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La bellezza di essere sacerdote storie lontane e vicine

Ultimo Aggiornamento: 15/06/2018 23:26
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Riflessioni per l'Anno sacerdotale

Rolando Rivi
e il sangue versato sulla talare


di Alfonso M. A. Bruno

In Emilia, nella chiesetta di Visignolo di Baiso, sulle prime alture dell'Appennino, in un grande quadro con il crocifisso attorniato di santi, si nota la presenza di un seminarista con la veste e il cappello da prete. Lo fece dipingere circa trent'anni fa il parroco, convinto che quel giovane aspirante al sacerdozio, prima o poi, sarebbe stato riconosciuto santo. Si tratta di Rolando Rivi, una delle numerose vittime che nell'immediato dopoguerra, a pochi chilometri da quel luogo, caddero a causa della furia omicida di alcuni gruppi armati della resistenza. La terra emiliana, infatti, fu particolarmente irrorata dal sangue di preti e seminaristi che in quel periodo furono vittime d'una persecuzione in odio a Cristo e alla Chiesa.

Rolando Rivi nacque a San Valentino di Reggio Emilia il 7 gennaio 1931 da agricoltori umili e ricchi di fede. I parroci, don Luigi Jemmi prima e don Olinto Marzocchini poi, ebbero il merito di formare generazioni di parrocchiani. Il loro apostolato era alimentato da una ricca vita interiore trasparente e percettibile anche agli occhi di un bambino. Rolando infatti era affascinato dal suo parroco don Olinto:  "Che bello - pensava - diventare come lui! Celebrare la messa con Gesù tra le mani, portare le anime a Gesù". Così, appena undicenne entrò nel seminario diocesano di Marola. Era ai primi d'ottobre del 1942. Quello stesso giorno, come allora si usava, il ragazzo vestì con gioia l'abito talare. Il rettore monsignor Luigi Bronzoni, prete colto, autorevole e paterno, insegnava più con la vita che con le parole. All'approssimarsi del periodo estivo, spiegava che in vacanza i seminaristi avrebbero dovuto non solo guardarsi dalle occasioni di peccato, ma ancora di più distinguersi dagli altri nella preghiera e nel servizio in parrocchia, nello studio e nella purezza, nelle opere buone e nella dedizione al Signore. "Anche in vacanza - aveva raccomandato - il seminarista porta sempre l'abito talare, segno della nostra appartenenza a Gesù". 

Rolando così anche nei giorni di vacanza dei caldi mesi estivi portava con orgoglio la veste nera con il colletto bianco. La veste non creava per lui una barriera umana o sociale nelle relazioni con gli altri né tantomeno un impedimento allo svolgimento d'ogni attività, anche ricreativa. Il seminarista Rolando Rivi era sempre un trascinatore. Testimonia un compagno di seminario, ora sacerdote e parroco, don Vezzosi:  "Rolando era vivace e svelto in tutti i giochi:  a pallone, a pallavolo. Campione della classe, della camerata. Attentissimo a scuola, studioso esemplare, innamoratissimo di Gesù. Tutto in lui era superlativo. Si stava volentieri con lui; contagiava gioia e ottimismo".

La sua vita, tuttavia, non fu solo gaiezza e spensieratezza. Alle sue vicende familiari e personali faceva da sfondo la guerra nella quale gli morirono tre zii. E altre sorprese spiacevoli si profilavano all'orizzonte. Nel settembre 1944 il seminario fu occupato da un centinaio di soldati nazisti. I seminaristi dovettero tornare a casa.

In famiglia, Rolando continuò a sentirsi seminarista. La sua gioia erano la messa quotidiana con la comunione, la meditazione, la visita pomeridiana a Gesù eucaristico, il rosario alla Madonna. Il luogo prediletto era sempre la casa parrocchiale. Oltre allo sport, altra sua grande passione era la musica. Quando poteva posare le mani sulla tastiera dell'harmonium, quasi si estasiava a suonare. E ai bambini, ai cuginetti, anche solo di cinque o sei anni insegnava a servire la messa e giocava con i più piccoli per diffondere serenità anche nei giorni più tristi.

La vita a San Valentino trascorse abbastanza tranquilla fino all'estate del 1944. Poi iniziarono le scorribande. Si ebbero ruberie, razzie, fatti spiacevoli e violenze anche contro i sacerdoti. Diventava, infatti, sempre più forte l'odio contro i preti che operavano per la pacificazione degli animi e denunciavano le violenze, da qualunque parte venissero compiute. Rolando sperimentò questo clima.

A San Valentino fu preso di mira il parroco don Olindo Marzocchini. Una mattina d'estate si venne a sapere che durante la notte precedente l'avevano aggredito e umiliato. Gli avevano portato via tutto, comprese le scarpe che aveva ai piedi. Durante la messa, celebrata dopo la brutale aggressione, don Olinto si sentì male:  Rolando e l'altro chierichetto che servivano all'altare capirono che qualcosa di grave era successo. Quando Rolando lo seppe chiaramente, pianse come per un'offesa fatta al proprio padre. Ma non disse parole di odio.

Don Olinto Marzocchini intanto fu fatto riparare in luogo più sicuro. Per assicurare il servizio sacerdotale arrivò in paese un giovane prete venticinquenne:  don Alberto Camellini. Ancora oggi racconta:  "Si viveva un'atmosfera di paura e di tensione. Per conoscere luoghi e parrocchiani mi facevo accompagnare nelle visite da alcuni seminaristi tra cui Rolando Rivi". Il seminarista ne profittò per spiegargli i suoi progetti per l'avvenire - "Sarò prete e missionario". Tutti vedevano passare per la strada il giovane seminarista, tutti conoscevano il suo stile di vita. E i genitori gli dicevano:  "Togliti la veste nera. Non portarla per ora". Ma Rolando rispondeva:  "Ma perché, che male faccio a portarla? Non ho motivo di togliermela. Io studio da prete e la veste è segno che io sono di Gesù".

Rolando intuiva cosa significasse prepararsi al sacerdozio in quel clima, ma non si scoraggiò, né si chiuse in casa. Aveva solo quattordici anni, poco più di un bambino, ma mai si era mimetizzato né aveva nascosto la sua chiara identità d'aspirante appassionato al sacerdozio. In maniera istintiva era consapevole che la mimetizzazione mortifica la pastorale che si avvale di segni e di simboli, ma anche di gesti concreti. Racconta monsignor Giuseppe Mora:  "Spesso in paese scoppiavano dispute alle quali era più conveniente tacere. Capitò che in una discussione alcuni attaccarono ingiustamente la Chiesa e l'attività dei sacerdoti. Rolando difese a fronte alta Gesù, il Papa, la Chiesa e i sacerdoti, senza paura alcuna".

Il 10 aprile 1945, martedì dopo la domenica in Albis, al mattino presto è già in chiesa. Esce contento perché ha già ricevuto l'eucarestia. Non sa ancora che sarà per lui il viatico. Torna a casa, libri sottobraccio va al boschetto a studiare. Indossa come sempre la talare. A mezzogiorno, non vedendolo rientrare, i genitori lo cercano. Tra i libri trovano un biglietto:  "Non cercatelo, viene un momento con noi".

I partigiani lo hanno portato alla loro base sull'Appennino Emiliano. Lo spogliano della veste talare. Lo insultano, lo percuotono con la cinghia sulle gambe, lo schiaffeggiano. Adesso hanno davanti un ragazzino coperto di lividi, piangente. Per tre giorni Rolando rimane nelle mani di quegli uomini. Una valanga di bestemmie contro Cristo, insulti contro la Chiesa e il sacerdozio, di scherni volgari si abbatte su di lui. Quindi, l'orrore della flagellazione sul suo corpo di ragazzo. Rolando piange e geme. Qualcuno si commuove e propone di lasciarlo andare perché è soltanto un ragazzo e non c'è motivo o pretesto per ucciderlo. Ma altri si rifiutano:  "Taci o farai anche tu la stessa fine". Prevale l'odio al prete, all'abito che lo rappresenta. Decidono di ucciderlo:  "Avremo domani un prete in meno!".

Scende la sera ormai, lo portano sanguinante in un bosco presso Piane di Monchio (Modena). Davanti alla fossa già scavata Rolando comprende tutto. Singhiozza, implora d'essere risparmiato. Gli viene risposto con un calcio. Allora dice:  "Voglio pregare per la mia mamma e per il mio papà".
S'inginocchia sull'orlo della fossa e prega per sé, per i suoi cari, forse per i suoi stessi uccisori. Due scariche di rivoltella lo rotolano a terra nel suo sangue. Un ultimo pensiero, un ultimo palpito del cuore per Gesù, perdutamente amato... poi la fine. Gli assassini lo coprono con poche palate di terra e di foglie secche. La veste da prete diventa un pallone da calciare, poi sarà appesa come "trofeo da guerra" sotto il porticato d'una casa vicina.

Era il 13 aprile 1945. Rolando aveva quattordici anni e tre mesi. Con la vita, la parola e perfino il suo sangue aveva proclamato:  "Quanto ho di più caro al mondo è Cristo".



(©L'Osservatore Romano - 11 dicembre 2009)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Ultimamente qualcosa sta accadendo in me, Padre; c'è stata anche una ragazza davvero bella, che ammiravo!


Quesito


Salve Padre Angelo,
mi chiamo … e frequento l’ Università.
Frequento attivamente la vita comunitaria nella mia parrocchia e da diversi anni suono durante la Messa, avendo attitudini per la musica ei il canto.
Sono arrivato alla mia età senza mai avere una relazione, senza mai provarci, senza mai aver avuto la voglia di provare. Anzi, più volte mi é capitato di dover dire di No, col cuore in gola perché immagino il dispiacere di un amore non corrisposto. Tutti mi criticano per questo. Mi dicono che non é saggio arrivare ad amare una donna, quella della vita senza mai avuto un'esperienza prima. Nella mia comitiva (parrocchiale),  nessuno la pensa come me, ovvero la non necessità nella propria vita di avere relazioni adolescenziali temporanee. Quando pensavo al mio futuro, lo immaginavo con una fidanzata dai sani principi, con l'unico intento di un matrimonio sacro e fedele in Dio, al meraviglioso dono dei figli, al lavoro onesto, alle piccole gioie e ad un felicissimo funerale in Dio. (…).
Ultimamente qualcosa sta accadendo in me, Padre. C'è stata, ultimamente, una ragazza davvero bella, che ammiravo! Per bella intendo certamente caruccia, ma bella dentro, con un cuore bello, con dei principi sani e controcorrenti rispetto ai teenager d'oggi! Un amico comune mi confidò a marzo scorso che lei desiderava conoscermi e nonostante ciò non ho non ho mai provato minimamente ad instaurare un rapporto, morale della favola ha pensato bene di trovare un altro ragazzo. Durante questi mesi quando la guardavo mi veniva un sentimento più paterno che da partner, più una voglia di carezza protettrice che un bacio. Mi sento così un pò verso tutto il mondo senza distinzione di sesso. Mi sento sempre portato verso l'aiuto, verso la protezione, verso la carezza. Non riuscirei a vivere senza questo mio modo d'essere. Non riesco a vivere senza aiutare.
Mia mamma si arrabbia molto con me dicendo che penso troppo agli altri e poco alla mia vita (studio, casa....) che passo troppo tempo in chiesa. Ma l'equilibrio di pura estasi che riesco a raggiungere quando so di essere d'aiuto o/e a disposizione per qualcuno o per qualcosa non riesco a trovarlo da nessun'altra parte. Peccato che per vivere servano i soldi. Vivrei di volontariato tutta la vita. Vivrei d'aiutare il prossimo tutta la vita. Ed é per questi pensieri Padre che le sto scrivendo!
Perché sento che qualcosa sta accadendo. Che gioisco troppo al pensiero di vivere per gli altri, e non per me stesso!
Poi tanti tasselli iniziano a creare nel mio Cuore il mosaico di Dio. La mia verginità, il mio totale ignorare a pensare di instaurare una relazione, il mio bollore nel sangue alla sola idea di vivere per gli altri! Le sto scrivendo proprio per chiederle se questi accadimenti possono essere il segno di una Vocazione al Sacerdozio, anche se non troverei il coraggio di come poterlo dire ai miei cari. Sto cercando di accostarmi maggiormente alla preghiera, a dialogare, mi sono anche scaricato degli mp3 di alcuni canti liturgici che mi prendono le corde dell'anima, alcuni mi commuovono troppo!
Un ultimo consiglio Padre. Penso che sia giusto affidare queste mie condivisioni ad un direttore spirituale in carne ed ossa. Conosco un sacerdote con cui ho un rapporto molto bello, una persona meravigliosa e disponibile a tutto. (…) Potrei trovare in lui la figura di direttore spirituale?

Padre, grazie del tempo dedicatomi per la lettura e l'eventuale risposta!
Grazie per questa missione che svolge con vero Amore!
Di Cuore l'abbraccio fraternamente


Risposta del sacerdote

Carissimo,
1. sono contento di risponderti la vigilia dell’anniversario della mia ordinazione sacerdotale.
Se avrai la grazia di diventare sacerdote, ogni anno che passa capirai sempre di più a quale ammirabile vocazione il Signore ti abbia chiamato.
Da quanto mi dici ci sono in te i germi della vocazione al sacerdozio.
Ho l’impressione chi il Signore ti stia preparando da tempo anche attraverso il talento artistico e musicale.
Quel talento che tu vuoi mettere a profitto perché la gente viva in Dio con la vibrazione di tutti i sentimenti del cuore, come avviene in modo singolare con il canto e con la musica.

2. A questo proposito mi piace riportare alcune affermazioni di sant’Agostino e di San Tommaso.
S. Agostino riconosce che il canto ebbe una parte considerevole all’inizio della sua vita cristiana: “Quando però ricordo le lacrime versate all’udire il canto della tua chiesa nei primordi del mio ritorno alla fede, e la commozione che provo ora non per il canto, ma per le cose cantate quando sono espresse con limpida voce e adatta modulazione, riconosco di nuovo la grande utilità di questa istituzione” (Confessioni, X, 33).
“Quanto piansi tra inni e cantici tuoi, commosso vivamente alle voci della tua Chiesa dal soave canto! Quelle voci si riversavano nei miei orecchi, stillavano la verità nel mio cuore; mi ardevano sentimenti di pietà, le lacrime scorrevano e mi facevano bene” (Ib., IX, 6).
Per questo conclude: “Inclino ad approvare la consuetudine di cantare in Chiesa affinché, con l’aiuto del diletto che entra per le orecchie, l’anima inferma si sollevi al sentimento della pietà” (Ib. X, 33).

3. S. Tommaso: “Se uno canta per devozione, considera più attentamente le parole che dice, sia perché vi si ferma più a lungo, sia perché, come si esprime S. Agostino, ‘tutti i diversi sentimenti del nostro spirito trovano nel canto una loro propria modulazione, che li risveglia in forza di un occulto intimo rapporto’.
Lo stesso si dica per coloro che ascoltano: i quali, sebbene talora non comprendano ciò che si canta, tuttavia comprendono il motivo per cui si canta, cioè per dar lode a Dio; e questo basta per ravvivare in essi la devozione” (Somma Teologica, II-II, 91, 2, ad 5).
Per S. Agostino “il cantare è espressione di gioia e, se pensiamo a ciò con un pò più d’attenzione, è espressione di amore” (Sermo 34,1).

4. Ma i segni più evidenti di una tua possibile chiamata sono i seguenti.
“Vivrei di volontariato tutta la vita. Vivrei d'aiutare il prossimo tutta la vita. (…) Perché sento che qualcosa sta accadendo. Che gioisco troppo al pensiero di vivere per gli altri, e non per me stesso!”.
Il mio pensiero corre a san Paolo: “Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22).
Ma penso anche a san Francesco e a san Domenico i quali hanno desiderato spendersi per tutti vivendo non solo di volontariato, ma affidandosi totalmente alla Divina Provvidenza che avrebbe pensato alle loro necessità materiali mentre essi si dedicavano esclusivamente alla salvezza di ognuno del loro prossimo.

5. “Poi tanti tasselli iniziano a creare nel mio Cuore il mosaico di Dio. La mia verginità, il mio totale ignorare a pensare di instaurare una relazione, il mio bollore nel sangue alla sola idea di vivere per gli altri!”.
Indubbiamente la verginità ti aiuta a sentire in  maniera più limpida e toccante la chiamata del Signore.
Mi dici che ci sono state innumerevoli occasioni per instaurare rapporti più stretti con qualche ragazza, anzi in un caso stava maturando qualcosa di particolare. Ma pur stimando il matrimonio, pur avvertendo un certo fascino nei confronti di alcune ragazze, c’è stato qualcosa che ti ha impedito che scattasse quel di più che è caratteristico di chi inizia un fidanzamento.
Sembra quasi che il Signore, facendoti passare attraverso tante belle esperienze e quasi sfiorare un bel fidanzamento, ti riservasse per se stesso.
Ha acceso in te l’amore di qualcosa di più grande, di più vasto, di più duraturo.
Pur ammirando il matrimonio, pur avendone sentito il desiderio negli anni precedenti quando pensando al tuo futuro, lo immaginavi con una fidanzata dai sani principi, con l'unico intento di un matrimonio sacro e fedele in Dio, col meraviglioso dono dei figli, col lavoro onesto, con le piccole gioie e infine con un felicissimo funerale in Dio, adesso sei assetato di cose più grandi.
È come se un’altra Sponsalità si fosse presentata davanti a te, al punto che hai cominciato a sentire la sponsalità umana, pur bella e santificante, come ancora troppo limitata.

6. Penso a questo punto a quanto il beato Giordano di Sassonia dice in una preghiera rivolta al santo Padre Domenico, di cui divenne il primo successore nella giuda dell’Ordine: “Tu, nel fiore della tua giovinezza, hai votato la tua verginità alla bellezza dello sposo dei vergini”.
Adesso anche tu, come san Domenico, sei nel fiore della giovinezza e desideri mettere la tua verginità, simbolo degli affetti che grazie a Dio sono rimasti integri e senza corruzione, a servizio della bellezza dello Sposo dei vergini.
Già lo stai facendo. Penso a quanti ragazzi del tuo gruppo e della tua parrocchia hanno gustato la bellezza della comunione con il Signore e se ne sono tornati a casa con la melodia, con la soavità e la bellezza di quei canti per mezzo dei quali sentivano che Dio riempiva il loro cuore e gustavano dolcemente la Sua presenza.

7. Penso dunque che sia arrivato il momento di parlarne apertamente con il sacerdote di cui mi hai detto e iniziare un cammino personale di discernimento.
Per ora non dire nulla ai tuoi genitori. È prematuro. Hai davanti a te alcuni anni necessari per concludere gli studi.
Quando arriverà il momento, vedrai che il Signore avrà dissodato il terreno e i tuoi genitori saranno più disposti ad accogliere la tua chiamata e a gioirne con te.

Ti assicuro il mio cordiale ricordo nella preghiera, soprattutto in questa giornata così bella per me.
Ti abbraccio e ti benedico.
Padre Angelo
http://www.amicidomenicani.it/leggi_sacerdote.php?id=4166 






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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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20/05/2015 10:39
 
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douglas bazi priest from bagdadFacebook Douglas Bazi
 
In questo momento, a quest'ora. Ogni minuto. Tutti i giorni. Che ci faccia più o meno orrore, in questo istante nel mondo ci sono 38 milioni di persone – quasi l'intera popolazione della Spagna – che stanno fuggendo.

38 milioni di persone perseguitate in tutto il mondo, e l'escalation mette i brividi perché ogni anno sono di più. Solo in Iraq e solo l'anno scorso, più di 2,2 milioni di persone si sono visti costretti ad abbandonare le proprie case.

Ci sono persone, però, che diffondono speranza con il loro esempio. Persone che non fuggono, che restano per alleviare le pene, la fatica, la paura e la mancanza di speranza di quanti devono fuggire. Gente ammirevole.

Una di queste persone è padre Douglas Bazi, parroco della chiesa di Sant'Elia ad Erbil, nel Kurdistan iracheno.

A padre Douglas hanno lanciato cinque colpi di mortaio mentre celebrava la Messa. In seguito hanno bombardato la sua chiesa. Un'altra volta gli hanno sparato due volte alla gamba. Hanno cercato di ucciderlo due volte con le bombe, e alla fine l'hanno sequestrato. È stato 9 lunghi giorni senza cibo né acqua. Gli hanno rotto varie costole, e anche il naso. Gli hanno messo un martello in bocca.

Durante il giorno i suoi sequestratori gli chiedevano pareri sui loro problemi personali, e faceva loro anche da consigliere spirituale; la notte lo torturavano. “È arrivato un momento in cui ho pensato: a pensarci bene, morire per Cristo non è un brutto modo per morire”.

“I rosari più belli della mia vita sono stati quelli che ho recitato con le catene che mi avevano messo i miei sequestratori”, ha confessato.

Oggi padre Douglas è parroco della parrocchia di Sant'Elia ad Erbil, e in quella località del Kurdistan accoglie varie famiglie irachene rifugiate fuggite dai terroristi dell'ISIS.

Il sacerdote, grazie a istituzioni come Aiuto alla Chiesa che Soffre, dà loro alloggio, cibo, acqua...

Aiuta gli adulti a cercare un lavoro, e ha anche organizzato un'aula di formazione, un'altra di musica e una biblioteca perché i più piccoli dimentichino gli orrori vissuti e ripongano fiducia in un futuro di speranza.

Offre a tutti consolazione, la stessa che ha trovato in Cristo e che gli dà la forza per non andarsene.

Di recente, padre Douglas è stato in Spagna per partecipare alla V Giornata della Libertà Religiosa: “Un Medio Oriente senza cristiani?”

A suo avviso, i cristiani vengono attaccati perché sono l'ultimo gruppo colto ed educato che resta in Iraq.

“Ci vogliono distruggere”, ha ricordato. “Stiamo vivendo un Venerdì Santo costante”. Come si può arrivare alla Domenica di Resurrezione?


Sabato scorso padre Douglas ha ricevuto il Premio per la Difesa della Libertà Religiosa 2015.




[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]
sources: CADENA COPE






 

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30/05/2015 11:27
 
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[SM=g1740758] CARO GIOVANE, MA TU SAI QUALE E' IL VERO VALORE DELLA TUA VITA?

puoi capirlo qui, in questi quattro minuti.... a volte basta davvero poco....

Catechesi tenuta da don Fabio Rosini nella Basilica di S.Giovanni in Laterano il 22 aprile 2014 in preparazione della canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II.


DIO NON CI HA DATO IL PERMESSO DI PECCARE, spiega Don Fabio, ma dal male è l'Unico che sa trarre un bene per noi, PER TE.
Dio NON ama tutti, AMA OGNUNO, è un pò diverso! spiega Don Fabio.....

www.youtube.com/watch?v=T_qo5KDTy0w

qui il link ad una sintesi altrettanto bella:
www.aleteia.org/it/video/sai-qual-e-il-valore-della-tua-vita-58414540...




[SM=g1740722]


[SM=g1740733]
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17/09/2015 19:47
 
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Nato dopo uno stupro. Ora è un sacerdote


Padre Antonio Vélez Alfar, colombiano, vive oggi in Argentina



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A priest

 





«Per mia madre è stato il più grande orgoglio aver difeso la vita». Quando ha ripetuto queste parole, padre Antonio Vélez Alfar aveva le lacrime alle occhi. Perché lo riportavano indietro nel tempo. E precisamente al drammatico racconto di sua madre, che anni fa gli ha svelato di averlo concepito in seguito ad uno stupro(tropeaedintorni.it, 10 settembre).



“UNA DONNA DI GRAN FEDE”


Il sacerdote colombiano, parroco nella provincia di Chubut (Argentina), ha deciso di raccontare la sua testimonianza dopo una sentenza della Corte Suprema di Giustizia argentina che ha dichiarato non punibile l’aborto in questi casi. «Mia madre – ha detto padre Alfar – era una donna di grande fede, devota e e praticante. Essa diceva che, nonostante le circostanze terribili, portava nel suo grembo il miracolo di una nuova vita, una vita che Dio le aveva dato e che per le sue convinzioni, non poteva abortire. E che se Dio lo aveva permesso, ciò doveva avere un senso»(caminocatolico.org).




VIOLENTATA CON UNA TRAPPOLA

La madre era stata violentata all’età di 27 anni a Medellin da vari compagni di lavoro che le tesero una trappola durante una festa, la drogarono e abusarono di lei ripetutamente. Nel dolore di non sapere chi fosse il padre, la donna fu obbligata dalla famiglia a sposare un vedovo, che dopo il matrimonio la maltrattava continuamente. Essendo impossibile la separazione, la madre rimase con il marito e il secondo figlio, mentre Alfar fu mandato a casa dalla nonna.

IL RACCONTO DELLA MAMMA

Continua poi così il racconto del sacerdote: «Un giorno, mentre mia nonna mi chiedeva di dire “papà” a mio nonno, io le domandai come poteva essere allo stesso tempo nonno e padre. Ciò ha portato ad un incontro con mia madre, che mi ha detto quello che era successo: che molte persone volevano farla abortire, altre che vendessero me ed altre ancora che mi mandassero via. Ed anche molte altre persone erano interessate a me. Per me fu molto difficile: avevo solo 10 anni di età…e reagii molto duramente contro mia madre» (aciprensa.com).

“PERCHE’ E’ CAPITATO PROPRIO A ME”

Un giorno Alfar volle sfogarsi con Dio. «Andai in chiesa per protestare con Lui: perché proprio a me doveva capitare una cosa del genere?. E mentre urlavo, venne un sacerdote e mi disse che  stavo facendo la domanda sbagliata: “Non perché, ma per chi…”. Che proprio a causa della mia situazione, Dio mi stava chiamando a grandi cose…».

“SARAI UNO STRUMENTO DEL SIGNORE”

Quel sacerdote gli disse «che Dio scrive diritto su righe storte e che io sarei stato un suo strumento. E poi cominciò a leggere il brano di Geremia, dove Dio lo chiama, ma egli resiste e il Signore gli disse: …‘Non ti preoccupare, io farò tutto per te’. Quella conversazione mi ha segnato e quel sacerdote fu per me come un padre». Da lì Alfar divenne prima catechista e poi scelse la strada del seminario e del “matrimonio” con Dio.







 

Questa è una raccolta delle cento testimonianze più toccanti
e avvincenti inviate da sacerdoti di tutto il mondo al sito
cattolico www.catholic.net nel corso dell'anno sacerdotale

   -  LA COMUNITÀ DI RECUPERO

di Mons. Alexander Cordina, Malta

Non avrei mai immaginato che nell'ottobre del 1993 nella mia vita tutto sarebbe cambiato! Ero parroco da 5 anni e l'Arcivescovo mi mandò a chiamare. Avevo sempre avuto un rapporto di comunità filiale con Vescovo Mercieca e nutrivo grande fiducia in lui. Mi disse che voleva trasferirmi dalla parrocchia ad una comunità terapeutica per il recupero dei tossicodipendenti, gestita dalla Caritas di Malta. All'inizio ebbi paura di accettare ma obbedì, anche se con un po’ di apprensione.
       Entrando in comunità, mi resi conto che non ero preparato sul come comportarmi o su cosa fare. Notai che sul lato spirituale non c'era niente in programma, eccetto la Messa Domenicale. Su trenta residenti, ventisette vennero a Messa: un successo notevole, pensai. Ma mi illudevo: dopo poche settimane scoprii che molti venivano a massa soltanto per " impressionarmi" o per ricevere dei privilegi. Quando scoprirono che questo gioco con me "non funzionava", il numero calò subito a tre, massimo quattro persone. Un fallimento, pensai stavolta. Ebbe inizio così la mia "crociata": parlai con loro dell'amore di Dio, a più riprese, ma niente da fare.
       Un giorno, pregando davanti al Santissimo, abbi un'illuminazione provvidenziale: mi resi conto che la prima persona da convertire ero io stesso! Così, dopo aver parlato con i miei fratelli sacerdoti, coi quali trascorsi il mio giorno libero, decisi di prendere alloggio presso la comunità.
       Come allora tengo sempre nel cuore la frase di san Paolo che dice "Piangere con chi piange, ridere con chi ride". Questo significava lavare i piatti quando ce n'era bisogno, oppure cantare e ballare, ma, sopratutto, ascoltare e condividere i propri dolori, le ansie, le paure, e ifallimenti. Significava proprio vivere in costante compagnia di Gesù Crocifisso!
        Dopo qualche settimana, vidi cominciare a riempirsi la cappella. Dopo tre mesi, la Messa della Domenica veniva regolarmente frequentata da tutti, e i residenti chiesero anche la Messa quotidiana. Nel loro cammino spirituale, quei giovani si posero delle domande esistenziali: "Perché il dolore? Perché i miei genitori non mi vogliono bene? Ma Dio mi ama veramente? Come posso essere felice? "Tutte grandi domande a cui vanno date risposte non con le parole, ma con la vita e con il silenzio operoso.

         Un giorno, un ragazzo mi chiese: "Ma, Padre, tu non hai una donna, non hai figli, e non c'è tanto sballo nella tua vita. Trascorri tutte queste ore in cambio di pochissimi soldi. O sei pazzo o nascondi qualche segreto!". A quella domanda, capii che era giunta l'ora di parlare e di dare testimonianza di Dio Padre.
         Arrivò il Natale. In una comunità di recupero di tossicodipendenti il periodo natalizio è molto difficile. Provammo a tenere i residenti con il morale alto coinvolgendoli in diverse attività, sia di natura spirituale che sociale. Un giorno il videoregistratore si guastò. Abbattuto, dissi tra me e me: "Ma proprio adesso doveva accadere?". Non me la sentivo di domandare al personale la somma di circa 300 euro per comprarne uno nuovo. Entrai in cappella e chiesi a Gesù: "Ho bisogno di 300 euro per continuare il mio lavoro a far conoscete te  a questi ragazzi! ".
         Uscito dalla cappella, ci fu una telefonata. La nonna di due ex residenti mi invitava ad una festa a casa sua. In realtà, però, non mi andava di partecipare perché ero davvero molto stanco. Ma, anche in questi casi è Gesù che chiama. Andai.
         Trascorsi qualche ora in quella famiglia con i due fratelli ex tossicodipendenti, che ormai grazie a Dio erano sani e recuperati. Prima di partire la nonna mi consegnò una piccola busta: "Un piccolo contributo", mi disse dolcemente. Tornato a casa aprì la busta, e con mia grande sorpresa erano proprio 300 euro! Continuai così il mio delicato ma appassionante lavoro con quei ragazzi, ma bisogna sapere che ci sono anche momenti drammatici, in una comunità come quella, momenti pieni di dolore.
           C'era un ragazzo molto difficile. A poco a poco persero il coraggio di aiutarlo, ma io continuai a seguirlo. Dopo tre mesi di terapia decise di abbandonare il programma e andare via. Dopo qualche mese ancora, il portinaio della comunità mi disse che c'era di nuovo quel ragazzo che chiedeva di me. All'inizio pensai: "Non voglio perdere tempo con uno che non vuole fare niente”. Poi però lasciai parlare una “voce” dentro di me: e se questa fosse l’ultima occasione che hai per ascoltarlo?”. Uscii, r ascoltai. Era a pezzi. Mi disse che l’indomani sarebbe tornato di nuovo per essere rimesso in comunità. Entrò in macchina ma, prima di partire quel ragazzo allungò la mano, prese la mia e la baciò. Quel gesto mi lasciò turbato, mi chiesi il perché di quell'inaspettato saluto particolare.
           L'indomani telefonai al centro d'accoglienza per verificare se fosse andato. Mi dissero di no. Allora telefonai a casa sua. Rispose il padre e subito chiesi di lui. Mi disse: "Non puoi parlare con lui, è deceduto". Rimasi scioccato, e finalmente capii il bacio sulla mano; mi stava dicendo: "Addio".
         "E se non avessi ascoltato "quella voce" dentro di me? Il continuo abbracciare Gesù Crocifisso mi dava la forza per andare avanti. Ci furono ancora tante conversioni nella comunità, e anche molte guarigioni da ferite fisiche e morali subite durante l'esperienza sulla strada.
           Ho sperimentato profondamente che essere sacerdote con questi ragazzi non significa semplicemente sperimentare un programma di recupero, ma offrire loro l'esperienza di Dio Amore.

          Ho capito che con loro essere sacerdote significa dare testimonianza dell'amore smisurato di Dio con un' "alchimia divina", ci dona la forza di tramutare il dolore in amore.





[Modificato da Caterina63 10/11/2015 18:43]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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“Sulle memorie dal sottosuolo delle isole Solowki”.  In quel luogo alcuni sacerdoti a costo della vita celebravano il sacrificio della Messa con ardore e devozione. La loro testimonianza è per la Chiesa di oggi un grande monito. 
Come trattiamo le cose di Dio? Amiamo l’Eucarestia? Come celebriamo i santi misteri? 

Leggiamo la loro testimonianza: 

«Nel Mar Bianco, dove le notti sono bianche per sei mesi all’anno, l’Isola grande delle Solowki sorge dall’acqua con le sue candide chiese contornate dalle mura del Cremlino. In quel chiarore sembra non esservi peccato. È come se la natura, là, non l’abbia ancora raggiunto nel suo sviluppo: in questo modo Prisvim sentì le isole Solowki. Mezzo secolo dopo la battaglia di Kulikovo e mezzo millennio prima della Gpu [la polizia segreta] i monaci Savvataj e German attraversarono il mare di madreperla su una fragile barchetta e ritennero santa l’isola priva di animali rapaci. Con essi ebbe inizio il monastero di Solowki. Sorsero le cattedrali della Dormizione della Vergine e della Trasfigurazione, la chiesa della Decapitazione di san Giovanni Battista. La terra di Solowki risultò non solo santa ma ricca, capace di nutrire molte migliaia di abitanti (…) L’idea della guerra. Non è davvero possibile, in fin dei conti, che irragionevoli monaci vivano semplicemente, su una semplice isola. Mentalità carceraria. Ci si possono rinchiudere criminali importanti e c’è già chi farà da guardia. Non gli impediremo di occuparsi della salvezza della loro anima, ma intanto possono sorvegliare i nostri prigionieri. Pensò forse a tanto Savvatij quando approdò all’isola santa?». Così Alexander Solženicyn, in Arcipelago Gulag, descrive la nascita del sistema concentrazionario sovietico alle Isole Solowki (Arcipelago Gulag 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa III-IV, Milano, 1995, pp. 27-31).

Nel 1920 il monastero divenne l’archetipo dei lager di Lenin e con Stalin, nel 1929, una prigione. Sul suo modello se ne apriranno altri in Russia e in Europa. Vi furono internati i “nemici della rivoluzione”, tra questi il clero ortodosso, quello cattolico e gli intellettuali. Il freddo, la fame, i lavori forzati, le malattie, le fucilazioni, tra il 1923 e il 1939 condussero a morte quasi un milione di persone. Verbali, resoconti, per decenni coperti dal segreto, affiorano raccontando di «quest’epoca tremenda. Tanto tremenda che ciascuno deve rispondere di sé stesso» (Pavel Florenskij). I Fondi Russia e Pontificia Commissione Pro-Russia dell’Archivio Storico della Segreteria di Stato brulicano di “memorie dal sottosuolo”, memoriali di dolore e morte, ma anche di redenzione, riscatto e speranza. Il memoriale Mosca e Solowki, riassunto e florilegio dei ricordi di padre Donato Nowicki circa la persecuzione dei cattolici russi di rito orientale a Mosca e circa la deportazione di un certo numero di essi alle isole Solowki, narra la sofferenza sopportata con fede, coraggio e dignità, da un gruppo di sacerdoti, religiose e laici cattolici tra il 1922 e il 1938.

L’autore, arrestato il 12 novembre del 1923, fu ordinato sacerdote clandestinamente proprio sull’isola centrale dal beato Boleslaw Sloskan e morì in Polonia il 17 agosto 1971. Nelle chiese c’è corrispondenza fra esterno e interno: «Tramite l’ardore visibile dall’esterno il cielo discende sulla terra, viene introdotto nel tempio e ne diventa quel coronamento dove ogni cosa terrena viene coperta dalla mano dell’Altissimo, benedicente dalla volta azzurro-cupo del cielo» (Evgenij Nikolaevîc Trubeckoj, Contemplazione nel colore, Milano 1977, p. 8-9). Anche all’epoca tremenda del delitto e della barbarie alle Solowki, le cupole d’oro delle cattedrali della Dormizione della Vergine e della Trasfigurazione splendevano ogni giorno di Bellezza alla luce del sole. 
Come enormi ceri accesi, i campanili rifulgevano fra le distese nevose continuando a rimanere un remoto richiamo della città di Dio benché il loro interno fosse divenuto un “tritacarne” di destini. Forse alludeva a questo Evdokimov quando scriveva che «la Bellezza è un enigma, e se è vero che la bellezza salverà il mondo, Ippolit — un personaggio dell’Idiota di Dostoevskij — chiede di precisare “quale bellezza”. La bellezza, nel mondo ha il suo doppio. Anche i nichilisti amano la bellezza… come pure l’assassino Pëtr Verchovenskij» (Pavel Evdokimov, Dostoevskij e il problema del male, Roma 1985, p. 81). In quelle isole molti uomini non si accontentarono della propria integrità e indipendenza, a loro non bastò puntare a salvare l’umano nell’uomo, ma salvarono il senso stesso della vita contro il caos montante e l’assurdo: i monaci che riuscirono a creare nella dura natura del Mar Bianco un paradiso, i martiri che resero presente Cristo e umana e divina la vita nell’inferno del lager.

Al centro del memoriale padre Nowicki pone, quasi come atto fondativo della solidarietà spirituale che strinse i martiri e confessori della fede nell’arcipelago, una circostanza precisa: «Ci riunimmo per la prima volta alla cappella di San Germano il giorno di Natale del 1925; e da allora ogni domenica e ogni giorno di festa noi siamo tornati con grande gioia e riconoscenza verso la Provvidenza Divina». Pensare al Natale del 1925 può far bene anche a quello di oggi. «La persecuzione dei cattolici russi cominciò nel 1922 e il primo gruppo arrivò a Solowki nel giugno del 1924. Nell’isola di Kondo furono trattati relativamente bene, come prigionieri politici». 
Qui «padre Nikolas Alexandrov, che era molto attaccato alla Santa Eucaristia, cominciò a pensare al modo per celebrare la Santa Messa, ma siccome mancava l’antimension [specie di corporale contenente le reliquie per il Rito orientale] non saliva l’altare». Dieci mesi dopo da Kondo furono trasferiti nel campo di concentramento dell’isola centrale, non più come prigionieri politici ma come controrivoluzionari puniti per delitti di religione (Tzerkowniki) e assegnati ai lavori forzati. Con grandi restrizioni, fu concesso l’uso della cappella di San Germano. La inaugurarono, appunto, il giorno di Natale del 1925, solo con la preghiera, giacché mancava l’antimension.

Alla fine di maggio del 1925 giunse la notizia che la Santa Sede aveva concesso il privilegio dell’uso del corporale latino in caso di assenza dell’antimension «purché il celebrante della prima Messa si unisse col pensiero alle reliquie dei Santi della chiesa più vicina. Allora [padre Nicolas] cominciò a celebrare. Pieno di zelo verso il Mistero dell’Eucaristia egli si alzava, malgrado le fatiche della giornata tutta occupata dai lavori forzati, verso le cinque del mattino e andava alla cappella distante due chilometri e mezzo. In inverno era buio e la strada completamente coperta di neve. La nostra cappella mancava di tutto, ma abbiamo messo tutto lo zelo per ornarla di ciò che era necessario al culto e per abbellirla. Si costruì un altare, si fece restaurare l’icona della Santa Vergine. Il lavoro fu fatto da uno dei nostri parrocchiani che conosceva la pittura. Le suore confezionarono tutti i paramenti per il culto. All’inizio avevamo un solo parato rosso, ma due anni dopo ne avevamo quattro completi di colore diverso».

Nel campo fiorì la preghiera, sbocciarono le vocazioni e si operarono conversioni. «Nell’estate del 1925 arrivò il primo prete di rito latino padre Leonard Baranowski; anche lui non poté celebrare la Santa Messa dato che era impossibile soddisfare esattamente tutte le esigenze della liturgia e delle rubriche». Le suore confezionarono allora i paramenti per il rito latino e un cattolico tedesco costruì la macchina per fare le ostie. Non fu trascurato nulla di ciò che il rito prescriveva: quando tutto fu pronto, allora cominciò. Per tali sacerdoti martiri e confessori della fede la Messa era il bene più prezioso al mondo: era il luogo dove Dio assumendo la carne dell’uomo nasceva di nuovo, saliva il Calvario per offrirsi in sacrificio e risorgere. Lì dove l’uomo in carne e ossa non valeva nulla, lì dove di diritti dell’uomo nessuno parlava, questi uomini avevano piena coscienza che la Liturgia è diritto di Dio. I sacerdoti difendevano in tutto e per tutto questo diritto anche a costo di essere scoperti e fucilati all’istante. Il Messale, che codificava il diritto di Dio che avevano ricevuto in dono, lo applicavano con grande amore in quei luoghi di odio, di orrore, di ghiaccio e di morte. Un bell’esempio per noi che non abbiamo questo genere di costrizioni e abbiamo tutta la possibilità di celebrare la Santa Messa con tutta la solennità e la ricchezza del culto richiesta dalla Santità di Dio. La vita era difficile, ma «l’idea di abbandonare una lotta che appariva ineguale la respingemmo. Sapevamo che non avremmo resistito alla depressione morale che invase dopo qualche tempo molti deportati a Solowki, se non ricorrevamo alla Santa Eucaristia, che sola poteva assicurare le forze necessarie per resistere. A quella situazione di depressione opponemmo la fede nella Provvidenza, confidando nelle forze che venivano dal Santo Sacrificio e dallo spirito di carità che ci univa in una sola famiglia».

Nell’estate del 1927 aumentò il numero dei sacerdoti cattolici deportati, orientali e latini. La gran parte dei sacerdoti celebrava ogni giorno, organizzati in turni, nella cappella o nelle camere. Annota padre Nowicki: «Ringrazio Dio, d’essere stato alle Solowki. Molte volte ho sentito in quel luogo di sofferenza come un soffio del cielo, e veramente ho vissuto momenti di profondissima gioia. Noi seguivamo il principio domenicano: vedere tutto con gli occhi della fede, essere sempre nella gioia, servire la verità e gioire di essa in ogni momento». In questa situazione padre Nowicki ricevette il suddiaconato dall’Esarca Leonid Feodorov, anche lui deportato. Per l’ordinazione diaconale e sacerdotale si attese l’arrivo di monsignor Boleslaw Sloskan: «Desidero così ardentemente di tenere il mio Salvatore nelle mie mani e di offrirlo per la salvezza delle anime in questi tempi terribili». L’ordinazione avvenne il 5 settembre del 1928 alle 5 del mattino. «Arrivai con l’abito laico, solo in cappella indossai la talare. Il vescovo non aveva né mitra né pastorale; tutto si svolse nella più grande semplicità e povertà che ricordava le catacombe; avevamo la percezione che la Grazia riempiva la nostra povera cappella e comprendemmo bene le parole del Salvatore: “Io sono con voi fino alla fine dei tempi”. Alle Solowki, il Signore è stato con la sua Chiesa. Il 7 settembre la solennità fu ancora più commovente. Non ho potuto trattenere le lacrime di gioia quando monsignor Boleslaw mise le sue mani sul mio capo pronunciando le parole Accipe Spiritum Sanctum e quando dopo di lui gli altri preti, che avevano sofferto per la fede, fecero lo stesso. Fui intimamente convinto che la grande forza, grazie alla quale io potevo servire Dio in prigione, era la Messa».La Gpu si rese conto che non riusciva a deprimere il morale e che i cattolici prendevano le loro forze dalla liturgia. Vietarono, allora l’uso della cappella di San Germano. Le celebrazioni continuarono nella clandestinità delle stanze, ma il 19 gennaio del 1929 una retata tolse ciò che serviva al culto. Si salvò quel che era nascosto.

«Allora chiesero l’uno all’altro se dovevano continuare a dir messa sotto il costante pericolo di rappresaglie — continua padre Nowicki — l’Esarca disse: “Ricordatevi che le Messe che noi diciamo a Solowki potrebbero essere le sole che dei preti cattolici dicono in Russia e per la Russia”». Continuarono a celebrare nonostante la vita fosse durissima: di notte sottoposti a rumore continuo, di giorno ai lavori forzati che consistevano nel trainare, come cavalli, dei carri per 7-10 chilometri. Dopo la Pasqua del 1929 furono trasportati nell’isola di Anzer. Si ritrovarono con grande gioia ancora insieme a Froitzhaia e iniziarono da capo a dir Messa; dapprima nella foresta, poi nel sottotetto di una delle baracche dove abitavano.

«L’inconveniente era che in essa non si poteva stare in piedi, tanto era bassa. Dicemmo Messa sempre in ginocchio, tre per volta, dando la possibilità così a un gran numero di celebrare ogni giorno». Ad Anzer celebravano «con l’intenzione di riparare davanti a Dio tutto il male che si faceva in Russia. Gli agenti bolscevichi si resero conto di questa determinazione; uno di loro un giorno disse che era inutile la lotta con noi perché “Dove c’è un prete cattolico, c’è una Messa”». Continuavano le perquisizioni e gl’interrogatori. «Nei primi giorni di luglio del 1932, dopo aver sotterrato gli oggetti di culto che non potevamo portare, fummo inviati a Leningrado per essere da qui trasferiti in Polonia». I trasferimenti erano delle espulsioni, attraverso salvacondotti, ottenuti come scambio di prigionieri. In silenzio operava la Pontificia Missione di Soccorso voluta da Pio XI, fin dal 1921, per alleviare le sofferenze delle popolazioni della Russia e dell’Ucraina sotto il giogo comunista e colpite dalla fame. Nei mesi di ottobre e novembre del 1937 la maggior parte del clero cattolico russo e i fedeli che erano rimasti alle Solowki insieme agli ortodossi e agli altri furono giustiziati in una grande esecuzione di massa. 
Commenta padre Nowicki: «Oserei affermare che dal 1924 al 1932 in tutti i nostri sforzi di celebrare il Santo Sacrificio per farne il centro della vita religiosa, noi abbiamo agito con spirito di fede. Perché tutta la forza della fede cattolica consiste nel non sottomettersi allo spirito dei nostri tempi, nel non piegarsi davanti ai forti di questo mondo, ma cercare d’essere obbedienti alla volontà di Dio e di servirlo come lui desidera. È consolante riconoscere che ovunque, sempre e in tutte le circostanze della vita, il cristiano può con l’aiuto della Grazia, che non manca mai, cantare la lode di Dio anche in queste terribili Isole di Solowki».

Al sacrificio redentore della Pasqua si mescolava ogni giorno il sangue dei martiri e dei confessori; Natale e Pasqua, Incarnazione e Redenzione, vita e morte e di nuovo vita nella liturgia si fondono. Nella terra bella delle Solowki, che la santità dei monaci aveva reso simile al paradiso, e che l’arroganza dell’ideologia aveva trasformato nel più brutto dei mondi possibili, si attuava la discesa della Bellezza che salva il mondo e lo riscatta. Questa discesa appariva umiliata e sconfitta, invece era germe di rinascita, era Il seme sotto la neve (cfr. Ignazio Silone). Molti dei prigionieri ne avevano piena coscienza. Perciò alla messa non rinunciarono mai: era riscatto anche per chi non lo sapeva, era espiazione per chi non lo immaginava, era la Redenzione del mondo intero. Tutto ciò indissolubilmente congiunto alla gioia che viene dalla bellezza della vittoria definitiva del Dio-uomo sull’uomo fiera, gioia cui diamo spazio col nostro personale sacrificio”.

M. Agostini pubblicato dall’Osservatore Romano il 28 Dicembre 2013 



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 «I miei genitori hanno scelto la fedeltà a Cristo»


Padre Peter Stravinskas Jr. racconta: «Per poter ricevere la Comunione, mio padre e mia madre, sposati solo civilmente, hanno vissuto per 25 anni come “fratello e sorella”».

Traduzione di CRISTIANESIMO CATTOLICO

di Pete Baklinski

PINE BEACH, New Jersey — Mentre un movimento di cardinali e vescovi hanno esplicitamente suggerito che è “irrealistico” per le coppie in situazioni irregolari astenersi dal sesso, perché richiede un «eroismo – ha detto Walter Kasper – che non è per il cristiano medio», vivere “come fratello e sorella” è ciò che esattamente hanno deciso di fare Peter Sr. e Anne Stravinskas per allineare le loro vite secondo la volontà di Dio ed essere in grado di ricevere Gesù nella Santa Comunione.

Padre Peter Stravinskas con i suoi genitori, Peter Sj. e Anne, il giorno della sua ordinazione sacerdotale.
Padre Peter Stravinskas Jr. con i suoi genitori, Peter Sr. e Anne, il giorno della sua ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1972.

L’unico figlio della coppia, padre Peter Stravinskas Jr., ha raccontato aLifeSiteNews, in un’intervista esclusiva, la storia della decisione dei suoi genitori. Padre Stravinskas, fondatore della Società Sacerdotale John Henry Newman, della Newman House Press e del Catholic Response, è un rispettato studioso, autore e apologeta.

Tutto è cominciato negli anni Quaranta del secolo scorso, quando il matrimonio cattolico di Peter Sr. è andato in pezzi: la moglie lo ha abbandonato.

Peter Sr. sapeva – avendo letto e approfondito le opere di G.K. Chesterton e del cardinale John Henry Newman – che contrarre un altro matrimonio civile lo avrebbe allontanato da Cristo e dalla sua Chiesa. Conosceva le parole di Cristo nel Vangelo di Luca: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio». Altresì conosceva il Sesto Comandamento: «Non commettere adulterio». Nonostante ciò, Peter Sr. decise di sposare civilmente Anne, una cattolica non praticante.

Anne e Peter Sr. ritratti in occasione del battesimo di Peter Jr.
Anne e Peter Sr. ritratti in occasione del battesimo del figlio Peter Jr.

Nel 1950 arrivò il loro figlio, Peter Jr., e decisero di iscriverlo in una scuola cattolica. È stato durante durante la seconda classe di preparazione per ricevere i sacramenti della Confessione e della Comunione del loro bambino, in cui accadde un fatto che cambiò la vita di Peter Sr. e Anne.

Padre Peter Jr. racconta: «Un giorno, tornando a casa da scuola, dissi: “Mamma, ti voglio tanto bene”. “Anch’io ti voglio bene”, mi rispose. “Mamma, quando morirò, voglio andare in paradiso!”. “Naturalmente andremo in paradiso”, disse lei. “Ecco, abbiamo un problema… Se io muoio e vado in paradiso, ma tu e papà non sarete là, che paradiso sarà per me?”. “E perché io e papà non saremo là?”. “Perché suor Rita Gertrude, oggi in classe, ha detto che le persone che non vanno alla Messa la domenica quando muoiono vanno all’inferno”».

Padre Peter Jr. dice che la madre finì subito la conversazione mandandolo a prendere il suo latte e i biscotti.

Quella sera stessa, più tardi, quando il padre tornò a casa dal lavoro, Peter Jr. fu mandato nella sua stanza perché i suoi genitori volevano discutere riguardo la conversazione precedente.

Ma Peter Jr. rimase ad origliare vicino alla porta e ricorda bene quel dialogo: «”Abbiamo un problema con il bambino”, disse la mamma. “Quale?”, domandò il papà. “Quella suora pazza della scuola sta creando problemi”, rispose la mamma. “Oggi ha detto a Peter Jr. che noi due andremo all’inferno perché non andiamo alla Messa di domenica”. “Beh, che cosa ti aspettavi che dicesse?”, osservò il papà. “Quando andrò domani a scuola per il volontariato – aggiunse la mamma – le dirò di farsi gli affari suoi e di stare fuori da casa nostra”. “Beh, si può fare”, replicò il papà. “Ma non credo che sia la cosa giusta da fare”».

Peter Jr., continuando ad ascoltare dietro la porta, ricorda che ci fu un breve momento di pausa prima che suo padre aggiunge: «Penso che ci sia una soluzione più semplice. Penso che dovremmo cominciare ad andare a Messa la domenica. Così la suora si convincerebbe che non vogliamo andare all’inferno».

La domenica successiva l’intera famiglia Stravinskas assistette alla Messa per la prima volta. Così cominciò a crescere in Anne il desiderio di ricevere la Santa Comunione, anche se sapeva bene che avere rapporti sessuali con un uomo che, per la Chiesa, era sposato con un’altra donna, non la rendeva degna di ricevere Gesù.

Prima Comunione di Peter Jr. nel maggio del 1958.
Prima Comunione di Peter Jr. nel maggio del 1958. Posano con lui il padre Peter Sr. e la madre Anne.

Padre Peter Jr. ricorda che una volta sua madre disse: «Non so perché vado a Messa se non posso ricevere la Santa Comunione».

Alla fine, la coppia decise di parlare di questa difficoltà col proprio parroco. Egli disse loro che una soluzione poteva essere presentare istanza alla Rota Romana per esaminare se la prima unione di Peter Sr. fosse stata contratta regolarmente. Se il matrimonio fosse stato dichiarato nullo, allora Peter Sr. e Anne sarebbe stati liberi di conformare il loro rapporto secondo le norme stabilite da Dio e seguite dalla Chiesa. Dunque entrambi avrebbero potuto riceve la Santa Comunione. Ma il parroco aggiunse che il processo di nullità non era solamente lungo, ma anche costoso.

Così quel fedele sacerdote propose alla coppia una soluzione più semplice. «Lui disse ai miei genitori», rivela Padre Peter Jr., «che la soluzione per loro di partecipare pienamente alla Fede cattolica era rinunciare ai rapporti sessuali, cioè vivere “come fratello e sorella”».

«Da quel momento in poi», afferma Padre Peter Jr., «mio padre e mia madre lo hanno fatto».

È stato però duranti gli anni del liceo, discutendo con suo padre riguarda la dottrina cattolica sul matrimonio che il giovane Peter Jr. scoprì la verità sulla decisione dei suoi genitori: «Mio padre mi disse:

“Beh, sì, possono capitare situazioni irregolari. Ma, per essere fedeli a Cristo, tua madre ed io viviamo come fratello e sorella già da 10 anni”.

E così hanno vissuto anche per tutto il resto della loro unione». Peter Sr. è morto nel 1983, aveva 71 anni. Anne è vissuta fino al 2005, aveva 87 anni.

Il cavallo di Troia dei novatores

Padre Stravinskas ritiene che il concetto di “integrazione” introdotto nella relazione finale del sinodo sulla famiglia – recentemente conclusosi a Roma – è un “cavallo di Troia” progettato per attaccare il cuore dell’insegnamento di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio.

«Se è vero – ed è vero – che una persona rimane legata al legittimo coniuge, anche se il matrimonio fallisce, questo significa che ogni attività sessuale con un’altra persona significa commettere un peccato di adulterio. Questo è ciò che Gesù dice nei vangeli», spiega il sacerdote.

Un recente ritratto di Padre Peter Stravinskas Jr.
Un recente ritratto di Padre Peter Stravinskas Jr.

Le persone in disaccordo con questo insegnamento hanno un grosso problema non tanto con la Chiesa, ma con Dio.

«Quando qualcuno mi dice che non può accettare l’insegnamento della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio, io rispondo: “Precisa la tua frase: ‘Io non posso accettare l’insegnamento sull’indissolubilità del matrimonio della di Gesù Cristo, Seconda Persona della Santissima Trinità’.”».

«Quest’insegnamento sul divorzio e le secondo nozze – aggiunge Padre Peter – la Chiesa non ha il potere di cambiarlo. Viene da Dio stesso. La Chiesa prende la dottrina sull’indissolubilità del matrimonio così seriamente e fedelmente che fu proprio ciò la causa dello strappo, nel 1530, con Enrico VIII e con buona parte della comunità anglicana».

Padre Stravinskas spiega perché è gravemente sbagliato per i cattolici che hanno divorziato e si sono risposati civilmente presentarsi a ricevere la Santa Comunione: «È un peccato di sacrilegio che rende ancora più indegni di ricevere il più santo dei sette sacramenti. San Paolo è chiarissimo nella suaLettera ai cristiani di Corinto. L’Apostolo dice che ognuno deve esaminare se stesso e se non è in stato di grazia, non può, non deve, ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo. Chi si comunica in stato di peccato, mangia e bene la propria condanna».

Il sacerdote ha anche parlato dell’abuso che alcuni padri sinodali hanno fatto del racconto di Emmaus del Vangelo di Luca, usato da essi per “accompagnare” le coppie irregolari a ricevere i sacramenti.

«Il primo vero “accompagnamento” è una delle sette opere di misericordia spirituale: ammonire i peccatori, avvisandoli della gravità del loro peccato. Se noi guardiamo come Gesù ha accompagnato i due discepoli di Emmaus, prima di tutto, li ha chiamati “stolti e tardi di cuore”. Egli ha accompagnato loro lungo la strada, aprendo loro le menti alla Sacra Scrittura e facendo ardere i loro cuori col fuoco della verità».

«Questo è il tipo di “accompagnamento” pastorale – aggiunge – che la Chiesa deve dare alle coppie in situazioni irregolari. E non solo ad esse, ma a tutte le persone che commettono ogni tipo di peccato».

Padre Peter dice che la testimonianza dei suoi genitori è la prova che anche in una situazione irregolare si può essere fedeli all’insegnamento di Gesù, seguendo il magistero della Chiesa.

«Quando cardinali come Kasper e Marx dicono che astenersi dagli atti sessuali è “irrealistico”, un “eroismo” che i laici non possono vivere, non è solo ridicolo e assurdo, ma è un attacco frontale alla “chiamata universale alla santità”,bellissima espressione del Vaticano II».

«È una posizione che disonora i miei genitori – continua – e quelle migliaia di altre coppie come loro che hanno deciso di affidare tutto a Dio, chiedendo l’aiuto della sua Grazia. La nostra fede ci insegna che il Signore da a tutti le grazie necessarie per evitare il peccato. E molte persone lo vivono».

Egli afferma che i sacerdoti debbono cominciare ad usare il proprio esempio di vita – una vita pienamente felice anche senza il sesso – per incoraggiare le persone ad essere fedeli al piano di Dio sul matrimonio e sulla sessualità umana, come insegna la Chiesa.

«Usando la loro propria testimonianza sul celibato, i preti possono dire ai giovani che è possibile aspettare fino al matrimonio. Essi non chiedono nulla che non stanno facendo essi stessi. Inoltre, si possono incoraggiare le persone con tendenze omosessuali a non praticare quegli atti. In più, si può dire a quelle coppie che, pur vivendo fedelmente il magistero della Chiesa sulla contraccezione, hanno delle difficoltà con la continenza periodica, ed esse la Chiesa chiede l’astinenza per un certo periodo, mentre al prete viene chiesto di astenersi per tutta la vita».

«Ci saranno sempre ogni tipo di situazioni in cui la gente dirà che non può, non riesce a vivere l’intera vita, neppure un breve periodo, senza avere rapporti sessuali. Allora dobbiamo essere in grado di dare loro un esempio, anche se non è solo a livello naturale, che questo è possibile».

«Come San Paolo una volta ha detto: “Tutto posso in Colui che mi da la forza”», conclude Padre Peter Stravinskas Jr.

© LIFESITENEWS (09-11-2015)


 

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  anche queste sono testimonianze sante.... da qualche giorno la Coop, che coinvolge migliaia di persone in quel simbolico "la Coop sei tu" dal momento che lo sei per come spendi e non certo perciò che guadagni.... ha deciso di uscire allo scoperto appoggiando le unioni fra persone dello stesso sesso e persino le adozioni, la compravendita di figli surrogati..... e non sono poche le persone che stanno ritornando alla Coop la propria tessera, quale segno civile e democratico di protesta verso questa presa di posizione.


"Coop non sono io", don Ricciarelli ridà tessera

Lunedì, 01 Febbraio 2016 

 

don francesco ricciarelli tagliataSi è presentato al box informazioni per riconsegnare la tessera e farsi cancellare dall'elenco dei soci. Perché la Coop sei tu ma solo fino ad un certo punto. Fino a quando la strategia comunicativa di Coop non finisce per cozzare con il proprio pensiero. È così che la pensa don Francesco Ricciarelli, parroco de La Serra e direttore dell'ufficio comunicazioni sociali della diocesi di San Miniato, che questa mattina ha scelto di dire addio per sempre a "mamma" Coop.

All'origine della decisione, il recente manifesto pubblicitario realizzato da Coop a sostegno delle unioni civili. Manifesto che vede protagoniste 6 mele divise in tre coppie: quella al centro formata da una mela verde e una rossa, più due laterali formate da mele dello stesso colore, a simboleggiare coppie gay e coppie etero. Il tutto corredato dello slogan: "Qualunque sia la tua famiglia la Coop sei tu". Una presa di posizione che non ha piaciuta a don Ricciarelli, come dichiarato quest'oggi in un post sulla propria pagina Facebook: "La Coop non sono io – ha scritto il parroco - Riconsegnata la tessera socio. Mi chiedo cosa spinga un supermercato a prendere posizione su questioni altamente divisive e perdere così una parte di clienti".

"Non sono andato a far polemica – spiega Ricciarelli –. Semplicemente mi sono presentato al box informazioni del punto vendita di San Miniato Basso e ho chiesto di essere cancellato dall'elenco dei soci. Trovo che certe prese di posizione siano del tutto fuori luogo da parte di un'impresa commerciale, oltrettutto su temi così delicati come quelli legati alla famiglia. E' una scelta imprenditoriale, però è chiaro che quando si fanno scelte ideologiche di un certo tipo si rischia di perdere una parte delle clientela. Poi, è chiaro, ci sarà chi non ci farà caso e preferirà continuare ad avere la tessera per beneficiare di sconti e promozione; dipende tutto dal valore che una persona dà alle proprie idee.".

Dagli uffici di Unicoop Firenze spiegano di non voler replicare a don Ricciarelli, anche se la cooperativa si definisce "dispiaciuta", precisando però che lo spot è stato scelto da Coop a livello nazionale, al di là delle competenze di Unicoop Firenze. (g.p.)






Ouellet: sacerdozio e celibato non sono un dogma ma un dono

Papa Francesco ordina un sacerdote a San Pietro, 26 aprile 2015  - AFP

Papa Francesco ordina un sacerdote a San Pietro, 26 aprile 2015 - AFP

05/02/2016

“La Chiesa non ha mai legato sacerdozio e celibato sul piano dogmatico”, ma ha riconosciuto il valore profondo di questo legame. Lo ha detto il prefetto della Congregazione dei Vescovi, il cardinale Marc Ouellet, durante il convegno “Il celibato sacerdotale, un cammino di libertà”, in corso all’università Gregoriana di Roma. Dopo quella che il porporato ha definito una “caduta vertiginosa di credibilità”, dovuta agli scandali della pedofilia, il tema del convegno diventa quanto mai importante, come ha spiegato al microfono di Eugenio Murrali:

R. – La Chiesa ha bisogno di rinnovare la sua testimonianza d’amore a Cristo e questa deve essere data anzitutto da quelli che sono chiamati a seguirlo da vicino e a proclamare la Parola. Quindi, è la Parola che fa sorgere il Regno di Dio nei cuori, cioè la fede. Quando la Parola è accompagnata dalla testimonianza di una vita tutta consacrata a Cristo ha un effetto più profondo. E il celibato dà questa testimonianza, soprattutto quando è ben vissuto, cioè nella preghiera, nell’unione a Cristo, nella coerenza anche della vita.

D. – La Chiesa latina e la Chiesa orientale, lei ha parlato di questo anche nel suo discorso. Come possiamo conciliare le due visioni?

R. – Sì, questo si può conciliare molto bene. C’è una tradizione di preti sposati nella Chiesa orientale cattolica che ci dice che non è perché il matrimonio è impuro che i preti non possono sposarsi. D’altronde, però, bisogna riconoscere che la scelta di rinunciare al matrimonio per essere tutti di Cristo, anche nello stile di vita identico al suo, è un valore irrinunciabile per la Chiesa cattolica latina, che ha questa lunga tradizione e che dovrebbe conservarla.

D. – La tradizione non è quindi un ripetersi sempre uguale delle cose, ma c’è un senso più profondo?

R. – Quando uno pensa alla “tradizione”, deve pensare allo Spirito Santo che spinge avanti la Chiesa, come dice il Papa spesso. E’ lo Spirito Santo che attualmente spinge la Chiesa, che la fa comunicare cioè, in fraternità, con il mistero eucaristico al centro della Chiesa e come suo fondamento. La Chiesa è un mistero nuziale e Cristo è lo sposo che dà il suo corpo eucaristico alla Chiesa. E così, vivere in intimità con la Chiesa è darle propriamente lo spirito d’amore che la Chiesa diffonde nel mondo con la sua testimonianza. Quindi, bisogna vedere questa armonia della vita della Chiesa con al centro delle persone consacrate che vivono dell’Eucaristia, cioè vivono del dono verginale di Cristo, si nutrono di questo dono: le persone consacrate, le famiglie e anche i preti che hanno come responsabilità per ordinazione di rendere presente a tutti questo dono nuziale di Cristo.

D. – Lei ha anche parlato del problema della pedofilia. C’è chi ha messo in rapporto il celibato e la pedofilia. Qual è la risposta che dà la Chiesa a questo?

R. – La risposta è stata data da mons. Anatrella, all’inizio, quando ha detto che non dipende dal celibato, perché la stragrande maggioranza dei problemi di pedofilia viene da maschi che sono anche padri di famiglia. Non è quindi il celibato il problema.








[Modificato da Caterina63 05/02/2016 16:07]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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03/02/2016 13:57
 
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[SM=g1740717] [SM=g1740720]La Fraternità Sacerdotale San Pio X ha realizzato, presso il Seminario di Zaitzkofen in Germania, il presente filmato per presentare - NON l'ideale di un sacerdozio in misura a se stessi.... - ma l'ideale Sacerdotale e la formazione Tradizionale del sacerdote, colui che "morendo a se stesso", incarna l'ALTER CHRISTUS.....

In Italia la FSSPX, al 2015, conta:
14 sacerdoti e 3 frati laici distribuiti in ben 4 priorati;
9 seminaristi, 1 preseminario;
2 comunità religiose amiche;
23 cappelle sparse sul territorio....

Quarantacinque anni dopo la sua fondazione, la FSSPX - che non è una chiesa separata, ma una Comunità-Fraternità che vive uno stato anomalo e che ha ricevuto da Papa Francesco di poter usare i suoi sacerdoti per le confessioni in questo Anno del Giubileo , conta in tutto il mondo:

600 sacerdoti;
200 seminaristi;
112 frati laici;
268 suore e 30 comunità religiose amiche;
presente in 70 Paesi;
6 seminari internazionali;
più di 100 scuole e anche 2 università.....

e tutto questo senza l'aiuto o il sostegno della Santa Sede romana....


Auspichiamo che, anche tramite questo piccolo strumento, il Signore susciti "Sante Vocazioni" per la Restaurazione della Chiesa.

gloria.tv/media/FnZU3EQptYt






[SM=g1740738] [SM=g1740750] [SM=g1740752]
[Modificato da Caterina63 03/02/2016 14:01]
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10/03/2016 09:32
 
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"... i giovani hanno bisogno di vedermi con questa tonaca lisa e con il colletto da prete. io devo ricordare loro il mistero, e dal prete i giovani si aspettano, ed hanno il diritto di ricevere solo questo! non che vada a "ballare" con loro..." [servo di Dio don Oreste Benzi]




LA BELLISSIMA STORIA DI ROSARIO VITALI futuro sacerdote - qui il video

Rosario è un ragazzo solare. È gioioso. Ha sempre un sorriso per tutti, un incoraggiamento, parole di speranza. Ripete:“La mia vita è una grazia”. Eppure, a 24 anni, gli ha creato già non poche difficoltà questa vita, con quelle mani attaccate al gomito e le dita che non riescono ad afferrare e stringere. La sua malattia ha un nome sconosciuto ai più: agenesia bilaterale del radio, ed è semi-sconosciuta anche ai medici. Il suo sogno di diventare sacerdote stava andando in frantumi, perché la “legge” della Chiesa preclude questa possibilità alle persone con handicap fisici, psichici e neurologici. Anche di questo si sa poco. L’ha scoperto, a 19 anni: “Uscendo da scuola superiore pensavo che il mio cammino fosse già tracciato: entrare in seminario, fare gli anni che dovevo fare e diventare sacerdote. Ma così non è stato. Mi si sono messe davanti le mie difficoltà, i miei ‘difetti’. Quando il rettore mi ha comunicato che non potevo entrare in seminario per la mia disabilità, ho provato un senso di frustrazione, anche perché sono venuti a mancare tante idee, tanti progetti che magari mi ero fatto nel corso degli anni”. Rosario ha accettato di fermarsi, per capire se fosse proprio questa la sua strada.

Lo ha fatto con la determinazione di chi è abituato a lottare da sempre, da prima di nascere: il medico ha cercato di farlo soffocare nella pancia della mamma, per non ammettere di non essersi accorto della malformazione. Da quando aveva pochi mesi di vita ha affrontato oltre 20 interventi alle mani e alle braccia. “Anche se non si può definire normale, la mia è una vita speciale – dice – perché mi mette a contatto con tante difficoltà, ma con uno sguardo alla fede”. Già, la fede.“Non dovrei essere qui ma ci sono, il Signore mi ha voluto, ha un progetto nella mia vita”. Tra l’altro, Rosario è forse l’unico “caso” al mondo in cui la malattia ha preso solo le mani e le braccia, “un ulteriore segno di speranza, segno che il Signore ha messo una mano sulla mia testa fin dal grembo materno”. Fin da piccolo ha fatto il chierichetto in parrocchia. Da allora “non mi sono più staccato dall’altare, è stato un amore a prima vista col Signore”. La fede lo ha sostenuto nell’accettare e vivere la sua disabilità: “Mi ha dato una spinta, una risposta, un perché.La fede mi dice che non bisogna mai fermarsi davanti a qualsiasi ostacolo ma anzi sperando si può andare avanti, per dire come San Paolo: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede”.

La vita di Rosario non ha avuto particolari scossoni: si è fidanzato, pensava che avrebbe fatto l’avvocato, finché verso la fine della scuola superiore “qualcosa mi ha fatto cambiare idea. Non c’è stato un avvenimento particolare, è qualcosa che era già dentro ed è fiorito al tempo giusto”. Rosario ha bussato alla porta del seminario di Caltagirone (Catania) e a questo punto ha scoperto che per la Chiesa non poteva diventare sacerdote, a causa del suo handicap. Si è sentito morire. No, discriminato no. È lui stesso a spiegare: “Se la Chiesa ha messo questa legge è perché vuole bene ai suoi figli”. Anzi, “è un aiuto per queste persone, che credono di poter fare un ministero lineare” e magari non si rendono conto che con la loro disabilità “potrebbero arrecare un danno anziché fare il bene della Chiesa e dei fedeli loro affidati”. Si vuole anche evitare che le persone si avvicinino al sacerdozio per “fuggire” da una paura o dall’impossibilità di una vita di relazione piena. In realtà “non sempre dura lex sed lex. I canoni non sono sempre rigidi”. E così è possibile che persone in cui la disabilità non è particolarmente accentuata, tale da compromettere la vita sacerdotale, possano ottenere una dispensa.

Per Rosario è stato così: “Ho cercato di togliere dalla mia mente, come mi era stato suggerito, l’idea di entrare in seminario e per assurdo è stato proprio questo a convincermi che la mia strada fosse il ministero ordinato. Quando a qualcosa non si pensa, ma emerge sopra tutto il resto, come un gioiello che brilla più degli altri, allora cerchi di afferrarlo prima che vada perduto”. Così “dopo un anno di discernimento dei superiori, del vescovo e mio personale, è stata chiesta la dispensa papale”. La domanda deve essere formulata dal vescovo e dal superiore del seminario, e vanno allegati tutti i documenti medici. La dispensa è giunta qualche mese dopo, confermando che “non si vedevano nel candidato motivi validi per precludere l’accesso in seminario, perché il mio problema fisico non impediva una futura vita sacerdotale”.La dispensa è stata firmata dall’allora Pontefice Benedetto XVI “a cui devo molto e devo anche la mia vocazione”, maturata in parte alla Gmg di Madrid. Nell’ottobre 2015 Rosario ha anche potuto incontrarlo: “Gli ho chiesto: santità che cosa è più importante oggi per un sacerdote? Lui non mi ha lasciato quasi finire, e mi ha risposto: oggi la cosa più importante per un sacerdote è l’amicizia con Cristo coadiuvata dalla preghiera”.







[Modificato da Caterina63 12/04/2016 21:38]
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22/04/2016 00:52
 
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Ogni giorno, mi rinchiudo in un triplice castello



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La bellissima omelia del cardinale Sarah (dal blog romualdica.blogspot.it), tenuta in occasione del funerale di fr. Vincent-Marie de la Résurrection*, al quale aveva già dedicato il suo libro “Dio o niente”.

Carissimi Fratelli e Sorelle,

Sono emozionato e alquanto felice di essere con voi in questo momento per accompagnare con l’affetto e le preghiere alla sua ultima dimora il nostro fratello Vincent-Marie de la Résurrection. Egli sul suo letto di malato, come Gesù, nei giorni della sua vita carnale, ha trascorso giorni e notti a offrire preghiere e suppliche, con un potente grido di fede, per ottenerci da Dio l’aiuto e le grazie di cui abbiamo bisogno. Oggi siamo noi che preghiamo per lui, onde attirare su di lui la misericordia e il perdono di Dio. Poiché siamo tutti peccatori. Il bambino è simbolo di una purezza che non dobbiamo mai smettere di volere, ma che sappiamo, anche nell’agonia, che non raggiungeremo mai.

Mio carissimo Vincent, ringrazio Dio e la comunità dei Canonici Regolari di sant’Agostino, che ci hanno permesso di conoscerci e di camminare assieme durante un piccolo tratto della nostra esistenza. Ti eri impegnato, e avevi preso la decisione di sostenermi e accompagnare il mio ministero con le tue preghiere e i tuoi sacrifici. Tutti i nostri incontri si sono svolti nel silenzio e nella preghiera. Ogni volta che Dio mi ha permesso di venirti a trovare, abbiamo pregato intensamente il Rosario, sotto lo sguardo della Vergine Maria. E siamo rimasti durante lunghi momenti in silenzio. Tu perché Dio ti chiedeva di essere un’offerta silenziosa per la salvezza del mondo. Io perché diventassi tuo allievo, per apprendere il mistero della sofferenza.

Osservandoti in silenzio, ho sempre considerato che il tuo volto splendeva. Il tuo corpo portava la sofferenza e il dolore. Ma sul tuo viso si poteva vedere una grande gioia, un’immensa pace e un abbandono totale a Dio. Pregando con te e ascoltando il mistero della vita, mi hai insegnato che le sofferenze e le gioie esistono insieme. Mi hai insegnato che la preghiera non asciuga le lacrime.

E il silenzio ha insegnato a entrambi che l’unità della sofferenza e della beatitudine, è il segreto di Dio che dobbiamo accogliere nella fede e con una grande serenità. Quando, qualche volta, ti ho telefonato da Roma, la sola parola che tu volevi scolpire nel mio cuore, era: Sì, sì, sì! Eri diventato un Fiat continuo. Eri diventato interamente olocausto per un amore per Dio. Qualche volta non eri più capace di dire Sì, ma sentivo un respiro forte e doloroso. E mi hai rivelato così che l’espressione la più sublime dell’amore, è la sofferenza.

Ciò che Dio mi dava da percepire intuitivamente, tu stesso me ne dai conferma nel momento in cui ci lasci. In effetti, questa notte ho letto nel tuo diario personale questi pensieri di una densità spirituale eccezionale che hanno nutrito la tua vita interiore. Ti cito: “Credo che la sofferenza è stata accordata da Dio all’uomo in un grande pensiero di amore e di misericordia. Credo che la sofferenza è per l’anima la grande operaia della redenzione e della santificazione”.

Sì, la sofferenza è uno stato di felicità e di santificazione delle anime. Ad ascoltarti, sembra di sentire santa Teresa del Bambino Gesù, che scriveva: “Ho trovato la felicità e la gioia sulla terra, ma unicamente nella sofferenza, perché quaggiù ho molto sofferto”.

Ma per arrivare ad assumere in tal modo la sofferenza e per trovare la gioia nella sofferenza, oggi tu ci consegni il tuo segreto. Questo segreto io l’ho trovato nel tuo quaderno:

“Ogni giorno, mi rinchiudo in un triplice castello:

Il primo è il Cuore purissimo di Maria, contro tutti gli attacchi dello spirito maligno.

Il secondo è il Cuore di Gesù, contro tutti gli attacchi della carne.

Il terzo è il Santo Sepolcro, dove mi nascondo vicino a Gesù contro il mondo”.

Questa mattina, la tua camera è vuota come il sepolcro, perché tu sei vivente.

Ti dico nuovamente il mio immenso grazie, Vincent, per ciò che sei stato per me e per noi.

Continua a pregare per i tuoi fratelli, i Canonici Regolari di sant’Agostino, per la Chiesa, per la tua famiglia e per noi. Anche noi preghiamo per te. Dio ci ha separati per un momento, ma restiamo uniti.

Tu sei di più in più profondamente nel cuore di Dio, ma rimani nel più profondo del nostro cuore. Ora che contempli il volto di Dio, prega per noi, per i tuoi fratelli i Canonici Regolari di sant’Agostino. Tu ci hai preceduto presso il Padre per essere nostro protettore. E imploriamo la misericordia di Dio su di te. Ti affido alla Vergine nostra Madre. Lei che invocheremo nell’ora della nostra morte.

Amen!

 

 

frere_vincent*[Domenica 10 aprile 2016 si è addormentato nella pace del Signore – all’età di 39 anni, di cui 12 nella vita religiosa – fr. Vincent-Marie de la Résurrection (Benoît Carbonell), canonico regolare della Madre di Dio presso l’abbazia Sainte-Marie de Lagrasse, una comunità legata alla forma extraordinaria del Rito romano. Da qualche anno fr. Vincent era affetto da sclerosi multipla, che un poco alla volta lo ha completamente immobilizzato.
Invitiamo a leggere la bella e toccante testimonianza sulla sua vita resa dai suoi fratelli canonici.
La Messa di esequie, celebrata in rito romano antico, è stata celebrata sabato 16 aprile dal R.P. Emmanuel-Marie, Abate di Lagrasse, alla presenza di Sua Eminenza il cardinale Robert Sarah, che ha svolto l’omelia e in seguito benedetto la salma. Da qualche anno si era stretto un forte legame di amicizia e intimità spirituale fra il card. Sarah e fr. Vincent, che portava dentro di sé con un senso di missione di preghiera e di silenzio le intenzioni per la Chiesa che il porporato veniva ad affidargli regolarmente; ha scritto di lui il cardinale africano: “Ho dedicato a fr. Vincent il mio libro Dio o niente perché ho compreso dal nostro primo incontro che Cristo aveva poggiato il suo cuore contro il suo”. 

 





Don Vincent, dagli hippies ai malati terminali "Cercare Dio è entrare in una Grande storia"
di Andrea Zambrano

06-10-2016

Don Vincent Nagle

Cercare Dio è un ricordo che riaffiora: una madre che ti culla, ma che lentamente sta morendo. E una madre che ti rialza, una madre celeste. Per Padre Vincent Nagle la scoperta di quel Dio nel quale tutto si compie ha le sembianze di un’immagine plastica, onirica, codificata nel momento più duro dell’esistenza, quando si sta per lasciare la vecchia vita e si intravede un esito nuovo che sta arrivando, ma ancora non si conosce e per questo lo si teme. Il sacerdote americano della Fraternità San Carlo sarà uno dei protagonisti della Giornata della Nuova Bussola Quotidiana che si svolgerà domenica a Monza. E parlerà di sé, della sua vita ai nostri occhi così avventurosa per mostrare attraverso quale tortuoso percorso si possa giungere ad abbracciare una fede che è principalmente un incontro con la verità.

L’accento californiano rende ancor più coloriti i contorni del suo percorso, un percorso, anche questo, di ricerca. Quaerere Deum, cercare Dio, ma partendo da un contesto di partenza lontanissimo da Lui. Quasi irraggiungibile con le nostre forze umane. Vincent in fondo poteva dire di essere nato nel migliore dei mondi possibili secondo il dettato umano delle nostre vanità. Se nasci nel ’58 in California da genitori newyorkesi impastati di cultura lib e hippie, non puoi che considerarti al centro del mondo. Un padre cattolico, sindacalista e militante del Partito Democratico, una madre ebrea, figlia di una stella di Broadway.

Sembra quasi un cliché pronto uso per un qualche mito hollywoodiano, ma non riusciamo a immaginarci lei che leggeva William Blake vicino a una finestra e lui che beveva caffè perché in fondo la vita inizia quando finisce l’ultima strofa. Nonostante desiderasse molti figli, la mamma di Vincent non riusciva ad affezionarsi a loro e tentò due volte il suicidio. Pesava come un macigno il suo passato di abbandoni e ferite e forse per capire l’approdo di don Vincent bisogna rileggere in parallelo il percorso dietro le quinte della madre: negli anni della beat generation è una hippie sfegatata che porta la famiglia a vivere nella foresta per vivere più a contatto con una natura non corrotta dalla società.

Illusioni, si dirà. Mille esperienze distruttive nella società americana così già aperta a sperimentare la fuga dalla realtà: buddismo, new age che diventa un preciso catechismo di famiglia e poi sesso libero, droga, musica psichedelica. Vincent subisce impaurito quelle rivoluzioni che continuamente spostano il baricentro dei suoi affetti. Lasciando una domanda: ma qualche cosa di vero, qualcuno che risponda a quel desiderio di eternità e amore ci sarà da qualche parte?

La paura di Vincent risuonava come un grido intricato nella foresta eletta innaturalmente a nido famigliare. E con essa risuonava la sua preghiera nascosta. Che ha scavato dentro di sé fino a quell’incontro con un sacerdote, a 16 anni, che nel corso di un campeggio gli mostra un’altra vita. Qualcosa si accende, ma è ancora terribilmente intricato. Ma si snoda lentamente secondo un tracciato unico e irripetibile: gli affetti, una fidanzata, un abbandono, l’esperienza del viaggio. E poi la conversione radicale, i dubbi sulla scelta vocazionale, l’incontro con don Giussani e infine l’approdo alla Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo, dove ad accoglierlo c’è un altro sacerdote, don Massimo Camisasca.

Proprio nell’incontro del futuro vescovo di Reggio Emilia con la madre c’è la chiave che apre le porte di tutte le stanze che si affacciano sul corridoio buio. “Dopo un anno che ero in seminario – ha raccontato alla Nuova BQ recentemente -, Don Massimo è venuto negli Stati Uniti per conoscere la mia famiglia. Mia mamma mi ha chiesto di presentarle il prete della zona e ha deciso di battezzarsi, fare la comunione e la cresima. Io non osavo chiedere niente, ma finalmente quando ci siamo parlati lei mi ha detto: quando Don Massimo è stato qua, ho visto quanto la Chiesa ti vuole bene e anche io voglio poterti amare così. Questo episodio di mia mamma fa vedere che una persona cede al cristianesimo perché ha bisogno. Ciò che ha cambiato me non è stato che difendevo la verità della Chiesa, ma vedere una Presenza. Non è un progetto, ma Gesù che mi invita in una compagnia”.

Oggi don Vincent vive a Milano nella parrocchia di San Carlo alla Ca’ Granda a Niguarda ed è cappellano della Fondazione Maddalena Grassi, un’opera che si occupa dell’assistenza soprattutto ai malati terminali. Ma si occupa anche di famiglia e di educazione, proprio perché chi ha ricevuto tanto per la sua famiglia è in grado di restituire tanto. Le sue catechesi e testimonianze fanno il tutto esaurito. Anche perché don Vincent sa di che cosa parla.

“Mia sorella è un’esponente molto conosciuta di una certa espressione della cultura lesbica. Dunque, io sono cresciuto proprio nell’ambiente omosessuale. Quando ero ragazzo la nostra casa in California era frequentata da diversi personaggi di rilievo di questa cultura, persone con cui spesso mi capitava di discutere, e posso dire con certezza che tutto quello che oggi sta accadendo era già scritto e stabilito. Mi raccontavano come il loro obiettivo fosse innanzitutto quello di impadronirsi dell’educazione, di entrare nelle scuole, specialmente in quelle elementari, per diffondersi nei corridoi della politica e della burocrazia”. E' un programma di distruzione di massa che si sta attuando secondo un disegno diabolico.

Che però non potrà avere l’ultima parola perché l’happy end, sembra suggerirci la sua storia, non è un cartellone sul sunset boulevard, ma è un fatto che si fa Presente oggi come ieri. “L’educazione cristiana – ci spiega - consiste nell’introdurre chi ci è stato affidato in una grande avventura che ha un buon finale. É poter partecipare non solo a una grande storia, ma alla Grande Storia”.

 




[Modificato da Caterina63 06/10/2016 12:26]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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15/04/2017 19:50
 
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DON DOLINDO RUOTOLO SACERDOTE NAPOLETANO



Spirito precorritore, anticipatore del Concilio Vaticano II, propugnò, tra l’altro, la Messa vespertina, la Comunione al venerdì Santo, la revisione delle norme riguardanti il digiuno eucaristico, la riforma liturgica.

img093Dolindo Ruotolo nacque a Napoli, quinto di undici figli, il 6 ottobre 1882 da Silvia Vitale di nobili origini e da Raffaele, ingegneree e professore di matematica, figliolo di un sarto di Casavatore.

Il padre he aveva l’abitudine di inventare il nome da imporre al Fonte Battesimale ai suoi figli, per lui scelse Dolindo, che significa dolore.

E fu un presentimento.

Il dolore, del corpo e dello spirito, caratterizzò la fanciullezza, la vita, il ministero sacerdotale di Dolindo, un dolore che fu testimonianza, un dolore accettato con gioia perchè chiesto in uno slancio di infinito amore a Gesù Sacramentato, un dolore “che è la più bella misericordia” che il Signore gli abbia fatto.

La diversa condizione sociale dei genitori, la diversa educazione, la disparità di carattere, irascibile e parsimonioso fino a rasentare l’avarizia, quello del padre, e le ristrettezze economiche in cui quest’ultimo costringeva a vivere la famiglia con l’intento di accumulare del denaro per acquistare delle proprietà, minarono il menage familiare che culminò con la separazione dei due, dopo ben 23 anni di matrimonio.

Dolindo Ruotolo trascorse gli anni della fanciullezza in una povera casa di via Santa Chiara, nel cuore della vecchia Napoli, fra punizioni, stenti, percosse.

Non che il padre non amasse i figli, ma era in buona fede ed era convinto che così facendo riusciva ad educarli bene.

Alla scarsità di cibo, Dolindo doveva sopperire raccattando, nei rifiuti, torsoli di verdure per farne insalate, condite di freddo e percosse, distribuite senza ragione o per delle innocenti biricchinate infantili, e per una di queste fu costretto a dormire, per diversi anni, in uno stanzino buio, usato come deposito dei carboni.

Non frequentò scuole regolari, almeno per quanto riguarda le elementari, e fu costretto ad imparare da solo, quello che il padre e la sorella maggiore, senza metodo, tentarono di insegnargli; per questa ragione, forse, riusci tardi a fare la Prima Comunione.

Nonostante tutto, egli, come il fratello Elio ed Ausilio, ebbe la convinzione di dover essere Sacerdote ed impostò a tal fine la sua vita spirituale.

Quando Raffaele Ruotolo riuscì ad acquistare  una casa al vico Nilo, decise di avviare il figlio Elio alla prima classe ginnasiale del Liceo “Genovesi”, dopo averlo preparato in casa, ma per il povero Dolindo incominciarono altre pene: doveva prepararsi a sostenere l’esame di ammissione  alla seconda classe ginnasiale, studiando da solo, sui libri di latino e greco del fratello.

Gli esami al “Genovesi” furono un fallimento, come lo furono quelli sostenuti al “Pontano” con i Gesuiti.

Il padre riuscì poi , a farlo accettare a frequentare la prima classe ginnasiale al “Genovesi”, ma fu una nuova sconfitta, premiata con una eccezionale dose di percosse.

Dopo la separazione dei genitori, i due fratelli, Elio e Dolindo, furono posti  a studiare nella Scuola Apostolica dei Preti della Missione, ai Vergini: entrambi avevano chiaramente manifestato il desiderio di farsi Sacerdoti e l’ambiente familiare, ormai, non offriva più garanzie per una seria formazione religiosa.

L’ingresso nella Casa dei Preti della Missione segnò l’inizio di un nuovo periodo di tribolazioni: questa volta fu l’invidia e la gelosia dei compagni a tartassarlo.

Ammesso a frequentare la seconda ginnasiale nella scuola dell’Istituto, venne ritenuto incapace di applicazione allo studio , ma la sua intelligenza ebbe un risveglio improvviso e inaspettato: I Superiori allora, lo ritennero un ipocrita e lo privarono dei suoi abiti per rivestirlo con una sottana stracciata e sporca esponendolo  agli insulti e alle derisioni.

Al termine degli studi ginnasiali fece domanda per l’ammissione al Noviziato e per carità verso un compagno malato, si sottopose a visita medica: venne ritenuto non completamente sano, mentre il suo compagno malato fu regolarmente ammesso; lui dovette attendere altri sei lunghi mesi prima di entrare in Noviziato, dove venne accolto abbastanza bene e trascorse i due anni prescritti sopportando le incomprensioni dell’unico compagno che poi, ravveduto, gli chiese perdono.

Negli anni della sua permanenza nella Casa dei Vergini, chiese a Cristo il dono del dolore, che non tardò a venire.

Nel mese di maggio 1901, Dolindo Ruotolo fu ammesso allo studentato, dove trovò, finalmente, l’ambiente congeniale e il primo giugno dello stesso anno emise i voti religiosi.

L’anno successivo, il 18 luglio, morì il padre, che, colpito da paralisi qualche anno prima, era stato riaccolto amorevolmente in casa dalla madre, che così era riuscita a ricomporre la famiglia.

Il 24 giugno 1905 fu ordinato Sacerdote, con 18 mesi di anticipo, ed entrò a far parte della Congregazione dei Preti della Missione.

img088Autografo del Sac. Dolindo Ruotolo intestato a Giuseppina Giorgio, sposa dell’autore di questo articolo, sul retro di una immaginetta. Preziosa reliquia.

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La vita sacerdotale di Padre Dolindo Ruotolo fu caratterizzata da un abbandono totale nelle braccia amorevoli della Madonna, di Gesù e alla volontà della Chiesa soprattutto quando più forte fu l’accanimento del Sant’Uffizio contro di lui, nei momentoi terribili della “sospensione a divinis” e delle vessazioni dei confratelli: tutto fu permesso da Dio perchè fosse esempio di fedeltà e di amore alla Chiesa che sempre lo riconobbe e dichiarò innocente, dopo aver visto cadere tutte le accuse dei denigratori e dei falsi testimoni.

Dopo l’ordinazione sacerdotale fu nominato professore nella Scuola Apostolica dei Vergini, dove ricevette umiliazioni e maltrattamenti fino a quando, nel 1906, venne trasferito a Taranto, per normale avvicendamento, insieme al suo Direttore della Scuola Apostolica, suo maggiore vessatore e destinati entrambi al Seminario Arcivescovile di quella città, dove trovarono un ambiente particolarmente difficile e dove regnava l’anarchia e il disordine anche per la presenza di un Sacerdote secolare che vi spadroneggiava seminado discordie e dando scandalo.

Alle vessazioni del Superiore si aggiunsero quelle di costui, ma Padre Dolindo ebbe il coraggio di smascherarlo in pubblico, durante una predica: questo costò a lui e al Superiore il trasferimento, ma anche al pace nel seminario di Taranto.

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Autografo del Sac. Dolindo Ruotolo.

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Nella nuova sede del Seminario di Molfetta fu accolto con cordialità, ricevendo addirittura l’elogio del Vescovo per lo zelo posto nell’ufficio di Direttore Spirituale.

Molfetta fu apparentemente un’oasi di pace; la bufera si stava addensando sul capo di Don Dolindo che era rimasto in contatto con il suo ex Superiore, Padre Volpe, che in quel periodo studiava i fenomeni pseudo-mistici che interessavano una donna di Catania, e quando questi venne accusato di eresia, egli lo difese a spada tratta.

Le false interpretazioni di questi fenomeni, le dicerie fatte correre sul conto dei due Sacerdoti, la propaganda denigratoria fatta dalla stampa anticlericale, l’atteggiamento dei Superiori che per timore di essere discreditati, gettarono ombra su Padre Dolindo , misero in rivolta la Casa dei Vergini contro di lui che, accusato al Sant’Uffizio, venne richiamato a Napoli.

Da Roma venne l’intimazione di far tempestivamente presentare i due al Commissario del Sant’Uffizio per essere interrogati ed esaminati.

Ritenuto pazzo, sospeso dalla celebrazione della Santa Messa e dai Sacramenti, Dolindo Ruotolo fu rinviato a Napoli, dopo essere stato provvisoriamente reintegrato nelle sue facoltà, con l’ordine di espulsione dalla Congregazione dei Preti della Misione e il 13 maggio 1908 fu costretto, con la forza, ad abbandonare la Casa dei Vergini per ritornare a vivere con la madre in una casa al largo dei Miracoli.

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Autografo del Sac. Dolindo Ruotolo.

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Tutta la montatura era stata creata da persone che non  gradivano le frequenti sferzate che il Padre Volpe distribuiva contro di loro, fautori di scandali e di disordini e diffusori del seme anticlericale; il Padre Dolindo Ruotolo venne coinvolto nella bufera per un misterioso disegno della Provvidenza, cercando di chiarire cone erano andate realmente le cose.

Nella casa materna fu accolto come uno scomunicato e i familiari gli rinfacciarono perfino il cibo che mangiava a sbafo, stante le gravi condizioni di miseria in cui si dibattevano.

Intanto il Sant’Uffizio lo convocò a Roma, dove rimase in attesa delle decisioni della  Commissione, ma poi ritornò a Napoli per ripartire per Rossano Calabro, chiamato in quella città dal Vescovo, impietosito per la sua situazione: egli gli conferì l’incarico di predicare un corso di Esercizi Spirituali per i Paesi della Diocesi e riusci a farlo incaricare come insegnante di musica nel locale Istituto Magistrale.

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Autografo del Sac. Dolindo Ruotolo, anche questo intestato a Giuseppina Giorgio, sposa dell’autore di questo lavoro, sul “frontespizio” di un libro di cui è autore il Servo di Dio.

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Ritornato a Napoli nel 1913 incominciò diverse opere di apostolato: quello negli  ospedali della città, la Scuola di Religione in casa La Rovere, la predicazione, la catechesì, l’apostolato singolare degli scritti dietro le immaginette che distribuiva ai fedeli: la Provvidenza faceva sì che ad ognuno capitasse l’esortazione utile per la propria anima, pur non conoscendone, il Padre Dolindo, i segreti.

Alle lezioni della Scuola di Religione partecipò anche un tale con notevole interesse ma, impreparato ed ignorante, credette di ravvisare nelle parole del Padre Dolindo nuove eresie e andò a riferire alle Autorità Ecclesiastiche che egli, con le sue idee stava gettando le basi per una nuova e pericolosa setta eretica, in seno alla Chiesa.

Il 14 agosto 1918 la Curia Arcivescovile di Napoli inviò a Don Dolindo l’ingiunzione di sospensione dalla predicazione e, non contento, il suo denigratore, molto conosciuto negli ambienti Vaticani, chiese udienza a Benedetto XV, al quale espose in maniera falsa il senso dei discorsi che si facevano della Scuola Apostolica di Casa La Rovere.

Il Santo Padre ordinò una inchiesta e nel mese di febbraio 1921, Padre Dolindo Ruotolo fu richiamato a Roma per essere nuovamente interrogato dal Commissario del Sant’Uffizio; il 4 marzo dello stesso anno fu nuovamente sospeso a divinis e così rimase per molto tempo tentando di dimostrare la falsità delle accuse mosse contro di lui anche da una persona che testimoniò il falso: una sua figlia spirituale.

L’inchiesta del Sant’Uffizio andò avanti ed emerse la sua cultura teologica, la sua ascetica, la sua mistica non comune e in perfetta linea dottrinale con la Chiesa.

Quale era in sostanza la nuova accusa che gli si muoveva?

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Il Padre Dolindo Ruotolo fotografato mentre celebra la Santa Messa nella Cappella della Immacolata di Lourdes, nella Chiesa napoletana di San Giuseppe de’ Vecchi, dove è sepolto.

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Egli, in fondo, non fece che anticipare quello che il Concilio Vaticano II discuterà ed approverà: la Comunione e la Santa Messa Vespertina, come facevano i Cristiani dei primi secoli, la facoltà, per i Sacerdoti, di celebrare più Messe in uno stesso giorno festrivo, per sopperire alla scarsità di clero, la Comunione al Venerdì Santo, la revisione delle norme relative al digiuno prima della Comunione, la riforma della liturgia e di alcuni apparati ecclesiastici, la riforma degli Ordini Religiosi.

Il Sant’Uffizio, pur non  riconoscendo la colpevolezza di Don Dolindo, pur considerando la caduta di tutti i capi d’accusa, temè che le “novità” del Prete napoletano potevano in qualche modo nuocere alla Chiesa e il 17 dicembre 1921 lo candonnò definitivamente, considerandolo un maniaco mistico: senza Messa e rinchiuso in una Casa dei Preti della Missione a meditare.

Ritornò a Napoli il 31 dicembre 1921 e nonostante l’interessamento del Vicario Generale, Mons. Zezza e del Cardinale Sili, il Sant’Uffizio non si decise a rivedere il processo e a revocare la ingiusta condanna, mentre Don Dolindo conoscendo ed incontrando per caso e in particolari circostanze i suoi maggiori denigratori, li perdoinò.

Nel 1925 cominciò in sordina e con uno pseudonimo, Sac. Dain Cohenel, “l’Opera dell’Apostolato Stampa” e nel 1930 quella del commento della Sacra Scrittura, ma nel 1934, alcuni scritti a commento di brani scritturali, furono male interpretati da una recensione de “l’Osservatore Romano” e il Sant’Uffizio assegnò all’Opera due Revisori che ne proibirono la stampa;  nel 1936 essa venne riautorizzata anche perchè l’Opera aveva ricevuto numerosi giudizi positivi da autorevoli teologi e Vescovi.

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La famiglia spirituale del Padre Dolindo Ruotolo, nella “casa dell’Apostolato Stampa” in Napoli al vico Sant’Agostino degli Scalzi.

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Il 21 maggio del 1937 ricevette una visita psichiatrica nel Palazzo Arcivescovile di Napoli e venne accusato di avere strane idee e strane esagerazioni di pietà e di amore di Dio e di pubblicare scritti contrari al regima fascista.

Il dott. Sciuti che lo visitò successivamente dichiarò al Cardinale Ascalesi la perfetta sanità di mente del Sacerdote: il Presule, convinto della innocenza del povero Prete sollecitò il Sant’Uffizio per la sospensione della pena e il 18 luglio 1937 fu finalmente riabilitato e reintegrato nelle sue facoltà.

Celebrò la Santa Messa nella chiesa di Santa Teresa al Museo, dopo 16 anni.

Intanto, il 14 aprile 1942, il fratello Elio fu promosso Parroco nella chiesa di San Giuseppe de’ Vecchi e Don Dolindo incominciò ad aiutarlo come Vice-parroco, negli anni difficili della seconda guerra modiale.

Gli anni del dopoguerra videro l’impegno apostolico di Padre Dolindo Ruotolo che dedicò tutto il suo tempo alla predicazione, alle opere di carità, alla cura delle anime che sempre più numerose affollavano il suo confessionale.

L’Opera dell’Apostolato Stampa, iniziata in sordina nel 1925, lo impegnò con la pubblicazione di numerosi scritti di ascetica, mistica, liturgia, musica che andarono ad aggiungersi alla colossale opera della Sacra Scrittura: psicologia-commento-meditazione” a cui finalmente la Chiesa ufficiale riconobbe l’alto valore dottrinale,

Il 2 novembre 1960, Padre Dolindo fu colto da malore: restò semiparalizzato.

Nonostante le sofferenze fisiche che gli derivavano dalla nuova condizione, riprese il giro di visite ai poveri, ai suoi ammalati e incominciò a ricevere a casa sua, all’ultimo piano di via Salvator Rosa 58, chiunque bussava alla porta; persone di ogni ceto sociale, che a lui si rivolgevano per la cura dell’anima, per un consiglio, per dipanare intricate matasse, quando il dolore bussava alla porta, quando la gioia era frutto delle preghiera di un povero vecchio.

img098Il Sac. Dolindo Ruotolo al suo tavolo di lavoro nella sua casa napoletana di via Salvator Rosa 58.

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Carico di malanni, le gambe piagate per la cattiva circolazione del sangue, il braccio destro che non voleva più funzionare ” ‘u viecchieriello d’ ‘a Madonna” aveva ancora la forza di gridare per spronare al lavoro e risolvere una situazione delicata, chi il lavoro non se lo andava a cercare…….lo scrivente.

img092Vecchie banconote conservate gelosamente dallo scrivente. La piccola somma, lasciata in elemosina per i poveri che bussavano alla porta di Padre Dolindo Ruotolo, furono da lui benedette e riconsegnate allo scrivente e alla consorte, perchè poveri…con l’avviso che la somma si sarebbe moltiplicata per il gesto di carità compiuto da poveri per altri poveri….Essa si è grandemente moltiplicata nel tempo.

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Alla Santa Messa celebrata al mattino, in casa, partecipavano fedeli, religiosi e sacerdoti che venivano anche da lontano.

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Il cadavere del Sac. Dolindo Ruotolo, composto nel suo lettuccio., nella sua casa napoletana.

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Morì il 16 novembre 1970, riarso dalla polmonite, mentre mormorava ancora un’ultima AVE MARIA.

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Il feretro, trasferito dalla sua casa, alla chiesa parrocchiale di San Giuseppe de’ Vecchi, per i funerali. Il personaggio con la barba, sotto l’arco della scala, è lo scrivente.

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Alcuni esponenti della Chiesa hanno contrastato l’Opera apostolica di Padre Dolindo Ruotolo, distruggendo, annullando, mettendo all’indice i suoi scritti, lo hanno giudicato pazzo solo perchè cinquant’anni prima del Concilio Vaticano II, ebbe il coraggio di denunciare i difetti e le gravi carenze esistenti nella Chiesa e ne propose le soluzioni, nelle mutate condizioni dei tempi, convinto che esisteva al di là delle verità formulate dalla Chiesa, un margine di studio, di progresso, di proposte che potevano venire anche dagli strati più bassi del Popolo di Dio.

I suoi scritti furono tutti considerati dai Revisori del Sant’Uffizio privi di errori dottrinali e riautorizzati alla pubblicazione.

La causa di beatificazione è in fase istruttoria ed è in corso la raccolta di documenti e testimonianze relative alla sua vita e alle grazie operate da Dio per suo tramite.

La Chiesa, disponendo il deposito canonico dei suoi resti mortali nella chiesa parrocchiale dell’Immacolata di Lourdes in San Giuseppe de’ Vecchi, accanto alla tomba del fratello Elio ne ha riconosciuto le virtù eroiche.

tomba_dolindoLa tomba del Servo di Dio Sac. Dolindo Ruotolo nella chiesa napoletana di San Giuseppe de’ Vecchi. Lo scrivente fu presente alla chiusura della sua bara, e, dopo la traslazione delle sue spoglie mortali dal cimitero di Poggioreale di Napoli, alla tumulazione dei suoi resti, sigillati per il deposito canonico.

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img099Le fotografie utilizzate in questo articolo sono tratte da questo fascicoletto pubblcato postumo.




















     





Ascoltiamo don Dolindo
Bisogna lavorare per la vita eterna

La nostra vita passa, è un viaggio verso la morte e l’eternità. Ogni giorno, ogni mese, ogni anno che passa è un cammino percorso verso queste due stazioni. Chi intraprende un viaggio fa due tappe: va prima alla stazione o al porto, e poi sale sul treno o sul piroscafo, ed e portato lontano, tra i saluti e le lagrime di quelli che restano. Noi andiamo prima verso la morte, e dalla morte passiamo all’eternità. È una grande stoltezza dunque concentrarsi nella vita presente, lavorare e stentare per il benessere del corpo, e dimenticare le cose più essenziali: l’anima e l’eternità.

Non saresti stolto se, dovendo lavorare per produrre, tu perdessi il tempo a lucidare i perni o le ruote di una macchina e ti curassi solo della pulizia dello stabile, trascurando proprio il lavoro? Sì, è bene tenere tutto pulito, è bene anche avere un posticino più comodo per lavorare, ma l’essenziale è che tu produca, che la tela cresca, che il ferro sia modellato, che il legno grezzo diventi un mobile; se non fai questo, non sei un operaio. Un cuoco che si preoccupa di tener pulita la cucina, ordinato il suo vestito e non prepara il pranzo, a che serve? Le occupazioni della vita presente sono come l’ambiente e il mezzo per lavorare e produrre per la vita eterna, servono a compire la missione che Dio ci ha data, per meritare il premio eterno; se tu dimentichi il tuo fine ultimo, e la necessità di operare il bene per salvarti, lavori, stenti, sudi, e praticamente ti affatichi invano.

– Sì, tu dici, ma la vita è la vita, ed io non posso trascurare il campo, la bottega, l’ufficio, e così mi passa tutta la giornata. – Benissimo, ma tu per le tue occupazioni non trascuri di dormire, di lavarti, di mangiare, leggere il giornale, e persino di fumare e divertirti. Ora come puoi, per le occupazioni materiali non pensare mai o quasi mai a quello che ti serve per la vita eterna, cioè a pregare, ad ascoltare la Messa, a ricevere i Sacramenti, a confessarti, a comunicarti, ad istruirti nelle verità della Fede, tu che in questo sei così ignorante?

Che cosa penosa, per es., che un avvocato, si occupi da mane a sera e persino la notte, della difesa di un reo, e non pensi almeno per mezz’ora alla causa della propria anima innanzi a Dio! Che cosa triste che un muratore stia occupato da mane a sera ad innalzare case ed edifici, e non metta nel giorno neppure una pietruzza per il suo bene eterno, e per la celeste dimora! Una vita tutta spesa nelle occupazioni materiali, senza curarsi di quelle spirituali ed eterne, è simile a quella delle bestie da soma, che lavorano per gli altri e non fanno mai nulla per sé! – Ma io lavoro per la casa e per i figli, tu dici, e sono degno di lode e vero galantuomo.

Come posso avere il tempo di badare all’anima? – Stolto, e credi tu che quelli per i quali lavori potranno supplire a ciò che tu non fai per l’anima tua? E credi poi che te ne saranno veramente grati? Ti perderai eternamente per chi non ti ricorderà neppure? E non sai tu che amando e servendo Dio, compiendo i tuoi doveri religiosi, e curando l’anima tua, porti la benedizione sulla tua casa e sul tuo lavoro, ed è proprio allora che vivi veramente per il bene della tua famiglia? Non devi lasciare solo un’eredità materiale ai tuoi figli o provvedere solo al loro corpo, ma con la tua vita cristiana, praticante, devi lasciare loro l’esempio della virtù, e guidarli ai beni eterni.
Ti preoccupi del loro avvenire terreno e non ti preoccupi del loro avvenire eterno? Come puoi meritare il nome di padre, se ti mostri senza fede e senza virtù innanzi ai tuoi figli, se vivi disordinatamente e raccogli il loro compatimento e persino il loro disprezzo? Un padre lontano dalla Chiesa e dai Sacramenti, un padre che non prega, che bestemmia, si ubriaca, si dà a vizi turpi, ha relazioni cattive e commette il male, che razza di padre è?

Una madre che pensa solo ad ornarsi, a fare la civetta, a chiacchierare, ad inveire, e non si preoccupa dell’anima sua e di quella dei suoi figli, che razza di madre è?

da Perdere il tempo nella vita 


[Modificato da Caterina63 03/05/2017 10:31]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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22/11/2017 18:49
 
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Oggi Gesù mi ha rimproverato mentre celebravo la Messa


Il sacerdote che sentiva di agire male

Come tutti i sacerdoti del mondo, non passa giorno senza che qualcuno cerchi padre Sergio per parlare un po’ e chiedergli cosa fare di fronte a certe situazioni: “Mia suocera mi è contro, vorrei allontanarmi da lei e smettere di parlarle. Cosa mi consiglia di fare?”; “Mio nonno ha lasciato un’eredità a tutti noi, ma certi non se la meritano, conviene che faccia giustizia?”; “Padre, non sopporto più mio marito, i suoi insulti, i suoi maltrattamenti. Mi viene voglia di lasciarlo, crede che lo debba fare?”; “Sento che nella vita mi è andato tutto male, che tutti i miei sforzi sono stati vani, sono stanca… Cosa posso fare?”

Sono tante le domande che mi vengono rivolte tutti i giorni. Cerco sempre di ascoltare tutti con il cuore e di illuminare con qualche parola di speranza, invitando a fare il bene, a chiedere a Dio la forza per andare avanti, e ricordando che è meglio subire un’ingiustizia che commetterla.

Ma soprattutto prego per loro, particolarmente nell’Eucaristia. Quando ho tra le mani il mio Signore gli dico: “Ti affido questa persona e quest’altra, aiutale a prendere le decisioni migliori per la tua gloria e a beneficio delle loro famiglie…”.

Giorni fa, però, in un unico pomeriggio mi sono stati presentati moltissimi problemi, e sentivo che i miei consigli erano ben poveri. Quando sono arrivato a Messa ero immerso in un mare d’angoscia e continuavo a pensare a come avrei potuto orientare tutte quelle persone. Subito dopo la consacrazione ho balbettato varie volte e mi sono rimproverato: “Stai dicendo male le cose”.

E in quel momento sono riuscito a sentire il mio dolce Gesù: “È vero, lo stai dicendo male, non potrai aiutarli, dì loro di chiedere a Me cosa farei Io al posto loro e indicherò loro il cammino”.

Mi ero sbagliato, non solo nel balbettare, ma anche nel modo di voler aiutare. Gesù aveva ragione. Chi meglio di Lui può dirci cosa fare? E allora mi sono riproposto di non preoccuparmi tanto la volta successiva, incoraggiando piuttosto le persone ad avvicinarsi a Dio e a chiedere consiglio a Lui.

Quella sera stessa, prima di uscire dalla cappella, si è presentato un signore che voleva parlare con me. Mi ha raccontato che suo padre era stato molto crudele con lui per tutta la vita; praticamente era cresciuto tra botte e insulti, e il padre non aveva mai voluto sostenere lui o i suoi fratelli perché andassero a scuola, senza contare che alla madre sapeva solo dare ordini gridando, e quindi non appena ha potuto se ne era andato di casa ed erano ormai più di trent’anni che non lo vedeva. Una settimana prima, però, una zia gli aveva detto che il padre era sottoposto a dialisi, che era molto debole e che nessuno della famiglia voleva aiutarlo. Alla fine mi ha detto: “Padre, grazie a Dio ho una famiglia, sono molto felice, so che mia moglie e i miei figli accoglieranno con gioia mio padre, ma credo che non sia giusto che io ora lo aiuti dopo tutto quello che ha fatto passare a me, a mia madre e ai miei fratelli. È vero che non sono costretto ad aiutarlo?”

L’ho abbracciato, dicendo: “Figlio, mi dispiace per tutto quello che hai passato e capisco che non ti sembri giusto. Ti chiedo di accompagnarmi, ti aprirò la cappella del Santissimo e voglio che tu chieda a Nostro Signore cosa farebbe Lui al posto tuo”.

Dopo una mezz’oretta è tornato e mi ha detto tra le lacrime: “Padre, lo accoglierò. È grazie a mio padre che ho la vita. Lo prenderò in casa mia e lo aiuterò in tutto ciò che posso”.

Sono andato a letto molto felice, e sentivo che quel giorno avrei riposato come non mai. Dio mi ha mostrato ancora una volta che è Lui a risolvere i problemi, e che io devo solo avvicinarli a Lui. Mi ha anche ricordato quando sarebbe facile la nostra vita se solo Lo invitassimo a farne parte.

Molte cose vanno male perché non pensiamo di chiedere a Gesù cosa farebbe al nostro posto. Quanto mi piacerebbe incontrare tutti coloro che stanno affrontando una difficoltà o che hanno bisogno di prendere una decisione per dire loro: “Non temere, non angosciarti tanto, Dio ti ama, è con te e ti aiuterà. Mettiti solo in ginocchio davanti a Lui e chiedigli: ‘Mio buon Gesù, cosa faresti Tu al posto mio?’”

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

     



che si può AMARE e ci possa amare fra coniugi come “Cristo comanda” si può, non è utopia e non è impossibile, non è una idea MA LA GRAZIA DEL SACRAMENTO.   

Ecco una prova bellissima tratta da La Nuova Bussola Quotidiana: “Che non sono parole lo dicono anche Diego e Marta, 3 figli, che “abbiamo scoperto queste cose dopo 20 anni di matrimonio: ci rispettavamo certo, ma questa unità profonda non la vivevamo”. Marta spiega di quando cercava ovunque la risposta a quella sete che avevo di Amore totale, “ma al primo seminario a cui partecipai, don Renzo disse che la risposta era lì davanti a me da 20 anni, era nel sacramento: cominciammo (come fanno centinaia di famiglie legate a Mistero Grande e sparse per l’Italia) a pregare insieme ogni giorno, a leggere il Vangelo quotidiano, ad aprire casa a chi voleva pregare con noi e tutto cambiò”.

Bonetti

C'è un sacramento non ancora «trafficato fino in fondo dalla Chiesa», quello nuziale, «che può portare i coniugi ad un livello di amore pari a quello di Cristo sulla Croce: non uno sforzo ma un dono da saper usare. Per cui non c'è matrimonio che possa fallire, anche dopo l'abbandono». Così don Renzo Bonetti catechizza centinaia di famiglie. 

MISTERO GRANDE

Il prete che mostra a centinaia di sposi la verità sul matrimonio

È davvero un “Mistero Grande”, così come si chiama il progetto che riunisce le famiglie che con l’aiuto di don Renzo Bonetti, Presidente della Fondazione Famiglia Dono Grande, hanno compreso la “potenza del sacramento matrimoniale, nella sua missione altissima, che nulla, nemmeno il tradimento coniugale può annullare”, come dice lui. Una potenza e una fonte di grazia “che predico da anni ma che non ho ancora compreso a pieno, tanto è profonda”. Una vocazione ritenuta “per troppo tempo di serie B, come se il matrimonio fosse per chi non ce la fa ad essere vergine”.

Don Renzo, dopo anni di pastorale familiare sul territorio prima e a Roma poi, come Direttore dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Famiglia della Conferenza Episcopale Italiana (anni ’90/2000), è tornato da tempo nelle sua terra veneta, dove oggi abita presso la “Domus Familiae” insieme a Diego e Marta che hanno letteralmente lasciato tutto per seguire la chiamata di Dio. La Dumus è frutto della donazione di un’altra famiglia che, comprendendo il dono che è il sacramento del matrimonio, ha voluto ridare ad altri la possibilità di scoprirlo in questa grande struttura che ospita quotidianamente coppie di sposi offrendo loro un cammino di santità tramite una compagnia umana, incontri, convegni e catechesi. Ma come è nato tutto questo?

Don Renzo, nella parrocchia di Bovolone (Ve) all’inizio del suo ministero sacerdotale cominciò profeticamente da subito a “capire che il sacramento nunziale era fondamentale”, perché “è la prima chiesa, che sta alla base della Chiesa e della società”, spiega il sacerdote. Insomma, “come i preti consacrandosi ricevono il dono di trasformare il pane nel Corpo di Cristo, cioè di rendere possibile ancora oggi l’incarnazione e la presenza viva di Dio, gli sposi hanno il potere di incarnare l’amore di Gesù che dà la sua vita per la Chiesa, per il mondo e persino per i nemici”. Come un prete, qualsiasi cosa accada o faccia, continuerà fino alla morte ad avere questo potere, donatogli dallo Spirito il giorno della consacrazione, di trasformare il pane nel corpo di Cristo, anche gli sposi, dovessero anche essere traditi e abbandonati, avranno sempre la capacità, ricevuta il giorno nozze, di amare come Cristo sul Calvario.

È così, senza fronzoli, che don Renzo parla alla Fraternità Sposi per sempre, nata all’interno del progetto Mistero Grande: “Non siamo un gruppo di mutuo aiuto ma siamo fratelli che si sostengono nel vivere la santità attraverso il sacramento del matrimonio”. Ma come, proprio loro che il mondo, e ahimè anche la Chiesa spesso giudica sconfitti, parlando di “fallimento delle nozze”? “Altro che falliti - continua don Renzo - siete chiamati ad essere profeti di cosa sia veramente il matrimonio, qualcosa che il mondo anche cristiano non capisce più, o forse non ha mai capito fino in fondo: non credete a chi vi dipinge come quelli che hanno deciso solo di obbedire alla regola del “non commettere adulterio”, sopportando la situazione eroicamente e a denti stretti. Voi non siete eroi, perché il dono che lo Spirito vi ha fatto il giorno delle nozze, quello di amare come Gesù fino a morire per la salvezza dei peccatori, non è frutto della vostra volontà. Certo voi potete usarlo oppure no. E per usarlo dovete coltivarlo”. Come si fa, il sacerdote lo spiega con una formula forse non facile, ma semplicissima ed accessibile a tutti: “Mettete al muro lo Spirito Santo, invocatelo. Quello Spirito ha reso i cristiani lieti davanti ai leoni e non può fare questo? Può, ma bisogna consumarsi le ginocchia e tirare fuori le corone del Rosario che tenete nei borselli”.

Insomma, invece che una pacca sulla spalla e un “poverini, se volete rifarvi una vita vi capisco”, don Renzo ricorda a questi sposi la missione altissima, il compito, a cui Dio li chiama: “Questo amore deve arrivare a tutti: ripeto avete la capacità di amare come Cristo i vostri coniugi, i figli, ma anche i vicini, persino i vostri nemici. Usatela!”. A vedere questa gente che accoglie ogni persona che incontra come un dono, a percepire l’entusiasmo e la luce degli occhi di alcuni di loro, pieni di dolore e amore insieme per il coniuge che li ha traditi, a guardare la loro disponibilità nel soffrire e nel dare la vita “per avere mia moglie vicina in Paradiso, che la vita non finisce qui”, spiega Marco a pranzo, si capisce che quello che don Renzo dice è vero. È carne, appunto.

Per questo motivo ad un gruppo di giovani sposi (circa un centinaio) venuti da tutta Italia per seguire il cammino “A due a due Dio li mandò”, don Renzo spiega: “Non sciupate la bomba di amore che avete fra le mani, “da quando siete sposati esternamente apparite sempre voi, come dei singoli, ma la vostra natura non è più la stessa: ora siete una sola cosa, in questa unione c’è la grazia del sacramento che la Chiesa deve ancora comprendere e che non ha ancora raggiunto tutti i suoi sbocchi pratici, perché non la si è usata abbastanza”. Perciò, “siete un potenziale congelato!” Un po’ come dei preti che non conoscessero le formule per trasformare il pane nel corpo di Cristo”, dice don Renzo ai presenti, infiammando i cuori di chi non aspetta altro che pastori capaci di comunicare loro l’altezza del compito che hanno e la via per attuarlo. Perché non c’è nulla di più desiderabile per il cuore umano di raggiungere le altezze d’amore a cui aspira. Insomma, don Renzo chiede tutto, spiegando come ottenere il Tutto per cui l’uomo è sempre inquieto: “L’amore di Dio che sta dentro il sacramento nunziale: potete lasciare il capitale in banca ed elemosinare amore altrove, riducendo la fedeltà al non tradire e non demordere, oppure potete usarlo fino in fondo”.

Poi don Renzo ricorda come davvero sia “tutto lì nelle parole che il prete ha pronunciato durante il vostro matrimonio, di cui voi siete i soli ministri ogni giorno: “O Dio…hai voluto adombrare nella comunione di vita degli sposi…per rivelare il disegno del tuo amore". Ecco il fine delle nozze: mostrare l’amore di Dio al suo popolo e al mondo. Pensate che rivoluzione per la vita della società!”. A pranzo don Renzo ripete: “Se mendicate insieme dallo Spirito il Suo amore che vi rende capaci di morire per l’altro, farete centro…diventerete fiamma per infiammare il mondo con l’amore divino”. Che non sono parole lo dicono anche Diego e Marta, 3 figli, che “abbiamo scoperto queste cose dopo 20 anni di matrimonio: ci rispettavamo certo, ma questa unità profonda non la vivevamo”. Marta spiega di quando cercava ovunque la risposta a quella sete che avevo di Amore totale, “ma al primo seminario a cui partecipai, don Renzo disse che la risposta era lì davanti a me da 20 anni, era nel sacramento: cominciammo (come fanno centinaia di famiglie legate a Mistero Grande e sparse per l’Italia) a pregare insieme ogni giorno, a leggere il Vangelo quotidiano, ad aprire casa a chi voleva pregare con noi e tutto cambiò”. Giorgio spiega che ora la comunione fra loro è reale e assicura che “fra noi c’è un prima e c’è un dopo l’incontro che abbiamo fatto con don Renzo e Mistero Grande”.

Infine, Michi e Maia, seduti intorno ad una tavola imbandita per gli amici, ricordano il dolore dell’infertilità: “Quando scoprii che non potevamo avere bambini andai in crisi nera, misi in discussione tutto, la mia femminilità, il mio essere moglie. Avevo la morte dentro”. Poi il dialogo con don Renzo “mi fece vedere ciò che il dolore aveva oscurato, l’amore di mio marito” e successivamente la compagnia di un’altra famiglia di Mistero Grande che non potevano avere bambini, ma che “erano bellissimi, pieni di amore, quindi li seguimmo nel cammino proposto da Mistero Grande”. Cammino grazie a cui Michi comprese che “Dio era reale”, mentre Maia, “ricordando che si sono trasferiti vicino alla Domus dopo diversi traslochi, perché questa è finalmente casa, ha scoperto che esiste una fecondità che va oltre la fertilità”. Il dolore resta, ma il sacramento li rende generatori di amore, ospitalità, servizio. Basta guardare come si rispettano e adorano per capire quanto la bellezza dell’amore vero, sino al sacrificio di sé per l’altro, abbia una capacità attrattiva senza pari.

Insomma, in questo tempo in cui il sacramento del matrimonio viene ridotto a modello da raggiungere moralisticamente, perciò attuabile dai pochi eroi che riescono a fare lo sforzo della fedeltà, le centinaia di famiglie che seguono la via di Mistero Grande dicono che invece ad agire fra loro è lo Spirito di Dio mendicato e Gesù presente in mezzo a loro. Colui che rende la sublimità unitiva dell’amore coniugale una realtà reale, certo e a cui occorre aderire continuamente. Ma vera e resa tale ogni giorno dal sacramento divino che gli sposi sono chiamati ad amministrare.


si legga anche:


- SALVARE UN MATRIMONIO. SI PUO' E SI DEVEdi Riccardo Caniato





[Modificato da Caterina63 28/01/2018 08:18]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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15/06/2018 23:24
 
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Un prete «spretato» può amministrare i sacramenti?
La domanda di questa settimana riguarda il sacramento dell'ordine. Risponde padre Francesco Romano, docente di Diritto Canonico alla Facoltà teologica dell'Italia centrale.

Percorsi: SACERDOTI - SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA
19/02/2014 di
È vero che il sacerdote, anche se «spretato», può comunque amministrare i Sacramenti? Se si resta sacerdote per tutta la vita, questo vale anche se un prete si sposa? Lo stesso principio vale anche per le suore?

Lettera firmata

Le domande del nostro Lettore richiedono prima di tutto alcuni necessari ed elementari chiarimenti. Esse richiamano per alcuni aspetti il quesito dal titolo «Il prete rimane sacerdote per sempre?», che fu posto al P. Valerio Mauro in questa rubrica dell’11 giugno 2008.

L’ordine è il sacramento che per istituzione divina segna con carattere indelebile alcuni tra i fedeli costituendoli ministri sacri, consacrati e deputati a pascere il popolo di Dio, adempiendo ciascuno nel suo specifico grado le funzioni di insegnare, santificare e governare (can. 1008). Gli ordini sono l’episcopato, il presbiterato e il diaconato (can. 1009 §1).

La differenza di significato tra ordine sacro e stato clericale è sostanziale. L’ordine sacro introduce il fedele in una condizione sacramentale trasformandolo ontologicamente, cioè in modo soprannaturale nel suo stesso essere, costituendolo «ministro sacro» e abilitandolo ad agire in persona Christi nel caso dell’episcopato e del presbiterato, mentre i diaconi vengono abilitati a servire il popolo di Dio nella diaconia della liturgia, della parola e della carità (can. 1009 §3). Lo stato clericale, al contrario, determina una condizione giuridica che deriva dalla sacra ordinazione comportando per il chierico diritti e obblighi secondo l’ordinamento ecclesiastico.

Abbiamo detto che l’ordine sacro è un sacramento indelebile perché imprime il carattere. Su questa motivazione teologica nessuno potrà mai essere privato della potestà d’ordine (can. 1338 §2), che per la stessa ragione mai potrà essere dichiarata nulla se è stata validamente conferita (can. 290).

Pertanto, lo stato clericale è una conseguenza del sacramento dell’ordine, ma i due elementi sono distinti anche se correlati: un chierico può decadere dallo stato clericale, ma non potrà mai essere privato dell’ordine sacro, anche se spontaneamente lo chiedesse.

Il Legislatore ha previsto tre casi in cui il chierico può perdere lo stato clericale: invalidità della sacra ordinazione dichiarata per sentenza giudiziaria o per decreto amministrativo (can. 290 n. 1); dimissione legittimamente imposta a causa di un delitto che prevede una specifica sanzione (can. 290 n. 2); rescritto della Sede Apostolica con cui viene concessa la dispensa al diacono per cause gravi e al presbitero per cause gravissime (can. 290 n. 3).

In conclusione, la sacra ordinazione validamente amministrata ha un carattere permanente e la sua irreversibilità non cadrà mai nella disponibilità di alcuno, neppure della suprema autorità della Chiesa. Anche il peggiore comportamento delittuoso che venisse commesso dal chierico non produrrebbe effetti penali da annullare o invalidare la sacra ordinazione e la sua intrinseca potestà d’ordine.

Se il sacramento dell’Ordine conferito validamente è intangibile, come pure la relativa potestà d’ordine, una sorte diversa potrà toccare all’esercizio di questa sacra potestà. La competente autorità ecclesiastica, di fronte alla commissione di uno specifico delitto, potrà irrogare al chierico nei modi previsti dal diritto una censura come per esempio la sospensione parziale o totale dall’esercizio dell’ordine sacro, quella che abitualmente viene chiamata sospensione «a divinis», definita anche «pena medicinale» in quanto mira a ottenere la correzione del reo, e quindi non potrà essere una pena perpetua perché attraverso di essa se ne auspica il suo ravvedimento.

In alcuni casi la pena massima prevista per il chierico è la dimissione dallo stato clericale (can. 1336 §1 n. 5), ma serve ancora sottolineare che essa non potrà mai comportare anche la privazione della potestà di ordine in quanto strettamente connessa al carattere sacramentale. L’effetto che produce la dimissione dallo stato clericale comporta la proibizione (quindi la liceità) di esercitare la potestà d’ordine (can. 1338 §2) perché nella decadenza dallo stato clericale, oltre alla perdita dei diritti e doveri di tale stato, è insita la proibizione di esercizio della potestà di ordine (can. 292).

La «proibizione» di esercitare l’ordine sacro è altro rispetto al concetto di «privazione» (che nel caso comporterebbe l’invalidità degli atti conseguenti) perché, per il carattere indelebile che imprime questo sacramento, il presbitero validamente ordinato non potrà mai esserne privato. Per questo, in dette circostanze anche il sacramento della penitenza e della confermazione potrebbero essere celebrati validamente in forza della intangibile potestà d’ordine se il Legislatore non vi avesse apposto una clausola invalidante a loro tutela in assenza della debita facoltà (cann. 966 §1; 882). Così avviene in caso di «errore comune» in cui la sola mancanza della facoltà di assolvere, ma non della potestà d’ordine, viene supplita dalla Chiesa ope legis, purché ricorrano le condizioni previste dal can. 144 §2. Per lo stesso motivo, l’assoluzione del complice nel peccato turpe è invalida per la clausola inabilitante espressamente apposta dal Legislatore (can. 977) e non per difetto della potestà d’ordine. Infatti, in pericolo di morte il presbitero assolve validamente e lecitamente il complice anche qualora sia presente un sacerdote approvato (can. 976).

Il sacerdote privo solo della debita facoltà, oppure dimesso dallo stato clericale per qualsiasi ragione, possedendo inalterata la potestà d’ordine, viene integrato ipso iure, quindi senza ricorso all’autorità ecclesiastica, nella facoltà di amministrare il sacramento della penitenza e della confermazione in caso di pericolo di morte del penitente anche quando sia presente un sacerdote approvato (cann. 976; 986 §2; can. 883 n. 3).

Alla prima domanda del lettore «se un prete spretato può comunque amministrare i sacramenti», ma aggiungo io, anche semplicemente sospeso a divinis, dobbiamo richiamare quanto è stato appena detto, cioè che la potestà d’ordine rimane intangibile per tutta la vita del presbitero, mentre può essergli proibito di esercitarla (cann. 292; 1338 §2). Questo ha come conseguenza che un presbitero in qualsiasi maniera decaduto dallo stato clericale (o «spretato», per dirla con il nostro Lettore) sia come pena che per indulto concesso dal Romano Pontefice, potrebbe in modo gravemente illecito, ma validamente, celebrare la messa in forza della inalienabile potestà d’ordine, sempre se conserva l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, anche se in quelle circostanze non gli è lecito farlo a nome di essa. In altre parole, in questo caso, l’aspetto disciplinare non diminuisce l’efficacia degli atti che può validamente realizzare per la sua intramontabile condizione ontologica dovuta al sacramento dell’ordine.
Altra cosa è, invece, la validità della celebrazione della penitenza e della confermazione condizionata per legge canonica sempre alla concessione, da parte della competente autorità o per il diritto stesso, della facoltà di poterli amministrare (cann. 966 §1; 882). La concessione di questa facoltà è necessaria anche per il presbitero che conserva lo stato clericale, sotto pena di nullità dell’assoluzione o della confermazione, a meno che non ricorra il caso di «errore comune» (can. 144 §2).

Un’ulteriore dimostrazione ci viene ancora dallo stesso Codice di Diritto Canonico quando si riferisce al delitto di attentata azione liturgica del Sacrificio eucaristico.

L’invalidità è prevista solo per il caso di mancanza dell’ordine sacerdotale, senza citare e quindi includere come causa invalidante anche la sola eventuale decadenza dallo stato clericale (can. 1378 §2, n. 1). Al contrario, nello stesso contesto del canone, nel considerare il sacramento della confessione, la commissione del delitto di usurpazione dell’ufficio ecclesiastico riguarda l’attentato alla valida assoluzione nel suo complesso, cioè non solo la mancanza dell’ordine sacerdotale, ma anche, pur essendoci questa, la sola assenza della debita facoltà di amministrarla (cann. 1378 §2, n. 2; 966 §1).

Riguardo alla seconda domanda sul «prete che si sposa», come è noto nella Chiesa cattolica latina il presbitero è tenuto al celibato per accedere alla sacra ordinazione e anche successivamente. La sola perdita dello stato clericale, mentre fa venire meno gli obblighi e i diritti del chierico, «non comporta la dispensa dall’obbligo del celibato, la quale è di esclusiva competenza del Romano Pontefice» (can. 291).

Un chierico, sia che si sposi lecitamente dopo aver ottenuto la dispensa dagli oneri sacerdotali e dall’obbligo del celibato, oppure senza la necessaria dispensa attentando così il matrimonio anche solo civilmente, rimane integralmente depositario della potestà d’ordine. In questo secondo caso incorre nella sanzione della sospensione latae sententiae fino ad arrivare gradualmente alla dimissione dallo stato clericale (can. 1394 §1).

In entrambi i casi, venendo meno non la potestà d’ordine, ma soltanto il suo esercizio insieme alla decadenza dallo stato clericale, vale quanto abbiamo diffusamente detto prima circa la validità o meno della celebrazione dei sacramenti.

La proibizione di esercitare una potestà, una facoltà, un ufficio ecc. non è mai sotto pena di nullità (can. 1336 §1, n. 3), a meno che il Legislatore non vi apponga una clausola invalidante come nel caso della facoltà concessa per amministrare il sacramento della penitenza, quale requisito richiesto sempre ad validitatem (can. 969 §1), eccetto il caso di pericolo di morte del penitente (can. 976). Oppure, la facoltà dell’Ordinario del luogo e del parroco di assistere ai matrimoni validamente, a meno che (clausola inabilitante, cf. can. 10) non siano stati scomunicati, sospesi o interdetti dall’ufficio o dichiarati tali (can. 1109).

Un esempio abbastanza recente lo troviamo nel motu proprio Ecclesiae unitatem del 2 luglio 2009 con cui Benedetto XVI stabilisce che i ministri della Fraternità Sacerdotale San Pio X non possono esercitare in modo «legittimo» (sic!) alcun ministero. Come si vede, la legittimità consiste solo in una disposizione disciplinare che non comporta la nullità in caso di trasgressione, altrimenti la clausola invalidante sarebbe stata apposta «espressamente» (can. 10).

La sopravvivenza della valida sacra ordinazione rispetto a qualunque contingenza umana è esemplificata dal can. 293 che prevede la riammissione allo stato clericale per mezzo del rescritto della Sede Apostolica - quindi senza dover ripetere la sacra ordinazione per il carattere indelebile che imprime questo sacramento - oppure dalla sospensione per motivi pastorali del divieto della celebrazione dei sacramenti o dei sacramentali per esempio in pericolo di morte del fedele (can. 1338 §3).

Circa la terza domanda, pare d’intendere che il Lettore voglia sapere se una suora rimanga tale per tutta la vita. Su questo argomento ci sarebbe materia per scrivere almeno l’intero capitolo di un libro. Ci limitiamo a dire che tra il sacramento dell’ordine e la consacrazione religiosa attraverso la professione dei consigli evangelici non esiste neppure un lontano rapporto di analogia. Anche se il candidato all’ordine sacro e il religioso professo di voti perpetui manifestano entrambi l’intenzione di perseverare per tutta la vita, gli effetti giuridici in ordine alla perpetuità del loro stato di vita sono differenti. Il chierico riceve un sacramento che gli imprime il carattere in modo permanente, anche se dovesse decadere dallo stato clericale, conservando inalterata la potestà d’ordine. Il religioso, invece, che ottiene la dispensa dai voti, decade totalmente dalla vita consacrata tornando allo stato secolare.

Ultima precisazione. Se il religioso è anche chierico, con la dispensa dai tre voti decade dallo stato di vita consacrata, ma rimane presbitero o diacono con la facoltà di essere accolto e incardinato in una diocesi ed di esercitare l’ordine sacro divenendo presbitero o diacono diocesano.

È chiaro che una suora, non potendo ricevere l’ordine sacro, sarà sempre e comunque solo una fedele laica e una volta ottenuta la dispensa dai voti resterà solo una persona nubile che potrà tornare a progettare la sua vita ripartendo da questa nuova condizione secolare.



Le chiedo se vi è qualche peccato che il sacerdote non può perdonare

Quesito

Caro Padre Angelo,
le chiedo se vi è qualche peccato che il sacerdote non può perdonare, ma deve ricorrere ad un penitenziere maggiore.
La saluto cordialmente e la ringrazio.


Risposta del sacerdote

Carissimo,
1. sì, vi sono dei peccati che i sacerdoti normali non possono assolvere e per i quali è necessario ricorrere ad un penitenziere maggiore.
Il motivo è soprattutto medicinale. Come del resto anche per diagnosticare e curare determinate malattie si ricorre ad un medico specialista, così in qualche modo avviene anche nella confessione sacramentale.

2. Secondo il Codice di Diritto canonico vi è un solo peccato riservato al vescovo ed è l’assoluzione dall’aborto.
Il Vescovo tuttavia, all’interno della sua diocesi, può riservarsi l’assoluzione di qualche altro peccato.
Per farsi assolvere dai peccati riservati al Vescovo si ricorre al canonico penitenziere che si trova in ogni Chiesa Cattedrale e anche in altre Chiese collegiate.

3. In particolare per l’aborto la scomunica, riservata al vescovo, tocca la madre, il medico, l’infermiere, il mandante (can. 1398).
È una pena severa (latae sententiae) e “colpisce tutti coloro che commettono questo delitto conoscendo la pena, inclusi anche quei complici senza la cui opera esso non sarebbe stato realizzato: con tale reiterata sanzione, la Chiesa addita questo delitto come uno dei più gravi e pericolosi, spingendo così chi lo commette a ritrovare sollecitamente la strada della conversione. Nella Chiesa, infatti, la pena della scomunica è finalizzata a rendere pienamente consapevoli della gravità di un certo peccato e a favorire quindi un’adeguata conversione e penitenza” (Giovanni Paolo II, Evangelium Vitae 62).
Per l’aborto possono dare l’assoluzione anche altri sacerdoti facoltizzati dal Diritto canonico (Vicario generale) o personalmente dal Vescovo.
Inoltre, per antico privilegio, mai revocato, possono assolvere dall'aborto anche i sacerdoti religiosi degli ordini mendicanti (francescani, domenicani...).

3. Vi sono poi cinque peccati che non possono essere assolti neanche dal Vescovo, ma si deve ricorrere direttamente al Papa. Si tratta di peccati particolarmente gravi, cui è connessa una scomunica riservata alla Sede Apostolica.
Questi cinque peccati sono:

1. La profanazione della SS. Eucaristia
“Chi getta via le specie consacrate oppure le sottrae o le ritiene a scopo sacrilego, incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica” (Can. 1367).

2. La violenza fisica contro la persona del Romano Pontefice
“Chi usa violenza fisica contro il Romano Pontefice, incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica” (Can. 1370, § 1).

3. L'assoluzione del complice nel peccato contro il sesto comandamento.
In altri termini: chi compie atti impuri con un sacerdote, non può essere da lui assolto.
Se questi lo facesse, l’assoluzione è invalida (eccetto che in pericolo di morte, can. 977) e inoltre incorre in una scomunica riservata alla Santa Sede (Can. 1378, § 1).

4. Il conferimento della consacrazione episcopale da parte di un Vescovo, privo del mandato pontificio
“Il Vescovo che conferisca la consacrazione episcopale senza il mandato pontificio, e, similmente, chi riceve la consacrazione dalle sue mani, incorrono nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica” (Can. 1382).

5. La violazione diretta del sigillo sacramentale da parte del confessore
“Il confessore che viola direttamente il sigillo sacramentale, incorre nella scomunica latae sententiae riservata alla Sede Apostolica “ (Can. 1388, § 1).

Tuttavia, se un fedele si trova in pericolo di morte può essere assolto da qualsiasi sacerdote, anche sospeso a divinis.
Questo fa capire che il significato della scomunica non è tanto quello di punire, ma di guarire più in profondità. Per questo la Chiesa, sollecita della salvezza eterna di tutti, concede a tutti i sacerdoti, anche a quelli scomunicati o sospesi a divinis, la facoltà di assolvere da qualsiasi peccato, se un fedele si trova in punto di morte.

Ti ringrazio del quesito, ti saluto, ti ricordo nella preghiera e ti benedico.
Padre Angelo

 
[Modificato da Caterina63 15/06/2018 23:26]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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