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Enciclica Communium Rerum (21 Aprile 1909)

Ultimo Aggiornamento: 14/10/2009 10:51
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14/10/2009 10:07
 
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A voi spetta dunque, venerabili fratelli, che la divina provvidenza ha costituito pastori e guide del popolo cristiano, a voi spetta il resistere fortissimamente contro questa funestissima tendenza della moderna società di addormentarsi in una vergognosa inerzia, tra l’imperversare della guerra contro la religione, cercando una vile neutralità, fatta di deboli ripieghi e di compromessi, tutto a danno del giusto e dell’onesto, immemore del detto chiaro di Cristo: Chi non è con me, è contro di me [45]. Non già che i ministri di Cristo non debbano abbondare in carità paterna, poiché ad essi massimamente si riferiscono le parole dell’apostolo: Mi sono fatto tutto a tutti per tutti far salvi [46]; non già che non convenga cedere anche talora dello stesso proprio diritto, per quanto è lecito ed è richiesto dal bene delle anime. Di tale mancanza certo non cade il sospetto in voi, che siete spronati dalla carità di Cristo. Ma è questo un equo condiscendere, che si fa senza detrimento anche minimo del dovere, né tocca affatto i princìpi immutabili ed eterni della verità e della giustizia.

Così leggiamo che avvenne nella causa di Anselmo, o piuttosto nella causa di Dio e della Chiesa, per cui Anselmo ebbe a sostenere così lunghe e così aspre lotte. Sicché, composto alfine il lungo dissidio, scriveva a lui il Nostro Predecessore Pasquale II: Noi crediamo che si sia ottenuto appunto in grazia della tua carità e per l’insistenza delle tue orazioni, che la misericordia divina in questa parte volgesse lo sguardo a quel popolo, al quale presiede la tua sollecitudine. — E quanto alla pietosa condiscendenza, usata dal Pontefice verso i colpevoli, soggiungeva: Quanto poi all’aver tanto accondisceso, sappi che si è fatto per tale affetto e compassione, che noi possiamo rialzare quelli che erano a terra. Poiché se chi sta in piedi porge la mano al caduto per rialzarlo, non lo rialzerà mai, se non si pieghi egli pure alquanto. Del resto, quantunque il piegarsi paia un avvicinarsi alla caduta, non perde tuttavia l’equilibrio della rettitudine [47].

Ma nel far Nostre queste parole del Nostro piissimo Predecessore, dette a consolazione di Anselmo, non vogliamo dissimulare il sentimento vivissimo del pericolo, che apprendono anche gli ottimi fra i pastori della Chiesa, di trascorrere oltre il giusto o nella condiscendenza o nella resistenza. E di tale apprensione sono argomento altresì le ansie, le trepidazioni, le lagrime di uomini santissimi, i quali maggiormente sentivano la terribile gravità del governo delle anime e la grandezza del pericolo. Ma n'è argomento sopra tutto la vita di Anselmo, il quale, strappato alla solitudine della vita claustrale e degli studi, per essere sollevato a dignità altissima in tempi difficilissimi, si trovò in preda alle più tormentose sollecitudini e angosce, fra cui nulla più temeva che di non fare abbastanza per la salute dell’anima sua e del suo popolo, per l’onore di Dio e della sua Chiesa. Né fra tali ansietà sbattuto e di più vivamente addolorato per l’abbandono colpevole di molti anche fra i confratelli dell'episcopato, trovava egli altro maggiore conforto che nella fiducia in Dio e nel ricorso alla sede apostolica. Quindi posto nel naufragio ..., e al rompere delle tempeste, si rifugiava nel seno della Chiesa madre sua, invocando dal Pontefice Romano pietoso e pronto l'aiuto e il conforto [48]. E perciò forse permise Iddio in un tanto uomo, pieno pure di sapienza e di santità, sofferenze così angosciose, perché fosse a noi di conforto insieme e di esempio fra le maggiori difficoltà e le angustie del ministero pastorale, si ché si avveri in ciascuno di noi il sentimento di Paolo: Volentieri mi glorierò nelle mie infermità, affinché abiti in me la potenza di Cristo. Per il che mi compiaccio nelle mie infermità ... poiché quando sono debole, allora sono potente [49]. Né alieni da questi sono i sentimenti che Anselmo esprimeva ad Urbano II: Santo Padre, sono addolorato di essere quello che sono; addolorato di non essere quello che fui: sono addolorato di essere vescovo, perché, in causa dei miei peccati, non compio l’officio di vescovo. In umile stato mi pareva di fare qualche cosa; posto in luogo sublime, aggravato da peso stragrande, non faccio frutto per me e non sono utile ad alcuno. Io soccombo al peso, perché più di quanto sembri credibile, soffro penuria di forze, di virtù, d’industria, di scienza, convenevoli a tanto officio. Bramo di fuggire la cura insopportabile, di lasciare il peso: temo al contrario di offendere Dio. Il timore di Dio mi sforzò ad accettare, il timore stesso mi sforza a ritenere lo stesso peso... Ora, poiché la volontà di Dio mi è occulta, e io non so che fare, vado errando fra sospiri e non so come mettere fine a questo affare [50].

Così suole Iddio far sentire anche agli uomini santi la debolezza nativa per meglio manifestare in essi la forza della virtù divina, e, col sentimento umile e verace della insufficienza individuale, mantenere più salda l’adesione concorde all’autorità della Chiesa. E ciò si vede appunto in Anselmo e in altri vescovi suoi contemporanei, che combatterono a difesa della libertà e dottrina della Chiesa sotto la guida della sede apostolica. Essi riportarono per frutto della loro obbedienza la vittoria nella lotta, confermando col loro esempio la sentenza divina, che l’uomo obbediente canterà vittoria [51]. E la speranza di tale premio risplende a quelli sopra tutto che obbediscono a Cristo nel suo vicario in quelle cose tutte che si riferiscono o al reggimento delle anime o al governo della Chiesa o che vi sono in qualche modo congiunte: giacché dall’autorità della Sede Apostolica dipendono le direzioni e i consigli dei figliuoli della Chiesa [52].

In questo genere di virtù quanto si sia segnalato Anselmo, con quale ardore e fedeltà abbia conservato sempre unione perfetta con la sede apostolica, si può anche argomentare da ciò che si legge scritto da lui allo stesso Pontefice Pasquale: Con quanto studio la mia mente secondo il suo potere, si stringa nella riverenza e nell’ubbidienza alla sede apostolica, lo attestano le molte e gravissime tribolazioni del mio cuore, note a Dio solo e a me... Da tale intenzione spero in Dio non esservi cosa che valga a ritrarmi. Perciò, in quanto mi è possibile, voglio rimettere tutti gli atti miei alla disposizione dell’autorità stessa, perché li diriga e, ove sia bisogno, li corregga [53].

E la medesima fermezza di volontà ci mostrano le azioni, gli scritti, le lettere particolarmente di lui che il nostro Predecessore Pasquale disse scritte con la penna della carità [54]. Ma nelle sue lettere al Pontefice egli non implora solo pietoso aiuto e conforto [55], ma promette preghiera assidua con parole tenerissime di affetto filiale e di fede inconcussa, come quando, ancora abate di Bec scriveva a Urbano II: Per la tribolazione vostra e della Chiesa romana, che è tribolazione nostra e di tutti i veri fedeli, non smettiamo di pregare Dio assiduamente, perché mitighi a voi i giorni cattivi, finché sia scavata al peccatore la fossa. E noi siamo certi, ancorché sembri a noi ritardare, che Dio non lascerà lo scettro dei peccatori sopra l’eredità dei giusti; che non abbandonerà la sua eredità, e che le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei [56].

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