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Il dramma dell'educazione

Ultimo Aggiornamento: 16/07/2016 10:40
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27/10/2009 18:06
 
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Paideia e università

Il dramma dell'educazione



Pubblichiamo parte della prolusione tenuta dal cardinale patriarca di Venezia per il "Dies Academicus 2009-2010" della Pontificia Università Salesiana celebrato a Roma il 27 ottobre. Sul sito www.angeloscola.it  si può leggere il testo integrale.



di Angelo Scola


Dall'inizio della sua esistenza e poi per tutta la vita, l'uomo si trova "gettato" in una trama di rapporti decisivi - a partire da quelli con i genitori, coi fratelli, coi nonni e oggi sempre più spesso coi bisnonni. Il suo impatto con la realtà avviene all'interno di queste relazioni buone attraverso le quali è la stessa struttura intelligibile del reale a suggerire il metodo più adeguato per ogni avventura educativa. Se è il reale a offrirsi al soggetto, compito dell'educatore sarà quello di introdurre l'educando a una esperienza integrale della realtà che lo guidi a decifrarne il significato.

Nel suo regalarsi alla mia libertà, la realtà mostra dunque di possedere già un lògos, è intelligibile, come già affermava il realismo classico. Ciò domanda che l'io eviti di elaborare, in modo astratto (ab-tractus/separato), una conoscenza da cui debbano poi scaturire delle applicazioni pratiche. La realtà, offrendosi per farsi conoscere, domanda invece un atto di decisione del soggetto. E così mette in luce la natura di persona del soggetto stesso. Infatti è proprio l'atto "il particolare momento in cui la persona si rivela".
 
Ci troviamo al cuore di quella che Giovanni Paolo II e von Balthasar definiscono un'"antropologia adeguata". Un'antropologia consapevole del fatto che quando l'uomo inizia a riflettere su di sé e sul reale può farlo solo dall'interno del suo "esserci":  "Possiamo interrogarci sull'essenza dell'uomo soltanto nel vivo atto della sua esistenza. Non esiste antropologia al di fuori di quella drammatica".

Questo stesso fatto ha un'ulteriore conseguenza. Uno dei tratti propri dell'"esserci" del soggetto nel mondo è la sua obiettiva impossibilità di fare completa astrazione dalla tradizione nella quale egli si trova inserito, e che gli si manifesta, innanzitutto, nella forma del suo essere parte di una catena di generazioni. Lungi dal costituire un ostacolo ad una effettiva educazione e ad un pieno sviluppo della ragione - come il pensiero illuministico ci ha per troppo tempo spinto a pensare -, la tradizione offre all'educando un imprescindibile termine di paragone da spendere nel suo confronto con il reale.

Essa è il terreno fertile da cui germoglia l'ipotesi vitale di significato da verificare nel corso della vita e senza la quale una vera e propria conoscenza non è tecnicamente possibile. In quanto "luogo di pratica e di esperienza", secondo la felice definizione di M. Blondel, la tradizione favorisce, come diceva Giovanni Paolo II, la scoperta della "genealogia" della persona che non è mai riducibile alla sua pura "biologia". Garantisce quell'esperienza compiuta di paternità-figliolanza senza la quale non si dà la persona con la sua capacità di esperienza e di cultura.

Avendo così indirettamente individuato l'insostituibile apporto della libertà umana, sempre storicamente situata, alla paideia, possiamo legittimamente accennare al fattore "critico" insito in ogni proposta educativa. Mi riferisco alla categoria di rischio.
Il rischio non è irrazionalità, ma affiora nella sempre possibile scissione tra il giudizio della ragione e l'atto di volontà. Nell'incontro del suo io tutto intero con tutta la realtà l'educando fa l'esperienza del rischio perché, pur percependo l'intrinseca positività della realtà stessa, può rimanere bloccato nell'adesione ad essa fino ad abbandonarsi alla tentazione dello scetticismo. In questa prospettiva il rischio non è risparmiato neanche all'educatore che, nel comunicare all'educando l'ipotesi interpretativa che egli ritiene più appropriata per spiegare il reale, è chiamato ad auto-esporsi e quindi a rischiarsi.

Per questa ragione l'educazione ha una natura eminentemente dialogica. Domanda sempre uno scambio tra l'"io" - l'educatore che propone e si propone - e il "tu" - l'educando che viene introdotto alla realtà totale. E questo scambio avviene, costitutivamente, all'interno della trama di relazioni in cui educatore ed educando sono sempre inseriti. Questo dialogo si realizza solo a condizione che, nel continuo e serrato paragone con il reale, venga messa in gioco la libertà di entrambi. Esso mostra inoltre la natura "drammatica" del compito dell'educatore, il quale, spesso tentato di risparmiare all'educando il negativo, può, anche senza volerlo, giungere fino ad impedirgli di essere irriducibilmente "altro"  e  quindi integralmente  "li- bero".
Il rischio (educativo) del possesso può essere battuto in breccia solo da quella che, insieme alla libertà, rappresenta un'altra dimensione costitutiva di ogni impresa educativa:  l'amore.

L'amore offerto all'educando, e che a sua volta muove l'educando a un appassionato confronto con il mondo che lo circonda, ha due volti. Quello dell'educatore, che offre e comunica tutto se stesso nel testimoniare la verità come quell'ipotesi vitale di interpretazione della realtà che egli ha fatto propria; quello della realtà stessa, che, attestandosi come dono, è ultimamente segno del Mistero che si rivela a tutti gli uomini. E la dinamica con cui la realtà si racconta non si esaurisce mai perché, alla fine, esprime l'amore con cui l'amato (l'uomo) e l'amante (il Mistero) incessantemente si interrogano.

Quando l'ipotesi unitaria e vitale di interpretazione della realtà è l'evento di Gesù Cristo che si comunica nella traditio eucaristica della Chiesa, allora essa appare inscindibilmente connessa con la virtù cristiana della carità. San Giovanni Bosco ha ben descritto quale sia il caposaldo dell'educazione:  "Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore(...) Ricordatevi che l'educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l'arte, e non ce ne mette in mano la chiave". Queste parole sono nutrite ultimamente dalle relazioni intratrinitarie tra Padre e Figlio e Spirito che, per le missioni del Figlio e dello Spirito, assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù col Padre (cfr. Vangelo di Giovanni) e con lo Spirito. Esse dicono dell'impossibilità di essere padri ed educatori se prima non ci si riconosce figli. Non dico:  se non si riconosce di "essere stati figli", bensì proprio di "essere figli", qui e ora, di quel Padre che è fonte di ogni paternità e che in Cristo "ci ha scelti prima della creazione del mondo (...), predestinandoci a essere suoi figli adottivi".

Indicati i tratti di una paideia come introduzione di tutta la persona alla realtà totale, possiamo ora domandarci in che misura l'università sia in grado di rispondere a questo compito.

A partire dall'epoca moderna l'università in ambito euroatlantico pratica di fatto l'esclusione dei saperi connessi con tutte le questioni ultime, specie se lette nella prospettiva della rivelazione, perché sono ritenute estranee a una rigorosa conoscenza scientifica. "L'umanità preferirà rinunciare ad ogni domanda filosofica piuttosto che accettare una filosofia che trova la sua ultima risposta nella rivelazione di Cristo".

Questa pesante emarginazione non si perita più, come un tempo, di mettere in discussione la legittimità delle questioni e delle domande circa le cose ultime (Comte). Piuttosto nega la possibilità che la teologia, e anche la filosofia intesa in senso pieno, possano rispondervi adeguatamente. Oggi sarebbe deputata a farlo, al loro posto, la tecnoscienza, la quale viene da più parti considerata l'unica depositaria della verità, sempre falsificabile (Popper), circa l'uomo e i fattori fondamentali della sua esistenza:  l'amore, la nascita, la morte. È evidente come entrino qui in gioco radicali cambiamenti che hanno una stretta connessione con la questione educativa.

In questo quadro di rapida e affannosa transizione, come può la formazione universitaria essere pedagogicamente appropriata e non venir meno alla vocazione stessa della uni-versitas, cioè di luogo in cui i saperi vengono ricondotti a un unico principio sintetico di spiegazione della realtà? In passato questo ruolo di sintesi era toccato alla teologia, il cui metodo e i cui risultati facevano da orizzonte per le altre scienze. Nell'epoca moderna, declinato il ruolo della teologia, ridotta al rango di una disciplina fra le altre e in molte parti espulsa dall'università, non decade tuttavia l'istanza di unificazione del reale.

Ma oggi il principio che assicuri l'universitas come comunità di ricerca non è più ricavato dall'accordo su un nucleo centrale di questioni ultime - sempre allo stesso tempo filosofiche e religiose - ma poggia sul consenso prodottosi intorno alle procedure di ricerca. La scientificità che accomuna le discipline universitarie non attiene più direttamente all'oggetto della conoscenza, cioè alla verità, ma solo alla metodologia di formulazione del discorso scientifico stesso. Inevitabile conseguenza di questo approccio è che l'università cessa di essere luogo di ricerca e verifica di un'ipotesi veritativa ultima, e perciò di reale paideia, per ridursi unicamente a luogo di trasmissione di competenze che, pur non rinunciando a dire "qualcosa" di sempre provvisorio circa la verità - pensiamo al bìos, o alla "formazione dell'universo" - possiede solo un'utilità strumentale.

Ci troviamo qui di fronte ad un concetto di ragione estremamente limitato, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il lògos umano. Possiamo infatti individuare, sulla scorta di quanto già diceva Aristotele, almeno cinque forme, differenziate e irriducibili, di razionalità:  teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica).

Tutte queste dimensioni dovrebbero essere armonicamente e unitariamente coltivate dall'università.
Certo, nell'attuale panorama educativo non si può non tenere nella dovuta considerazione il fatto che il sistema universitario è per sua natura basato su una complessa articolazione di specifici programmi curriculari e di discipline differenziate. Può pertanto apparire irrealistico perseguire in tempi ragionevoli l'individuazione di nuove basi per l'unità dell'oggetto del sapere, tanto più che va mantenuto il legittimo, e anzi necessario, rispetto per lo statuto particolare delle singole discipline secondo il principio popperiano di demarcazione. Tuttavia quella del superamento della frammentarietà dell'oggetto del sapere è un'istanza oggi più sentita che sta conducendo cultori di molte materie a non limitarsi alla pura interdisciplinarietà.

A maggior ragione però, di fronte a una tale situazione, una adeguata educazione universitaria non potrà rinunciare da subito alla cura dell'unità del soggetto del sapere. Ma su cosa fondare oggi l'unità del soggetto? Saggezza chiede che, senza confondere il nuovo con l'inedito, anche nel tempo presente si riconosca che essa si realizza a partire dall'assunzione di un'ipotesi esplicativa vitale del reale, che consenta di percepirlo nella sua totalità e di goderne. Non si tratta di un puro esercizio intellettualistico, ma di un'esigenza che si impone ad ogni ricercatore e ad ogni docente e studente che sia lealmente impegnato con la sua materia di ricerca, di insegnamento e di studio.

Ogni disciplina, infatti, contiene al fondo una domanda di senso e di significato e perciò prima o poi suscita le irrinunciabili questioni che da sempre agitano il cuore dell'uomo:  Chi sono io? Da dove vengo? Quale destino mi aspetta? Chi alla fine mi assicura amandomi definitivamente - oltre la morte stessa?

Le possibilità che uno sguardo unitario sul reale è in grado di dischiudere a un intelletto commosso sono ben descritte dalle parole assai attuali del cardinale J.H.Newman:  "Non c'è vero allargamento dello spirito se non quando vi è la possibilità di considerare una molteplicità di oggetti da un solo punto di vista e come un tutto; di accordare a ciascuno il suo vero posto in un sistema universale, di comprendere il valore rispettivo di ciascuno e di stabilire i suoi rapporti di differenza nei confronti degli altri(...) L'intelletto che possiede questa illuminazione autentica non considera mai una porzione dell'immenso oggetto del sapere, senza tener presente che essa ne è solo una piccola parte e senza fare i raccordi e stabilire le relazioni che sono necessarie. Esso fa in modo che ogni dato certo conduca a tutti gli altri. Cerca di comunicare ad ogni parte un riflesso del tutto, a tal punto che questo tutto diviene nel pensiero come una forma che si insinua e si inserisce all'interno delle parti che lo costituiscono e dona a ciascuna il suo significato ben definito".

Tale punto di vista unitario è offerto secondo il cristianesimo dall'evento di Gesù Cristo, Verbo incarnato e immagine del Dio invisibile, e dalla Sua "pretesa" di svelare, con la sua passione, morte e risurrezione, l'enigma che l'uomo rappresenta per se stesso senza per questo pre-decidere il dramma costitutivo di ogni singolo. Questa "ipotesi" non soffoca il libero esercizio della ragione, anzi ne esalta le facoltà critiche urgendole ad un confronto a 360 con la realtà. La proposta cristiana, infatti, presa nella sua oggettiva integralità, non è un salto nel buio.

L'uomo può, al contrario, verificarne tutto lo spessore veritativo nel paragone con le dimensioni della sua esperienza elementare - lavoro, affetti, riposo - e con le irriducibili polarità che attraversano l'unità del proprio io - unità duale propria di ogni essere creato, contingente:  anima-corpo, uomo-donna, individuo-comunità.



(©L'Osservatore Romano - 28 ottobre 2009)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Un inedito sull'educazione

La lezione
di una lunga passeggiata


Nel 1910 giovane docente dell'Accademia teologica di Mosca, Florenskij iniziò un corso di lezioni sulla storia della filosofia. Quando le diede alle stampe, nel 1917, vi premise una breve introduzione metodologica, dove, esponendo la sua originale didattica, metteva in gioco i principi fondamentali del suo modo di concepire l'insegnamento. Queste brevi pagine, spesso citate ma fino a oggi inedite in italiano, saranno pubblicate nel prossimo numero della rivista "La Nuova Europa" che quest'anno compie cinquant'anni di attività, nell'articolo "Lezione e lectio", che riportiamo integralmente.

di Pavel Florenskij

Benché pòiema significhi esattamente "creazione", dovremmo rimanere giustamente perplessi se ci si mettesse a chiamare indifferentemente "poema" qualsiasi creazione. Ma c'è un genere particolare di opera letteraria che ha perso qualsiasi specificazione, al punto che la sua natura finisce per identificarsi col significato etimologico del suo nome. Si tratta appunto della lezione. Giustamente lectio significa lettura.

Ma attaccandosi a questo appiglio linguistico, capita spesso che si applichi il nome "lezione" a qualsivoglia opera letteraria, dissertazione scientifica, articolo di rivista o appendice di giornale, purché venga letta (o pronunciata) davanti a un pubblico; così facendo non si tiene però conto del fatto che, sebbene il nome lezione derivi da lectio, le due cose non sono affatto uguali. Sono concetti subordinati:  da un lato non necessariamente una lectio è una lezione, e dall'altro non necessariamente una lezione dev'essere letta davanti a degli uditori, ossia essere una lectio, perché le lezioni possono venire alla luce anche direttamente in forma stampata.

Potrà sembrare che siano ragionamenti eccessivamente scolastici e che si tratti soltanto di una disquisizione sui termini. Sì; ma per colpa dell'imprecisione nell'uso delle parole, finisce che il genere stesso delle opere letterarie cui si può legittimamente attribuire il nome di "lezione" perde la sua fisionomia specifica; un nome nebuloso impedisce di riconoscere distintamente le prerogative che si richiedono a una lezione dal punto di vista della forma, e la lezione, senza che l'autore se ne renda conto, finisce per confondersi con altri generi letterari.

All'atto di dare alle stampe una serie di saggi - un ciclo di lezioni che aveva lo scopo di esaminare lo snodo del pensiero antico in cui la filosofia greca si salda organicamente con la religione greca, all'epoca del Rinascimento ellenistico del vi secolo - l'autore ritiene necessario indicare alcune caratteristiche, che definiscono la natura della lezione in quanto tale. E dunque, cos'è una lezione? È innanzitutto un genere particolare di opera letteraria di carattere didattico, ossia scolastico (non scientifico). E tuttavia un libro di testo, ancorché lo si legga dalla cattedra, non diventerà mai per questo una lezione né un corso di lezioni.

Il rapporto che c'è tra il libro di testo e il corso di lezioni è paragonabile al rapporto che c'è tra il meccanismo e l'organismo. I primi termini di questa proporzione (libro di testo, meccanismo) sono costruiti secondo un piano prestabilito, studiato fin nei minimi particolari ed esterno rispetto al materiale che realizza questo piano e quindi assolvono il loro compito proprio alla perfezione ("con la precisione di un meccanismo") anche se, a dire il vero, entro un cerchio già stabilito e con un diametro infinitesimale.

I secondi termini della proporzione (lezione, organismo) invece, si caratterizzano per la naturalezza e la libertà della costruzione, e proprio in forza di questo hanno un funzionamento multiforme, imprecisabile a priori; in compenso, però, non arrivano alla precisione assoluta nelle proprie azioni ("l'uomo vivo non è una macchina"); la loro crescita è un atto di creazione che si manifesta in ogni dettaglio della loro struttura, mentre il libro di testo e il meccanismo, a essere precisi, non crescono nemmeno ma semplicemente vengono messi insieme, costruiti con parti preconfezionate.

Al contrario, pur attenendosi rigidamente alla direzione generale, alla corrente generale, a un generale progetto di pensiero, in un corso di lezioni, la lezione non procede in linea retta, totalmente rinchiusa in una formula razionale ma, come l'essere vivente, sviluppa i propri organi, rispondendo ogni volta alle esigenze che si manifestano in corso d'opera. In tal senso non sarebbe fuori luogo definire la lezione ideale una sorta di colloquio, di conversazione tra persone spiritualmente prossime.

La lezione non è un tragitto su un tram che ti trascina avanti inesorabilmente su binari fissi e ti porta alla meta per la via più breve, ma è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale ben preciso, o meglio, su un cammino che ha una direzione generale ben precisa, senza avere l'unica esigenza dichiarata di arrivare fin lì, e di farlo per una strada precisa. Per chi passeggia è importante camminare e non solo arrivare; chi passeggia procede tranquillo senza affrettare il passo.

Se gli interessa una pietra, un albero o una farfalla, si ferma per guardarli più da vicino, con più attenzione. A volte si guarda indietro ammirando il paesaggio oppure (capita anche questo!) ritorna sui suoi passi, ricordando di non aver osservato per bene qualcosa di istruttivo. I sentieri secondari, persino l'assenza di strade nel fitto del bosco lo attirano col loro romantico mistero.

In una parola, passeggia per respirare un po' di aria pura e darsi alla contemplazione, e non per raggiungere più in fretta possibile la fine stabilita del viaggio, trafelato e coperto di polvere. Allo stesso modo, l'essenza della lezione è la vita scientifica in senso proprio, è riflettere insieme agli uditori sugli oggetti della scienza, e non consiste nel tirar fuori dai depositi di un'erudizione astratta delle conclusioni già pronte, in formule stereotipate.

La lezione è iniziare gli ascoltatori al processo del lavoro scientifico, è introdurli alla creazione scientifica, è un modo per insegnare attraverso l'evidenza e addirittura sperimentalmente un metodo di lavoro; non è la semplice trasmissione delle "verità" della scienza nella sua fase "attuale", "contemporanea".

Infatti che cos'è, in questo senso, la "verità" scientifica? Non è forse come il vento che non posa mai? Non è come l'onda che scivola via nell'instancabile risacca? Non è un processo inarrestabile? In una parola, non è un'energia viva, l'energèia, in contrapposizione alla cosa sclerotizzata, l'èrgon? Ma a parte questo, se la questione si riducesse esclusivamente alla trasmissione di "verità" già confezionate, la lezione diventerebbe assurda e priva di scopo.

Il libro di testo è sempre l'esito di un lavoro più ponderato della lezione; il libro di testo realizza questo compito infinitamente meglio di qualsiasi lezione. D'altra parte, leggere un libro di testo, anche il più brillante, a un intero uditorio in grado di leggere è un esercizio decisamente inutile dopo l'invenzione di Gutenberg. Sarebbe come se una cucitrice, messa da parte la macchina Singer, volesse cucire con una spina di pesce.

Ma se l'essenza della lezione è effettivamente tale, ne deriva un certo numero di segni particolari che differenziano fortemente la lezione da altri generi di opera letteraria. Innanzitutto, ha interesse per le minuzie, i particolari, i dettagli, le caratteristiche più infinitesimali che delineano il fenomeno studiato nella sua viva individualità e non solo "in generale", schematicamente. Sia l'oratore che l'ascoltatore si sentono nella situazione di un uomo che non è assolutamente obbligato a galoppare sui cavalli di posta, ma ha il diritto di perdere un po' di tempo con il sassolino o il filo d'erba che, fuori programma, hanno attirato il suo interesse.

È pur vero che i dettagli di questo genere devono necessariamente essere concentrati lungo il filo rosso della trattazione, proprio come per il nostro viandante gli oggetti della sua attenzione si susseguono lungo il sentiero; ma non sempre questi dettagli discendono dal pensiero portante della lezione in modo logico-razionale:  talvolta il loro legame con l'idea generale del corso è psicologico (per associazione), o estetico (perché ci vuole un po' di varietà, per fare una pausa, o, diremmo, come fioritura), oppure, se non sbaglio usando questa espressione, didattico, suscitato da riflessioni del tipo:  "Qui sarebbe il caso di comunicare il tal fatto istruttivo, o la tale teoria curiosa; lasciarli perdere sarebbe un peccato, e tornarvi sopra un'altra volta richiederebbe un giro troppo lungo".

Un buon libro di testo di solito è costruito in modo che eliminare questo o quel paragrafo vorrebbe dire rendere incomprensibili molte cose successive; mentre viceversa, tutto ciò che può essere eliminato senza compromettere la comprensione, diventa di per ciò stesso superfluo nel testo e deve essere eliminato.

Diversamente, in un corso di lezioni molti elementi che hanno realmente un legame organico col tutto e che vivono realmente della stessa vita del tutto, non derivano comunque dall'idea del tutto more geometrico, per necessità logica, e quindi possono anche essere respinti. Così, il getto secondario di una pianta, nella misura in cui si nutre della linfa dello stelo principale costituisce un corpo solo con questo; ma dall'idea della pianta intera non discende necessariamente che questo pollone collaterale debba crescere di sicuro. Talvolta un eccesso di steli secondari può danneggiare la pianta; allora è una questione di tatto individuale (e non di logica) decidere cosa, appunto, lasciar crescere e cosa recidere. Lo stesso avviene in un corso di lezioni.

Un'altra caratteristica specifica della lezione discende dal suo compito. La lezione, lo abbiamo già detto, non deve insegnare questo o quel genere di fatti, generalizzazioni o teorie, ma addestrare al lavoro, creare il gusto della scientificità, dare l'"innesco", il lievito all'attività intellettuale.
Non è tanto un principio nutritivo quanto essenzialmente fermentativo, cioè tale da portare la psiche dell'ascoltatore a uno stato di fermento.

Questo effetto fermentante colloca la lezione, in quanto opera letteraria, all'estremo opposto dell'enciclopedia, del libro di testo, del vocabolario, il cui ruolo è esattamente quello di fornire materia per la fermentazione.

Quanto alla fermentazione della psiche, essa consiste nel gusto per il concreto acquisito per contagio; consiste nella scienza di saper accogliere con venerazione il concreto, nella contemplazione amorosa del concreto.

Del resto quest'ultimo, il concreto, è inteso qui nel senso dell'oggetto stesso della ricerca scientifica diretta, nel senso di fonte prima, che si tratti di una pietra e di una pianta o piuttosto di un simbolo religioso e di un monumento letterario. Questa gioia del concreto, questo realismo si manifesta in negativo come insoddisfazione interiore (non formale) per qualsiasi opinione intermedia sull'oggetto, che congeli l'oggetto e cerchi in ogni modo di spingere l'oggetto lontano dal centro dell'attenzione per mettersi al suo posto. L'aspirazione a vedere con i propri occhi, a toccare con le proprie mani la fonte prima è ciò che fa nascere, appunto, l'atteggiamento scientifico, che è ben diverso dall'erudita dossografia, la descrizione delle opinioni altrui.

Così come sarebbe assurdo studiare botanica non sui vegetali vivi, o nemmeno sulle loro immagini fotografiche, ma in base alle loro descrizioni, allo stesso modo in qualsiasi attività scientifica cercare e vedere l'originale è l'impulso naturale di un pensiero autonomo. Il gusto del vino sincero è conoscibile solo da chi prende il vino dal produttore stesso, direttamente dalle sue mani o con la sua garanzia scritta; allo stesso modo anche gli oggetti naturali e autentici della ricerca mostrano il loro sapore solo quando li ricevi di prima mano dagli stessi creatori del pensiero geniale, con la loro garanzia scritta, oppure dalla contemplazione di alcune cose, fotografie eccetera, così come i fatti autentici delle scienze naturali si colgono soltanto attraverso l'osservazione diretta.

Viceversa, il commercio al dettaglio delle idee, sulle bancarelle o nei negozi, non meno della vendita al dettaglio del vino, porta sempre con sé delle adulterazioni e, soprattutto, aggiunte assolutamente inutili:  è ben difficile che simili costruzioni si possano produrre da soli, a tavolino. Mentre il pensiero autentico, il fatto autentico sono aspri e talvolta acerbi, come il vino non adulterato.

Ecco perché al gusto della lezione, che indirizza l'attenzione degli uditori al concreto, alla fonte prima, bisogna prima abituarsi. Potrebbe sorgere la domanda:  ma allora una lezione di cui si prendono appunti, e ancor meglio una lezione stampata e tanto più pubblicata, non è una contradictio in adiecto? Se la lezione è creazione immediata come si può fissarla sulla carta e, una volta fissata non perderà vigore, non si dissolverà la sua sostanza più vitale? Non perde così il diritto di esistere, una volta scritta? Direi di no.

Anche una cosa che permane nello scorrere del tempo (gli appunti) può avere come contenuto qualcosa di transitorio; anche una cosa mediata dalla scrittura può essere immediata; anche una cosa fissata può essere libera quanto al contenuto. Così il diario, una delle forme più libere e indisciplinate tra le opere letterarie, può essere trascritto e talvolta (raramente!) reso pubblico.

Come il petalo di una rosa dipinta splenderà per sempre della rugiada mattutina sul punto di asciugarsi; come sul cilindro del fonografo una voce appena tremolante per l'incertezza viene afferrata per essere riprodotta innumerevoli volte con la stessa incrinatura momentanea; così nel diario e persino negli appunti di una lezione resta immobilizzato qualcosa che ha senso solo come creato "ora" e "immediatamente", e pur restando fissato, rimane per sempre creato "ora" e "immediatamente":  questo foglietto ingiallito e sfatto, arde di oro eterno nel canto.

Quanto abbiamo detto finora vale per le lezioni perfette, che forse si danno raramente. È più un auspicio che non la descrizione dell'esistente. 

Quanto invece alle lezioni qui proposte, è necessaria una riserva. Naturalmente all'autore è difficile giudicare quanto gli sia riuscita la forma in cui sono esposte, ma il loro contenuto (e questo va affermato con ogni insistenza) non pretende di essere particolarmente originale, né d'essere rielaborato con particolare erudizione. Tutta la novità cui osa aspirare l'autore è costituita dall'idea generale, e da qualche soluzione originale di compiti specifici. E se alla fine si è deciso a rendere pubblica la propria fatica è perché ancora non esiste una simile sintesi fra i dati storico-culturali e religiosi e i dati storico-filosofici.

E faccio un'ulteriore riserva:  la forma della lezione, che richiede per sua natura un certo dettaglio, una certa incisività, una certa stilizzazione dei giudizi, certe volte mi ha costretto a esprimermi con più decisione di quanto sarebbe ammesso in un'opera scientifica.

Ma non era possibile evitare le esagerazioni, perché l'assoluta cautela scientifica nel trarre conclusioni e fare valutazioni porterebbe con sé una miriade di distinguo e renderebbe il pensiero stesso poco persuasivo, gonfio e incolore. Tuttavia, questo è un fattore con cui ognuno deve fare i conti autonomamente.

Quanto all'autore, nel rivedere le lezioni per la stampa ha cercato di conservare il tono essenziale dell'esposizione, e si è permesso solamente qualche ritocco scientifico e letterario qua e là.
Anche le "note" che seguono ogni lezione non possono restare senza una "nota". Il fatto è che attorno a ogni argomento trattato su queste pagine è cresciuta un'intera letteratura.

È possibile, ed è necessario prenderla in considerazione ogni volta per intero? Dirò di più:  bisogna assolutamente dare delle indicazioni bibliografiche? Per l'autore la risposta è negativa:  non importa quante opinioni ci siano o potrebbero esserci su un numero infinito di questioni.

Infatti non si può, perdendo ogni autostima, correre dietro a ogni parere, porgere l'orecchio a migliaia di voci! Tanto più che anche fra le voci erudite di solito i nove decimi sono pure chiacchiere. Al "piano inferiore" vengono riportate per lo più le opere in russo o i testi di carattere abbastanza generale. Mentre le indicazioni più specialistiche sarebbero state fuori posto in un'opera di divulgazione.


(©L'Osservatore Romano - 26 marzo 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Giovanni XXIII Radiomessaggio auguri di Pasqua aprile 1963:

Siamo vicini agli uomini di cultura e di studio, chiamati a una missione,
che comporta fatica spesso incompresa e nascosta, rinuncia a
facili soddisfazioni, dominio costante di sè.
Siamo vicini con aperta fiducia ai rappresentanti della stampa e delle
tecniche radiotelevisive, dalla cui opera dipende in parte la formazione
o la deformazione dell'opinione pubblica.
Noi li scongiuriamo di porsi a servizio del buono e del bello, e di
eliminare le pericolose suggestioni, da cui vengono talora attratti i
giovani e i semplici.
Nel nome di Dio giusto giudice, invitiamo i responsabili a respingere
la tentazione del facile successo
.



(Acta Ioannis Pp. XXIII Anno 1963 pag.403)


*********************************************************

Ultima visita di Giovanni XXIII al Quirinale 1963


Excellentissimo Viro Antonio Segni, Reipublicae Italicae Praesidi, ceterisque
adstantibus habita, in Aedibus Quirinalis collis, ubi magno honore
Beatissimus Pater est exceptus, postridie quam Ipsi praemium « Balzan »
traditum est. *


Signor Presidente,
Le siamo grati per le espressioni del Suo nobile indirizzo. Grati e
commossi, mentre le vediamo applicate non tanto alla Nostra Persona,
pur sensibile a ogni tratto di delicatezza e di bontà, quanto piuttosto alla
missione che la Chiesa Cattolica svolge nei secoli, in obbedienza al mandato
del suo Divino Fondatore.


Signor Presidente,
Ella può immaginare con quanta commozione il Vescovo di Roma,
l'umile Papa della Chiesa universale, è venuto a questa residenza della
suprema autorità dello Stato Italiano. È sempre vivo in Noi il ricordo
dell'incontro che, pochi giorni prima di iniziare il Nostro ministero
pastorale di patriarca di Venezia, in esecuzione delle norme concordatarie,
avemmo il 5 marzo 1953, qui al Quirinale, giusto dieci anni or
sono, con il Suo Predecessore, il Senatore Luigi Einaudi.

Oggi, ancora, una lieta coincidenza vuol essere ricordata, perchè
esattamente un anno fa, Ella, Signor Presidente, fu insediato nella altissima
carica che tanto La onora, e di cui la recente distinzione dell' Ordine
di Cristo ha voluto essere, da parte Nostra, amabile coronamento.

Signor Presidente,
Accogliendo di buon grado il cortese invito a sostare alcun poco
in questa sontuosa e storica dimora, Ci allietiamo della soave deferenza,
di cui si è fatta eco l'opinione pubblica. La Nostra persona per altro si
ripiega sopra Nostro Signore Gesù Cristo, che indegnamente ma con
generoso e sommesso sforzo di imitazione, Noi fummo chiamati a rappresentare
sulla terra.
Questa Nostra presenza, qui, prende di fatto particolare significazione
dall'antico riconoscimento di servizio, che si irradia su tutta la
Chiesa, e splende al di sopra dei clamori contingenti e delle contrastanti
variazioni, che in tempi passati vollero interpretare o limitare i gesti
dei Nostri Predecessori. Ricordiamo Benedetto XV, Pio XI, Pio XII e
tutta l'opera che il Romano Pontificato ha svolto a tutela della pace,
particolarmente nelle tragiche vicende che hanno contrassegnato il
secolo ventesimo.

Sì, la Chiesa Cattolica è artefice e maestra di pace. Lo diciamo con
tranquilla coscienza
.

Essa continua nel mondo la missione del suo Fondatore
Gesù Cristo, che il profetico eloquio chiama Principe della pace.1
« Vicina a Lui — come ha detto il Nostro Predecessore Pio XII di v. m.—
la Chiesa respira il soffio della vera umanità, vera nel senso più pieno
della parola, perchè è la umanità stessa di Dio, suo Creatore, suo Redentore
e suo Restauratore » . 2
Riflettendo sul significato del gesto compiuto dalla Fondazione
Eugenio Balzan, abbiamo voluto che la somma rimessa nelle Nostre
mani venga destinata a un fondo perpetuo in favore della pace. In questa
circostanza, pertanto, amiamo far risonare ancora una volta il Nostro
invito, qual è contenuto nella Lettera Enciclica del Giovedì Santo,
Pacem in terris, richiamante alle sorgenti, alla tutela e al consolidamento
della pace tra i popoli. Pace fondata non sul timore, sul sospetto,
sulla diffidenza reciproca; assicurata non sulla minaccia di terribili distruzioni,
che sarebbero la rovina totale del genere umano, creato per
dare gloria a Dio, e per la mutua edificazione nell'amore fraterno ; ma
stabilita sul retto ordine dei rapporti umani, « ordine fondato sulla
verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità, e
posto in atto nella libertà » . 3

Questa è la pace, a cui le umane genti anelano, come a dono divino
preziosissimo, senza il quale non si può aspirare a costruttivo progresso,
a duraturo benessere, all'avvenire sicuro delle giovani generazioni, delle
famiglie, delle Nazioni.

Signor Presidente, Venerabili Fratelli e figli, cari Signori,
Il consentimento che traluce dai vostri occhi, che sale dai vostri
cuori, esprime lo stato d'animo ch'è vostro, e di tutti i popoli. Il Nostro
voto è che questo consentimento continui; si rafforzi sempre più sopra
il laborioso e generoso popolo d'Italia e sopra tutti i popoli del mondo,
a Noi egualmente diletti ; produca frutti di promettente fecondità, affinchè
su tutti gli uomini, consacrati alle pazienti conquiste del sapere, alle
opere del lavoro, alle cure della famiglia, splenda luminosa la stella
della pace, a indicare il sicuro cammino su le vie della serenità, della
comprensione, dell'amore.

Questo è il voto che, nella sosta fatta or ora nella Cappella Mariana
dell'Annunciazione, abbiamo confidato con tenerezza alla Madre di Gesù
e nostra; questo voto vi esprimiamo con cuore commosso e ferma speranza,
per nulla sorpresi delle difficoltà immancabili che si frapporranno
al raggiungimento del santo ideale; e ne attendiamo l'esaudimento
dalle propizie benedizioni del Signore, da cui invochiamo sui reggitori dei
popoli, e sull'intera umana famiglia, i doni copiosi di saggezza e generosità,
di operosa concordia, di lietissimo incremento di giustizia, equità
e amore.
Dominus pacis det semper nobis pacem.4


Acta Ioannis Pp. XXIII 457

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Intervento del cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso

Educazione
saggezza umana e saggezza di Dio


Pubblichiamo la relazione che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso ha tenuto il 21 giugno scorso in occasione della riunione a Beirut del Comitato scientifico internazionale Oasis. L'intervento, dedicato a "Cristiani e musulmani di fronte alla sfida dell'educazione", è da oggi anche in rete nella newsletter della fondazione Oasis (www.oasiscenter.eu).

di Jean-Louis Tauran

Immanuel Kant affermava che l'uomo diventa uomo soltanto attraverso l'educazione. Insegnare significa trasmettere un sapere, un'arte, una tecnica, una serie di abilità diverse. Educare significa impegnarsi a garantire lo sviluppo di tutte le facoltà (fisiche, intellettuali e morali) della persona. Insegnare dunque è sempre educare, ma educare non equivale automaticamente a insegnare! Ciò che è essenziale nell'educazione è rendere ogni individuo in grado di affrontare, in particolare attraverso la cultura, da solo o con altri, le sfide che la sua esistenza personale o collettiva gli proporranno.
L'articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo parla di un "diritto all'istruzione". Tale diritto viene menzionato anche negli articoli 10, 13 e 14 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Questi articoli riconoscono i seguenti principi:  la famiglia come "elemento naturale e fondamentale della società" al quale spetta di provvedere al "mantenimento e all'educazione dei figli che da essa dipendono" (articolo 10); obbiettivo dell'educazione è il pieno sviluppo della personalità umana e del suo senso di dignità, e il rafforzamento del rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (articolo 13); è compito dell'educazione mettere ciascuno in grado di svolgere un ruolo utile in una società libera e "favorire la comprensione, la tolleranza e l'amicizia tra tutte le nazioni e i gruppi razziali, etnici o religiosi", contribuendo così alla pace (articolo 13).
Le stesse idee sono contenute nella Convenzione sui diritti dell'infanzia (articoli 23, 28, 29, 40). Se educare è trasmettere valori e saperi, il suo legame con la religione è evidente e del tutto naturale. Infatti anche le religioni insegnano, educano, trasmettono:  dogmi, libri sacri, liturgia. In genere esse chiamano al rispetto della persona umana, al rispetto dei suoi beni (materiali o morali) nonché alla salvaguardia della natura... Anche se al giorno d'oggi i valori delle religioni non sono sempre considerati come valori fondativi, essi ispirano molti progetti di società e i credenti, anche dove sono in minoranza, costituiscono tuttavia minoranze che agiscono e che contano.

Religioni e modernità

Direi che oggi ci troviamo di fronte a due crisi fondamentali. Una è la crisi dell'intelligenza. Siamo superinformati, ma sappiamo ragionare? Il rumore, la mobilità, la selva di messaggi virtuali ci sottopongono a un vero e proprio stress. In molti trovano difficoltà a organizzare le loro conoscenze. Domina la regola del "Tutto e subito", al punto che ciò che si chiamava "vita interiore" è diventato una rarità.
La seconda è la crisi della trasmissione generazionale. I valori familiari, morali e religiosi non sono patrimonio scontato. L'ignoranza in materia religiosa è dilagante nella società occidentale. A forza di dar retta al famoso graffito tracciato sui muri della Sorbona nel maggio 1968, "Vietato vietare", abbiamo trasformato la nostra terra in una zattera alla deriva. In una fase nella quale il nostro mondo si presenta come uno spazio globalizzato e tutte le culture, nelle quali ovunque si rintraccia l'elemento religioso, vengono messe in discussione, non si può lasciar da parte quella chiave di lettura che è costituita dalla religione:  senza di essa non è possibile comprendere la coscienza, la storia, la fraternità. Oggi noi incontriamo troppi giovani che sono eredi senza eredità e costruttori senza progetto. Per questo c'è chi torna a perorare la causa dell'insegnamento della tematica religiosa a scuola.

Il ritorno

Sotto la pressione di queste due crisi assistiamo a un ritorno del religioso (non parlo di un ritorno del cristianesimo). In Occidente i musulmani reclamano per sé luoghi di culto e visibilità. Atti di violenza e omicidi perpetrati in nome di convinzioni religiose rendono le religioni temibili. Ci si interroga. Si vuole sapere. Tanto più che la globalizzazione favorisce il dialogo interreligioso. Alcune iniziative concrete hanno distrutto gli stereotipi:  penso alla festa dell'Annunciazione che cade il 25 marzo di ogni anno, come festa nazionale, qui, in Libano, o alla formazione (non religiosa) degli imam di Francia, garantita dall'Istituto cattolico di Parigi.
Entro qualche decennio è probabile che l'uomo padroneggerà la materia inerte (il globo terrestre, per non parlare degli spazi siderali). Sappiamo che la padronanza della materia vivente progredisce di giorno in giorno. Ma quando tutto sarà stato spiegato, resterà da sapere chi sia davvero l'uomo. Quando disporremo di tutti gli strumenti più sofisticati, si porrà il problema del loro utilizzo. E poi ci sono il male e la morte. Tutti ci poniamo, prima o poi, immancabilmente, il problema del senso e prima o poi il "sacro" si impone come componente essenziale dell'anima umana.

I cristiani e l'educazione

Le prime scuole monastiche che apparvero nel continente europeo si sono ispirate a Platone e ad Aristotele per proporre un'educazione intellettuale e una formazione morale che si fecondassero a vicenda.
Attraverso l'elaborazione dei concetti di dovere e sacrificio, temperati dall'amore divino (Bergson) e dalla conversione del cuore, i cristiani sono stati condotti a occuparsi della libertà. Così la tensione tra libertà, ragione e verità si è posta al centro della vita intellettuale del Medio Evo. Dialettica e disputatio costituivano il nucleo vitale dell'universitas medievale. Sono stati i chierici del Medio Evo a diffondere un'educazione rivolta alla totalità della persona:  per loro non si trattava tanto di imparare un mestiere quanto piuttosto di formare persone capaci di autonomia e di spirito critico.
L'educazione cristiana ha voluto essere anche enciclopedica (totalità del sapere umano). I monasteri hanno ordinato gerarchicamente tutto ciò che si conosceva delle cose divine e umane (più tardi Descartes formulerà l'immagine dell'albero del sapere). Tutto ciò costituiva una preparazione ad accogliere la Rivelazione del Verbo e della verità nella Storia. I cristiani hanno sempre coltivato l'ambizione di conciliare ragione e fede:  "comprendere per credere e credere per comprendere" (Sant'Agostino).

Musulmani e educazione

Mi pare si possa dire che, per l'islam, l'educazione consista in un modellamento dell'anima che deve realizzarsi fin dalla più tenera età. Al bambino vengono trasmessi due valori fondamentali:  la fede e la conoscenza contenuta nel Corano. Quando la sua anima sarà stata così colmata, non ci sarà più posto per le falsità. È il ruolo assegnato alla ragione, il suo spazio, a differenziare la concezione cristiana dell'educazione da quella musulmana.

La vita interiore

Qual è dunque il ruolo specifico delle religioni nell'educazione? Trasmettere il gusto della vita interiore. In fondo, tutte le religioni dicono che "l'uomo non vive di solo pane". Si tratta di sviluppare la capacità, che è in ognuno, di riflettere, di organizzare il proprio pensiero, di ragionare (di servirsi della ragione per conoscere e giudicare). "Tutta l'infelicità dell'uomo deriva da una sola cosa, il non saper stare tranquillo in una stanza", scriveva già il mio compatriota Pascal. Promuovere inoltre la coscienza della propria identità:  l'uomo è la sola creatura che interroga e si interroga. La sola che cerca "il senso del senso" (secondo la formula di Ricoeur). L'uomo si rivela a se stesso come un mistero, il mistero di ciò che egli è, delle sue potenzialità, del suo posto nell'universo ed è per questo suo rivelarsi a se stesso come mistero che la dimensione religiosa si profila inevitabilmente all'orizzonte.
Le religioni favoriscono una pedagogia dell'incontro. Aiutano a vivere la differenza nel rispetto. Affermando la mia identità io scopro che la persona che sta di fronte a me possiede parimenti un'identità, molto diversa dalla mia. Esse facilitano l'accettazione della pluralità sostenendo, nel quadro della famiglia, il mescolarsi delle generazioni, e promovendo nella scuola l'attenzione agli insegnamenti della storia e dunque al contributo delle diverse civiltà.
Per finire, le religioni contribuiscono a garantire il rispetto della persona umana e dei suoi diritti. Ognuno di noi è unico, ognuno è sacro. Perciò ci si ascolta, si impara a esprimere le rispettive identità non con i pugni e con le armi ma con argomenti ragionati e ragionevoli.

Una sfida comune

Prendiamo in considerazione la gioventù nel suo insieme. In ambito cristiano:  nelle società occidentali i giovani spesso vivono il cristianesimo come una forma di deismo ma recentemente quelle che vengono chiamate "le nuove comunità" hanno dato vita a forme di spiritualità che producono una pratica cristiana più motivata e più missionaria, e l'affermarsi di un desiderio di ricevere una formazione dottrinale completa.
In ambito musulmano:  non si può non rimanere colpiti dalla visibilità della pratica religiosa, dal modo in cui la religione impregna tutte le dimensioni della vita di un musulmano, comunitaria e personale. Va sottolineato tuttavia come il clima di indifferenza religiosa, in particolare in Europa, possa produrre tra i musulmani giovani alcune conseguenze:  il secolarismo dell'ambiente può spingere all'affermazione di un'identità religiosa aggressiva; lo stesso secolarismo può condurre all'abbandono di qualsiasi pratica religiosa.
È augurabile che constatazioni di questo genere inducano cristiani e musulmani a gareggiare in iniziative:  al livello delle élites, stimolando il desiderio di conoscersi e riconoscersi. Poiché il dialogo non può fondarsi sulle ambiguità, l'educazione mostra qui la sua funzione fondamentale. I giovani d'oggi (cristiani e musulmani) dovrebbero dialogare su un piano di uguaglianza. Perciò dovrebbero avere le stesse possibilità di accedere all'insegnamento delle religioni così come dovrebbero conoscere la religione degli altri (è questo il problema della religione a scuola). Le autorità religiose dovrebbero essere meglio informate sulle altre religioni, così da abbattere i timori e promuovere un arricchimento reciproco, condividendo il meglio delle varie tradizioni spirituali. Non si tratta di fare concessioni sul terreno della verità ma di conoscere l'altro, di ascoltarlo, di scoprire quel che abbiamo in comune. Questa conoscenza profonda dell'altro può avvenire in vari campi, come la letteratura e la musica, per arrivare poi all'approfondimento della cultura biblica, coranica, teologica.
In questo modo l'incontro finalizzato al dialogo permette di agire insieme per il bene comune. Tutti insieme possiamo agire per il bene della famiglia, della scuola, dell'Università, dell'impresa.
Non dovrebbe risultare impossibile, fin da oggi, che i capi religiosi cristiani e musulmani sensibilizzino i legislatori e gli insegnanti circa l'opportunità di fissare regole di condotta come:  il rispetto verso la persona che cerca la verità di fronte all'enigma dell'umano; il senso critico che permette di scegliere tra il vero e il falso; l'insegnamento di una filosofia umanistica che consente di dare risposte umane alle domande relative all'uomo, al mondo, a Dio; la valorizzazione e la diffusione delle grandi tradizioni culturali aperte alla trascendenza, che esprimono la nostra aspirazione alla libertà e alla verità.
Tutti insieme, cristiani e musulmani (ma io direi:  tutti i credenti) abbiamo la possibilità di condividere convinzioni che traiamo dai nostri rispettivi retaggi spirituali e culturali:  la solidarietà che induce a impegnarsi a favore dei poveri e degli esclusi; la responsabilità che ci ammonisce a non dimenticare che risponderemo davanti a Dio di ciò che avremo fatto oppure omesso di fare per la giustizia e per la pace; la libertà che presuppone una coscienza ferma e una fede illuminata (fede e ragione!); la spiritualità che richiama la dimensione religiosa della persona umana e illumina di sé l'avventura umana; la sete di conoscenza che rende attenti a ciò che l'uomo, dotato com'è di una coscienza e di un'intelligenza, realizza (nel bene e nel male); la pluralità che ci sollecita a considerarci differenti ma uguali, rifiutando tutte le forme di esclusione, in particolare quelle che invocano a propria giustificazione una religione o una convinzione. Possiamo fare tutte queste affermazioni perché crediamo che l'uomo e la donna, in ogni tempo e in ogni circostanza, abbiano una dignità inalienabile e abbiano diritto alla libertà, al rispetto della loro persona e anche a un'esistenza decente.

Il patrimonio dell'uomo

L'educazione nel senso più ampio della parola non può essere avara quanto alla dimensione religiosa della persona umana. L'insegnamento scientifico e tecnico negli ultimi decenni si è sviluppato in maniera esponenziale così che le materie dette umanistiche (filosofia, storia, letteratura) sono divenute marginali nella trasmissione culturale. Ma i popoli della terra hanno accumulato da millenni un patrimonio artistico e letterario che è comune a tutta l'umanità e che ha sempre espresso credenze religiose (non esiste civiltà che non abbia rivolto le sue attenzioni alla presenza del religioso).
Noi, i cristiani, sappiamo che Dio ha voluto farsi conoscere dall'uomo in Gesù, vero Dio e vero uomo. Ma sappiamo anche che Dio è all'opera nel cuore dei credenti delle altre religioni, come lo è in ogni persona umana. Ecco perché tutti insieme, nel rispetto delle nostre specificità e dei nostri itinerari, abbiamo il dovere di purificare la nostra memoria, non per imporre ma per indicare il senso da assegnare all'avventura umana. L'uomo, incaricato della gestione del pianeta, l'uomo capace delle più grandi scoperte, quest'uomo "carnale" è anche lo stesso uomo che si organizza per recare soccorso a tutte le vittime di tutte le violenze e delle catastrofi naturali. Pur nel mezzo di tutte le contraddizioni della storia, l'uomo è capace di generosità! Cristiani e musulmani, uniamo i nostri sforzi perché in futuro non manchino mai quegli uomini e quelle donne che, grazie al loro coraggio, alla loro dolcezza, alla loro perseveranza, siano capaci di purificare la loro memoria e il loro cuore così da operare perché la saggezza umana si incontri con la saggezza di Dio. E se fosse questa, l'educazione?


(©L'Osservatore Romano - 7 luglio 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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l segretario generale della Cei Mariano Crociata

La sfida del relativismo
e la passione educativa


Venezia, 6. È quella del relativismo la tentazione più delicata e impegnativa che rischia di minare "alla radice qualsiasi opera educativa". Tuttavia, il "problema principe" attuale è costituito dalla "carenza di figure di educatori", di persone che comprendano che "non si può essere educatori di altri se non si rimane educatori di se stessi". È quanto ha sottolineato il vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), intervenendo ieri sera all'iniziativa "Bibione guarda all'Avvenire", organizzata in una parrocchia di Bibione, in provincia di Venezia, dalla diocesi di Concordia-Pordenone.

Tema dell'intervento "Educare:  un compito urgente tra emergenza e sfida". Argomento in sintonia con la preoccupazione più volte espressa da Benedetto XVI e che - è stato ricordato - costituirà anche il tema portante dell'episcopato italiano per il prossimo decennio.

Crociata ha iniziato il suo intervento ricordando per grandi linee i cambiamenti avvenuti nell'ultimo mezzo secolo nella società e nella cultura italiana e occidentale. Cambiamenti e trasformazioni che, anche sulla spinta di un forte processo migratorio, ci hanno "abituato, senza troppi ragionamenti, ad accettare che la diversità e la pluralità fanno parte del nostro mondo e della nostra società". A ciò si deve anche aggiungere che "le nuove forme di comunicazione vengono a costituire un nuovo ambiente che riplasma il rapporto tra le persone". Di qui anche la particolare "complessità" dell'azione educativa oggi. Poiché "la disponibilità illimitata di forme e d'interlocutori della comunicazione in questa epoca digitale ha già prodotto un riposizionamento delle tradizionali agenzie educative, a cominciare dalla famiglia e dalla scuola, spesso inesorabilmente marginalizzate o comunque ridimensionate". Si tratta perciò - secondo Crociata - di cogliere "le opportunità della nuova situazione facendo diventare il concorso di nuove potenzialità e di nuovi soggetti un fattore produttivo di una più ricca opera educativa".

In questo contesto "l'aspetto più delicato" è costituito "dalla tentazione relativista che mina in radice qualsiasi opera educativa". Facilmente si perviene alla "conclusione che non ha senso avanzare alcuna proposta educativa". Infatti, "un senso malinteso di rispetto dell'autonomia e della libertà ha portato talora a teorizzare e praticare il rifiuto dell'opera educativa come tale, ritenendola lesiva o limitativa della personalità del bambino, del ragazzo o del giovane, la quale invece dovrebbe avere già in sé tutto ciò che è necessario alla sua maturazione umana e, dunque, avrebbe bisogno solo di un aiuto volto a facilitare la sua naturale evoluzione". E, in una simile prospettiva - per Crociata - ne va della "sussistenza stessa dell'educazione", perché "a essere messa in questione, prima che il compito educativo, è l'idea di persona umana".

Stando alla mentalità dominante, infatti, "la famiglia non dovrebbe in alcun modo adottare misure costrittive o repressive e la scuola assumerebbe solo una funzione metodologica, come luogo di apprendimento di informazioni, di tecniche, di uso di strumenti di cui lo studente si servirebbe liberamente e relativamente per dar forma alla propria personalità".

Per affrontare e superare simili difficoltà il segretario generale della Cei pone l'accento su tre parole chiave - "generazione, tradizione, autorità" - che diventano anche le tre "esigenze imprescindibili per una sfida educativa raccolta e condotta secondo verità".

Dire "generazione" significa infatti, per Crociata, fare riferimento all'esperienza umana elementare. "Non basta essere procreati per essere generati:  non basta metter al mondo una creatura per renderlo figlio e persona". Al tempo stesso, "la tradizione rappresenta la condizione per lasciar emergere l'originalità e l'unicità di ciascuno", poiché "non è nel vuoto che si può sviluppare una personalità originale, ma soltanto all'interno di un processo di trasmissione".

Infine, il concetto di "autorità", parola che appare "ostica" ai nostri giorni, ma che invece, a patto di non essere "confusa con autoritarismo", è "responsabilità a partire da un'autorevolezza personale e competente da parte dell'educatore". Si giunge così al "problema principe":  la "carenza di figure di educatori". Perché troppo spesso i giovani "non incontrano adulti e educatori capaci, carichi di passione educativa".


(©L'Osservatore Romano - 7 luglio 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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14/07/2010 21:02
 
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A colloquio con il gesuita Franco Imoda, presidente di Avepro

Università ecclesiastiche di qualità
per la sfida educativa



di Gianluca Biccini

Si scrive Avepro, si legge Agenzia della Santa Sede per la valutazione e la promozione della qualità delle università e facoltà ecclesiastiche. È l'organismo che da tre anni realizza in concreto l'adesione vaticana al "processo di Bologna" per la creazione di uno spazio comune europeo nell'ambito dell'istruzione superiore. Ne abbiamo parlato con il gesuita Franco Imoda, che presiede l'agenzia voluta da Benedetto XVI nel settembre 2007.

Cos'è il "processo di Bologna"?

È un movimento non legislativo, volontario, non impositivo - anche se fortemente appoggiato dai governi europei - che mira alla creazione di un'ampia area di insegnamento superiore nel vecchio continente, caratterizzata da mobilità di studenti e docenti e, ovviamente, da un innalzamento del livello qualitativo.

Com'è nato?

Dalla convergenza di due fattori:  il primo è la proposta di contribuire alla creazione di un'unione non solo economica ma anche culturale, scaturita dall'incontro di alcuni ministri dell'istruzione in occasione dei novecento anni dell'ateneo bolognese. La conseguenza di questa volontà è stata, nel 1999, la dichiarazione di Bologna, in cui 29 Paesi si impegnavano a intraprendere un cammino comune. Il secondo fattore è stato offerto dalla necessità dei Paesi d'oltrecortina, all'indomani della caduta del muro di Berlino, di riscrivere l'ordinamento universitario e di poterlo fare in armonia con l'insieme dell'Europa.

Da allora sono passati più di dieci anni e il processo ha continuato a fare passi in avanti.

Sono seguiti analoghi summit dei ministri - a Praga nel 2001, a Berlino nel 2003, quando è entrata la Santa Sede, a Bergen nel 2005, a Londra nel 2007, a Lovanio nel 2009 e a Budapest-Vienna nel 2010 - con una partecipazione crescente, tanto che a oggi hanno aderito 47 nazioni. Nel corso dei vari appuntamenti è stata definita una serie di obiettivi che avrebbero dovuto essere conseguiti entro quest'anno:  l'adozione di un sistema di titoli di semplice leggibilità e comparabilità, attraverso un sistema accademico a tre cicli; la mobilità per studenti, docenti, ricercatori e personale tecnico-amministrativo, mediante la rimozione degli ostacoli alla libera circolazione; la cooperazione europea nella valutazione della qualità interna e fra le istituzioni universitarie dei diversi Paesi.

Gli studenti hanno voce in capitolo o si tratta di un meccanismo che riguarda solo i docenti?

Uno dei principi del "processo di Bologna" è che gli studenti vengano coinvolti a tutti i livelli. Anzitutto strutturale:  nell'Avepro, per esempio, uno studente è membro di diritto del consiglio direttivo, e un altro del consiglio scientifico. Inoltre a livello più quotidiano, essi partecipano, già da tempo in molti casi, al processo di valutazione interna delle istituzioni. Gli studenti oggi sono molto più disimpegnati rispetto a quarant'anni fa, quando oltre alle tensioni nelle università c'era anche voglia di partecipazione. Ora si fa fatica persino a eleggere il rappresentante degli studenti.

Nel 2010 il processo si sarebbe dovuto concludere. Cos'è successo invece?

Il 12 e il 13 marzo si è tenuta una conferenza a Budapest e a Vienna che ha inteso celebrare la "conclusione" del processo. Di fatto il processo è l'avvio di un cammino destinato a continuare e non a terminare. Gli obiettivi - certamente ambiziosi e a lungo termine - non sono ancora stati pienamente realizzati, né avrebbero potuto esserlo soprattutto allo stesso grado e in tutte le nazioni. Pensiamo all'armonizzazione delle qualifiche, che sono progressivamente concepite in modo sempre più simile o paragonabile nei vari Paesi europei:  al primo livello c'è il baccalaureato, che corrisponde alla laurea italiana, seguito dal master e dal dottorato. Un altro esempio è quello della valutazione della qualità secondo norme condivise. Un lavoro enorme se si considera che le università e facoltà nel vecchio continente - e parlando solo delle istituzioni ecclesiastiche - sono circa 180, senza contare gli istituti aggregati o affiliati.

Perché la Santa Sede non è voluta rimanere estranea a questo movimento?

Per il grande numero di istituzioni accademiche a essa riconducibili. Per questo dopo l'adesione al "processo", avvenuta nel 2003, su suggerimento della Congregazione per l'Educazione Cattolica, il Papa ha eretto nel 2007 l'Avepro, ponendola alle dipendenze della Segreteria di Stato, anche alla luce della autonomia di cui deve godere nei confronti del dicastero dell'educazione. Lavoriamo in stretta sintonia con le università e le facoltà ecclesiastiche in tutta Europa, per sviluppare una promozione della qualità che soddisfi i requisiti richiesti dal "processo di Bologna".

Quindi il vostro campo d'azione è il vecchio continente?

Non solo. Questo compito richiede una stretta collaborazione tra l'agenzia e le 180 facoltà ecclesiastiche - inserite in oltre cento diverse istituzioni - presenti in 18 Paesi dei cinque continenti. L'Avepro, del resto, assicura che le istituzioni, nell'applicare la costituzione apostolica Sapientia christiana nel contesto dei cambiamenti attuali, si confrontino con tutti gli standard internazionali.

La parola processo rimanda a una realtà in evoluzione. Anche l'Avepro deve adeguarsi continuamente ai cambiamenti?

Sì, per questo abbiamo strutture flessibili:  un consiglio direttivo, che si riunisce due o tre volte l'anno, e un consiglio scientifico, che si incontra più spesso.

E cosa avete fatto in concreto?

Abbiamo avviato la valutazione della qualità per le sette università romane - Gregoriana, Lateranense, Urbaniana, Angelicum, Salesiana, della Santa Croce, Antonianum - e quasi completato il sito web. È stato inoltre ultimato un progetto pilota nel 2008 per conoscere in concreto la realtà del lavoro che siamo chiamati a svolgere.

In cosa consisteva?

Si trattava della valutazione interna e del miglioramento della qualità in otto facoltà ecclesiastiche di diversa tipologia istituzionale:  due in Germania, due in Italia, due in Polonia e due in Spagna. Dopo aver elaborato delle linee guida per la preparazione di un rapporto di autovalutazione da parte della facoltà interessata, ci sono state la visita in loco e la relazione di un gruppo di nostri esperti, il follow-up e l'attuazione delle raccomandazioni.

Un'esperienza quindi utile?

Certamente, soprattutto perché ci ha permesso di chiarire alcuni punti, come quelli riguardanti la situazione delle istituzioni che si trovano in nazioni nelle quali lo Stato accredita e finanzia le facoltà e quella delle istituzioni che hanno già avuto o avranno a breve la visita da parte delle agenzie nazionali. Per il primo aspetto si è pensato all'eventualità di creare articolazioni territoriali - come per esempio già in Germania - mentre il secondo si dovrebbe risolvere con lo sviluppo progressivo del lavoro di valutazione dell'Avepro in collaborazione con le diverse agenzie locali. L'impressione generale sul progetto pilota è stata comunque molto positiva. Le istituzioni hanno trovato utile il lavoro di autovalutazione per analizzare meglio le loro specificità, i punti di forza e anche quelli su cui lavorare. Hanno apprezzato anche lo spirito nel quale sono state effettuate le visite e la professionalità delle équipe. Nella composizione di queste ultime, la molteplicità delle nazionalità e delle discipline ha rappresentato un elemento propulsivo. I membri hanno trovato arricchente il lavoro in comune e si sono sentiti accolti dalle facoltà visitate.

Quali indicazioni avete avuto da questo progetto?

Abbiamo utilizzato l'esperienza acquisita per modificare le linee guida e per formulare un adeguato piano generale per i sistemi di valutazione interna della qualità nelle istituzioni ecclesiastiche di tutta Europa. E ora l'obiettivo è di aiutare le istituzioni ecclesiastiche a sviluppare una cultura della qualità che riguardi tutte le attività, l'insegnamento, la ricerca e i servizi.

Lei è stato rettore di uno storico ateneo, la Gregoriana. Cosa pensa del modello universitario europeo?

Esso è in genere una realtà sempre viva e in continua evoluzione. Le finalità formative rimangono valide. Ogni università cattolica o ecclesiastica ha come scopi la formazione, la ricerca e il servizio della società e quindi della Chiesa. Nello stesso processo europeo è stato utile il dibattito circa i modelli universitari non solo come fornitori di un pur necessario mercato del lavoro. La Santa Sede ha promosso attraverso la Congregazione per l'Educazione Cattolica un seminario nel 2006, che ha avuto notevole successo, per interesse e la partecipazione, proprio sul tema "Il patrimonio culturale e i valori accademici delle università europee e l'attrattività dello spazio europeo dell'istruzione superiore".

Ritiene che quando il Papa parla di emergenza educativa si riferisca anche all'ambiente accademico?

Dovunque ci si trovi si sente parlare di crisi e di sfide del sistema educativo. È ovvio che le congiunture mondiali si ripercuotono nell'ambito universitario, che è una finestra sensibile. Il successo del seminario citato può indicare un bisogno e un desiderio di continuare a coltivare valori e finalità formative che vadano oltre le pur legittime esigenze dettate dalla tecnica e dal pragmatismo utilitario. I valori etici, il dialogo tra culture e religioni e i temi antropologici che li sottendono rimangono una sfida di altissimo profilo.

Per concludere, crede che l'Avepro possa favorire una maggior armonizzazione anche all'interno delle strutture accademiche pontificie e delle università cattoliche?

Penso di sì. La nostra istituzione non si preoccupa soltanto della cultura della qualità, ma punta a un sistema di qualità, basato sull'informazione e sulla trasparenza riproponendo a tutti gli interessati le caratteristiche di un sistema di insegnamento superiore o università. Questo sistema non vuole e non può essere una gabbia uniforme e rigida, ma è importante che comunque si sviluppi. Da parte sua la Santa Sede si trova a dover trovare un equilibrio tra la necessità di una presenza capillare in tutto il mondo - il che in alcuni casi va a detrimento della qualità nelle piccole facoltà in Paesi remoti - e le eccellenze cui puntano i grandi atenei di fama internazionale.


(©L'Osservatore Romano - 15 luglio 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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30/08/2010 19:59
 
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Il cardinale Angelo Bagnasco per la solennità della Madonna della Guardia

Il compito prioritario
di promuovere la famiglia


Genova, 30. "Trascurare la famiglia, ad esempio nelle sue esigenze economiche, significa sgretolare la società stessa. Per contro, mettere in atto delle politiche adeguate ai reali bisogni della famiglia perché possa avere dei figli, significa guardare lontano, assicurare un corpo sociale equilibrato". È un passaggio dell'omelia che il cardinale arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha tenuto ieri mattina nel capoluogo ligure in occasione della solennità della Madonna della Guardia.

Non si finirà mai di insistere - ha aggiunto il cardinale - "perché le misure siano sempre più aderenti ed efficaci alla realtà della famiglia grembo della vita". Che l'Italia "non goda di buona salute sul piano della natalità è sotto gli occhi del mondo intero. Che gli altri Paesi non se ne preoccupino è scontato, ma che non ce ne preoccupiamo e non ce ne occupiamo noi è stolto. La Liguria, poi, si trova nelle primissime posizioni in quella che è una vera corsa verso la morte. Per la verità, i segni di una ripresa esistono anche da noi, e non solo grazie agli immigrati. Ma l'inversione di tendenza non è ancora decisa. Quali siano gli effetti negativi a tutti i livelli di questo inverno demografico sono noti a chi riflette e s'informa:  sul piano economico, politico, sociale, psicologico, culturale, ecclesiale".

Ha aggiunto il cardinale Bagnasco:  "Sembra strano parlare di rapporto tra demografia e democrazia ma bisogna tuttavia riconoscere che l'equilibrio demografico non solo è necessario alla sopravvivenza fisica di una comunità, che senza bambini non ha futuro, ma è anche condizione per quella alleanza tra generazioni che è essenziale per una normale dialettica democratica. Anche per questo la Chiesa da molto tempo va dicendo che, in Occidente, dietro a una bassa demografia sta una catastrofe culturale grave".

Il porporato ne ha messo in evidenza uno dei tanti aspetti:  "La scarsità di bambini significa non solo un futuro autunnale, ma già ora crea squilibri tra le generazioni, causa una povertà educativa non solo perché noi adulti siamo sottratti al compito di educare, ma anche perché non siamo più educati noi stessi. I ragazzi e i giovani, infatti, ci costringono a metterci in discussione; ci provocano a uscire da noi che, per età e acciacchi, tendiamo a ripiegarci sui nostri bisogni immediati. Non sono solamente i genitori che, avendo dei figli, devono cambiare prospettive e stili, devono pensare e organizzarsi in rapporto ai figli nelle diverse età. È la società nel suo insieme che deve pensarsi e organizzarsi in tal senso. Per assurdo, una società senza bambini e ragazzi, così come una società senza anziani, sarebbe gravemente mutilata, non potrebbe funzionare".

Il mondo - ha spiegato ancora il cardinale - potrà continuare a guardare con fiducia al futuro "finché un uomo e una donna uniranno le loro vite per sempre nel vincolo del matrimonio. Essi formano, nel grembo dell'umanità, una realtà nuova che dovrebbe far vibrare di riconoscenza e di commozione l'universo intero. La famiglia fondata sul matrimonio, e in modo del tutto speciale nel sacramento, è una prova che Dio continua ad amare il mondo, che ha fiducia nell'uomo, che esiste il futuro, che l'amore e la speranza sono più forte del male".

Infatti - ha spiegato il cardinale Bagnasco - nel momento decisivo del "sì" avviene che gli sposi "prendono la propria vita e la depongono nelle mani dell'altro". Tale prospettiva "forse intimorisce e spaventa ma qui si inserisce la potenza di Cristo; qui si innesta quella forza che non è semplicemente umana ma divina. Sì, perché la fedeltà vera, quella dell'amore fino al sacrificio di sé, è qualcosa che sta sul confine tra l'umano e il divino".

Nella celebrazione del pomeriggio, il porporato ha poi parlato del ruolo educativo svolto della famiglia, scuola di umanità e di fede, dove, essendo amati, si impara ad amare e a "toccare con mano i valori dell'accoglienza, della solidarietà non episodica". I genitori sono anche "i primi maestri della fede, e credo che, in questo, dobbiamo fare ancora della strada".

Ed è indubbio - aveva detto nella mattinata di ieri il cardinale - che "anche il mondo politico abbia bisogno sempre di presenze qualificate e coerenti; sia quelle che ci sono in questo momento, come quelle di ieri e come quelle di domani. Presenze qualificate affinché la storia proceda". Una "nuova classe politica", ha aggiunto, "cristiana nei fatti, non nelle parole", "è un richiamo da sempre. Fa parte della fede di ogni credente essere in modo intelligente coerente con la propria fede", nelle diverse responsabilità.


(©L'Osservatore Romano - 30-31 agosto 2010)

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01/09/2010 21:31
 
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La scoperta dell'amore in un mondo dominato dalla superficialità

Il corpo e la bellezza


Si chiude il 5 settembre alla Venaria Reale di Torino la mostra "Gesù. Il corpo. Il volto nell'arte" curata da Timothy Verdon e organizzata dall'Associazione  Sant'Anselmo - Imago Veritatis in occasione dell'ostensione della Sindone. Pubblichiamo quasi  integralmente uno dei saggi del catalogo (Cinisello  Balsamo, Silvana editoriale, 2010, pagine 336).

di Armand Puig i Tàrrech

Cos'è e cosa significa il corpo in un mondo che ne è affascinato? Una riscoperta antropologica liberante? Una forza vitale senza sosta? Una fonte di commercio e di denaro? Il mio "io" nella sua forma più meravigliosa e piacevole? Il fondamento di una corporeità che si inoltra sulle vie dello spirito? È difficile accordare una risposta a queste domande.

La riflessione nel salmo 8, innescata secoli fa, non ha perso la sua gravità:  "Cos'è l'uomo perché te ne ricordi? Cos'è il figlio dell'uomo perché te ne curi?". Ma subito lo stesso salmista accenna una parola sapiente:  "Di gloria e d'onore lo hai coronato". L'uomo, tutto quello che è (le sue facoltà, anche il suo corpo), tutto è glorioso e degno. La corporeità non è una dimensione asservita dell'essere umano. Forse per ciò il salmo 40, nella versione greca dei Settanta, è stato ripreso nella Lettera agli Ebrei e messo nella bocca dell'Uomo per eccellenza. Cristo si rivolge così a Dio:  "Un corpo invece mi hai preparato (...) per fare, o Dio, la tua volontà" (10, 5-7). Il corpo di Gesù non è dunque un accidente della storia ma l'ostensione luminosa dell'amore di Dio. Il volto di Gesù non è anonimo:  attrae e domanda, consola e fa vivere, solleva e salva. In Gesù e per Gesù la corporeità è diventata un modo di essere di Dio stesso.

Nei decenni scorsi le abitudini personali sono cambiate. La vita umana è diventata più sedentaria, e il corpo viene obbligato a lunghi periodi di immobilità, è forzato ad adottare posizioni fisiche stancanti e nocive. È "normale" che il corpo si agiti giorno e notte, schiavo dei turni in un lavoro che non distingue tra giorni feriali e festivi. L'urgenza della produttività e del profitto squilibra la vita di molte persone. Nelle società occidentali, ma anche nelle economie emergenti (Cina, India), l'esaurimento ha sostituito la fatica. Il corpo resta senza capacità di reagire, non tanto per lo sforzo fisico quanto soprattutto per le tensioni estreme che deve assumere.

Dall'altra parte, il corpo ha molte possibilità per mantenersi e differire il momento in cui arriva la morte. In Europa, ad esempio, l'età media si è raddoppiata negli ultimi cent'anni; pure se in molti Paesi dell'Africa molte persone vivono la metà degli europei e in condizioni molto dure. Ma nella stessa Europa la qualità di vita oscilla, e non tutti possono vivere in modo degno il tramonto del proprio corpo. Nei centri storici e nelle periferie delle grandi città, ma anche nei quartieri ricchi e medi, ci sono tante persone anziane che vivono e muoiono nella solitudine. Nelle nuove strutture assistenziali, a volte non molto diverse dagli antichi cronicari, gli anziani sono soltanto "vecchi", cioè, persone considerate non produttive e accusate di consumare i mezzi economici dei più giovani. In modalità diverse, il corpo degli anziani è vittima dell'abbandono.

Nel caso dei giovani e degli adulti, costoro sono richiamati dal mercato a diventare adepti della "religione del corpo". Qui il corpo è vittima dello sfruttamento ideologico e commerciale. Il tema del corpo si situa ogni giorno al centro di tanti discorsi e decisioni, accanto ai temi affini (cibo, costumi, tempo libero), e in alcuni la fissazione per il proprio corpo porta addirittura a gravi problemi di salute. Il corpo non è più un affare privato, ma pubblico, e le persone vengono giudicate secondo il corpo che hanno:  le anoressie e le bulimie manifestano in modo drammatico disagi crescenti di fronte al proprio corpo. D'altronde, sale la spregiudicatezza nei confronti del corpo, e molti si vantano di avere una figura non curata o volutamente "controculturale". E anche queste trasgressioni sono diventate parte di un mercato che ha universalizzato il corpo umano per renderlo fonte di guadagno. Il potente mercato del corpo promuove la convinzione che è possibile sfidare il passare del tempo e preservare il proprio corpo da un tempo che sfugge. Bisogna "essere belli" a tutti i costi. Il corpo non può infiacchirsi come luogo inesauribile di soddisfazioni. Il corpo indossa le vesti di guardiano del benessere della persona. Dà al corpo tutto quello di cui ha bisogno, e lui ti ricompenserà:  così la pensano in tanti.

La spirale di contraddizioni intorno al corpo si manifesta anche nei bambini. Da una parte, costoro dedicano molte energie allo sport, all'allenamento del proprio corpo, e lo sport pervade ogni ambito della loro vita, anche della vita di non pochi adulti. Per molti genitori il corpo dei figli è diventato una vera precedenza. Dall'altra parte, sale il numero di bambini con un corpo quasi deformato dall'eccesso di peso, e aumentano le cliniche specializzate in questo problema. C'è uno squilibrio che trascina anche i bambini, forse le persone più indifese oltre ai giovani, in un mondo globale.

Se si guarda insieme al mondo della droga e a quello della ricerca scientifica, le contraddizioni sul corpo continuano. Un atteggiamento permissivo in nome delle libertà individuali, provoca che si vulnerino i diritti umani più fondamentali, tra cui la dignità del proprio corpo e, soprattutto, il diritto alla vita. La droga uccide sempre, lentamente o in modo rapido. Da una parte, si fa finta di non vedere che la tossicodipendenza annienta tanti corpi di persone che, nel migliore dei casi, diventano un'ombra di se stessi. Dall'altra parte, le scienze sperimentali (mediche, biochimiche, genetiche), arrogandosi capacità quasi "divine", si sforzano di controllare i processi riguardanti la "creazione" di nuovi corpi, auspicandosi che in un futuro non lontano si possano scegliere molte caratteristiche corporali nei bambini che devono nascere.

In un modo simile, la sessualità - una dimensione fondamentale del corpo umano - è presente nella cultura attuale con una notevole ambiguità. Il corpo come sesso è un riferimento onnipresente in una società che è figlia del Sessantotto - l'ultima grande rivoluzione che ha fatto l'Europa, secondo le parole di Andrea Riccardi. La decisione assoluta sul proprio corpo come espressione di libertà personale fa parte dei principi scaturiti da quella rivoluzione. Comunque, la liberazione sessuale, teorizzata e tante volte proclamata come scopo di una intera generazione, è caduta nelle braccia del mercato, oppure è in balìa dei sentimenti e delle passioni, considerati intoccabili. Il frantumarsi del rapporto vita-sesso ha lasciato il corpo senza approdi:  la donazione del proprio corpo è stata sostituita dal piacere corporale come esperienza massima.

Il corpo, che è possibilità reale di immolazione per gli altri, è caduto nell'illusione dell'amore per se stesso. Il sesso ha perso la sua cornice vitale, la sua grandezza, ed è apparso il corpo ferito dal consumo sessuale. Questo consumo ha travolto quelli che credevano in un "corpo libero", ma non si rendevano conto che il male indebolisce i migliori sentimenti e rende cattivo quello che era sognato come bello. In più, il consumo di sesso ha condannato tante persone a essere vittime del commercio sessuale:  corpi venduti e sfruttati, vittime degli interessi di uomini senza scrupoli, avidi di denaro.
Tra tanti contrasti e paradossi, è difficile trovare una ubicazione per il corpo in un mondo che spesso lo dissacra, un mondo che tende a fargli perdere la bellezza originaria, radicata nel disegno divino, e la dignità senza condizioni, che il Figlio di Dio fatto corpo ha dato per sempre al corpo stesso. Tuttavia, bisogna affermare che c'è posto per il corpo, e che questo è da riscoprire e da costruire in un mondo che continua a domandarsi:  "Cos'è l'uomo perché te ne ricordi?" (Salmi, 8, 5).

Il canone dei libri della Bibbia contiene un piccolo e prezioso libro:  il Cantico dei cantici. Si tratta di un poema costruito come dialogo tra un uomo e una donna che si amano con passione. Il testo, essenziale, mette in scena, quasi in modo esclusivo, i due personaggi, che esprimono a vicenda il sentimento inarrestabile, il desiderio ardente, la ricerca costante, il riposo nel trovarsi, il dialogo tra i corpi, la parola che riempie tutto. La sessualità umana e umanizzante, tenera e pacificante, di un erotismo accomunato all'amore e alla donazione, è il tema centrale di un libro che gira intorno al corpo. In ogni modo, il dialogo tra l'uomo e la donna non ha soltanto il corpo come orizzonte ma affonda nell'io dell'altra persona, che diventa il punto nodale:  il discorso sul corpo si inserisce nella realtà della persona umana che dà e riceve. Così la donna afferma, piena di convinzione:  "Il mio diletto è per me e io per lui" (Cantici, 2, 16).

Secondo il Cantico dei cantici, il rapporto tra uomo e donna è un rapporto tra uguali. L'amore non è "sessista", non distribuisce i ruoli:  chi domina e chi è dominato, chi è servito e chi serve, chi comanda e chi ubbidisce. Cercare la sottomissione dell'altro porta al conflitto, ma la sessualità umana non può essere una lotta di potere. Piuttosto la sessualità, il dialogo tra i corpi, si iscrive in una ricerca di eternità, nella convinzione che il rapporto non deve rompersi poiché si radica in un sentimento che oltrepassa i limiti della vita. Leggiamo:  "forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione".

E ancora:  "(l'amore è) una fiamma del Signore" (Cantici, 8, 6). In altre parole, l'amore di Dio è sceso sulla terra, e l'amore umano è salito al cielo. Non è per caso che i grandi mistici, come il catalano Raimondo Lullo, parlassero del rapporto tra l'Amico e l'Amato, tra Dio e l'uomo. E Benedetto XVI sottolinea l'unità dell'amore, divino e umano:  "Amore di Dio e amore del prossimo si fondono insieme:  nel più piccolo incontriamo Gesù stesso e in Gesù incontriamo Dio" (Deus caritas est, 15). Veramente, la radice dell'amore è soltanto una.

Orbene, il Cantico dei cantici mostra che la sessualità umana si pone in termini di dialogo, che corpo e parola vanno insieme. La parola costruisce il rapporto veramente umano, essa è la messaggera del cuore, la sua vera interprete. Ma essa è anche l'interprete del corpo, dei suoi bisogni e delle sue mancanze, dei periodi della vita in cui il corpo vive nell'esaltazione e dei momenti di disagio e degrado. La parola è l'araldo della corporeità, la nera effigies del corpo, quella realtà personale che trascende la pura materia organica e mostra che il corpo è soggetto di eternità, capax aeternitatis. È appunto la corporeità - non soltanto il corpo - la realtà espressa in modo travolgente dalla Sindone, custodita da secoli a Torino.

L'uomo della Sindone viene raffigurato nella sua corporeità, attraverso un'immagine che evoca un corpo morto (quello di un uomo trafitto da una grande violenza) ma che punta verso una trasfigurazione corporale, verso una corporeità spirituale, trasformata (quella verificata nel corpo del risorto e dei risorti, il sòma pneumàtikon, il corpo spirituale, di cui parla l'apostolo Paolo nel capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi). Morte e vita si intrecciano in un unicum della storia umana. È l'esordio del corpo glorioso, non più schiavo della morte.


Il corpo ha dunque bisogno della parola e del cuore, che è la culla della parola. Senza il cuore e la parola, il corpo "materiale" sarebbe un piccolo, o grande, tiranno, che imporrebbe la sua dittatura. Il desiderio ("faccio quello che mi piace") e la disponibilità assoluta ("il corpo è mio, e ne faccio quello che voglio") si erigerebbero come i criteri dominanti di un signore capriccioso, il corpo, che vorrebbe dominare il cuore e la parola. Solo se il corpo diventa amico del cuore e della parola, smette di essere un dominatore autocrata e antipatico, uno che, in nome del benessere, rischia di rendere schiava la vita. Il corpo non può essere innalzato al di sopra di ogni altra realtà, né deve essere condannato a una sottomissione colpevole. L'uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio perché la parola e l'amore, che scaturiscono dal cuore, sono, con il corpo e nel corpo, dono del Creatore. Perciò il corpo non può concepirsi come un dominatore.  Forse, dopo quarant'anni, la  rivendicazione  dell'autonomia  delle decisioni riguardo al corpo ("il corpo è mio, e ne faccio quello che voglio") è diventata l'accettazione rassegnata  della sua dominazione ((il corpo è mio, e faccio quello che esso mi detta").

E, malgrado tutto, l'uomo, cioè, la persona nel suo insieme, è il re delle cose create (Salmi, 8, 7). Il mondo è stato affidato all'uomo perché lo custodisca e ne abbia cura, come un amministratore che si preoccupa dell'eredità a lui consegnata. C'è una responsabilità ricevuta da Dio perché la dimensione corporale-materiale venga inserita nella realtà personale (formata da un corpo animato e sensibile pure spiritualmente, memoria, intelligenza volontà), senza imporre le sue esigenze all'insieme di questa realtà.

Nel romanzo L'idiota di Dostoevskij uno dei personaggi domanda:  "Ma quale bellezza salverà il mondo?". È chiaro che il mondo può essere salvato grazie alla bellezza. In modo simile, il corpo è riscattato dalla morte e dalla distruzione grazie alla bellezza che vi è iscritta da Colui che lo ha modellato, infondendogli l'alito di vita (Genesi, 2, 7). La possibilità di salvezza del corpo sgorga dalla sua bellezza. Il corpo è un dono divino avvenuto nel giardino dell'Eden, non è opera umana ma divina. La creazione è un'esplosione di bontà e bellezza, volute e ordinate da Dio, amico degli uomini.

Perciò tante volte si afferma che la vera bellezza è quella che scaturisce dall'interno della persona. Anzi, la bellezza può irradiare da un corpo non affatto bello, ma da un corpo che comunica quello che è più verace, la verità stessa. In un'occasione fra Masseo, uno dei compagni di Francesco, gli chiese perché tutti lo cercassero e gli ubbidissero visto che il suo corpo non era attraente:  "Non hai il corpo bello, non avvantaggi gli altri in scienza, non sei nobile". Il poverello di Assisi rispose che Dio aveva scelto lui, "persona inutile e peccatrice", per confondere la bellezza del mondo e perché si capisse che soltanto da Dio venivano "ogni virtù e ogni bene". Il corpo più bello può non essere il corpo più attraente.

La fotografia del volto di una donna anziana, segnato dalle rughe, gli occhi stanchi ma vivi, la pelle inscurita dagli affanni, lascia intravedere prove e sofferenze, ma anche un'intimità di serena bellezza. Questo volto non è lontano da un'opera come quella del Cristo coronato di spine di un seguace del Beato Angelico, in cui il volto di un uomo colpito dalle aggressioni e coperto di ingiurie, non si rifugia nell'odio ma ha uno sguardo di misericordia e perdono. Il volto dell'anziana e di Cristo sofferente provocano repulsione soltanto quando la bellezza viene concepita come qualcosa di esteriore. Ma la bellezza esordisce quando si vive l'unione tra le persone, quando si è capaci di guardare negli occhi dell'altro, quando ci si avvicina a un uomo che lotta per la vita, quando l'amore diventa il cuore del mondo. Allora, il corpo viene salvato dall'amore, da una gratuità che non pone limiti.

La bellezza del corpo si manifesta senza condizioni nel giardino dell'Eden. Infatti la persona umana è creata senza nessun vestito che la copra. La bellezza originaria non è ancora ferita da nulla, e perciò l'uomo e la donna non devono vergognarsi di nulla. Il loro corpo appartiene all'ambito di ciò che è "buono", e la impronta divina riempie le loro persone. La nudità dell'Eden non è una scelta ma un segno che indica che la loro bellezza partecipa della luce, prima creatura.

Tuttavia, la persona porta dall'inizio il marchio della debolezza, propria degli esseri creati:  uomo e donna sono creature, sono esseri usciti dal Creatore. La prima parola che lui rivolge a lei menziona la "carne" ("è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa", Genesi, 2, 23). Il corpo di Adamo ed Eva può perdere la bellezza del cuore, quella che li fa specialmente vicini a Dio. Il male, sempre, fa sparire la bellezza, e allora il corpo si deve coprire, incapace di resistere al sentimento di vergogna. Quando la bellezza e la bontà si separano, la nudità diventa scomoda. Ma, al contrario, se bellezza e bontà trionfano, se la donazione brilla nel buio di un mondo che invita a salvarsi da se stesso, allora si manifesta il corpo nudo di Colui che dà la vita, l'Uomo senza colpa, crocifisso ed esposto dinanzi tutti.

La nudità di Cristo nella croce è, anch'essa, redentrice. In essa non c'è vergogna, ma perdono e salvezza. Il corpo nudo di Cristo, crocifisso e morto, sospeso nel patibolo, oppure sdraiato in grembo a sua Madre, oppure alzandosi nella gloria dall'abisso della morte, ripristina l'Adamo prima del peccato, cioè, la bellezza originaria, il corpo senza difetto uscito dalle mani del Padre.

Il corpo del Signore Gesù non è un elemento secondario nel disegno divino di salvezza. Dio non salva il mondo senza il corpo, ma nel corpo e attraverso il corpo. Dio si è fatto corpo nel corpo di Gesù, suo Figlio. La bellezza dell'essere umano, manifestata nei corpi di Adamo ed Eva, risiede in un corpo che è uno spazio pieno di sensibilità e di affetti, cioè lo spazio del cuore. Allo stesso modo, il corpo storico e glorioso di Gesù, nuovo Adamo - Logos-Parola di Dio che partecipa del lògos umano - restaura la bellezza ferita dal peccato e dalla morte. Così si rifà l'amicizia iniziale con Dio, e il corpo e i suoi linguaggi (letteratura, arte, musica, gestualità) diventano pienamente spirituali.

Dall'altra parte, occorre dire che il corpo di Gesù, terreno e glorioso, si rintraccia nei corpi dei poveri e degli ammalati. La bellezza non conosce confini. Anche quelli che non contano, anche i corpi di quelli che sono spesso rifiutati in un mondo selettivo, meritano l'attenzione di Gesù. Ci si può chiedere perché Gesù abbia orientato la sua attività verso i corpi di quelli che cercavano guarigione. Infatti l'attività di Gesù si divide in due grandi campi:  parole (insegnamenti) e fatti (guarigioni ed esorcismi). Gesù è un maestro ma anche un taumaturgo. Il corpo diventa per lui una scelta costante. Si può dire che le guarigioni di tanti malati, compiute da Gesù, anticipano il suo mistero pasquale, la sua morte e la sua risurrezione.

Così, la sua vita diventa una restaurazione della vita degli altri, un riscatto di corpi sottomessi a forze oscure di male e di malattia, una lotta perché la bellezza del creato sia rifatta in quelli che sono preda di forze brutte di morte. Guarire è liberare la persona dal peso di male che agisce in essa e riportarla a una umanità piena, non più frantumata e avvilita.



(©L'Osservatore Romano - 2 settembre 2010)


Fraternamente CaterinaLD

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Riscoprire l'essenziale della vocazione per sottrarsi ai condizionamenti della società

Vita religiosa
e secolarizzazione


di Jean-Louis Bruguès
Arcivescovo segretario
della Congregazione per l'Educazione Cattolica


La vita religiosa si trova oggi sottoposta a notevoli pressioni. In particolare, due tipi di condizionamento mi sembra meritino attenzione. Il primo riguarda la secolarizzazione. Un fenomeno storico nato in Francia a metà del XVIii secolo, che ha finito per investire tutte le società che volevano entrare nella modernità. Anche l'apertura al mondo, giustamente proclamata dal concilio Vaticano ii, è stata interpretata, sotto la pressione delle ideologie del momento, come un passaggio necessario alla secolarizzazione.

E di fatto, negli ultimi cinquant'anni, abbiamo assistito a una formidabile iniziativa di auto-secolarizzazione all'interno della Chiesa. Gli esempi non mancano:  i cristiani sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie, ma credono ancora alla vita eterna? Le nostre Chiese hanno messo in atto un immenso sforzo per rinnovare la catechesi, ma questa stessa catechesi parla ancora dell'escatologia, della vita dopo la morte? Le nostre Chiese si sono impegnate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, ma discutono del peccato, della grazia e delle virtù teologali? Le nostre Chiese hanno fatto ricorso al meglio del proprio ingegno per migliorare la partecipazione dei fedeli alla liturgia, ma quest'ultima non ha perduto, in gran parte, il senso del sacro, vale a dire quel retrogusto di eternità? La nostra generazione, forse senza rendersene conto, non ha forse sognato una "Chiesa dei puri", mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare?

Che fine ha fatto, in tale contesto, quella vita religiosa che era stata presentata, in maniera tradizionale, come un segno escatologico e un'anticipazione del Regno a venire? Di fatto, religiosi e religiose hanno presto abbandonato l'abito della propria famiglia per vestirsi come tutti gli altri. Spesso hanno abbandonato i propri conventi, giudicati troppo vistosi o troppo ricchi, a beneficio di piccole comunità sparse nei villaggi o nei grandi agglomerati urbani. Hanno scelto mestieri profani, si sono impegnati in attività sociali e caritative, oppure si sono messi al servizio di cause umanitarie. Si sono fatti simili agli altri e si sono fusi nella massa, talvolta per formare il lievito della pasta, ma anche, in molti casi, perché tale atteggiamento rispondeva al clima dei tempi.

Non dovremmo sottovalutare i meriti di tale impostazione né i benefici che ne ricava la Chiesa ancora oggi. Quei religiosi e quelle religiose, infatti, si sono fatti più vicini alle persone e, in particolare, ai più svantaggiati, mostrando un volto della Chiesa più umile e più fraterno. Ciononostante, questa forma di vita religiosa non sembra avere più un futuro, non attira quasi più vocazioni.

La quasi totalità delle congregazioni attive, nate nel xix secolo o all'inizio del xx, si trovano quindi colpite a morte, e la loro scomparsa è solo una questione di tempo. Le case generalizie e i grandi conventi si sono già trasformati in case di riposo per anziani. Fra il 1973 e il 1985, 268 congregazioni francesi delle 369 esistenti hanno chiuso il proprio noviziato. La situazione, da allora, non ha fatto che peggiorare. L'auto-secolarizzazione ha minato alle fondamenta la vita religiosa. La crisi ha colpito soprattutto le forme di vita attiva, meno quelle contemplative, perché la secolarizzazione aveva orientato tutto ciò che è religioso verso la militanza o l'impegno sociale.

Il fatto è che il militante o la persona impegnata nel sociale, oggi, ci tengono a rimanere laici. Eccoci alla seconda tipologia di pressione esercitata sulla vita religiosa. Per affrontare la sfida della secolarizzazione, il Concilio ha avuto la geniale intuizione di affidare questa missione ai laici. Coloro che avevano l'avventura di essere gli attori principali della società secolare non erano forse i più appropriati per realizzare tale compito? Il Vaticano ii ha valorizzato - non dico che ha rivalorizzato, poiché una simile impresa non ha mai avuto luogo nel passato - la vocazione dei laici. Tuttavia, proprio la valorizzazione del laicato ha provocato una sorta di schiacciamento della vita religiosa "attiva". Se quest'ultima, infatti, ha riconosciuto a lungo la propria identificazione con un servizio specifico offerto alla Chiesa e alla società - come l'insegnamento nelle scuole o la cura dei malati negli ospedali - dal momento in cui i laici venivano chiamati a fornire gli stessi servizi e a dedicarsi ad attività simili, la vita religiosa attiva perdeva la sua ragion d'essere. Oggi non è più necessario passare per una consacrazione per fornire gli stessi servizi.

Quando ci troviamo in presenza di una maestra che insegna con passione o di un'infermiera servizievole, desiderose di condurre una vita autenticamente cristiana, potremmo domandarci se la stessa donna, cento o centocinquanta anni fa, non si sarebbe presentata alla porta di una di quelle neonate congregazioni che abbiamo evocato poco fa.

Questo ci porta alla seguente conclusione:  oggi più che mai, la vita religiosa non può essere definita partendo da un "fare", bensì da un modo di essere e da uno stile di vita. I due rischi che abbiamo appena descritto in forma sintetica e - non ho difficoltà ad annetterlo - senza troppe sfumature, dell'auto-secolarizzazione e della valorizzazione del laicato, costituiscono un pericolo per la vita religiosa. La loro combinazione ha provocato in quest'ultima una sorta d'implosione. Quindi, la situazione attuale della vita religiosa, soprattutto nelle Chiese occidentali, si presenta in modo paradossale. Da una parte, dopo il Concilio, godiamo dei vantaggi di un importante rinnovamento della teologia della vita religiosa. Dall'altra, abbiamo assistito al crollo di numerose congregazioni, così come a una fioritura di nuove forme di vita religiosa nella prima metà degli anni Settanta.

Questo carattere paradossale c'invita dunque a tornare all'essenziale. A cominciare dal fatto che la vita religiosa è unica nella sua essenza e plurale nelle sue forme. In altri termini, queste molteplici forme nascono tutte da un tronco comune, quello della vita e della tradizione monastica. Di conseguenza, la prima dimensione è mistica:  la vita religiosa c'immerge nel mistero della morte e della risurrezione di Cristo. È dunque sbagliato definire un istituto a partire della sua attività. Anche se è stato in questo modo che sono state concepite le congregazioni nate nei due secoli scorsi.

Questa chiamata a stare con il Signore viene trasmessa a una singola persona - ogni vocazione è molto personalizzata e non esistono due percorsi che siano veramente simili - invitandola però a unirsi a una comunità specifica. Alcuni sperimentano una sorta di colpo di fulmine nei confronti di una comunità e non gli viene neanche in mente d'andare a bussare a un'altra porta. Altri, invece, si concedono un lungo tempo di riflessione, durante il quale fanno il giro di molte case e si dedicano a studi comparativi molto accurati. In ogni epoca ci sono stati matrimoni d'amore e matrimoni di ragione. Quel che è certo, però, è che l'attrazione è sempre legata alla vita comunitaria. Infatti, il codice di diritto canonico definisce quella religiosa come una vita essenzialmente comunitaria. E questa vita comunitaria è eminentemente spirituale nella misura in cui è lo Spirito Santo che la anima e la porta avanti. Possiamo quindi dedurne che la fede data dallo Spirito rappresenta la chiave di lettura di tutti gli elementi che costituiscono la vita religiosa, a cominciare dai voti e dalla preghiera.

In questo senso, la povertà religiosa non è un concetto sociologico. Non è fatta per dare l'esempio della povertà. La parola stessa non ha fatto la sua comparsa se non in epoca tarda; prima, si parlava di sine proprio, oppure di communio, termini molto più suggestivi. Il voto religioso corrisponde dunque a un atto di fede per mezzo del quale il religioso accetta quel dono dello Spirito che lo impegna a non tenere nulla per sé, al fine di vivere nel modo più intenso possibile la sua comunione con la vita fraterna.

Allo stesso modo, l'obbedienza religiosa non è in primis di natura ascetica o pedagogica. Indubbiamente, presuppone un'ascesi nella misura in cui implica una certa rinuncia alla propria volontà. Presenta, inoltre, una dimensione pedagogica, nella misura in cui mira a educare in noi la libertà dei figli di Dio. La sua natura, però, è essenzialmente mistica:  ci fa entrare in un sistema in cui comanda lo Spirito. La fede ci porta ad affermare che il comandamento dato non viene innanzitutto dalla volontà del superiore - anche se porta il marchio della sua psicologia, forse anche della sua patologia - ma dallo Spirito, del quale il superiore è, in un certo senso, il rappresentate visibile. A quel punto, smettiamo di comportarci come singole entità, per diventare un corpo fraterno.

Anche tra l'amore umano e la castità religiosa - che pur possiedono diversi punti in comune - esiste una differenza essenziale. L'amore umano comporta una scelta e una conquista, si presenta come un amore d'esclusione:  scegliere una donna specifica comporta rinunciare a tutte le altre. Ora, contrariamente alle apparenze, che ci portano a sostenere che abbiamo scelto noi di diventare carmelitani o domenicani, la vita religiosa non si sceglie:  ci troviamo coinvolti in questa vita sotto l'impulso dello Spirito. Per ognuno di noi, sarebbe impossibile rimanere fedeli alle promesse del nostro battesimo al di fuori della vita religiosa. In quest'ultima, non esiste alcuna conquista né alcuna esclusione:  lo Spirito ci rende partecipi di una comunità d'accoglienza in cui tutti debbono imparare a vivere come fratelli.

Infine, è nella fede data dallo Spirito che viviamo la preghiera, non come un'attività come le altre, ovvero solo un'attività in più, né come una minaccia per le diverse attività implicate dallo stile di vita - tutti noi conosciamo bene quella tensione fra il nostro lavoro e il tempo dedicato alla preghiera, che equivale troppo spesso a un tempo residuo. Nel simbolismo monastico il chiostro, ovvero l'apertura allo Spirito, rappresenta il legame fra la chiesa, luogo di preghiera (Opus Dei) e i diversi luoghi di lavoro (opus hominis) ma  come  una  scuola  in  cui  impariamo a diventare un "mendicante del Signore".


(©L'Osservatore Romano - 20 ottobre 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/11/2010 01:18
 
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Il Card. Cipriani chiede un'urgente educazione alla morale


ROMA, venerdì, 19 novembre 2010 (ZENIT.org).- Il Cardinale Juan Luis Cipriani ha sottolineato l'urgente necessità di educare alla morale affinché le persone possano distinguere il bene dal male.

“Bisogna sapere che cos'è una frode, che cos'è un furto, che cos'è la menzogna, altrimenti tutti potremo mentire, rubare, abusare”, ha detto l'Arcivescovo di Lima domenica scorsa nella Cattedrale della città.

Il porporato ha lamentato che il Ministro della Salute peruviano, Oscar Ugarte, abbia avviato nei giorni scorsi una campagna di distribuzione di 18 milioni di preservativi in tutte le regioni del Perù come mezzo di “salute pubblica”.

“Chi ha la responsabilità di curare la salute preferisce percorrere un'altra strada: 'Regalerò preservativi'”, “non educare la gioventù, educare i genitori, educare l'opinione pubblica”, ha denunciato.

In questo contesto, il Cardinale ha chiesto a tutti un esame di coscienza, riconoscendo che abbiamo bisogno dell'aiuto di Dio per superare i problemi e le difficoltà.

“Nessuno ti chiede di essere perfetto, nessuno ti dice che devi fare tutto bene, non è facile”, ha riconosciuto.

“Attraverso i sacramenti, la catechesi, l'insegnamento dei tuoi genitori, lascia che Cristo ti educhi, per avere una coscienza ben formata, per avere un'enorme fede”, ha aggiunto.

“Nel sacramento della Confessione posso chiedere perdono per i miei abusi, le mie ingiustizie, le mie menzogne; nel sacramento dell'Eucaristia posso trovare la forza per la speranza, la gioia; da soli non ci riusciamo”.

“Per questo, bisogna rivolgersi costantemente a Dio, pregare, studiare, parlare con gli altri, confessarsi”, ha sottolineato.

Il Cardinale ha poi ricordato che tutti i cattolici hanno il dovere di perseverare in Cristo.

“Non smettete di pregare, di lottare, di cercare sempre la verità”, ha esortato.

“Il destino di un cattolico è lottare per amore, fino all'ultimo istante. Bisogna vincere l'ultima battaglia, e visto che non sappiamo quale sia l'ultima bisogna vincere quella attuale, quella di oggi, in casa, sul lavoro, con gli amici”.

“Pregate, cercate Dio, conoscetelo, studiate il Catechismo, e così vedremo quanto Dio è vicino”, ha concluso.


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27/11/2010 12:07
 
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La vitalità della famiglia cristiana

“La famiglia cristiana è stata da sempre la prima via di trasmissione della fede e anche oggi ha grandi possibilità di evangelizzazione”. E’ una delle affermazioni-cardine, ispirate dal Magistero pontificio, con le quali il cardinale Ennio Antonelli ha aperto a Roma il Congresso internazionale promosso dal suo dicastero sul tema della famiglia come protagonista di specifiche azioni pasrtorali. 

Dibattiti e testimonianze si protrarranno fino a sabato prossimo, quando l’ultimo atto del Congresso si terrà nella Basilica Vaticana con la “Veglia della vita nascente” presieduta da Benedetto XVI.

Sessantasei esperienze giunte dai quattro angoli del pianeta per raccontare come oggi la famiglia è e può essere protagonista di una fede che cambia i cuori e la società. Sono quelle, su un totale delle 187 ricevute, che il Pontificio Consiglio per la Famiglia ha selezionato nel corso di un anno, dopo aver chiesto a tutti gli episcopati di raccogliere e di segnalare le più significative.

Con questi numeri, il cardinale Antonelli ha introdotto il lavori di un Congresso che – ha affermato davanti alla platea dei 200 partecipanti – nelle intenzioni del dicastero rappresenta “l’inaugurazione ufficiale di un processo permanente di comunicazione delle esperienze e delle testimonianze di pastorale familiare”. “Vorremmo attivare – ha spiegato – un processo continuato nel tempo di raccolta e messa in circolazione, dopo adeguato discernimento, delle esperienze che sono ritenute più rilevanti e più idonee a ispirare e stimolare altre nuove esperienze”.

Questo perché, ha soggiunto rievocando un’idea di Benedetto XVI, “le esperienze parlano con il linguaggio dei fatti e sono più persuasive delle idee, perché non indicano solo ciò che si deve fare, ma anche ciò che con l’aiuto di Dio è possibile fare”.

Mamme, papà e figli di varie espressioni ecclesiali, Azione Cattolica, Movimento dei Focolari, Neocatecumenali e altri, si sono alternati al microfono per raccontare in che modo il cristianesimo ha dato un’anima alla loro famiglia.

Educazione dei bambini e degli adolescenti, preparazione dei fidanzati all’amore e al matrimonio, adozioni e volontariato, impegno politico e culturale: l’universo della famiglia cristiana sarà analizzato in ogni aspetto e irrobustito volta per volta dal peso di testimonianze esemplari per “creatività” e fede. E tuttavia, ha precisato il cardinale Antonelli, “non si tratta solo di esemplarità dei buoni cristiani, ma di sacramentalità ecclesiale; non solo di buon uso della libertà umana, ma di accoglienza della grazia divina; non solo di amore cristiano, ma dell’amore stesso di Cristo, accolto, portato e manifestato a tutti”.

Per arrivare a questo grado di responsabilità delle famiglie, ha proseguito il porporato, è necessario allora sviluppare una “pastorale della verità”, incentrata sull’importanza e la bellezza dell’annuncio cristiano, una “pastorale della santità”, attinente alla formazione di singoli e di comunità ecclesiali che evitino, ha detto, “di accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalista e di una religiosità superficiale”, e di una “pastorale della misericordia”, fatta di apertura al dialogo, promozione dello sviluppo integrale dell’uomo, dei diritti umani, della famiglia, della società bene ordinata, fino all’elaborazione di forme concrete di impegno sociale.

-RV

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24/01/2011 10:50
 
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 anche questo fa parte dell'educazione....


LA SATIRA TV CHE FERISCE

SONO UN PRETE STUFO DI FANGO

MAURIZIO PATRICIELLO

Sono un prete. Un prete della Chiesa cattolica. Uno dei tanti preti italiani. Seguo con interesse e ansia le vicende del mio Paese. Non avendo la bacchetta magica per risolvere i problemi che affliggono l’Italia, faccio il mio dovere perché ci sia in giro qualche lacrima in meno e qualche sorriso in più.
Sono un uomo che come tanti lotta, soffre, spera. Che si sforza ogni giorno di essere più uomo e meno bestia. Sono un uomo che rispetta tutti e chiede di essere rispettato. Che non offende e gradirebbe di non essere offeso, infangato. Da nessuno. Inutilmente. Pubblicamente. Vigliaccamente.
Sono un prete che lavora e riesce a dare gioia, pane, speranza a tanta gente bistrattata, ignorata, tenuta ai margini. Un prete che ama la sua Chiesa e il Papa. Un prete che non vuole privilegi e non pretende di far cristiano chi non lo desidera, che mai si è tirato indietro per dare una mano a chi non crede.
Un prete che, prima della Messa della sera, brucia incenso in chiesa per eliminare il fetore sprigionato dalle tonnellate di immondizie accumulate negli anni ai margini della parrocchia in un cosiddetto cdr e che vanno aumentando in questi giorni.
Sono un prete che si arrabbia per le inefficienze dello Stato ai danni dei più deboli e indifesi. Che organizza doposcuola per bambini che la scuola non riesce ad interessare e paga le bollette di luce e gas perché le case dei poveri non si trasformino in tuguri.
Sono un prete, non sono un pedofilo.

So che al mondo ci sono uomini che provano interesse per i bambini e, in quanto uomo, vorrei morire dalla vergogna. So che costoro sono molti di più di quanto credono gli ingenui. So anche che poco o nulla finora è stato fatto per tentare di capire e curare codesta maledizione.
Piaga purulenta la pedofilia. Spaventosa. Crudele. Vergognosa. Tra coloro che si sono macchiati di codesto delitto ci sono padri, zii, nonni, professionisti, operai, giovani, vecchi e anche preti.

Giovedì sera, trasmissione Annozero di Michele Santoro. Tantissimi italiani guardano il programma. Si discute di Silvio Berlusconi. Alla fine esce, come al solito, il signor Vauro con le sue vignette che dovrebbero far ridere tutti e invece, spesso, mortificano e uccidono nell’animo tanti innocenti. Ma non si deve dire. È politicamente scorretto. È la satira. Il nuovo idolo davanti al quale inchinarsi. La satira, cioè il diritto dato ad alcuni di dire, offendere, infangare, calunniare gli altri senza correre rischi di alcun genere. Una vignetta rappresenta il Santo Padre che parlando di Berlusconi dice: «Se a lui piacciono tanto le minorenni, può sempre farsi prete». Gli altri, compreso Michele Santoro, ridono.
 
Che cosa ci sia da ridere non riesco a capirlo. Ma loro sono fatti così, e ridono. Ridono di un dramma atroce e di innocenti violentati. Ridono di me e dei miei confratelli sparsi per il mondo impegnati a portare la croce con chi da solo non ce la fa. Ridono sapendo che tanta gente davanti alla televisione in quel momento si sente offesa in ciò che ha di più caro e soffre. Soffre per il Santo Padre offeso e perché la menzogna, che non vuol morire, ancora riesce a trionfare. Per bastonare Berlusconi, si fa ricorso alla calunnia. E gli altri ridono.
Vado a letto deluso e amareggiato, sempre più convinto che con la calunnia e la menzogna – decrepite come la befana o come le invenzioni di qualche battutista e di qualche sussiegoso giornalista-presentatore televisivo – non si potrà mai costruire niente di nuovo e stabile.
 
E il giorno dopo scopro che alla Rai, finalmente, stavolta qualcuno s’è indignato. Spero solo che adesso Vauro e Santoro e qualcun altro che non sto a ricordare non facciano, loro, le vittime. E che in Italia ci sia più di qualcuno che comincia a farsi avanti e, senza ridere, dice chiaro e tondo che non si può continuare a infangare impunemente quegli onesti cittadini dell’Italia e del mondo che sono i preti. 

Avvenire, 23 gennaio 2011

***************

La lettera di questo sacerdote mi ha davvero toccato e commosso.
Ha assolutamente ragione. La satira non e' e non puo' essere diritto di offendere e di calunniare.
Ogni tipo di satira (pungente, fastidiosa, irriverente) deve fermarsi davanti alla copertina del codice penale che tutela TUTTI i cittadini o, meglio, tutti gli esseri viventi (persone fisiche e ora, giustamente, anche i nostri amici animali).
Non e' la prima volta che "comici" e "vignettisti" passano il segno con il Papa e la Chiesa.
Come siamo arrivati a questo punto?
E' colpa anche della Chiesa Italiana e della Santa Sede che, per quasi sei anni, hanno permesso che televisioni e giornali infangassero il Papa e stravolgessero le sue parole.
Ora e' tardi.
Male ha fatto lo studio di Annozero a ridere della vignetta di Vauro, bene ha fatto l'Onorevole Santanchè ad abbandonare lo studio.
Non possiamo pero' non ricordare che, a maggio, sempre ad Annozero, c'era un'altra persona che rideva delle vignette di Vauro. Il vescovo Sigalini! Invitato a parlare della lotta della Chiesa alla pedofilia, non ha saputo dire una sola frase a difesa del Santo Padre.
Per fortuna c'era Socci che pero' non e' un vescovo!
I media hanno grandi e gravissime responsabilita', ma i silenzi della Chiesa in questi sei anni hanno causato molti danni.
Ormai ci siamo praticamente abituati. Sappiamo che cosa aspettarci da giornali e tv: disprezzo e dileggio.
Non e' certo un bel risultato ne' per i mezzi di comunicazione ne' per la Chiesa italiana ne' per la Santa Sede
.
R.

Grazie al Sacerdote autore di questa lettera!


Fraternamente CaterinaLD

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13/02/2011 19:42
 
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Ma è questa la scuola italiana?

SVEGLIATEVI!!!!


di padre Piero Gheddo*

ROMA, domenica, 13 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Mi telefona una cara amica di una cittadina vicina a Milano, con 30 anni di insegnamento nelle scuole elementari, per augurarmi Buon Anno e poi continua: “Più vado avanti  e più mi accorgo che di cinque in cinque anni i genitori dei bambini sono sempre più preoccupati di tutto, meno che dell’educazione e dei valori da trasmettere ai loro figli. Quel che importa è che il bambino non torni a casa scontento. Sono sempre pronti a mettere i puntini sulle i, ma educazione zero. Numerosi quelli che prendono la scuola come un parcheggio: io lavoro, il  mio bambino è custodito e basta. Bambini non controllati, non seguiti”.

“A volte mi metto a pulire le loro cartelle e dico al bambino: quand’è l’ultima volta che tua mamma ha guardato dentro alla tua cartella? Tiro fuori manate di carta, disegni stropicciati, senza il materiale che serve. Nella nostra città arriviamo al 45-50% dei bambini non italiani, sono bengalesi, singalesi, equadoregni, peruviani.  Queste famiglie, eccetto qualche caso, ci tengono di più all’istruzione, all’educazione,  chiedono se il bambino è educato, se si comporta bene. E’ duro dirlo, ma molte famiglie italiane non sono così. Gli immigrati fanno più figli e sanno educarli. Sono in condizioni peggiori delle famiglie italiane, ma fanno più figli e ci tengono ad educarli bene. Come fanno? Rinunziano a tante comodità e dimostrano che si può vivere bene anche in una povertà dignitosa”.

“E poi, com’è diventato difficile, anche nelle scuole elementari, fare certi discorsi. Per Natale il parroco voleva venire ad augurare il Buon Natale a tutti. Abbiamo dovuto mandare ai genitori una lettera nella quale chiedevamo se permettevano che il bambino partecipasse a questo saluto. Mamma mia! Ma un augurio o anche la benedizione del sacerdote non ha mai fatto male a nessuno. E ci sono italiani che dicono di no, mentre i genitori stranieri, in genere, rispondono che il loro figlio canta le canzoncine di Natale, partecipa al saluto del sacerdote….. Insomma, non possiamo più fare un passo senza avere il consenso dei genitori in tutto e per tutto”.

“Ci sono ancora delle famiglie italiane che si salvano, ma sono sempre meno. Dieci-vent’anni fa, c’erano mamme che venivano a chiederti notizie del figlio, come faceva, se si comportava bene, chiedevano consiglio; se c’è qualcosa da dire me lo dica pure. Adesso, se la maestra ha scritto un appunto sul quaderno del bambino, perché è già tre volte che viene in classe senza il quaderno, oppure perché per il terzo giorno consecutivo ha picchiato un altro bambino; la mamma viene a chiedermi come mi sono permessa di scrivere quelle cose sul suo tesoro.  Bisogna pesare e soppesare le parole. E’ vero, non bisogna offendere, ma dire lo stesso le cose che devi dire. Perché ci sono delle colleghe che ti dicono: ma chi te lo fa fare? Tu dì che va tutto bene e sei a posto. Ma non è giusto. La maestra non insegna solo delle nozioni, ma educa la personcina di cui ha la responsabilità”.

“Oggi poi  è diventato difficile proporre cose che possano andar bene a tutti. Ad esempio, una volta la IV e la V si ritrovavano, anche fuori dell’orario scolastico, per celebrare la festa del IV novembre, le famiglie ci tenevano; oppure si andava in chiesa all’inizio dell’anno e i bambini venivano tutti. Queste cose non si possono più fare, ma non diamo la colpa al fatto che ci sono stranieri di religione diversa. Non è vero, ci sono italiani che della religione non glie ne importa assolutamente niente e vogliono che il bambino sia educato così”.

“Ricordo che c’era un reduce dalla guerra in Russia che sapeva parlare ai ragazzi. Veniva in classe e raccontava la sua prigionia in Russia, le lunghe camminate sulla neve, la sofferenza della fame e altro. I bambini ascoltavano attenti, con la bocca aperta. Portava in classe i suoi scarponi come li aveva portati dalla Russia, con ancora la terra della Russia attaccata alle suole: un cimelio. Era un racconto educativo. Oggi non si può più fare. I genitori si scandalizzerebbero. I bambini non debbono soffrire di nulla, non possiamo parlare della morte, della sofferenza, i bambini debbono essere sempre contenti. Poi li lasciano allo sbando per ore davanti alla televisione in tenera età. Noi ci accorgiamo dai discorsi che fanno in classe, chiaramente televisivi. I bambini non debbono essere messi a confronto con la realtà, che è anche dolore, malattia, morte! L’importante è che non rompano le scatole ai genitori”.

“Ho ancora presente una bambina egiziana. Mamma e papà  erano due gioielli. La bambina si è presentata in prima elementare e aveva problemi di linguaggio. Il papà chiedeva di  fare il lavoro la notte per sei mesi, in modo da poter accompagnare la bambina due volte alla settimana per la logopedia. Quando gli ho detto che la bambina era curiosa, interessata a tutto e stava migliorando, quell’uomo, che era un armadio, si è messo a piangere. A quest’uomo e a sua moglie, una bellissima signora, ho chiesto se a Natale la bambina poteva cantare le canzoncine di Natale e hanno risposto: 'Rania canta tutto, anche le canzoni di Natale. Rania deve sapere che ci sono anche le altre religioni'. Ci sono famiglie italiane che non vogliono, sono atee, i loro bambini debbono essere come loro. Nei primi anni che ero in scuola, si faceva la preghierina tutte la mattine, adesso non si può più. Noi insegnanti cattoliche in una scuola laica, abbiamo anche degli insegnanti che sono contro la religione e la Chiesa. Bisogna agire con calma ma una volta abbiamo bisticciato per le canzoncine natalizie”.

“Purtroppo, oggi la maggioranza delle famiglie non sono regolari. Anni fa facevamo fare il compito 'La mia famiglia' oppure 'Mio papà e mia mamma' e venivano fuori dei bei temini che  commuovevano i genitori. Adesso non si può più perché molte famiglie sono irregolari e si mettono in difficoltà i bambini. Qualcuno viene fuori a dire: 'Io ho due papà. Il mio papà vero e il mio papà finto'. Una mamma viene a dirmi che si è separata dal marito e mi consegna un foglio del tribunale e dice: se il marito viene a ritirare la bambina, non bisogna dargliela. La società non si rende conto che la separazione e il divorzio lo pagano i bambini. I genitori vogliono il diritto di fare quel che vogliono, ma al diritto del bambino di avere due genitori che si vogliono bene, chi lo rispetta? Quando i genitori si separano o divorziano, i bambini sono quelli che più ci perdono. Crescono male, hanno una ferita psicologica che li accompagnerà tutta la vita”.

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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l'Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.


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30/08/2011 20:15
 
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La questione dell'educazione sessuale

Non è una materia qualsiasi


di LUCETTA SCARAFFIA

Adesso tocca a New York: il provveditore agli studi Dennis Walcott ha stabilito che con il nuovo anno scolastico gli studenti fra gli 11 e i 18 anni dovranno frequentare un corso di educazione sessuale per almeno un semestre. Il nuovo corso fa parte delle iniziative avviate dal sindaco Bloomberg per salvare dalla miseria a cui sembrano destinati i giovani neri e latinoamericani. Per evitare polemiche religiose, fra i metodi anticoncezionali sarà citata anche la castità e gli insegnanti dovranno parlare di sesso con qualche cautela. Ma questo non è bastato all'arcivescovo Timothy Dolan, che ha criticato l'iniziativa, affermando che "così le autorità permettono al sistema scolastico di sovrapporsi ai valori dei genitori, per sostituirli con quelli di chi governa".

Ancora una volta, vediamo ripetersi un modello già sperimentato in molti altri Paesi: lo Stato decide di inserire corsi di educazione sessuale obbligatori nelle scuole, e la Chiesa cattolica si oppone, guadagnandosi nei media l'immagine di forza oscurantista, crudele perché indifferente alle conseguenze che il suo rifiuto può avere fra i giovani, cioè gravidanze indesiderate e malattie. Invece le cose non stanno così. Non si capisce come mai le istituzioni pubbliche occidentali continuino a nutrire una fiducia magica nell'efficacia dell'educazione sessuale.

Dopo anni di corsi, naturalmente centrati sui metodi contraccettivi, abbiamo visto come in molti Paesi - l'esempio più noto è il Regno Unito - i ragazzi continuino ad avere rapporti sessuali precoci senza alcuna protezione, e si moltiplichino le gravidanze fra le adolescenti e gli aborti. Ormai è chiaro che non basta assolutamente spiegare loro come possono usare i contraccettivi, e dove trovarli facilmente, per evitare queste tragedie, ma che il problema è più a monte, nell'educazione e quindi nella famiglia.

In fondo l'Italia - dove non esiste educazione sessuale scolastica obbligatoria - è uno dei Paesi che se la cava meglio da questo punto di vista: qui i giovani rischiano di meno malattie e gravidanze precoci. Questo avviene per merito della famiglia, del controllo affettuoso dei genitori sui figli adolescenti, del fatto che i ragazzi non sono abbandonati a se stessi con una scatoletta di anticoncezionali come unica difesa dalle loro passioni e dai loro errori.

E, in parte, è merito anche della Chiesa cattolica, che continua a insegnare che i rapporti sessuali sono molto più di una ginnastica piacevole da praticare senza freni senza correre rischi. La Chiesa considera infatti la vita sessuale degli esseri umani come una delle prove più significative della loro maturità umana e spirituale, una prova da affrontare con preparazione e serietà, cioè da collegare a scelte di vita fondamentali come il matrimonio, e quindi alla fondazione di una famiglia in cui la procreazione costituisce uno dei fini principali. La Chiesa insegna rispetto per il proprio corpo, che significa dare importanza e peso agli atti che si compiono con esso, a non considerarli solo possibilità di divertimento o di appagamento narcisistico: e questo è proprio il contrario di quanto dicono i suoi critici.

Per la tradizione cattolica il corpo è importantissimo, svolge un ruolo centrale nell'esperienza umana e spirituale di ogni persona. I cattolici quindi non possono accettare che la vita sessuale venga considerata materia di insegnamento come un'attività qualsiasi, la quale presenta dei pericoli che sarebbe meglio evitare; come ben si sa, poi, i giovani sono spesso attratti dai pericoli, e si impegnano a evitarli solo se vengono educati alle ragioni profonde di un diverso comportamento morale.

Certo, per famiglie sempre più spesso disastrate è molto difficile insegnare una morale sessuale che non è testimoniata dai genitori e dall'ambiente dove vivono i ragazzi. E allora sembra più facile rinunciare a qualsiasi forma di insegnamento morale, lasciare il problema alla scuola che sostituisce l'educazione morale con informazioni tecniche.

Se poi i risultati sono rovinosi, si fa finta di niente: è più facile ignorare il problema, fingendo di risolverlo con dei corsi scolastici inutili, anzi dannosi, che affrontare la questione a esso sottesa. Cioè il clamoroso fallimento dell'utopia della rivoluzione sessuale e lo sgretolarsi conseguente della prima istituzione di educazione morale, la famiglia.



(©L'Osservatore Romano 31 agosto 2011)


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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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03/09/2011 14:46
 
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Cose che non capisco

lug 15, 2011 by

COSE CHE NON CAPISCO

 

 

di Pietro Guareskj

I diritti sono una delle più belle invenzioni di questi anni: quando non sai che cosa dire dici che avresti diritto a qualcosa

Ci son parecchie cose che non capisco, di questi tempi in cui viviamo, e la maggior parte di queste gira intorno al cosiddetto “pancione”. Quest’estate avrò visto in giro non so più quante mamme in attesa: panzoni su panzoni, bolidi su bolidi che si aggirano come vascelli a secco dondolando per vie e viuzze cittadine. Se ti beccano con una panciata o un colpo di tetta sinistra ti stendono secco. Speriamo bene.

Comunque le future mamme stanno giustamente attente a tutto: non mangiare il prosciutto, non mangiare l’insalata, non ingrassare, non fare troppe scale, non ti far mancare fragole in inverno o gnocchi al gorgonzola alle ore 22, non correre. Non fumare. Il fumo in gravidanza fa male al tuo bambino. Scusi per favore può ripetere l’ultima? Se fumi in gravidanza gli fai male, al bambino.

Ah, e se durante la stessa gravidanza abortisci com’è che invece ti liberi di un feto? Se fumi gli fai male e se invece abortisci gli fa bene alla salute? Eppure è sempre lui. Sarà che fumare è un diritto e vivere no. I diritti sono una delle più belle invenzioni di questi anni: quando non sai che cosa dire dici che avresti diritto a qualcosa.

Al solito bar in Brianza, sento un tale allampanato, sulla trentina avanzata, le scarpe da indiano delle praterie e la Jeep coi rostri antibisonte parcheggiata fuori, che dice che lui convive e che però è preoccupato dei diritti. Ah. E si fa queste domande tipiche di chi soffre: lascerò alla mia compagna una pensione? I miei figli avranno diritto all’assistenza sanitaria? E il mutuo sarà fisso? E la loro casa avrà il giardino? La rata dell’assicurazione auto sarà congrua? Il tipo continua a esprimere la sua preoccupazione ad alta voce: “eh sì perché d’altronde la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito nel maggio scorso che se un Paese istituisce una disciplina giuridica che riguardi i diritti delle coppie di fatto questa deve essere identica a quella del matrimonio: speriamo lo facciano davvero”. Ma allora perché non ti sposi, o pirla. Ma è così: tutti han diritto ad avere tutti i diritti. Anche i gay vogliono i loro. E così ecco un’altra cosa che non capisco: se i gay si vogliono davvero sposare o no. Da un lato sostengono le unioni di fatto ma poi – di fatto – sembrano sostenere solo quelle etero perché in realtà loro vogliono potersi sposare.

E da qui nasce un’altra cosa che non capisco: sei gay, sei avverso a ogni elemento che richiami la tradizione, specialmente quella cattolica, e vuoi sposarti. Fatto sta che la liberalizzazione, se così la si può chiamare, della loro unione matrimoniale è sostenuta da tutto il mondo progressista, cioè da quelli che già sono per l’aborto, per l’eutanasia e già che ci siamo per la selezione eugenetica degli embrioni. Tutti questi signori insieme, dunque, sono avversi alla famiglia tradizionale ma si spendono in favore delle unioni omosessuali e anche della possibilità, per chi è parte di quelle unioni, di poter adottare figli. E’ così che nascono le cose che non capisco. E la domanda alla fine sorge spontanea: se molti sono abortiti, molti sono soppressi con eutanasia, altri non vedono la luce perché selezionati e scartati allo stato embrionale, molti altri ancora neppure potranno aspirare al concepimento, in quanto la sodomia è sterile, alla fine le coppie gay chi vogliono adottare?



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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12/02/2014 23:09
 
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Se la Santa degl’Impossibili può salvare il cattolico medio

s-rita-pavia

Ho smesso di preoccuparmi e meravigliarmi. Sullo stato delle cose, sul cattolico medio. Qua tutti quanti stamo a fa’ lezioni universitarie sui massimi sistemi a gente che avrebbe bisogno delle tabelline e dell’alfabeto per arrivare in terza: una lotta contro l’analfabetismo religioso non contro le sfumature teologiche fra sapitori delle secrete cose, questa è la lotta che ci spetta, dopo 2mila anni, e tutto il resto appare noia, peggio: irrilevante. Inutile.

E quando ti accorgi di tutto questo che fai? Come puoi cominciare a raccontare tutto da capo? Senza annoiare, mantenendo acceso il cervello rasettato di ogni elemento cristiano. E’ un disastro, una missione impossibile. Allora non resta che testimoniarlo. Quando a scuola la maestra capiva che le nostre teste vuote erano indisponibili a ricevere niente altro, allora passava allo spettacolo, ci narrava della sua vita, della sua esperienza. Dentro certe volte ci metteva la morale. Ma era un rimedio provvisorio, mezzo disperato.

La noia può essere il nemico peggiore di ogni fede.

Quando un amico ti dice “ho visto Narnia 2, ma perché dicevi che il leone del Narnia 1 rappresentava Gesù Cristo?“.

E io a lui: “Perché è un giusto, che si sacrifica per le colpe di tutti e il tradimento di uno e fra mille umiliazioni muore ad opera del male, ma il male non può vincerlo davvero e il giorno dopo resuscita?“.

E lui a me: “Ma in Narnia 2 adorano il leone come un dio e, fra l’altro, poteva essere Bubbha, chiunque altro“.

E io a lui: “Ma l’autore, Lewis, è anglo-cattolico, e cristiano è il racconto che ha voluto scrivere“.

E lui a me: “Ma considerano il leone come un dio non come Gesù“.

E io a lui: “Perché Cristo che è?

E lui a me: “Cristo è… beh è un uomo mica è dio, tant’è che muore“.

E io a lui: “E risorge. Forse perché essendo Lui una delle tre Persone della Trinità che sono sempre Una, è sempre Dio?“.

E lui a me: “Che?… non ti capisco… boh!”.

Questo è un cattolico medio. Oggi. Come fai a spiegare a uno così tutto daccapo, vincendo i suoi sbadigli? Uno che è cattolico da una vita, ma ignora che il suo Dio si chiama Gesù Cristo,  anzi,  ignora proprio che Gesù sia Dio? Al contempo, però,  è convinto che il principe Buddha sia un dio, non per lui, s’intende, per gli altri, ontologicamente, nei fatti. Cosa vuoi spiegare a uno così? Come si fa?

In realtà, un espediente ci sarebbe, ho notato:l’allucinante crudele bellezza della Chiesa, il vellicare gli antichi ricordi infantili degli ultimi cattolici che gli hanno testimoniato in illo tempore la loro fede. Camminare in una grandiosa barocca chiesa cattolica, spiegargli i misteri dei suoi simboli: questo lo affascina. Fermarsi dinanzi alla rappresentazione iconografica di una santa Rita… e allora lui ricorda, pieno di meraviglia, con tenerezza, fiducia, della sua cara nonna che l’ha cresciuto, nata quando ancora c’era la religione e la chiesa e la fede cattolica, quando le casalinghe della città erano tutte “devote a santa Rita”, la santa delle vedove, degli impossibili, di ogni frustrazione domestica. Lui ricorda, con riconoscenza, affetto e struggimento: “Santa Rita… mia nonna ne era tanto devota, mi portava in pellegrinaggio a Cascia”. È l’unico momento in cui riesce ad essere cattolico, l’unico modo possibile. Ecco, da lì si può cominciare: dagli esempi concreti della nostra fede, mescolata all’affetto. Ma possiamo fare ben poco in una sfera tanto intima.

Aveva ragione il successore del cardinale Ratzinger a Monaco, il card. Wetter, il quale diceva che l’elemento fondamentale per l’educazione cattolica non erano stati nei secoli né i vescovi, né i preti, ma le madri (o le nonne)… quando c’è stata la rottura nella trasmissione della fede proprio con il ruolo delle madri ridotto a un scimmiottamento, allora la linfa della fede trasmessa in famiglia è venuta a mancare.

E aveva ragione pure papa Francesco quando in modo disarmante ha ammesso la situazione non solo da “ospedale da campo” ma di disfatta totale del cristianesimo occidentale, laddove ci troviamo nella situazione paradossale, opposta all’aritmetica della parabola, di dover abbandonare l’unica pecorella che non si è smarrita per andare alla ricerca delle 99 smarrite.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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16/03/2015 14:52
 
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Papa: insegnamento è lavoro bellissimo ma malpagato, amare studenti difficili




Il Papa saluta gli insegnanti dell'Uciim giunti in Vaticano con i loro figli - ANSA





14/03/2015

Un lavoro bellissimo, malpagato, che non è solo trasmissione di nozioni, ma una relazione. Il Papa ha parlato così dell’insegnamento durante l’udienza in Aula Paolo VI a circa duemila membri dell’Uciim, l’Unione cattolica insegnanti, che quest’anno festeggia i 70 anni di attività. “In una società che fatica a trovare punti di riferimento, i giovani trovino nella scuola un riferimento positivo”, ha aggiunto Francesco esortando gli educatori ad andare nelle “periferie della scuola”, per non abbandonarle “all’emarginazione, all’ignoranza e alla malavita”. Paolo Ondarza:

Insegnanti malpagati: è un'ingiustizia
Un incontro tra colleghi in Vaticano. Il Papa infatti si è rivolto così agli esponenti dell’Uciim ricevuti in udienza, ricordando le “belle giornate passate da insegnante in aula con gli studenti” in Argentina:

“Insegnare è un lavoro bellissimo. Peccato che gli insegnanti sono malpagati. Perché non è soltanto il tempo che spendono lì per fare scuola, poi devono prepararsi, poi devono pensare ad ognuno degli alunni: come aiutarli ad andare avanti. E’ vero, è un’ingiustizia (…) E’ un lavoro bellissimo, malpagato: è un po’ come essere genitori, almeno spiritualmente. E’ anche una grande responsabilità!”.

Insegnante può essere solo una personalità matura ed equilibrata
Un impegno serio l’insegnamento, che solo una personalità matura ed equilibrata può prendere: ma non si è soli: il lavoro – spiega il Papa – è condiviso con i colleghi e l’intera comunità educativa. Fondata da Gesualdo Nosengo nel 1944, quando l’Italia era ancora in guerra, l’Uciim – ricorda Francesco - ha fatto tanta strada: ha “contribuito a far crescere il Paese, a riformare la scuola, a educare generazioni di giovani” con “quell’entusiasmo e disponibilità che la fede nel Signore dona” rispondendo ai comandamenti: ama il Signore Dio tuo e ama il tuo prossimo:

“Ci possiamo domandare: chi è il prossimo per un insegnante? Il ‘prossimo’ sono i suoi studenti! È con loro che trascorre le sue giornate. Sono loro che da lui attendono una guida, un indirizzo, una risposta – e, prima ancora, delle buone domande!”.

Necessarie relazioni umane per una qualificata istruzione
Discussioni e posizioni riduttive spesso oscurano la “giusta idea di scuola” che invece – esorta il Santo Padre - l’Uciim è chiamata a illuminare: la scuola, statale o non, è fatta di “valida e qualificata istruzione”, ma anche di relazioni umane”:

“Dovete insegnare non solo i contenuti di una materia, ma anche i valori della vita e le abitudini della vita. Per imparare i contenuti è sufficiente il computer, ma per capire come si ama, per capire quali sono i valori e quali abitudini sono quelle che creano armonia nella società ci vuole un buon insegnante”.

Amare con maggiore intensità gli allievi più difficili e più deboli
La scuola non è solo trasmissione di conoscenze tecniche, sebbene sia importante aggiornare le competenze professionali, ma luogo di costruzione di relazioni educative in cui ogni studente “deve sentirsi amato e accolto con tutti i suoi limiti e potenzialità”. Di qui il duplice appello alla scuola a diventare riferimento positivo in una società che fatica a trovare punti di riferimento e agli insegnanti cristiani ad andare nelle periferie della scuola, “che non possono essere abbandonate all’emarginazione, all’ignoranza e alla malavita”:

“Il dovere di un buon insegnante – a maggior ragione di un insegnante cristiano – è quello di amare con maggiore intensità i suoi allievi più difficili, più deboli, più svantaggiati. Gesù direbbe: se amate solo quelli che studiano, che sono ben educati, che merito avete? E ce ne sono alcuni che fanno perdere la pazienza, ma quelli dobbiamo amare di più! Quelli che non vogliono studiare, quelli che si trovano in condizioni di disagio, i disabili e gli stranieri, che oggi sono una grande sfida per la scuola”.

Educatori credibili
Servono educatori credibili, testimoni di un’umanità matura e completa, constata Francesco esortando gli insegnanti a guardare a grandi figure, come don Bosco e a rinnovare con speranza e fiducia nella vita la “passione per l’uomo nel suo processo di formazione”.


DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
AI MEMBRI DELL'UNIONE CATTOLICA ITALIANA INSEGNANTI, 
DIRIGENTI, EDUCATORI, FORMATORI [UCIIM]

Aula Paolo VI
Sabato, 14 marzo 2015

[Multimedia]



 

Cari colleghi e colleghe,

permettetemi di chiamarvi così, perché anch’io sono stato insegnante come voi e conservo un bel ricordo delle giornate passate in aula con gli studenti. Vi saluto cordialmente e ringrazio il Presidente per le sue cortesi parole.

Insegnare è un lavoro bellissimo. Peccato che gli insegnanti siano malpagati. Perché non c’è soltanto il tempo che spendono per fare scuola, poi devono prepararsi, poi devono pensare ad ognuno degli alunni: come aiutarli ad andare avanti. E’ vero? E’ un’ingiustizia. Io penso al mio Paese, che è quello che conosco: poveretti, per avere uno stipendio più o meno che sia utile, devono fare due turni! Ma un insegnante come finisce dopo due turni di lavoro? E’ un lavoro malpagato, ma bellissimo perché consente di veder crescere giorno dopo giorno le persone che sono affidate alla nostra cura. È un po’ come essere genitori, almeno spiritualmente. E’ anche una grande responsabilità!

Insegnare è un impegno serio, che solo una personalità matura ed equilibrata può prendere. Un impegno del genere può incutere timore, ma occorre ricordare che nessun insegnante è mai solo: condivide sempre il proprio lavoro con gli altri colleghi e con tutta la comunità educativa cui appartiene.

La vostra Associazione ha compiuto 70 anni: è una bella età! È giusto festeggiare, ma si può anche cominciare a fare il bilancio di una vita.

Quando siete nati, nel 1944, l’Italia era ancora in guerra. Da allora ne è stata fatta di strada! Anche la scuola ha fatto tanta strada. E la scuola italiana è andata avanti anche grazie al contributo della vostra Associazione, che è stata fondata dal professor Gesualdo Nosengo, un insegnante di religione che sentì il bisogno di raccogliere gli insegnanti secondari di allora, che si riconoscevano nella fede cattolica e che con questa ispirazione lavoravano nella scuola.

In tutti questi anni avete contribuito a far crescere il Paese, avete contribuito a riformare la scuola, avete contribuito soprattutto a educare generazioni di giovani.

In 70 anni l’Italia è cambiata, la scuola è cambiata, ma ci sono sempre insegnanti disposti ad impegnarsi nella propria professione con quell’entusiasmo e quella disponibilità che la fede nel Signore ci dona.

Come Gesù ci ha insegnato, tutta la Legge e i Profeti si riassumono in due comandamenti: ama il Signore Dio tuo e ama il tuo prossimo (cfr Mt 22,34-40). Ci possiamo domandare: chi è il prossimo per un insegnante? Il “prossimo” sono i suoi studenti! È con loro che trascorre le sue giornate. Sono loro che da lui attendono una guida, un indirizzo, una risposta – e, prima ancora, delle buone domande!

Non può mancare fra i compiti dell’UCIIM quello di illuminare e motivare una giusta idea di scuola, oscurata talora da discussioni e posizioni riduttive. La scuola è fatta certamente di una valida e qualificata istruzione, ma anche di relazioni umane, che da parte nostra sono relazioni di accoglienza, di benevolenza, da riservare a tutti indistintamente. Anzi, il dovere di un buon insegnante – a maggior ragione di un insegnante cristiano – è quello di amare con maggiore intensità i suoi allievi più difficili, più deboli, più svantaggiati. Gesù direbbe: se amate solo quelli che studiano, che sono ben educati, che merito avete? E ce ne sono alcuni che fanno perdere la pazienza, ma quelli dobbiamo amarli di più! Qualsiasi insegnante si trova bene con questi studenti. A voi chiedo diamare di più gli studenti “difficili”, quelli che non vogliono studiare, quelli che si trovano in condizioni di disagio, i disabili, gli stranieri, che oggi sono una grande sfida per la scuola.

Se oggi un’Associazione professionale di insegnanti cristiani vuole testimoniare la propria ispirazione, è chiamata ad impegnarsinelle periferie della scuola, che non possono essere abbandonate all’emarginazione, all’ignoranza, alla malavita. In una società che fatica a trovare punti di riferimento, è necessario che i giovani trovino nella scuola un riferimento positivo. Essa può esserlo o diventarlo se al suo interno ci sono insegnanti capaci di dare un senso alla scuola, allo studio e alla cultura, senza ridurre tutto alla sola trasmissione di conoscenze tecniche ma puntando a costruire una relazione educativa con ciascuno studente, che deve sentirsi accolto ed amato per quello che è, con tutti i suoi limiti e le sue potenzialità. In questa direzione il vostro compito è quanto mai necessario. E voi dovete insegnare non solo i contenuti di una materia, ma anche i valori della vita e le abitudini della vita. Le tre cose che voi dovete trasmettere. Per imparare i contenuti è sufficiente il computer, ma per capire come si ama, per capire quali sono i valori e quali abitudini sono quelle che creano armonia nella società ci vuole un buon insegnante.

La comunità cristiana ha tantissimi esempi di grandi educatori che si sono dedicati a colmare le carenze della formazione scolastica o a fondare scuole a loro volta. Pensiamo, tra gli altri, a san Giovanni Bosco, di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita. E lui consigliava ai suoi sacerdoti: educare con amore. Il primo atteggiamento di un educatore è l’amore.  È a queste figure che potete guardare anche voi, insegnanti cristiani, per animare dall’interno una scuola che, a prescindere dalla sua gestione statale o non statale, ha bisogno di educatori credibili e di testimoni di una umanità matura e completa. Testimonianza. E questa non si compra, non si vende: si offre.

Come Associazione siete per natura aperti al futuro, perché ci sono sempre nuove generazioni di giovani a cui trasmettere il patrimonio di conoscenze e di valori. Sul piano professionale è importante aggiornare le proprie competenze didattiche, anche alla luce delle nuove tecnologie, ma l’insegnamento non è solo un lavoro: l’insegnamento è una relazione in cui ogni insegnante deve sentirsi interamente coinvolto come persona, per dare senso al compito educativo verso i propri allievi. La vostra presenza qui oggi è la prova che avete quelle motivazioni di cui la scuola ha bisogno.

Vi incoraggio a rinnovare la vostra passione per l’uomo – non si può insegnare senza passione! - nel suo processo di formazione, e ad essere testimoni di vita e di speranza. Mai, mai chiudere una porta, spalancarle tutte, perché gli studenti abbiano speranza.

Vi chiedo anche, per favore, di pregare per me, e vi invito, voi tutti, a pregare la Madonna, chiedendo la benedizione.

Ave Maria…

[Benedizione]








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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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16/07/2016 10:39
 
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[SM=g1740758] ASCOLTIAMOLO!
Il Maestro Generale dei Cappucci, fa il punto della situazione in Europa senza Dio!


Denuncia le lobby lgbt e il presunto diritto all'aborto e alla eutanasia, ma.... non denuncia e basta, egli ci propone ad una attenta e meticolosa analisi sulle responsabilità che, come cristiani, ognuno di noi deve assumersi.
Una volta si diceva: Cristo sì, Chiesa no!
Oggi lo abbiamo superato: religione sì, Dio NO! il Dio di Gesù Cristo no! Una religione piuttosto comoda e privata di ogni responsabilità....
Buona riflessione....

gloria.tv/video/QjDv4NnZAtb52Nk6sWNgaNTCZ





[Modificato da Caterina63 16/07/2016 10:40]
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