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Sacerdoti, riscopriamo insieme l'uso degli ABITI LITURGICI e della stessa LITURGIA SACRA

Ultimo Aggiornamento: 15/02/2012 11:18
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25/08/2010 11:48
 
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Che cosa è un rito?



di padre Hani Bakhoum Kiroulos

ROMA, martedì, 24 agosto 2010 (ZENIT.org).- Il termine “rito” non è una innovazione della cristianità, ma è stato ripreso dalla Chiesa ed è stato utilizzato con tutta la sua ricchezza e la sua ambiguità.

Rito e liturgia

Il termine “rito” ha sempre avuto un senso religioso legato alla sfera liturgica che rimane fino ai nostri giorni. Già la Vulgata faceva di tale termine un sinonimo di cerimonia, di prescrizioni e dei costumi legati alla liturgia.

Con il “rito” la Chiesa indicava all’inizio la prassi di una certa liturgia, come il rito dell’aspersione dell’acqua o il rito di aggiungere l’acqua nel vino nella Santa Messa. Poi inizia ad indicare una cerimonia di culto, cioè tutta la funzione liturgica, come il rito del battesimo e il rito della messa ad esempio; o addirittura, indicava con il termine “rito”, l’insieme della liturgia stessa, come il rito romano, il rito ambrosiano a Milano[1].

Rito tra legge e disciplina

Alla fine del secolo XII, con Celestino III (1191- 1198), il termine “rito” viene usato per indicare l’insieme di leggi o dei costumi da rispettare e da osservare attentamente. Celestino III, infatti, impediva il mischiare dei vari riti ai Vescovi greci che cercavano di imporre l’osservanza dei loro riti e costumi al clero latino.

In seguito, il termine inizia a indicare tutta la comunità che osserva tali leggi, disciplina e liturgia. Appare, dunque, il senso di “chiesa particolare”.

Rito e chiesa particolare

Dal secolo XVII si inizia a parlare del rito Latino, del rito Armeno e del rito Greco. Appare, dunque, questo nuovo significato del termine “rito” come chiesa particolare.

La prima codificazione orientale continua ad usare il termine “rito” nei vari sensi seguendo il codice del 1917. Ad esempio, il Motu Proprio Cleri Sanctitati[2] di Pio XII nel can. 200 adopera il termine “rito” nel senso di cerimonia liturgica. Il Motu Proprio Crebrae Allatae[3], invece, nel can. 86 § 1. 2° col termine “rito” indica i fedeli che appartengono ad una chiesa particolare.

Dal Vaticano II al Codice dei Canoni delle Chiese Orientali

Il Concilio adopera il termine “rito” in due modi diversi - o per meglio dire - in due modi complementari[4]. Nel primo il Concilio Vaticano II apre una nuova dimensione al termine “rito” dandogli una nuova definizione. Nel secondo modo lo stesso Concilio adopera il termine “rito” col suo senso già ricevuto dal passato.

Da una parte il decreto conciliare Orientalium Ecclesiarum[5], che è un decreto sulle Chiese Orientali, al n° 3 dà una definizione ben precisa del termine “rito”: “Queste Chiese particolari, sia dell'Oriente che dell'Occidente, sebbene siano in parte tra loro differenti in ragione dei cosiddetti riti - cioè per liturgia, per disciplina ecclesiastica e patrimonio spirituale”[6]. Si nota, dunque, che con il termine “rito” si indica l’insieme del patrimonio liturgico, disciplinare e spirituale di una chiesa particolare. Definendo così il termine “rito” il concilio prolunga il suo senso ricevuto già dal passato e attribuisce ad esso un senso canonico.

Il Concilio Vaticano II continua ad adoperare il termine “rito” indicando anche l’insieme degli atti liturgici o la loro funzione stessa, ad esempio: nel n°71 del SC[7] adopera l’espressione “rito della Confermazione”; nel n°19 del PO[8] “rito dell’Ordinazione” etc.

Dall’altra il Concilio Vaticano II adopera il termine “rito” come sinonimo di “chiesa particolare”. Infatti, il decreto conciliare Orientalium Ecclesiarum, ai nn. 2, 3, 4 e, anche, nel titolo del paragrafo usa questa espressione: “Le Chiese Particolari o i Riti”. Per il Concilio Vaticano II, dunque, il termine “rito” è una espressione con cui si intende anche “la chiesa particolare”.

In seguito, il Codex Iuris Canonici[9] del 1983 semplifica la terminologia dando un solo e unico senso al termine “chiesa particolare”. Con la chiesa particolare nel Codex Iuris Canonici si intende solo la diocesi. Mentre con il termine “rito” si intendono le celebrazioni liturgiche, come è affermato dal can. 2.

Per le Chiese Orientali che sono in comunione con Roma il Codex Iuris Canonici, in diversi canoni, usa il termine “chiesa rituale sui iuris. Si nota, anche, che il Codex Iuris Canonici continua ad adoperare il termine “rito” per indicare una chiesa orientale.

Nel Codice dei Canoni delle Chiese Orientali il can. 28 § 1, dà una definizione ben precisa della nozione “rito”:

Il rito è il patrimonio liturgico, teologico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris.

Si nota da questo canone che il rito diventa il patrimonio di un gruppo. Tale patrimonio non è comune, dunque, a tutte le chiese orientali: ciascuna ha il suo.

Il rito è un patrimonio che ha quattro elementi essenziali: liturgico e teologico, spirituale e disciplinare. Esso è deposito e totalità di una comunità religiosa nel suo insieme.

La nozione “rito”, in questo modo, riceve una ricchezza e chiarezza per la prima volta nella storia della chiesa. Diventa il modo di un popolo di vivere la propria fede.

Il Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium non si ferma solo a definire la nozione “rito”, anzi, per evitare qualsiasi ambiguità, stabilisce la loro nascita e origine:

28 § 2. I riti di cui si tratta nel Codice sono, a meno che non consti altrimenti, quelli che hanno origine dalle tradizioni Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea e Costantinopolitana

Cinque sono le tradizioni, le matrici, di tutti i riti. La tradizione è l’origine del rito. La stessa tradizione, addirittura, potrebbe essere l’origine di vari riti diversi.

Concludendo si nota che nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium la nozione “rito” prende il senso di patrimonio e con esso si esprime il modo di un gruppo di vivere la propria fede nella sua totalità liturgica, spirituale, culturale e disciplinare.


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1) Cfr. E. EID, Rite, Église de Droit Propre e Juridiction, in L’année canonique, 40 (1998), 7.

2) AAS, 49 (1957) 433- 600.

3) AAS, 41 (1949) 89- 117.

4) Cfr. E. EID, Rite, Église de Droit Propre e Juridiction, 9.

5  5) CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Decretum de Ecclesiis Orientalibus Catholicis, Orientalium Ecclesiarum, (21.XII. 1964), in AAS, 57 (1965), 76- 89.

6) OE 3.

7) CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Constitutio de Sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium, (4. XII. 1963), in AAS, 56 (1964) 97- 138.

8) CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Decretum de Presbyterorum Ministerio et Vita, Presbyterorum Ordinis, (7. XII. 1965), in AAS, 58 (1966) 991- 1204.

9) I. PAULI II PP., Codex Iuris Canonici, in AAS, 75 (1983), pars II, 1– 317.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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