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Enciclica Communium Rerum (21 Aprile 1909)

Ultimo Aggiornamento: 14/10/2009 10:51
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14/10/2009 10:51
 
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Senza rammemorare qui partitamente tutte le condizioni intellettuali del clero e del popolo in quell’età lontana, era pericoloso singolarmente un doppio eccesso a cui trascorrevano gl’ingegni.

Alcuni più leggeri e vanitosi, nutriti di una superficiale erudizione, si gonfiavano oltre ogni credere, nella loro indigesta cultura. Quindi sedotti per una larva di filosofia e di dialettica vuota e fallace, che passava sotto nome di scienza, sprezzavano le autorità sacre, con nefanda temerità osavano disputare contro l’uno o l’altro dei dogmi che la fede cristiana professa ... e con insipiente orgoglio giudicavano piuttosto non essere possibile quanto non potevano intendere, anziché confessare con umile sapienza potervi essere molte cose che essi non valevano a comprendere. ... Sogliono infatti certuni, appena hanno incominciato quasi a mettere fuori le corna di una scienza presuntuosa di sé — non sapendo che se alcuno stima di sapere qualche cosa, non ha conosciuto ancora in qual modo egli lo debba sapere, — prima che abbiano messe le ali spirituali mediante la sodezza della fede, levarsi con presunzione alle questioni più alte della fede. Onde avviene che, mentre ... sregolatamente si sforzano di ascendere innanzi tempo per via dell’intelligenza, per difetto dell’intelligenza stessa siano portati a discendere in moltiformi errori [60]. E di simili abbiamo gli esempi tristissimi e numerosi sotto gli occhi ancor oggi!

Altri al contrario, timidi o neghittosi, spaventati per giunta dal naufragio di molti nella fede e dal pericolo della scienza che gonfia, andavano fino ad escludere ogni uso di filosofia, se non anche ogni studio di ragionata discussione nelle dottrine sacre.

Fra i due eccessi sta di mezzo la usanza cattolica, la quale, come detesta la presunzione dei primi (rimproverata da Gregorio IX nell’età susseguente), i quali, gonfi come otri dallo spirito di vanità, (giusta il parlare di Gregorio IX nell'età susseguente) si sforzano più del debito di stabilire la fede con ragione naturale, adulterando la parola di Dio con fantasie di filosofi [61], così riprova la negligenza dei secondi, troppo alieni dagli studi razionali, e noncuranti di far profitto per via della fede sull’intelligenza [62], massime quando loro spetti per debito di officio il difendere la fede cattolica contro gli errori insorgenti da ogni parte.

A siffatta difesa ben si può dire che sia stato da Dio suscitato Anselmo per additare con l’esempio, con la voce, con gli scritti la via sicura, a comune vantaggio schiudere le fonti della sapienza cristiana ed essere guida e norma di quei maestri cattolici che dopo di lui insegnarono le sacre lettere col metodo della scuola [63]. Sicché egli non a torto fu stimato e celebrato come il loro precursore.

Né con ciò vuole intendersi che il dottore di Aosta abbia raggiunto di primo tratto il colmo della speculazione teologica o filosofica, ovvero anche la fama dei due sommi maestri Tommaso e Bonaventura. I frutti posteriori della sapienza di questi ultimi non maturarono se non col tempo e mediante il concorso delle fatiche di molti dottori. Anselmo stesso, modestissimo, com’è proprio dei veri sapienti, del pari che dotto e perspicace, ebbe mai a pubblicare alcuno dei suoi scritti se non per occasione data, o per impulso altrui, e in essi protesta che se qualche cosa vi sia da correggere, egli non ricusa la correzione, anzi, quando la questione è controversa né connessa alla fede, non vuole che il discepolo aderisca per tal modo alle cose che ha detto da ritenerle pertinacemente, anche quando altri con più validi argomenti sapesse distruggere queste e stabilire opinioni diverse; il che se avvenisse, basterà che non neghi aver giovato le cose dette a esercizio di discussione [64].

Ma pure Anselmo ottenne più che non sperasse egli o che altri presumesse: ottenne tanto che la gloria dei susseguenti Dottori e dello stesso Tommaso d’Aquino non oscurò la gloria del predecessore, anche quando l’Aquinate non ne abbia accettate le conclusioni tutte, o veramente vi abbia aggiunto compimento e precisione. Anselmo ebbe il merito di aprire il sentiero della speculazione, di allontanare i sospetti dei timidi, i pericoli degli incauti, i danni dei rissosi e sofisti, o dialettici ereticali, del suo tempo, come li denomina egli giustamente, nei quali la ragione era schiava dell’immaginazione e della vanità [65].

Contro questi ultimi egli osserva che, mentre tutti sono da avvertire che si accostino con cautela grandissima alle questioni della Scrittura sacra, questi dialettici del tempo nostro sono da rimuovere del tutto dalla discussione di questioni spirituali. E la ragione che ne assegna è più che mai opportuna a quelli che li imitano ora sotto i nostri occhi, ricantandone gli errori: Nelle loro anime, infatti, la ragione che deve essere principe e giudice di quante cose sono nell’uomo, si trova così involta nelle immaginazioni corporali, che da queste non può districarsi, né vale a sceverare da esse le cose che ella sola e pura deve contemplare [66]. Né meno opportunamente ai nostri tempi egli deride codesti falsi filosofi, i quali, perché non possono capire ciò che credono, disputano contro la verità della fede stessa, confermata dai santi padri, come se pipistrelli e civette, che non vedono il cielo se non di notte, disputassero dei raggi del sole nel suo meriggio, contro aquile che fissano il sole senza battere ciglio [67]. Quindi pure egli condanna qui e altrove [68] la perversa opinione di coloro che troppo concedendo alla filosofia, le attribuivano il diritto d’invadere il campo della teologia. A tale stoltezza opponendosi egli, accenna bene i confini propri dell’una e dell’altra e insinua abbastanza quale sia l’officio della ragione nelle cose della fede: La nostra fede, egli dice, si ha da difendere per via di ragione contro gli empi. — Ma in qual modo e fino a qual segno? Ci è chiarito dalle parole che seguono: Si deve mostrare ad essi ragionevolmente quanto essi ci disprezzino irragionevolmente [69]. Precipuo officio della filosofia è quello pertanto di dimostrare la ragionevolezza della nostra fede e il dovere, che ne consegue, di credere all’autorità divina che ci propone misteri altissimi, i quali, per la testimonianza dei tanti segni di credibilità, sono oltremodo degni di fede. Assai diverso è l’officio proprio della teologia cristiana, la quale si fonda sopra il fatto della rivelazione divina e rende più solidi nella fede quelli che già professano di godere dell’onore del nome cristiano. Onde è ben chiaro che nessun cristiano deve disputare come non sia ciò che la Chiesa cattolica crede col cuore e confessa con la bocca; ma tenendo sempre indubitatamente la stessa fede, amando e vivendo secondo essa, deve cercare, per quanto può, la ragione come sia. Se può capire, renda grazie a Dio; se non può, non impunti le corna a cozzare, ma abbassi il capo a venerare [70].

Quando dunque i teologi cercano e i fedeli chiedono ragioni intorno alla nostra fede, non è per fondare in esse la loro fede, che ha per fondamento l’autorità di Dio rivelante; ma tuttavia, secondo il parlare di Anselmo, come il retto ordine esige che noi crediamo le profondità della fede cristiana prima che presumiamo di discuterle con la ragione, così pare a me negligenza se dopo che siamo confermati nella fede, non ci studiamo d’intendere ciò che crediamo [71]. E intende qui Anselmo di quella intelligenza della quale parla il concilio Vaticano [72]. Poiché, com’egli dimostra altrove, benché dopo gli apostoli molti nostri santi padri e dottori dicano tante e così grandi cose della ragione di nostra fede, ... non poterono tuttavia dire tutte le cose che avrebbero potuto, se fossero vissuti più a lungo; e la ragione della verità è così ampia e così profonda che dai mortali non si può esaurire; il Signore non cessa d’impartire i doni della sua grazia nella sua Chiesa, con la quale promette di essere fino alla consumazione del secolo. E per tacere di altri passi nei quali la Scrittura sacra ci invita a investigare la ragione, in quello ove dice che se non crederete, non capirete, ci ammonisce apertamente di estendere l’intento all’intelligenza, mentre ci insegna come dobbiamo ad essa avanzarci . Neppure va trascurata l’ultima ragione che egli soggiunge: Tra la fede e la visione c’è di mezzo l’intelligenza, che possiamo avere in questa vita, e quanto più alcuno in essa profitta, tanto più si accosta alla visione, alla quale tutti aneliamo [73].

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