, che disse: "Cielo e terra io colmo?" (1, 2, 2).



Cosa sei, Dio mio?

Cosa sei dunque, Dio mio? Cos'altro, di grazia, se non il Signore Dio? Chi è invero signore all'infuori del Signore, chi Dio all'infuori del nostro Dio? O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo, remotissimo e presentissimo, bellissimo e fortissimo, stabile e inafferrabile, immutabile che tutto muti, mai nuovo mai decrepito, rinnovatore di ogni cosa, che a loro insaputa porti i superbi alla decrepitezza; sempre attivo sempre quieto, che raccogli senza bisogno; che porti e riempi e serbi, che crei e nutri e maturi, che cerchi mentre nulla ti manca. Ami ma senza smaniare, sei geloso e tranquillo, ti penti ma senza soffrire, ti adiri e sei calmo, muti le opere ma non il disegno, ricuperi quanto trovi e mai perdesti; mai indigente, godi dei guadagni; mai avaro, esigi gli interessi; ti si presta per averti debitore, ma chi ha qualcosa, che non sia tua? Paghi i debiti senza dovere a nessuno, li condoni senza perdere nulla.
Che ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che dice mai chi parla di te? Eppure sventurati coloro che tacciono di te, poiché sono muti ciarlieri ( 1, 4, 4)



Tu sei la mia salvezza!

Chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali, e il mio unico bene abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io parli. E cosa sono io stesso per te, sì che tu mi comandi di amarti e ti adiri verso di me e minacci, se non ubbidisco, gravi sventure, quasi fosse una sventura lieve l'assenza stessa di amore per te? Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di' all'anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo, che io l'oda. Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, Signore. Aprile e di' all'anima mia: la salvezza tua io sono. Rincorrendo questa voce io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto. Che io muoia per non morire, per vederlo ( 1, 5, 5)




La mia anima è la tua casa

Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque; è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua vista, lo ammetto e ne sono consapevole; ma chi potrà purificarla, a chi griderò, se non a te: "purificami, Signore dalle mie brutture ignote a me stesso, risparmia al tuo servo le brutture degli altri"? Credo, perciò anche parlo. Signore, tu sai: non ti ho parlato contro di me dei miei delitti, Dio mio, e tu non hai assolto la malvagità del mio cuore? Non disputo con te, che sei la verità, e io non voglio ingannare me stesso, nel timore che la mia iniquità s'inganni. Quindi non disputo con te, perché, se ti porrai a considerare le colpe, Signore, Signore, chi reggerà? (1, 5, 6).




Signore, che io ti ami fortissimamente


Ascolta, Signore, la mia implorazione: non venga meno la mia anima sotto la tua disciplina, non venga meno io nel confessarti gli atti della tua commiserazione, con cui mi togliesti dalle mie pessime strade. Che tu mi riesca più dolce di tutte le attrazioni dietro a cui correvo; che io ti ami fortissimamente e stringa con tutto il mio intimo essere la tua mano; che tu mi scampi da ogni tentazione fino alla fine! Ecco, non sei tu, Signore, il mio re e il mio Dio ? Al tuo servizio sia rivolto quanto di utile imparai da fanciullo, sia rivolta la mia capacità di parlare e scrivere e leggere e computare (1, 15, 24).



Grazie, Signore, per i tuoi doni!

Eppure, Signore, a te eccellentissimo, ottimo creatore e reggitore dell'universo, a te Dio nostro grazie anche se mi avessi voluto soltanto fanciullo. Perché anche allora esistevo, vivevo, sentivo, avevo a cuore la preservazione del mio essere, immagine della misteriosissima unità da cui provenivo; vigilavo con l'istinto interiore sulla preservazione dei miei sensi, e persino in quei piccoli pensieri, su piccoli oggetti, godevo della verità; non volevo essere ingannato, avevo una memoria vivida, ero fornito di parola, mi intenerivo all'amicizia, evitavo il dolore, il disprezzo, l'ignoranza. Cosa vi era in un tale essere, che non fosse ammirevole e pregevole? E tutti sono doni del mio Dio, non lo li ho dati a me stesso. Sono beni, e tutti sono io. Dunque è buono chi mi fece, anzi lui stesso è il mio bene, e io esulto in suo onore per tutti i beni di cui anche da fanciullo era fatta la mia esistenza. Il mio peccato era di non cercare in lui, ma nelle sue creature, ossia in me stesso e negli altri, i diletti, i primati, le verità, così precipitando nei dolori, nelle umiliazioni, negli errori. , A te grazie dolcezza mia e onore mio e fiducia mia, Dio mio, a te grazie dei tuoi doni. Tu però conservameli, così conserverai me pure, e tutto ciò che mi hai donato crescerà e si perfezionerà, e io medesimo sussisterò con te, poiché tu mi hai dato di sussistere (1, 20, 31).



O mia gioia tardiva!


Assordato dallo stridore della catena della mia mortalità, con cui era punita la superbia della mia anima, procedevo sempre più lontano da te, ove mi lasciavi andare, e mi agitavo, mi sperdevo, mi spandevo, smaniavo tra le mie fornicazioni; e tu tacevi. O mia gioia tardiva, tacevi allora, mentre procedevo ancora più lontano da te moltiplicando gli sterili semi delle sofferenze, altero della mia abiezione e insoddisfatto della mia spossatezza (2, 2, 2).



Tu sei sempre vicino


Tu, Signore, regoli anche i tralci della nostra morte e sai porre una mano leggera sulle spine bandite dal tuo paradiso, per smussarle. La tua onnipotenza non è lontana da noi neppure quando noi siamo lontani da te (2, 2, 3).



Signore, che dài per maestro il dolore


Tu eri sempre presente con i tuoi pietosi tormenti, cospargendo delle più ripugnanti amarezze tutte le mie delizie illecite per indurmi alla ricerca della delizia che non ripugna. Dove l'avessi trovata, non avrei trovato che te, Signore, te, che dài per maestro il dolore e colpisci per guarire e ci uccidi per non lasciarci morire senza di te (2, 2, 4).



O Verità, Verità!


O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio cuore sospiravo verso di te, mentre quella gente mi stordiva spesso e in vario modo con il solo suono del tuo nome e la moltitudine dei suoi pesanti volumi. Nei vassoi che si offriva alla mia fame di te, invece di te si presentavano il sole e la luna, creature tue, e belle, ma pur sempre creature tue, non te stessa, anzi neppure le tue prime creature, poiché le precedono le creature spirituali, essendo queste corporee, sebbene luminose e celesti. Ma io neppure delle tue prime creature, bensì di te sola, di te, Verità non soggetta a trasformazione né ad ombra di mutamento, avevo fame e sete. Invece mi si ammannivano ancora su quei vassoi delle ombre baluginanti. Non sarebbe stato meglio rivolgere senz'altro il mio amore al vero sole, vero almeno per questi occhi, anziché a quelle menzogne, che attraverso gli occhi ingannavano lo spirito? Eppure io le ingoiavo, perché le credevo te, ma senza avidità, perché nella mia bocca non avevi il tuo reale sapore, non essendo davvero tu quelle insulse finzioni, e senza trarne un nutrimento, anzi un esaurimento sempre maggiore. Così il cibo dei sogni è in tutto simile a quello della veglia, eppure i dormienti non si nutrono, perché dormono. Ma i cibi che allora mi somministravano non erano nemmeno simili in nulla a te, quale ti conosco ora che mi hai parlato. Erano fantasmi corporei, corpi falsi. Sono più reali questi corpi veri, che vediamo con gli occhi della carne in cielo e in terra, che vediamo come le bestie e gli uccelli li vedono, eppure più reali di quanto li immaginiamo; ed anche immaginandoli li vediamo in modo più reale di quando muovendo da essi ne supponiamo altri maggiori e infiniti del tutto inesistenti, come le vanità di cui allora mi pascevo senza pascermi. Ma tu, Amore mio, su cui mi piego per essere forte, non sei né i corpi che vediamo, sia pure, in cielo, né quelli che non vi vediamo, essendo un frutto della tua creazione, e neppure tra i sommi nel tuo ordinamento. Quanto sei dunque lontano dalle mie fantasie di allora, fantasie di corpi sprovvisti di ogni realtà! Più reali di esse sono le rappresentazioni dei corpi esistenti, e più reali di queste i corpi medesimi, che pure tu non sei. Ma tu non sei neppure l'anima, che è la vita dei corpi, e la vita dei corpi è indubbiamente più alta e reale dei corpi. Tu sei la vita delle anime, la vita delle vite, vivente per tua sola virtù senza mai mutare, vita dell'anima mia (3, 6, 10).



Cosa sono io senza di te?


Cosa sono io per me stesso senza te, se non una guida verso il precipizio? e quando anche sto bene, cosa sono, se non uno che succhia il tuo latte e si nutre di te, vivanda incorruttibile? è chi è l'uomo, qualsiasi uomo, come uomo? Ci deridano pure i forti e i potenti; noi, deboli e bisognosi, ci confesseremo a te (4, 1, 1).



Ascolta il mio pianto

Ed ora, Signore, tutto ciò è ormai passato e il tempo ha lenito la mia ferita. Potrei ascoltare da te, che sei la verità, avvicinare alla tua bocca l'orecchio del mio cuore, per farmi dire come il pianto possa riuscire dolce agli infelici? o forse, sebbene ovunque presente, hai respinto lontano da te la nostra infelicità e, mentre tu sei stabile in te stesso, noi ci muoviamo in un seguito di prove? Eppure, se non potessimo piangere contro le tue orecchie, non rimarrebbe nulla della nostra speranza. Come può essere dunque che dall'amarezza della vita si coglie un soave frutto di gemiti, di pianto, di sospiri, di lamenti? La dolcezza nasce forse dalla speranza che tu li ascolti? Ciò accade giustamente nelle preghiere, perché sono animate dal desiderio di giungere fino a te; ma anche nella sofferenza per una perdita, in un lutto come quello che allora mi opprimeva? Io non speravo né invocavo con le mie lacrime il ritorno dell'amico alla vita, ma soffrivo e piangevo soltanto. Io ero infelice e la mia felicità più non era. O forse il pianto è una realtà amara e ci diletta per il disgusto delle realtà un tempo godute e ora aborrite? (4, 5, 10).



Dio delle virtù, volgiti a me

Dio delle virtù, rivolgi noi a te, mostra a noi il tuo viso, e saremo salvi. L'animo dell'uomo si volge or qua or là, ma dovunque fuori di te è affisso al dolore, anche se si affissa sulle bellezze esterne a te e a sé. Eppure non esisterebbero cose belle, se non derivassero da te. Nascono e svaniscono: nascendo cominciano, per così dire, a esistere, crescono per maturare, e appena maturate invecchiano fino a morire. Non tutte invecchiano, ma tutte muoiono... Ti lodi per quelle cose la mia anima, Dio creatore di tutto, ma senza lasciarsi in esse invischiare dall'amore, attraverso i sensi del corpo (4, 10, 15).




Ascolta, anima mia...


Non essere vana, anima mia, non assordare l'orecchio del cuore nel tumulto delle tue vanità. Ascolta tu pure: è il Verbo stesso che ti grida di tornare; il luogo della quiete imperturbabile è dove l'amore non conosce abbandoni, se lui per primo non abbandona. Qui invece lo vedi, ogni cosa dilegua per far posto ad altre e costituire l'universo inferiore nella sua interezza. "Ma io, dice il Verbo divino, mi dileguo forse da qualche parte?". Fissa dunque in lui la tua dimora, affida a lui quanto tieni da lui, anima mia finalmente stanca d'inganni; affida alla verità quanto ti viene dalla verità, e nulla perderai. Rifioriranno le tue putredini, tutte le tue debolezze saranno guarite, le tue parti caduche riparate, rinnovate, fissate strettamente a te stessa; anziché travolgerti nel loro abisso, rimarranno stabili e durevoli con te accanto a Dio eternamente stabile e durevole (4, 11, 16).



Fino a quando questo peso nel cuore?


lDiscese nel mondo la nostra vita, a vera, si prese sulle sue spalle la nostra morte e l'uccise con la sovrabbondanza della sua vita, ci gridò tuonando di tornare dal mondo a lui, nel sacrario onde venne a noi dapprima entrando nel seno di una vergine, ove gli si unì come sposa la creatura umana, la nostra carne mortale, per non rimanere definitivamente mortale; poi di là, come sposo che esce dal talamo, uscì con balzo di gigante per correre la sua via, e senza mai attardarsi corse gridando a parole e a fatti, con la morte e la vita, con la discesa e l'ascesa, gridando affinché tornassimo a lui; e si dipartì dagli occhi affinché tornassimo al cuore, ove trovarlo. Partì infatti, ed eccolo, è qui. Non volle rimanere a lungo con noi, e non ci ha lasciati. Partì verso un luogo da cui non si era mai dipartito, perché il mondo fu fatto per mezzo suo, e in questo mondo era, e venne in questo mondo a salvare i peccatori. La mia anima si confessa a lui, e lui la guarisce, perché ha peccato contro di lui. "Figli degli uomini, fino a quando questo peso nel cuore?. Anche dopo che la vita discese a voi, non volete ascendere a vivere? Dove ascendete, se siete già in alto e avete posto la bocca nel cielo? Discendete, per ascendere, e ascendere a Dio, poiché cadeste nell'ascendere contro Dio". Di' loro queste parole, anima mia, affinché piangano nella valle del pianto, e così rapiscili via con te fino a Dio. Lo spirito di Dio t'ispira queste parole, se nel parlare ardi col fuoco della carità (4, 12, 19).



Tu, ci proteggi e ci sorreggi

O Signore Dio nostro, noi si speri nella copertura delle tue ali, e tu proteggi noi, sorreggi noi. Tu ci sorreggerai, e da piccoli e ancora canuti ci sorreggerai. La nostra fermezza, quando è in te allora è fermezza; quando è in noi, è infermità. Il nostro bene vive sempre accanto a te, e nell'avversione a te è la nostra perversione. Volgiamoci tosto indietro, Signore, per non essere sconvolti. Il nostro bene vive indefettibilmente accanto a te, perché tu medesimo lo sei, e non temiamo di non trovare al nostro ritorno il nido da cui siamo precipitati. La nostra casa non precipita durante la nostra assenza: è la tua eternità (4, 16, 31).


*Le Confessioni



Dio sia lodato! :wub:

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Dio è Amore

Fraternamente CaterinaLD

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