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Che ci crediate o no, i "morti parlano"...NO ALL'EUTANASIA! senza se e senza ma!

Ultimo Aggiornamento: 04/02/2018 21:51
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20/02/2010 10:26
 
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http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV109_Ancora_su_Eluana_Morti_che_parlano.html

Ancora sul triste caso di Eluana Englaro

ovvero

“morti che parlano”

Pubblichiamo un articolo apparso sul quotidiano on-line Il Sussidiario
La notizia, ovviamente, ha una valenza giornalistica e come tale va presa per quello che è, ma dal momento che fu sull'onda dell'influenza dei mezzi di comunicazione (come oggi accade per ogni aspetto del vivere cosiddetto “civile”) che si giunse alla soppressione legalizzata della povera Eluana Englaro (RIP), or sono un anno (si veda il nostro articolo), non ci sembra affatto una leggerezza riferirci ad un'altra informazione giornalistica. Tanto più che questa informazione fa riferimento ad uno studio di medicina pubblicato su un giornale medico-scientifico americano (The New England Journal of Medicine), in cui si gettano le basi per una totale revisione “scientifica” del concetto di coma irreversibile, lo stesso che solo un anno fa servì da base per la sentenza che portò alla soppressione di Eluana, come ricorda l'Autore dell'articolo.

Dello studio in questione (
Willful Modulation of Brain Activity in Disorders of Consciousness)  abbiamo inserito il collegamento attualmente al sito web.me.com/adrian.owen, in cui lo si trova in formato html e in formato pdf. Per precauzione (perché potrebbe sparire da internet) lo stesso studio, in formato pdf, è scaricabile direttamente dal nostro sito.

L'articolo è in inglese.
Pensiamo che sarebbe bello se qualche amico medico avesse la bontà e la possibilità di tradurre lo studio in italiano (e darcene gentilmente notizia)
, sia per renderlo di dominio pubblico, sia per farci ben capire la sua portata, financo se risultasse problematica.
Con la “scienza” non c'è mai da fidarsi.

(i neretti sono nostri)

ELUANA/ In Belgio un imprevedibile "sì" condanna i giudici italiani


di Gianfranco Amato


lunedì 8 febbraio 2010


Un anno fa Eluana Englaro veniva messa a morte grazie ad un provvedimento della magistratura fondato, tra l’altro, su due assiomi. Il primo riguarda il fatto che la ragazza di Lecco si trovasse in uno stato di coma irreversibile (categoria scientifica inesistente), dal quale non sarebbe mai potuta uscire. Il secondo è relativo al fatto che senza una «pienezza di facoltà motorie e psichiche» quella di Eluana fosse una «vita non degna di essere vissuta», traduzione italiana del termine “lebensunwertes Leben”, coniato dai giuristi tedeschi negli anni ’30 e riecheggiato tristemente nelle aule giudiziarie del Terzo Reich.

Così, nel febbraio 2009, attraverso la carta bollata, si è spenta l’esistenza di Eluana.
Per una strana ironia della sorte, a ridosso dell’anniversario della sua morte, i fatti e la ricerca scientifica hanno sconfessato quei discutibili postulati dei giudici.
Due giovani belgi, entrambi in stato vegetativo persistente a seguito di un incidente d’auto, sono stati incaricati dal destino di sgretolare i due presupposti logici della tragica decisione sul caso Englaro.

Lo “scherzo” che hanno fatto i due belgi ai soloni togati è stato davvero beffardo. Uno dei due si è risvegliato dopo 23 anni (6 anni in più di Eluana), dimostrando ancora una volta che il cosiddetto “coma irreversibile” non esiste.
L’altro, sottoposto ad esame attraverso una nuova tecnica di risonanza magnetica, ha manifestato segni di facoltà psichica, arrivando a “dialogare”, attraverso il cervello, con i medici.
Gli scettici possono leggere l’articolo che illustra l’interessante esperimento, dal titolo Willful Modulation of Brain Activity in Disorders of Consciousness, pubblicato lo scorso 3 febbraio sul New England Journal of Medicine (10.1056/NEJMoa0905370).
In pratica, si è trattato di sottoporre il ventinovenne belga a due stimolazioni attraverso un processo di immaginazione (Imagery Tasks), in cui gli si è stato chiesto di simulare alcune azioni (tirare una pallina da tennis, camminare nella propria casa, ecc.) ed un processo comunicativo (Communication Task), in cui gli sono state poste domande su aspetti attinenti la sua vita personale.

Immaginabile l’astonishment - così è stato definito -, ovvero lo stupore dei medici quando il paziente, dopo aver risposto “no” alla domanda se il nome di suo padre fosse Thomas, ha risposto, invece, “sì” quando gli hanno chiesto se il padre si chiamasse Alexander, vero nome del genitore.


Le reazioni rispetto a questa sensazionale scoperta mi hanno indotto ad una riflessione.Tutti gli esperti hanno dichiarato che il risultato di quell’esperimento «changes everything», cambia tutto.
Ma cambia secondo prospettive e visioni antropologiche opposte. Da una parte ci sono coloro che vedono in questa nuova possibilità di comunicazione con i pazienti in stato vegetativo un’opportunità per migliorare le condizioni esistenziali in cui si trovano, assumendo, per esempio, informazioni su eventuali problemi clinici e adottando i relativi rimedi.
Dall’altra parte ci sono coloro che vedono nella scoperta la sola opportunità di conoscere esattamente la volontà di chi si trova in stato vegetativo circa il proprio destino, ovvero se ricorrere o meno all’eutanasia, perché proprio questa scoperta mostrerebbe com’è ancora più atroce la condizione di una mente lucida intrappolata in un corpo che non risponde.
Due modi diversi di guardare questo risultato scientifico.
Due modi diversi di concepire la vita e la morte. E poco c’entra, in realtà, la fede o una prospettiva religiosa.


Enzo Jannacci ce lo ha dimostrato quando in quella celebre intervista al Corriere della Sera, sull’onda emotiva della vicenda Englaro, dichiarò che non avrebbe mai «staccato una spina e sospeso l'alimentazione ad un paziente» perché «interrompere una vita è allucinante e bestiale». E ce lo ha dimostrato anche quando, da medico, ha affermato, profeticamente, che «vale sempre la pena aspettare» e che «la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi».
Ce lo ha dimostrato, inoltre, quando ha dichiarato che «la vita è sempre importante» e se anche «si presenta inerme e indifesa», rappresenta comunque «uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire di senso, sempre e comunque». E ce lo ha dimostrato, ancora di più, quando è arrivato a dire che se suo figlio si fosse trovato nelle condizioni di Eluana, «sarebbe bastato un solo battito delle ciglia» a farglielo sentire vivo.


Non oso immaginare che cosa sarebbe successo se la povera Eluana fosse ancora qui tra noi e se, sottoposta al nuovo esperimento, avesse dato segni di coscienza. Probabilmente sarebbe caduto ogni velo di ipocrisia e il dibattito si sarebbe focalizzato, a quel punto, sul tema vero: l’eutanasia.
Resta, comunque, una considerazione finale. Ad Enzo Jannacci sarebbe stato sufficiente un battito delle ciglia per fargli sentire vivo suo figlio. Al signor Englaro, probabilmente, non sarebbe bastato neppure il fatto che sua figlia avesse risposto “sì” alla domanda: «Tuo padre si chiama Beppino?».


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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03/03/2011 09:16
 
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Fini cita il Catechismo ma dimentica una frase

di Riccardo Cascioli
02-03-2011




Uno dei sintomi tipici della dislessia è quello di saltare le parole mentre si legge, rendendo perciò impossibile la comprensione del testo. Così spiega un qualsiasi manuale familiare di medicina. Dislessia. E’ così che abbiamo scoperto il disturbo di cui probabilmente soffre il presidente della Camera Gianfranco Fini che, intervenendo alla trasmissione tv Otto e Mezzo (su La7) del 28 febbraio, ha citato il Catechismo della Chiesa cattolica a sostegno della sua posizione a favore del testamento biologico.

Rispondendo a una domanda di Lilli Gruber sulla legge che andrà in discussione alla Camera settimana prossima, Fini ha citato gongolante un punto del Catechismo per affermare che esso rispecchia la sua posizione. Si tratta dell’articolo 2278 (erroneamente definito “comma” 2278 da Fini).

Ecco come lo ha citato il presidente della Camera:

“L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacitò, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”.

Qual è il problema? Che Fini ha saltato un’intera frase che dà un senso ben diverso da quello da lui voluto. Ecco infatti il testo integrale dell’articolo 2278 del Catechismo della Chiesa cattolica (in corsivo e grassetto la parte saltata nella citazione):

“L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'“accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacitò, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”.

La Chiesa dunque specifica che è legittimo il rifiuto dell’accanimento terapeutico, il che non significa avallare il testamento biologico, tanto è vero che in riferimento all’intervento legislativo la Chiesa ha sempre parlato di “regolamentazione del fine vita” e non di “testamento biologico”.

Certo, nel caso si accerti la dislessia, non si può imputare la malafede al presidente della Camera, resta però il fatto che saltando quella riga Fini non ha potuto comprendere appieno il testo.
E’ anche bello che Fini desideri essere in sintonia con la posizione dei cattolici, ma per farlo dovrebbe dire esplicitamente che idratazione e alimentazione non sono terapie, ma attività di sostegno vitale. Cosa su cui al tempo del caso di Eluana Englaro si espresse – e fece - in modo ben diverso. E dovrebbe anche leggersi altri due articoli del Catechismo, che – rispettivamente – precedono e seguono quello da lui citato, così da rendere pienamente comprensibile quale sia l’insegnamento della Chiesa cattolica al riguardo. Li riportiamo integralmente per facilitare il compito: 

2277. Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l'eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile.
Così un'azione oppure un'omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un'uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L'errore di giudizio nel quale si può essere incorsi in buona fede, non muta la natura di quest'atto omicida, sempre da condannare e da escludere.

2279. Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d'ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L'uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.



Fraternamente CaterinaLD

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04/04/2011 09:42
 
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[SM=g1740722] prof. Roberto de Mattei al congresso internazionale: I segni della vita. La "morte cerebrale" è ancora vita ?
organizzato a Roma il 19 febbraio 2009 dall'Associazione Famiglia Domani, American Life League, Family of the Americas Foundation, Human Life International, International Foundation for Genetic Research, Life Guardian Foundation, Northwest Ohio Guild of the Catholic Medical Association, United States Coalition for Life.

it.gloria.tv/?media=24454



[SM=g1740722]


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30/11/2011 20:43
 
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Magri, il vero volto dell'eutanasia



Dopo il suicidio dell'esponente comunista Lucio Magri un bell’articolo a commento della vicenda.
Il Padrone del Mondo di Benson è ormai tra noi.

Da
La Bussola di Mario Palmaro
30-11-2011

Di fronte al caso di Lucio Magri, che è andato a morire in Svizzera con un suicidio assistito, vorremmo dire tre cose.


Innanzitutto, questa è una tristissima vicenda umana, che suscita sentimenti di pietà. Attenzione: pietà per un uomo che dice di non voler più vivere e che purtroppo trova persone disposte ad aiutarlo nel suo proposito. Non certo pietà per la “categoria”, cioè per quelli che si vogliono togliere la vita e ci riescono; perché, altrimenti, bisognerebbe “per motivi pietosi” modificare tutti i protocolli di soccorso e di emergenza pacificamente accettatati dalla nostra società. Bisognerebbe lasciare in pace quelli che si vogliono gettare dal cornicione, bisognerebbe sostituire i teloni dei vigili del fuoco con un letto di chiodi per fachiri, bisognerebbe non soccorrere e non salvare quelli che hanno tentato di uccidersi e non sono ancora morti. Ciò che fa pena è l’immagine di un uomo, intellettuale vivace, stanco di vivere, oppresso – dicono alcuni – dall’insopportabile percezione del fallimento dell’ideologia marxista; o – dicono altri - dal dolore per la morte della carissima moglie. Chi conosce la fragilità dell’uomo sa che non c’è peccato di cui, potenzialmente, non saremmo capaci. Compreso un delitto terribile contro la propria vita, come il suicidio, azione con la quale, recita un paradosso di Chesterton, è come se l’uomo volesse uccidere tutti gli uomini.


Seconda osservazione: se è giusto provare pietà per le persone, non è affatto giusto provare pietà per le ideologie false e bugiarde. Magri è stato uno dei fondatori del Manifesto, e un colto rappresentante del pensiero marxista. E qui dobbiamo constatare che il comunismo, insieme a tutte le altre letture ideologiche del reale, scava nell’uomo un vuoto che diventa con il passare degli anni insopportabilmente pesante. Scenario viepiù aggravato dalla sconfitta clamorosa che la storia ha decretato per il socialismo realizzato. Si ha un bel dire, facendo gli spacconi, che Dio non serve. Può funzionare finchè la sorte ti sorride, ma arriva un giorno in cui le cose ti si rivoltano contro, e allora le pagine di Marx, o di Gramsci, o di Sartre, non riescono a dare conforto. E diventano, anzi, pistole armate nella tua mano. Dobbiamo dircelo e dobbiamo dirlo ai giovani: ci sono cattivi maestri e cattive dottrine, mentre la vita pretende una verità più grande, che la Chiesa insegna da duemila anni. Una verità che non rimuove le tragedie dall’esistenza, ma che le riempie di un senso che conforta perfino le persone disperate.


Terza, ma non ultima considerazione: la vicenda del povero Magri è un perfetto caso di scuola, che spiega che cosa intendiamo quando stiamo parlando di eutanasia. Il cosiddetto suicidio assistito, infatti, ha molto più a che fare con la fattispecie dell’eutanasia che con quella del suicidio: il suicida è uno che si ammazza con le sue mani; nel suicidio assistito ci sono altri che mettono la vittima in condizione di morire, e che quindi cooperano in modo decisivo a un atto che, forse, il poveretto non avrebbe la forza di compiere.


Ma c’è dell’altro: Lucio Magri non aveva, almeno secondo le notizie diffuse, una malattia mortale, o una patologia degenerativa che ne divorasse il corpo. Accusava invece un grave stato depressivo che lo ha spinto ad andare in Svizzera per ottenere la morte. Ora, da anni vogliono farci credere che l’eutanasia è una faccenda che riguarda solo i malati terminali oppure le persone con una sindrome progressiva inesorabile.


Ma si tratta di una truffa logica e concettuale: la vera posta in gioco è il potere di ciascuno sulla propria vita. Le motivazioni che spingono una persona a dichiarare che vuole la morte sono le più disparate: vanno dal dolore fisico assoluto al taedium vitae, cioè al disgusto per la vita che pure è priva di malattie del corpo. Se lo stato definisce che in alcuni casi si può ottenere la morte per mano di terzi, a quel punto stabilisce a quale altezza si deve collocare l’assicella delle vite senza qualità. E anche se in prima istanza respinge al mittente una richiesta come quella di Lucio Magri, con il tempo lo stato è costretto a rivedere il criterio e ad ammettere che, in fondo, se uno non vuole vivere è affar suo. Magri è purtroppo il simbolo di una tragedia più grande, che percorre la nostra società, la quale assomiglia sempre di più a una vera e propria civiltà dell’eutanasia. A un luogo, cioè, dove la vita è essenzialmente un non senso, e dove quindi chiedere e ottenere la morte è la cosa più normale del mondo.


Ovviamente, questa “cultura” avrà un suo effetto di “trascinamento” lungo il pendio scivoloso, e prima si legalizzerà la morte dei malati gravi con il loro consenso (reale o presunto); poi arriverà la morte di quelli che non l’hanno chiesta, ma poveretti quanto soffrono; e infine arriverà la morte di quelli che sono sani come un pesce, ma sono stufi di vivere. Il marxismo è morto, il liberalismo anche, e l’umanità sazia e disperatissima non si sente tanto bene. Solo un Dio ci può salvare.


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Concordo con l'articolo che solleva dei punti utilissimi all'approfondimento dell'argomento...  
 
da noi si dice: come è campato è morto!  
 
in questo caso il detto antico è azzeccatissimo! è campato senza Dio, è morto senza Dio.... è campato senza la fede, è morto perchè non aveva la fede....perchè il punto cruciale è, come si legge appunto, che non aveva alcuna malattia!  
E' vero che il suicidio è solitamente un raptus, un momento, lungo quanto si vuole per i preparativi, che comunque parte da un momento di depressione, ma qui c'è di più, non si è suicidato da solo, si è fatto "assistere" ed ha pagato dai tremila ai cinquemila euro per il suicidio assistito in una clinica di lusso in Svizzera....  
 
Se non fosse stato il fondatore di un noto giornale che contro Dio e contro il Pontefice non si è mai preoccupato di scagliarsi con veleni, nessuno ne avrebbe parlato.... oggi leggevo nelle statistiche che ci sono stati, in questa settimana, circa 30 suicidi registrati in Europa.... e una 20ntina di suicidi assistiti in Europa negli ospedali assistiti..... il suicidio è in aumento del 30%  è pertanto una grande truffa, come spiega l'articolo, che per eutanasia si intenda esclusivamente i malati terminali....  
 
Pietà senza dubbio per quest'anima che, a quanto detto dai familiari, è andato in Svizzera ridendo dicendo che NON RIMPIANGEVA NULLA delle scelte fatte, neppure per l'ultima scelta, quindi un totale e reale rifiuto di Dio, ma pietà soprattutto per quanti, affascinati dal soggetto in questione, ne vorranno imitare l'esempio, e questo peccato continuerà a ricadere sulla sua anima....  
 
Senza pietà, invece, per condannare l'ennesima pubblicità e come ne hanno dato la notizia, quasi fosse morto da eroe, condendo il tutto con il falso dolore della moglie morta! attenzione non sto giudicando o sminuendo il suo dolore per la moglie, questi sono affari loro e suoi, ma non possono diventare uno strumento di GIUSTIFICAZIONE al gesto sconsiderato e che persino pagando, ha trascinato altri nella medesima COLPA....  
 
Quest'uomo non è nè da ricordare nè da approfondire: come è campato è morto! ergo, non ha nulla da insegnare!




Fraternamente CaterinaLD

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/11/2012 18:20
 
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La dichiarano morta e lei si risveglia dal coma: «Volevate uccidermi?»

novembre 19, 2012 Benedetta Frigerio da Tempi.it

                    http://cdn.tempi.it/wp-content/uploads/2012/11/carina-melchior-dentro.jpg

Carina, danese di 20 anni, racconta la sua storia in un video che sta facendo discutere il paese per cambiare le direttive sul fine vita. Ora parla, cammina ed è tornata a cavalcare il suo cavallo


Quando la sua attività cerebrale sembrava quasi scomparsa, i dottori, convinti che le probabilità di sopravvivenza fossero pochissime, e che se anche si fosse ripresa sarebbe vissuta in stato vegetativo, hanno comunicato ai genitori che le avrebbero tolto ossigeno, alimentazione e idratazione. A riportare la vicenda è stato a fine ottobre il Daily Mail.

DAL LETTO AL GALOPPO. La storia di Carina Melchior, danese di 20 anni, coinvolta in un incidente stradale, che l’anno scorso l’aveva mandata in coma, ha riaperto il dibattito sui trattamenti di fine vita del suo paese. Il cervello di Carina, infatti, dava ancora segnali di vita seppur minimi, quando i medici hanno avvisato i suoi genitori che a breve avrebbero tolto alla ragazza i supporti vitali per procedere alla donazione di organi. La famiglia aveva salutato Carina ed era tornata a casa in attesa di procedere secondo il giudizio dei medici, quando l’ospedale ha telefonato ai genitori avvisandoli che la ragazza si era svegliata. Ma quasi a ribellarsi Carina ha aperto gli occhi appena i medici le hanno tolto i supporti vitali. Ora la ragazza parla, cammina ed è tornata a cavalcare il suo cavallo Mathilde di cui aveva subito chiesto poco dopo aver ripreso coscienza.

“VOLEVATE UCCIDERMI?”. Carina al risveglio ha poi inchiodato i medici, domandando loro più volte se volevano ucciderla. Mentre suo padre Kim li ha denunciati, convinto della troppa disinvoltura con cui gli hanno comunicato false certezze, convincendolo che non ci fosse più alcuna speranza. Un medico danese, intervistato dal Daily Mail, ha invece scusato i medici parlando di un caso di “cattiva informazione”, nel senso che i dottori avrebbero solo sbagliato nel comunicare la morte cerebrale prima che il tempo richiesto dal protocollo per la donazione degli organi fosse effettivamente giunto al termine, il che non significa che non avrebbero aspettato fino all’effettivo scadere dei tempi. Ma la famiglia di Carina e la ragazza stessa vogliono comunque fare chiarezza, dato che i supporti vitali le erano stati tolti prima del tempo richiesto per dichiararne la morte cerebrale.

LINEE GUIDA. Intanto il governo danese sta già scrivendo delle linee guida molto più rigide di quelle precedenti, che non permettano ai medici di rimuovere i sostegni vitali finché la morte cerebrale non sia accertata. E per sensibilizzare l’opinione pubblica Carina e la sua famiglia hanno girato un video, intitolato La ragazza che non voleva morire, in cui si racconta tutta la vicenda dall’incidente fino alla ribellione e alla successiva riabilitazione.


 | Tempi.it




Tre anni, gravemente malata.
La sua famiglia è il reparto pediatria di Livorno


maggio 2, 2012 Benedetta Frigerio da Tempi.it


All’ospedale di Livorno da quasi tre anni vive una bimba, nata da due nomadi rumeni incapaci di accudirla, affetta da cerebropatia genetica. I medici e le infermiere non hanno mai smesso di occuparsi di lei.

Ospedale reparto pediatriaC’è una bimba che vive da quasi tre anni nell’ospedale di Livorno, seguita da infermieri e medici che se ne prendono cura come fosse una figlia. Anche se non parla e sorride appena, anche se si alimenta con una sonda naso-gastrica, anche se è affetta da una grave cerebropatia genetica. La Repubblica ha parlato del suo caso la settimana scorsa per denunciare la legge sullo Ius Soli (diritto di cittadinanza acquisito in caso di nascita sul territorio di uno stato): se fosse cittadina italiana, il processo di adozione sarebbe stato più veloce.

La piccola è nata nel 2009 da due nomadi dell’Est che non sanno né riescono a prendersene cura. Ma da quando è nata la piccola, di cui non si conosce il nome, non è rimasta mai sola, nemmeno un momento. Ci sono infermiere che le dedicano del tempo ogni giorno. Come Simona, di cui la bimba riconosce la voce non appena entra in stanza.
Tutto il personale, poi, interagisce con lei, che non parla ma piange, si esprime con la mimica del volto e sa comunicare i suoi bisogni o la voglia di farsi prendere in braccio. Sono stati loro a organizzarle i suoi due primi compleanni. E mentre i medici si preoccupano di vestirla e di portarle dei giochi sonori, non c’è paziente della pediatria che con la propria famiglia non l’abbia conosciuta, passando dalla sua stanza con regali e disegni o semplicemente per farle compagnia. «La bambina riesce a interagire», ha spiegato il primario dell’ospedale.
Senza una parola e a prescindere dal dibattito sullo Ius Soli, sta dicendo a tutti qualcosa.
Come può una vita apparentemente “immobile” commuovere tanti? Come può generare tanto bene fino a unire un intero reparto? E perché non ammettere che, se non noi, al mondo ci sarà sempre qualcuno capace di accogliere una vita?
[SM=g1740738]


http://cdn.tempi.it/wp-content/uploads/2012/05/pediatria1.jpg



Simona, infatti, oltre che negli orari di lavoro sta con la piccola appena può. E in ospedale porta anche la figlia naturale. Due anni e mezzo fa non l’avrebbe mai fatto né detto. «Se me lo avessero chiesto? Avrei dato della matta a una madre che porta sua figlia davanti a tanta sofferenza». Ora invece la bambina è diventata amica dei figli di tutto il personale. Come mai? «Innazitutto non c’è solo dolore: vedere la forza di questa guerriera che lotta per vivere e che cerca il nostro affetto insegna a chi la assiste a rendersi conto di quanto ha. Delle piccole cose. Mia figlia, poi, la porto qui perché passi del tempo con quella che considera sua sorella e si accorga di quanto siamo fortunati. Ma sopratutto di quanto si possa essere felici con poco». Felici? In stato vegetativo? «La piccola è contenta della sola presenza nostra, delle minime attenzioni, delle nostre carezze. Questo insegna a me e a mia figlia a vivere: vale la pena lottare per la vita come fa lei. Ora non assecondo più i capricci. Anzi quando li fa le ricordo la sua “sorellina” e lei capisce».

La sofferenza degli innocenti fa ribellare. Molti per questo arrivano a dire che è meglio la morte. «Sono onesta, due anni e mezzo fa lo pensavo anche io. Mi dicevo: se una persona non parla, se è costretta a letto, se si nutre con il sondino è condannata a una sofferenza senza senso. Mi sbagliavo perché mancava qualcosa».
Non c’è evidenza scientifica, dicono alcuni. «Purtroppo le macchine non possono misurare cose come l’amore e la felicità: possono dire quello che vogliono, che una vita in questo caso non abbia un significato, ma ora non ci casco più. Sotto i miei occhi c’è altro». Ed è qualcosa di così evidente che tutto il reparto ora la pensa come Simona. «È così. Noi passiamo con lei ventiquattro ore su ventiquattro. Non c’è spiegazione scientifica che possa negare quello che vediamo: la bimba sente il contatto, sente se ci siamo, patisce se ha bisogno, gioisce del nostro affetto. Si accorge di come viene accarezzata, di come le si sussurra nell’orecchio. Sente che noi la amiamo». Un bel mistero questa piccola. «Un mistero che ci insegna tanto. Ci insegna che tutto quello che c’è, se c’è, è perché ci deve essere. Ci insegna l’amore che comunica».


Ad esempio, spiega Rossella, un’altra infermiera che si definisce “la zia”, «la bimba ci unisce nel curarla, facendoci capire che se anche non possiamo guarirla vale la pena comunque dare tutto per assisterla». Anche quando nulla può cambiare dal punto di vista clinico: «È una vita che chiede amore e che ne genera anche di più».
E si vede. «Appena uno di noi arriva in reparto chiede di lei ai colleghi del turno precedente: come è andata la notte? Come è stata oggi? E poi si passa in cameretta». Impressiona pensare che fermi in un letto si possa fare tanto: «Per questo le saremo tutti grati. Per sempre».


[SM=g1740738]

[Modificato da Caterina63 22/11/2012 18:32]
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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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La vita di Lorenzo Costantini è durata appena cinque anni, segnati sin dall’inizio dalla diagnosi di una malattia rara, la Sma di tipo 1, che gli permetteva a malapena di muovere la testa e gli occhi. La sua è una di quelle storie che fa sorgere nel cuore tante domande, ma basta parlare con i suoi genitori perché tutte lascino il campo a una sola grande certezza: la sua voglia di vivere non gli ha impedito di cambiare per sempre la vita di chi gli ha voluto bene. «Il senso della vita per me è guardare con gli occhi di Lorenzo: la sua eredità è stata quella di cambiare per sempre il mio modo di vedere le cose». Sono le parole del padre, Gabriele, un uomo che in cinque anni si è accorto di essersi a poco a poco trasformato da padre a erede del suo stesso figlio.

La malattia di Lorenzo viene diagnosticata nel giro di poche settimane dopo la sua nascita nel 2008: il bambino non reagisce agli abbracci, si lascia prendere a peso morto: si tratta di Sma di tipo 1, un’atrofia muscolare spinale che colpisce circa 1 bambino su 6000. Inizialmente gli viene prospettata un’aspettativa di vita di circa tre mesi. Per la famiglia, residente a Sarzana, in provincia di La Spezia, è un colpo durissimo.

«In quel giorno abbiamo avuto la sensazione che la nostra serenità e la nostra felicità fossero svanite per sempre. Ci vennero spiegati tutti i supporti come la carrozzina, le apparecchiature… Tutto ci faceva pensare che Lorenzo avrebbe avuto davanti a sé una vita terrificante - racconta il papà - Per noi, che siamo sempre stati persone sportive, la felicità all’epoca era legata alla possibilità di muoversi, di abbracciare, di saltare ed eravamo quindi convinti che a Lorenzo sarebbe stata del tutto negata».

La Sma ha reso di fatto impossibile a Lorenzo non solo reggere il capo e stare seduto in autonomia, ma anche parlare, deglutire, respirare e tossire autonomamente. Nei primi mesi di vita una macchina controllava la sua ossigenazione sanguigna e chiamava i genitori ad intervenire con un apparecchio, nel momento in cui essa calava.

Gabriele e sua moglie Cristina si trovano davanti a una scelta: dare assistenza al figlio lasciando semplicemente che la malattia facesse il suo corso, o utilizzare tutti i canali per aiutarlo ad avere un’esistenza tranquilla. «Noi non abbiamo fatto altro che seguire la scelta di Lorenzo che ha mostrato carattere e carisma e una voglia di far parte della vita che ci ha sorpreso e invitato a seguirlo» spiega il padre Gabriele. «Abbiamo semplicemente risposto alla domanda di nostro figlio, come fa qualsiasi genitore: così il figlio da condanna diventa un’opportunità. Lorenzo ha voluto guidarci in questo percorso».

Lorenzo cresce circondato dall’amore immenso della sua famiglia e comincia a frequentare la scuola materna “Matazzoni” di Sarzana: mostra un grande amore per la musica e si muove grazie a una carrozzina che riesce a spostare con piccoli movimenti degli arti: «La sua vita ha cominciato a venir fuori in tutta la sua grandissima capacità comunicativa: noi abbiamo semplicemente trovato un modo per comunicare che ci ha permesso di divertirci e crescere insieme. Abbiamo così avuto l’opportunità di mettere da parte la malattia in un modo quasi magico, tanto che spesso non ce ne ricordavamo neppure».

Il piccolo Lorenzo comincia a prendere lezioni di musica, segue le note e il ritmo con dei vocalizzi e per un certo periodo suona con l’aiuto di un touch screen. Come tutti i bambini della sua età non manca di partecipare alla recita di Natale che si tiene ogni fine anno all’asilo, in cui segue di passi di danza muovendosi grazie alla carrozzina. Ama guardare i cartoni animati, soprattutto Spongebob e Topolino, (grazie all’aiuto di un computer con tecnologia a puntatore ottico) e compie alcuni viaggi con la sua famiglia. Attraverso gli occhi comunica al mondo la sua straordinaria vivacità, la sua curiosità, la sua voglia di vivere e di entrare a contatto con tutti.

 «Si sente dire in giro che malattie come questa condizionino i rapporti. Ed è vero, ma in meglio. Giocando con mio figlio vivevo una dimensione che mi dava una soddisfazione unica difficile da spiegare: guardare il mondo con i suoi occhi mi faceva sentire carico - continua il padre - Lorenzo ha distrutto l’idea che davanti a lui ci fosse la barriera di una malattia: sento di aver ricevuto da lui un grande dono, una vita intera. Sono cattolico e credo nel valore della sofferenza e della croce e non sto facendo retorica quando dico che per me questi cinque anni con Lorenzo valgono 100 volte la vita, comunque bella, che ho vissuto prima».

Il piccolo Lorenzo si è spento nella notte del 27 novembre, dopo aver vissuto la gioia di vedere il suo ultimo albero di Natale. A salutarlo, nel funerale che si è tenuto nella chiesa di Santa Caterina a Sarzana, c’erano centinaia di persone tra cui i suoi compagni di asilo che si sono stretti attorno alla mamma, al papà e alla sorellina Giulia.

«Credo di essere un papà tra i più fortunati della terra: Lorenzo mi ha consegnato le chiavi e la bussola della felicità, mi ha insegnato come ci si deve porre di fronte alle difficoltà, ha dato ai suoi genitori una strada impensabile. La malattia, che inizialmente ci sembrava uno spettro insormontabile, si è rivelata un’illusione. È sempre stato impossibile per me pensare a lui con disperazione: lui ha squarciato completamente la visione terribile che avevamo all’inizio».

Ora il desiderio della famiglia Costantini è quello di farsi eredi di Lorenzo, aiutando le famiglie colpite da questa terribile malattia che è la Sma di tipo 1 a trovare un futuro di felicità dove sembra impossibile da vedere.

«Il mio è stato un viaggio straordinario, che spero possa essere di riflessione per tante altre famiglie come la nostra. Ora è dura rientrare a una vita ordinaria, ma non voglio che questa sia la chiusura di un capitolo: Lorenzo ci aspetta per ritrovarci in cielo».










[Modificato da Caterina63 10/12/2013 18:21]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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21/03/2015 16:03
 
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  Per tutti i sostenitori del testamento biologico, leggete e riflettete di questa donna che aveva fatto testamento e che è stata salvata dal marito che non ha staccato la spina. Adesso è viva, felice e sana come un pesce, ma soprattutto, durante il coma sentiva e NON VOLEVA MORIRE!!

I medici la dichiarano morta e chiedono al marito di staccare la spina: Jenny sente tutto e si sveglia




Era lì, immobile in un letto d'ospedale, senza dare più il minimo segno di vita. Intorno a lei i medici che, dopo aver sentenziato "Morte cerebrale", chiedevano al marito l'autorizzazione a staccare la spina. Tanto, a quel punto, non c'era più nulla da fare. E lei lì, nel pozzo buio della paralisi totale dal quale non riusciva a uscire per urlare: "Io sono viva". Sentiva tutto, capiva tutto, mentre intorno a lei si discuteva su come e quando farla morire.

Quante volte Jenny Bone, 40 anni, e il marito John, 58, avevano parlato di come si sarebbero comportati se si fossero ritrovati in una situazione simile. E quante volte Jenny aveva detto che se fosse toccato a lei, sì, avrebbe voluto che le staccassero la spina, con John che annuiva e le prometteva che avrebbe rispettato la sua volontà. Beh: tutte chiacchiere. Perché John, quando la questione è diventata reale, ha mandato all'aria le promesse fatte alla moglie e ha detto no: non si stacca nessuna spina, aspettiamo ancora, qualcosa succederà. Jenny è stata posta in coma farmacologico e dopo due giorni i medici sono tornati alla carica: stacchiamo la spina? Ma John, ancora una volta, ha detto no. E aveva ragione lui. Dopo una decina di giorni la sua Jenny ha dato segni di ripresa: i medici avevano sbagliato, non era morta. Tutto questo accadeva nel marzo dello scorso anno. Dopo due mesi di cure Jenny è tornata a casa, ha ripreso a lavorare come geometra e recentemente ha partecipato a una corsa 5 km di beneficenza.

Jenny era stata colpita da una rara malattia nervosa, nota come sindrome di Guillain-Barre, che la portò alla paralisi. L'incubo cominciò nel marzo dello scorso anno, quando si ritrovò all'improvviso seduta in terra senza riuscire a rialzarsi, con dei formicoli che salivano dai piedi fino alle ginocchia. Il suo medico la mandò immediatamente al Luton e Dunstable Hospital, dove la situazione precipitò. Solo dopo aver evitato per un pelo, e solo grazie al marito, che le staccassero la spina, le fu diagnosticata la sindrome di Guillain-Barre. Questo significava che il suo corpo era insensibile e non rispondeva ai test del dolore e dei riflessi, né a quelli cerebrali. Anche se Jenny sembrava incosciente, poteva però sentire e capire tutto ciò che accadeva intorno a lei, ma non poteva reagire in alcun modo. «Sono stata molto sorpresa che mio marito abbia detto ai medici di non spegnere la macchina di supporto vitale, visto quello che gli avevo sempre detto. E' andato contro la mia volontà, ma ovviamente sono felice che lo abbia fatto».

John, che è consigliere comunale, ha raccontato: «E' stato un fulmine a ciel sereno sentirmi chiedere se volevo spegnere il supporto vitale. Per me era troppo presto per prendere in considerazione una cosa del genere. Un paio di giorni dopo mi hanno ripetuto la domanda mentre ero seduto al capezzale di Jenny tenendole la mano. Non avrebbero dovuto parlarne davanti a lei: quando in seguito ho saputo che lei aveva sentito tutto, per me è stato semplicemente agghiacciante. Lei ricordava tutto, parola per parola».

Jenny, di Leighton Buzzard, a nord di Londra, è stata messa in coma farmacologico e ha impiegato una decina di giorni a venirne fuori. «Ogni nervo del mio corpo stava morendo - racconta - E' stato incredibilmente doloroso. Non avevo riflessi e i miei occhi erano fissi e dilatati. Non potevo rispondere agli stimoli del dolore perché ero paralizzata».
Una volta tornata a casa ha cominciato il lungo percorso di recupero, anche se all'inizio aveva bisogno di un deambulatore per portare a scuola David, il figlio di cinque anni. Ora, un anno dopo la sua caduta, è tornata al lavoro a tempo pieno e ha completato, con l'aiuto di un bastone, una corsa di 5 km di beneficenza. Ha ancora dei dolori, soprattutto ai piedi, ha perdite di memoria a breve termine e, a volte, inciampa nelle parole mentre parla. Ma quel che conta è che è viva e battagliera.

Jenny ha presentato una denuncia ufficiale al Luton e Dunstable Hospital (L & D) con accuse relative anche al fatto che la lettera con cui il suo medico attestava la sua malattia era stata persa. Un portavoce dell'ospedale ha detto: «Siamo lieti che la signora Bone si stia riprendendo dalla sua malattia, tuttavia, siamo molto spiacenti per il fatto che non abbia avuto un'esperienza positiva come paziente. Stiamo attualmente indagando sulla questione e abbiamo concordato con la signora Bone che condivideremo l'esito delle indagini con lei».

Quella di Guillain-Barre è una grave sindrome in cui il sistema immunitario attacca parte del sistema nervoso. Solitamente inizia con una piccola infezione, come un banale raffreddore: viene attaccato il sistema nervoso periferico, che include i nervi motori usati dal cervello per controllare i muscoli, e in molti casi il malato diventa del tutto incapace di muovere le proprie membra. In casi gravi i muscoli pettorali possono essere così colpiti da rendere il paziente incapace di respirare senza un ventilatore e di alimentarsi senza l'aiuto di un tubo.

Mercoledì 18 Marzo 2015







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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07/07/2017 07:36
 
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E’ la malattia ad accanirsi su Charlie, non la ventilazione. Cerchiamo di spiegarlo anche a quei medici cattolici che sostengono il contrario, cioè che la ventilazione sia accanimento.
Nel caso di Charlie non si sta parlando di terapie, ma di ventilazione assistita, che non è finalizzata a guarire Charlie, ma a farlo respirare e vivere. Se raggiunge la sua finalità – cioè l’ossigenazione – non è accanimento terapeutico. Togliere la ventilazione credendo che sia lei la colpevole della sofferenza di Charlie, che invece dipende dalla patologia, è eutanasia. 

 

La dottoressa Alessandra Rigoli, medico specializzando, ha scritto un articolo sulla rivista Vita in merito alla vicenda del piccolo Charlie, bambino affetto da una grave malattia genetica. Molti i punti toccati dal medico che si professa cattolica, che vale la pena riprendere perché sintetizzano la posizione di molti altri medici cattolici che si sono espressi in questi ultimi giorni. Ovviamente per motivi di spazio qui possiamo solo accennare ad alcuni dei punti in questione.

Il tema principale è il seguente: interrompere i trattamenti e le terapie a cui Charlie è sottoposto configura rifiuto dell’accanimento terapeutico (AT) oppure eutanasia?

QUAND'E' ACCANIMENTO?

In merito all’AT tre sono gli indici da tenere in considerazione enunciati da Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae (65, a commento di questo numero e presenti nel documento della Congregazione per la Dottrina della Fede Iura et bona (IV).

PRIMO: la proporzione tra effetti negativi e positivi. Su un piatto della bilancia si devono mettere gli aspetti negativi che provocano le terapie – sofferenza, costi, invasività, diminuzione permanente o meno di funzioni, difficoltà delle terapie, etc. – e dall’altro gli aspetti positivi – guarigione, allungamento della vita, miglioramento delle condizioni di vita cioè ad esempio conservazione, ripristino o perfezionamento di funzioni etc.. Sproporzionato ad esempio potrebbe essere spendere mille euro e soffrire molto per farsi passare un raffreddore o per protrarre la vita di qualche giorno ad un paziente terminale. Proporzionato invece nel caso in cui ci fosse la possibilità di salvare una persona.

SECONDO: il calcolo delle probabilità in merito agli effetti positivi tenuto conto del valore dell’effetto positivo sperato. E così una probabilità di uno su mille per salvare una vita umana giustifica terapie molto dolorose, non così se ci fosse una probabilità di uno su mille per farsi passare una banale influenza.

TERZO: le condizioni del paziente: i primi due criteri vanno declinati nel quadro clinico specifico.

Passiamo ora a ciò che dice la dottoressa: “Interrompere un trattamento in questo caso non si tratta di eutanasia, cioè di fare qualcosa che di per sé causa la morte come fine ricercato. Si tratta invece di interrompere alcuni atti medici, artificiali, che tengono in vita, ma senza alcun risultato in termini di autonomizzazione presente o futura e questi atti medici possono essere messi in atto in fase acuta, non per sempre”.

DOVE STA L'INGANNO?

Attenzione perché qui, e siamo certi della buona fede della giovane dottoressa, si cela l’inganno. Facciamo il caso che ci sia una terapia X studiata per riattivare i mitocondri di Charlie che non producono più energia e così restituirgli la propria “autonomizzazione”, per usare un termine scelto dalla dottoressa. La terapia è sperimentale, di difficilissima applicazione, molto costosa, assolutamente gravosa per il fisico di Charlie, assai dolorosa e con remotissime speranze di successo, inoltre si aggiunga che la terapia non guarirà in modo definitivo il piccolo, ma gli ridarà le forze solo per breve tempo. Attivare tale terapia potrebbe essere giudicato correttamente un accanimento terapeutico perché la terapia è sì finalizzata a curare i mitocondri (effetto positivo), ma gli effetti negativi superano quelli positivi e gli effetti positivi sono assai incerti. Insomma il gioco non vale la candela.

LA VENTILAZIONE E' ACCANIMENTO?

Ma nel caso di Charlie non si sta parlando di questa terapia, bensì della ventilazione assistita. La ventilazione assistita non è direttamente finalizzata a guarire Charlie, bensì a farlo respirare e quindi a farlo vivere. La Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF) nel 2007 rispose ad un quesito riguardante l’idratazione e la nutrizione artificiale posto dalla Conferenza episcopale statunitense. Il quesito era il seguente: “È moralmente obbligatoria la somministrazione di cibo e acqua (per vie naturali oppure artificiali) al paziente in ‘stato vegetativo’, a meno che questi alimenti non possano essere assimilati dal corpo del paziente oppure non gli possano essere somministrati senza causare un rilevante disagio fisico?”.

La Congregazione così rispose: “Sì. La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione”. La risposta non fa riferimento alla ventilazione, ma per analogia di principi possiamo applicare quanto detto anche alla ventilazione, trattamento che risponde ad una “fame” di ossigeno. Se la ventilazione dimostra nel caso specifico di raggiungere la finalità sua propria – cioè l’ossigenazione – allora non è accanimento terapeutico. Nel caso di Charlie la ventilazione assistita risponde efficacemente alla finalità intrinseca dell’atto stesso e dunque non è AT.

Ribadiamo: non si deve chiedere alla ventilazione assistita di combattere la patologia di cui è affetto Charlie, perché non è nella natura della ventilazione guarire i mitocondri. Qui sta l'errore: si qualifica la ventilazione (insieme agli altri presidi medici ordinari a cui presumibilmente Charlie è sottoposto: antipiretici, antibiotici, farmaci antiepilettici etc.) come accanimento terapeutico perché non fa migliorare Charlie, non gli fa recuperare la sua autonomia e dunque è inutile. Ma non è questo che si deve chiedere alla ventilazione. Per valutare se abbiamo AT occorre giudicare la natura degli interventi specifici, cioè il loro fine intrinseco. Lo ripetiamo: non possiamo chiedere alla ventilazione di svolgere le funzioni della terapia X che interverrebbe sui mitocondri.

Detto questo si potrebbe comunque sollevare un’obiezione: l’effetto positivo di mantenere in vita Charlie grazie alla ventilazione è proporzionato rispetto agli effetti negativi che lui sopporta provocati dalla ventilazione stessa? La dottoressa descrive così la ventilazione assistita su Charlie: “Tenere un bimbo intubato per un mese significa arrecare dei grossi danni alla trachea, significa causargli infezioni severe e letali, significa tenerlo sedato in una condizione di grande sofferenza (provate a pensare cosa vuole dire avere un tubo in gola, che passa per le corde vocali, dover essere aspirato in trachea ogni 2 ore, senza poter deglutire e così via…)”. I giudici inglesi dell’Alta Corte analogamente scrissero in sentenza: “l’essere ventilati e aspirati, come nel caso di Charlie, può causare dolore”. 

Risposta che chiama in causa la ragione prima dei sentimenti: la sofferenza dell’intubazione è proporzionale al beneficio atteso dalla ventilazione, cioè vivere, che – tra l’altro - rimane un dovere morale. Torniamo a quanto detto dalla Congregazione per la dottrina della fede: i vescovi chiedevano se era AT idratare e nutrire artificialmente anche nel caso ciò provocasse “rilevante disagio fisico”. La CDF non fa riferimento al disagio fisico come criterio lecito per sospendere questi mezzi di sostentamento vitale e quindi la esclude (non così invece, ahinoi, la recente e discussa Nuova Carta degli operatori sanitari pubblicata dal Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari: si legga qui un nostro commento perché di fronte alla preziosità elevatissima del bene vita l’unico dolore che si può rifiutare, secondo i criteri proporzionalisti prima accennati, è quello oggettivamente insopportabile (ad impossibilia nemo tenetur). Tutte le terapie provocano disagio, sofferenza e spiacevoli effetti collaterali: occorre verificare se sono proporzionate al beneficio atteso. Nel caso di Charlie la sofferenza patita è proporzionale al beneficio ottenuto perché gli permette di vivere.

Inoltre la stessa dottoressa ci conferma che Charlie è sedato e quindi non soffre o non soffre acutamente. Si aggiunga che nel caso di Charlie farlo vivere ancora un po’ gli permetterebbe di essere sottoposto ad una terapia sperimentale negli Usa, i cui effetti terapeutici sono improbabili, ma a fronte della probabilità elevatissima di morire il gioco vale la candela e dunque anche in questo caso non sarebbe AT.

Ma mettiamo il caso che non esistesse questa terapia: Charlie dovrebbe essere considerato sicuramente un malato terminale. Scrive la Rigoli: “Protrarre questi trattamenti non ha alcuno scopo, significa solo procrastinare un decesso inevitabile e facendo soffrire senza alcuno scopo, prolungare una vita naturalmente destinata a spegnersi attraverso atti medici estremamente invasivi e dolorosi”.

INTERROMPERE LA RESPIRAZIONE E' EUTANASIA?

La condizione di malato terminale giustifica l’interruzione della ventilazione assistita? No, perché anche in questo ultimo tratto di esistenza la ventilazione rappresenta uno strumento sempre proporzionale ai fini propri, cioè ossigenazione e quindi mantenimento in vita fino a quando il piccolo si spegnerà. Ovvio poi che accanto alla ventilazione devono essere posti quei presidi che sopprimano o allievino la sofferenza (è la sofferenza da sopprimere, non Charlie).

Dunque togliere la ventilazione non è rifiuto dell’AT, ma gesto eutanasico. E si parla di eutanasia attiva e non omissiva, dato che c’è un gesto attivo/positivo per staccare Charlie dalla ventilazione. Come abbiamo già avuto modo di chiarire il ragionamento erroneo è questo: la ventilazione tiene in vita Charlie, ma la sua vita è gravata da una condizione di forte disabilità e sofferenza. Tenerlo in vita significa continuare a farlo soffrire, ergo togliamo quei presidi che non servono a farlo guarire ma che solo perpetuano la sua sofferenza. Non farlo significa scegliere l’AT.

Questo è stato anche il ragionamento dell’Alta Corte: “Anche prima che Charlie iniziasse a soffrire di crisi in data 15 dicembre 2016, il giudizio unanime clinico era che la sua qualità di vita era così scarsa che non doveva essere sottoposto a ventilazione a lungo termine”. Se la qualità della vita non è apprezzabile continuare a vivere configura accanimento terapeutico. Stesso parere è sposato dall’istituto cattolico Bioethics - Anscombe Centre di Oxford il quale il 5 luglio scorso ha emanato un comunicato stampa in cui si legge tra l’altro: “Le affermazioni in merito al fatto che la ventilazione potrebbe causare sofferenze e che la stessa sta producendo solo una ‘qualità della vita’ scarsa (relativamente allo stato di salute e di benessere) costituiscono congiuntamente un interrogativo sul fatto che questo particolare trattamento sia valido. Si può discutere su tale conclusione, ma questo modo di ragionare è eticamente difendibile”. Più avanti il centro di bioetica si premura di precisare che ogni vita è degna di essere vissuta, ma rimane il fatto che anche per i bioeticisti cattolici inglesi la ventilazione obbliga Charlie ad una vita di bassa qualità e quindi sarebbe eticamente giusto staccare il ventilatore. Ed infatti più avanti affermano che qualora i genitori decidessero di staccare il respiratore “la decisione stessa è moralmente difendibile”.

CHARLIE SOFFRE PER LA MALATTIA

Veniamo alla risposta: la sofferenza che potrebbe configurare AT deve essere provocata dalla terapia, non dalla patologia. Se la terapia X è sproporzionata perché, a fronte dei pochi e lievi benefici, mi fa soffrire molto allora possiamo avere AT. Ma se io soffro molto a causa di una certa patologia – come nel caso di Charlie - non è lecito astenersi dal sottopormi a terapia, per sé proporzionata a debellare la patologia, o interrompere i sostegni vitali (es. ventilazione) perché tenendomi in vita continuerebbero a farmi soffrire. Che si applichino invece queste terapie e non si interrompano i mezzi di sostentamento vitale, nonchè le cure e trattamenti palliativi. In breve si vuole togliere la ventilazione credendo che sia lei la colpevole della sofferenza di Charlie, sofferenza che invece è da addebitarsi alla patologia di cui è affetto. E’ la malattia ad accanirsi su Charlie, non la ventilazione.

Ecco quindi che in merito al caso Charlie l’interruzione della ventilazione rientra perfettamente nella definizione di eutanasia indicata dalla CDF: “Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”. Si vuole stubare Charlie per non farlo soffrire più. E dunque non è condivisibile l’affermazione della Rigoli: “La sospensione del supporto ventilatorio non è sinonimo di mettere un cuscino in faccia al bambino”. Il fine infatti è quello di eliminare ogni dolore uccidendolo: che poi la morte sia provocata interrompendo la ventilazione assistita oppure soffocandolo con cuscino, oppure facendogli una iniezione letale poco cambia.

A margine ma non troppo: la dott.ssa Rigoli ci comunica che le sono capitati casi simili a quelli di Charlie e in un caso “l'ho tenuto in braccio a lungo nelle ore in cui si stava spegnendo dopo che abbiamo tolto il tubo (si fa così ovunque, non solo a Londra)”, rivelandoci quindi che lei e/o i suoi colleghi hanno staccato il tubo che ha provocato la morte di un bambino.

In sintesi: la ventilazione su Charlie non configura AT, ma mezzo di sostentamento vitale proporzionato ai fini propri, anche tenuto conto dei disagi della ventilazione stessa e della sua eventuale, ma non certa, condizione di paziente terminale. La gravità del quadro clinico non è dovuta alla ventilazione, bensì alla patologia. Togliere la ventilazione è atto eutanasico perché si vuole provocare la morte del minore per non farlo più soffrire. 

 

-L'ANNUNCIO DEL DISTACCO: MA LA SPERIMENTAZIONE SI PUO' FARE IN LOCO


L’appello è di quelli inquietanti, ma non è la prima volta che il Gosh sospende l’esecuzione del piccolo Charlie Gard. Sicuramente se davvero questa mattina dovesse iniziare il distacco del ventilatore previsto dal protocollo sanitario seguente la sentenza confermativa della Cedu, l’ospedale che da 11 mesi tiene in cura il piccolo affetto da deplezione del mitocondrio, avrà gli occhi puntati del mondo.

L’accelerazione è avvenuta con un appello lanciato dall’associazione Mitocon, che segue in Italia i 15mila pazienti affetti, con gravità diverse, da deplezione mitocondriale. E’ il presidente Pietro Santantonio a dirlo: “Stanno per staccare le macchine di Charlie! Ci ha detto stasera la mamma, Connie”.

Mitocon insieme alla mamma ed al papà di Charlie fa dunque appello, alle autorità del Regno Unito ed ai medici dell’ospedale GOSH affinché sospendano ogni iniziativa di attuare i protocolli avviati con la sentenza e chiede che sia assicurata ogni cura al piccolo affinché gli sia concesso di poter essere sottoposto alla terapia sperimentale i cui dettagli saranno resi noti a brevissimo.

Mitocon – si legge nel comunicato pubblicato sul sito - in questi giorni è stata in contatto costante con la famiglia di Charlie Gard e con l’equipe internazionale di scienziati che sta lavorando sulle sindromi da deplezione del DNA mitocondriale e nello specifico su quelle indotte dalla mutazione RRM2B, che ha colpito il piccolo Charlie. “Vogliamo informare tutti coloro che in queste settimane hanno seguito e seguono con apprensione la vicenda del piccolo bambino inglese che oggi pomeriggio si è tenuta una riunione tra i medici ed i ricercatori dell’equipe internazionale e tra poche ore sarà resa nota una posizione ufficiale rispetto alle possibilità terapeutiche percorribili per il piccolo Charlie.

In particolare sono stati riconsiderati una serie di dati di efficacia della terapia nucleosidica che ha già dato dimostrazione di efficacia in un numero significativo di casi clinici trattati, con particolare riferimento ai risultati che dimostrano la possibilità dei nucleosidi di superare la barriera ematoencefalica. In base a queste ulteriori e nuove valutazioni il gruppo di lavoro è dunque giunto alla conclusione che la terapia nucleosidica possa essere efficace nel caso del piccolo Charlie.

Abbiamo informato la famiglia Gard degli esiti di questa riunione e del fatto che a breve verrà pubblicato uno statement scientifico che farà il punto su questo argomento”.

Da qui l’appello al Gosh a fermare il conto alla rovescia. Secondo alcuni l’appello lanciato dalla madre attraverso uno dei tanti profili a sostegno della famiglia Gard è farso. In sostanza non ci sarebbe nessun count down avviato. Ma interpellato dalla Nuova BQ, Santantonio ha confermato questa informazione.

“Una mamma della nostra associazione è in contatto diretto con Connie Gard e ci ha detto che domani mattina (oggi ndr.) verrà staccato il ventilatore. Questo ci ha spinto a dare questa per annunciare questo nuovo protocollo terapeutico”.

Ma di che cosa si tratta? E’ ancora tutto top secret. Ma come ci diceva nell’ultima intervista Santantonio si tratta di una terapia a base di nucleosidi che potrebbe dare risposte. Santantonio non si è sbilanciato su quali siano gli scienziati che stanno lavorando al progetto, salvo limitarsi a dire che sono un’equipe internazionale, che comprende anche medici italiani.

Però si è detto ottimista sul fatto che la terapia sperimentale possa operare sia in loco, dunque al Gosh, sia in altri ospedali, negli Usa o in Italia. “Lo decideranno i medici”.

La notizia non può passare sotto silenzio al Gosh che avrebbe così il dovere morale di verificare la richiesta di stop annunciata da Mitocon, associazione per nulla sprovveduta che anche in passato aveva ottenuto la possibilità di raccolta fondi dalla piattaforma di Telethon.






Charlie è stato ucciso. Ha combattuto su questa terra prima che un’umanità spietata gli staccasse la ventilazione. Morto soffocato nel lettino di un hospice lontano da casa. Messo a morte perché questo nuovo Stato eugenetico ha deciso che è legale uccidere un disabile. 

EDITORIALE

 

Charlie Gard

 

 

 

 

Verrà portato in un hospice dove sarà terminato. Così corrompono anche gli hospice: nati per aiutare i moribondi a vivere fino al momento della morte, ora diventano luoghi dove si ammazzano i malati. I medici vedono cambiata la loro missione: che almeno tolgano il camice bianco e indossino mantello e cappuccio nero. 

-NEGATI ANCHE I "SUPPLEMENTARI" di E. Dovico

di Renzo Puccetti



- UCCISO. MA LA MORTE NON È L'ULTIMA PAROLA, di Riccardo Cascioli
- È EUTANASIA, CONDITA DA FALSA PIETA', di R. Puccetti
- NON C'È VIA DI MEZZO,di B. Frigerio
- VENTILAZIONE, ACCANIMENTO E MAGISTERO: FARE CHIAREZZAdi R. Puccetti

- VENTILAZIONE "DANNOSA"? CHARLIE NON C'ENTRAdi R. Puccetti
- NON È ACCANIMENTO. L'ERRORE DI CERTI MEDICIdi T. Scandroglio
- L'INGANNO DELL'ACCANIMENTOdi T. Scandroglio (ENGLISH VERSION)

di Ermes Dovico

 

[Modificato da Caterina63 29/07/2017 12:45]
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05/11/2017 09:26
 
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  • LE SUE VIE


Dallo "stato vegetativo" al ballo dopo un lento miracolo






Victoria, che oggi balla in tv, spiega i suoi 7 anni in carrozzina e i 3 in stato vegetativo. "I dialoghi di 4 anni solo con Dio, la preghiera e l'amore della mia famiglia", sono riusciti a superare tutti i pronostici scientifici.


Sembra impossibile che un miracolo possa avvenire lentamente. Normalmente, chi crede in Dio di fronte ad una malattia irreversibile è abituato a pensare che la risposta del Signore alle suppliche consistano o nel rendere la persona capace di accettare la sua condizione, producendo frutti spirituali e conversioni, oppure di guarirla improvvisamente, restituendole da un momento con l’altro la salute. Invece, l’incredibile vicenda di Victoria Arlen testimonia al mondo che cosa vuol dire non smettere di sperare e lottare per anni, fino ad ottenere la completa salute quando tutto l'universo, sopratutto scientifico, lo riteneva impossibile.


Le immagini di Victoria, oggi 22enne americana, quando si ammalò all’età di 12 anni, sono quelle tipiche di una persona in “stato vegetativo” a cui cambia completamente il volto a causa dell'inattività muscolare. Infatti, ha spiegato, “un giorno iniziai a perdere il controllo del mio corpo, ero intrappolata nel mio corpo, incapace di parlare, di muovermi”. I genitori non capiscono come una bambina, fino ad allora iperattiva, che amava danzare, nuotare e giocare tutto il giorno con i suoi tre fratelli, potesse essere collassata da un giorno con l’altro. Non capivamo ma la realtà era quella di una delle diagnosi più impietose: "Stato vegetativo permanente" con impossibilità di recupero, causato da due malattie autoimmuni: mielite trasversale e encefalomielite acuta disseminata. "In solo un attimo - ricorda Victoria - fu buio pesto". 


Ma ci furono due fattori a fare luce nell’oscurità. Due fiammelle che la tennero in vita aiutandola a non arrendersi. Una fu “l’amore della mia famiglia: anche se non potevano sentirmi io li sentivo, loro combattevano per me e io per loro”. Così, sebbene i medici dicessero, anche davanti a Victoria che capiva tutto, che non c’era da sperare bene, i suoi fratelli, suo padre e sua madre non si arresero mai, incoraggiandola e parlandole: “Tu sei una credente, Lui può tutto", le dicevano, tenendo "accesa la fiamma della mia fede…di questo hanno bisogno tutti, tutti”, spiega oggi la giovane nelle numerose testimonianze che circolano anche sul web.


La seconda luce era la fede cristiana in cui Victoria era cresciuta per cui, ha spiegato sua madre Jaqueline a lifesitenews, “non aveva nessuno altro se non Dio che poteva ascoltarla”. Di fatto la bambina cominciò a parlare ogni giorno con il Signore e invece che lamentarsi diceva: “Sono vittoriosa”, chiedendo un segno per la sua famiglia del fatto che era cosciente. Ad un certo punto, però, “pensavo che mi dovevo preparare a morire” ma poi accadde qualcosa, come una specie di “epifania”: “Feci una promessa a Dio”, ha spiegato Victoria in uno dei video in cui ha raccontato il suo travaglio per rinascere: “se mi dai una seconda possibilità di vita, ti prometto che non sprecherò nemmeno un secondo della mia vita... avrei usato la mia voce e la mia vita per Dio”. Proprio in quel momento la madre le parlò ma, spiega Jaqueline, "le parole che uscirono dalla mia bocca non erano mie, fu come se fosse Dio a parlare: “Ora cominceremo un viaggio in cui avrai un impatto sul mondo”, le disse. 


La piccola non capì ma di lì a poco, dopo tre anni di “prigione”, le cose sarebbero cambiate e infatti cominciò a muoversi. Su di lei, circa due anni dopo la tragedia, aveva cominciato anche a pregare un sacerdote carismatico con grandi doni, di nome John Bashobora. Le preghiere continue anche della famiglia e il lavoro fisico della giovane furono così intensi da riuscire a portare la ragazza a muovere tutta la parte superiore del corpo: “Passavo ore ad allenarmi” e anche se temeva l’acqua che un tempo aveva amato, vista l’impossibilità di usare le gambe, “i miei fratelli mi buttarono in piscina”. Fu un trauma che la costrinse ad agire ulteriormente, fino a farle scoprire “che lì mi muovevo libera anche dalla mia carrozzina”. Le ore passate in acqua divennero così tante che la giovane diventerà una campionessa paraolimpionica capace di vincere numerose medaglie e ori. Per questo, sarà anche una star della rete sportiva Espn.


“Ma non persi mai la speranza di tornare a camminare”. Anche se, a quel punto, sembrava un po’ troppo. Cosa pretendere di più dopo un evento simile e un recupero impensabile? Sopratutto quando i medici sono certi che sia impossibile, dopo 10 anni di paralisi, tornare a camminare? Ma né Victoria né la sua famiglia riuscivano a rassegnarsi. Perciò, dopo successive suppliche e continue ore di allenamenti, un giorno il fisioterapista si accorse di un leggero movimento di una gamba e la spronò a continuare. L'anno successivo Victoria muoverà i primi passi. Fino a che, nel 2016, non si alzò definitivamente in piedi. Quello che è ancora più incredibile, però, è che la giovane non si accontentò nemmeno di camminare, volendo allenarsi fino a riuscire a ballare come una professionista.


Oggi Victoria è una delle star dello show americano Ballando con le Stelle e spiega di voler usare per sempre “la mia voce per cambiare il mondo, per diffondere l’amore, la speranza e la luce di cui questo mondo ha bisogno”. Perciò, anche se non augura a nessuno quanto le è accaduto (“non avrei mai scelto questa vita") confessa che "non la cambierei” sapendo che “se ho riavuto tutto è per una ragione…per dare speranza”. Come? “Quanto accaduto - ha sottolineato la giovane - vale la pena” e serve a dimostrare la verità di uno dei suoi passi preferiti del Vangelo, quando san Paolo spiega che Cristo “ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la potenza che opera in noi”.


Perciò non è tanto ballando, come se a vincere fosse solo chi si alza dalla carrozzina, ma “portando il mondo a Gesù”, ha spiegato la madre, che “Victoria porta speranza”. Questo è quello a cui mira, a portarli a Gesù…a scoprire la luce di Dio”. Che in questa storia pare mostrare che attaccandosi all’unica fiammella nel buio, l’amore di Dio, fosse anche il solo barlume di luce per anni, si può arrivare dove la scienza e le forze uomane non oserebbero mai sperare. E dire, come fa Victoria sempre citando san Paolo, che “posso tutto in Cristo che mi dà la forza”.





  • CONVEGNO SUL FINE VITA

Papa ed eutanasia, un intervento problematico

Papa Francesco con mons. Vincenzo Paglia

Ha preso l’avvio ieri e si concluderà oggi il Meeting Regionale Europeo della World Medical Association organizzato in Vaticano unitamente alla Pontificia Accademia per la Vita sui temi cosiddetti di “fine vita”. La World Medical Association non è un ente o un’associazione in qualche modo legata alla Santa Sede, ma è una laicissima associazione di medici. Alcuni suoi membri, come Benedetta Frigerio ha già avuto modo di illustrare da queste colonne qualche giorno fa (clicca qui), sono infatti a favore di eutanasia e aborto.

Ieri Papa Francesco ha inviato i suoi saluti ai partecipanti di questo convegno(clicca qui). Basta dare un'occhiata alle prime reazioni della grande stampa per comprendere che il messaggio del Santo Padre presenta accanto a passaggi sicuramente condivisibili, altri ambigui ed altri ancora formulati in modo erroneo. Esaminiamo quelli più problematici.

Il Papa parte da un fatto: la medicina ha fatto passi da gigante e questo può avere effetti positivi e negativi. In merito agli aspetti positivi il Pontefice afferma: «La medicina ha infatti sviluppato una sempre maggiore capacità terapeutica, che ha permesso di sconfiggere molte malattie, di migliorare la salute e prolungare il tempo della vita. Essa ha dunque svolto un ruolo molto positivo». Subito dopo Francesco elenca invece i rischi di tale progresso scientifico-tecnico: «D’altra parte, oggi è anche possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute. Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona». A seguire il Papa cita, per commentare tali effetti nocivi, alcuni documenti del Magistero che trattano dell’accanimento terapeutico. Ora occorre chiedersi se le situazioni descritte dal Papa configurano accanimento terapeutico. Vediamole una ad una.

Il Papa da una parte afferma che vivere più a lungo è un bene, ma vivere più a lungo in condizioni di salute critica non lo è. Occorre a questo proposito ricordare che curare un paziente permettendogli di vivere più a lungo, sebbene con una qualità di vita non elevata perché affetto da gravi disabilità, patologie croniche severe, etc., non configura accanimento terapeutico. L’accanimento terapeutico infatti, come ricorda correttamente il Pontefice, è una sproporzione tra trattamenti e risultati sperati. Se grazie alla tecnologia oggi disponibile posso mantenere in vita per lungo tempo una persona affetta da sindrome della veglia aresponsiva (il cd paziente in stato vegetativo) ciò non configura accanimento terapeutico, ma in realtà è un obbligo morale in capo al medico e al paziente. La proporzione, in questi casi, deve guardare all’effetto positivo “vita”, non al “benessere”. In caso contrario scadremmo nell’etica della qualità della vita e non prestare le dovute cure configurerebbe un caso di eutanasia omissiva. Come ebbe a scrivere la bioeticista Claudia Navarini, per i sostenitori dell’eutanasia «non sarebbero eventuali trattamenti gravosi e inutili a costituire una forma di accanimento, ma sarebbe un accanimento il fatto stesso di mantenere in vita un morente o un malato grave» (C. Navarini, Eutanasia, in T. Scandroglio, Questioni di vita o di morte, Ares). I casi Welby, Eluana e Charlie sono paradigmatici in questo senso.

Altra frase problematica del Santo Padre già prima citata: «Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi». Ricordiamo che tali interventi per il Papa sono effetti negativi dell’ipertecnologia della medicina e configurano accanimento terapeutico. Ma l’accanimento terapeutico si realizza proprio quando il trattamento è inefficace. Quando invece, come scrive il Papa, fosse efficace, anche se non risolutivo, l’intervento è moralmente accettabile. Molti di noi portano gli occhiali: correggono un difetto della vista, ma non risolvono il difetto della vista. Eppure questa protesi non può venire derubricata ad accanimento terapeutico. Se i medici dovessero astenersi da tutti gli interventi non risolutivi, addio ad esempio alla cura della patologie croniche. Il medico, come ricorda lo stesso Pontefice, è chiamato non solo a guarire, ma anche a curare, cioè a migliorare o stabilizzare le condizioni di un paziente che per ipotesi mai guarirà.

Ulteriore periodo molto scivoloso: alcuni interventi «possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute». In merito al sostentamento delle funzioni biologiche possiamo riferirci alla nutrizione, idratazione e ventilazione assistita (ma non solo a loro dato che l’espressione “funzioni biologiche” può essere riferita ad un infinità di attività dell’organismo: la funzione metabolica epatica, la funzione endocrina, etc.). Se questi presidi vitali riescono a soddisfare il loro fine proprio - cioè adiuvare l’assimilazione di cibo, di liquidi e la respirazione – se non c’è sproporzione tra sollievo arrecato e dolore inferto e tra beneficio prodotto e danni procurati, allora significa che questi mezzi di sostentamento vitale non scadono nell’accanimento terapeutico, bensì equivalgono «a promuovere la salute» e «giovano al bene integrale della persona». Non somministrarli configurerebbe una scelta eutanasica. Anche laddove l’intervento avesse carattere sostitutivo – pensiamo ad esempio alla circolazione extracorporea durante un’operazione chirurgica – ciò non significa che di per se stesso l’intervento rappresenta una forma di accanimento terapeutico.

In breve al passaggio già menzionato, «gli interventi sul corpo […] possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute», occorreva aggiungere un “sempre”: «gli interventi sul corpo […] possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale sempre a promuovere la salute», perché in particolari circostanze tali interventi seppur adiuvanti o sostitutivi di funzioni biologiche possono configurare accanimento terapeutico.

Altro passaggio critico. Chi deve decidere se c’è o meno accanimento terapeutico? Il Papa afferma che l’ultima parola spetta al paziente, seppur in dialogo con i medici: «È anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante». Francesco cita a questo proposito il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità» (n. 2278). Però leggiamo per intero il periodo citato parzialmente dal Papa: «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente».

Il Catechismo ci dice questo: per capire se i trattamenti terapeutici configurano accanimento terapeutico occorre da una parte la competenza del medico, che ci potrà dire se, secondo letteratura e sua esperienza personale, quel tipo di cura è efficace o meno, e dall’altra il paziente, perché è solo lui, a patto che sia vigile e cosciente, che ci può comunicare ad esempio se tale cura gli reca troppo dolore, se si sente meglio, etc. Detto ciò però il criterio indicato dal Catechismo non scade nel soggettivismo assolutista, infatti il Catechismo specifica che le volontà del paziente devono essere rispettate solo se ragionevoli, cioè conforme a morale, e solo se dunque tutelano gli oggettivi interessi del paziente, ossia la sua dignità.

Detto in soldoni: se una paziente dichiarasse che non vuole più nutrirsi con le peg perché a suo insindacabile giudizio la nutrizione assistita configura accanimento terapeutico, questa volontà sarebbe irragionevole e quindi non da rispettare. L’ultima parola spetta alla valutazione del bene oggettivo della persona, bene oggettivo spesso non riconosciuto dalla persona stessa. Di contro, rispettare sempre e comunque il giudizio del paziente su cosa è o non è accanimento terapeutico aprirebbe la porta all’eutanasia. Quella stessa porta che il Santo Padre, nel messaggio inviato ai partecipanti del convegno che si sta svolgendo in Vaticano, vorrebbe che rimanesse sempre chiusa.

Infine una nota di carattere generale. Il messaggio del Papa è incentrato per buona parte sull’accanimento terapeutico perché «oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo». Parrebbe quindi che il vero pericolo oggi nelle corsie di ospedale sia l’accanimento terapeutico e non l’eutanasia. Ma così non è. Le norme esistenti in molti Paesi, le pratiche cliniche diffuse, le linee guida di alcune società mediche, i fatti di cronaca come quelli che hanno interessato il piccolo Charlie e dj Fabo, le cliniche per la “dolce morte” sparse qua è là nel mondo, ci portano a dire che la vera emergenza è l’eutanasia, non certo l’accanimento terapeutico.





Cari Vescovi: attenzione allo spettro dell’accanimento terapeutico!

Ci risiamo! Lo spettro dell’accanimento terapeutico torna prepotentemente ad ingannare i Pastori della santa Chiesa, specialmente torna a far confondere le buone intenzioni del santo Padre Francesco. Non siamo “tuttologi” ma non ci vuole neppure una laurea in medicina o alla Pico de Paperis per capire che, periodicamente, la giustificazione del concetto di “accanimento”, viene usato per aprire porte pericolose e, soprattutto, senza mai arrivare a specificare cosa loro stessi vogliono intendere con tale termine.

Ne ha parlato la Nuova Bussola, vedi qui, un articolo che condividiamo integralmente perché ha colto magnificamente i punti centrali – purtroppo anche i più critici – delle parole del Discorso ufficiale del santo Padre, leggi qui, attraverso i quali seppur viene spiegato – a grandi linee – in cosa consisterebbe “l’accanimento terapeutico”, dall’altra parte si offrono però degli spunti – involontari – verso l’eutanasia giustificata, specialmente se i Media interpretano in questo modo le sue parole e il Papa non smentisce e non chiarisce…

Il Denzinger afferma che: “Un decreto dottrinale che può sembrare ad alcuni dubbio, deve essere sempre compreso nel senso secondo cui l’asserto è vero..“, offrendo a noi tutti una specie di cartina tornasole per poter interpretare correttamente le parole, ufficiali, del Pontefice. Tuttavia è anche salutare e un bene rimarcare alcuni punti come ha offerto la Nuova Bussola, attraverso i quali capire ciò che è vero da ciò che è falso.

La storia di Victoria, tanto per fare un esempio concreto, vedi qui: Dallo “stato vegetativo” al ballo dopo un lento miracolo … ce la dice lunga di cosa sarebbe stato di lei se, confondendo gli aiuti ricevuti si fosse solo pensato ad un accanimento terapeutico… vedi anche qui, Victoria sarebbe morta sentendo tutto, ascoltando tutto, come dimostrano tanti altri episodi di persone che, uscendo dal coma, hanno poi detto che sentivano tutto e vedevano… Persone che escono dal coma dopo 4 anni, anche 10 anni, non sono affatto una rarità, una vittoria contro i sostenitori di un accanimento terapeutico che li avrebbe portati a morte certa.

Così giustamente sottolinea l’editoriale di La Bussola: “Il Papa da una parte afferma che vivere più a lungo è un bene, ma vivere più a lungo in condizioni di salute critica non lo è. Occorre a questo proposito ricordare che curare un paziente permettendogli di vivere più a lungo, sebbene con una qualità di vita non elevata perché affetto da gravi disabilità, patologie croniche severe, etc., non configura accanimento terapeutico. L’accanimento terapeutico infatti, come ricorda correttamente il Pontefice, è una sproporzione tra trattamenti e risultati sperati. Se grazie alla tecnologia oggi disponibile posso mantenere in vita per lungo tempo una persona affetta da sindrome della veglia aresponsiva (il cd paziente in stato vegetativo) ciò non configura accanimento terapeutico, ma in realtà è un obbligo morale in capo al medico e al paziente. La proporzione, in questi casi, deve guardare all’effetto positivo “vita”, non al “benessere”…

E allora, si chiede il Papa: Chi deve decidere se c’è o meno accanimento terapeutico? Francesco risponde usando, parzialmente, il Catechismo lasciando così quel dubbio e quella criticità nell’interpretazione delle sue parole.

«Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità» (CCC n. 2278), cita Papa Francesco, ma il Catechismo dice molto di più… quel di più che egli o lascia intendere dandolo per scontato – e qui vale l’insegnamento del Denzinger sopra riportato – oppure lo si ritiene scartato o inutile da coloro che, delle parole del Pontefice, devono trarre l’insegnamento e i punti fermi.

Detto in soldoni – spiega la Bussola -: se una paziente dichiarasse che non vuole più nutrirsi con le peg perché a suo insindacabile giudizio la nutrizione assistita configura accanimento terapeutico, questa volontà sarebbe irragionevole e quindi non da rispettare. L’ultima parola spetta alla valutazione del bene oggettivo della persona, bene oggettivo spesso non riconosciuto dalla persona stessa. Di contro, rispettare sempre e comunque il giudizio del paziente su cosa è o non è accanimento terapeutico aprirebbe la porta all’eutanasia. Quella stessa porta che il Santo Padre, nel messaggio inviato ai partecipanti del convegno che si sta svolgendo in Vaticano, vorrebbe che rimanesse sempre chiusa…

Quindi attenzione ai titoli dei Media e alle dispute sui Social…. Papa Francesco NON VUOLE APRIRE QUELLA PORTA. “Il messaggio del Papa – conclude La Bussola – è incentrato per buona parte sull’accanimento terapeutico perché «oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo». Parrebbe quindi che il vero pericolo oggi nelle corsie di ospedale sia l’accanimento terapeutico e non l’eutanasia. Ma così non è…”

_0019 NO eutanasia 2L’allarme che anche noi abbiamo colto dalle conclusioni – omesse – del Papa è proprio in questa diffusa errata concezione che si persista, cioè, su un “accanimento terapeutico”, mentre al Papa sfugge (sfugge?) la conoscenza, o la competenza, oppure è malamente informato, che esistono le “cliniche per la dolce morte” e che le leggi delle Nazioni e degli Stati hanno optato da anni per “uccidere” le persone non solo in stato terminale, non solo a prescindere da ciò che essi chiedono o non chiedono, non solo contro il parere stesso dei genitori, non solo anziani diventati inutili per la società… Ciò che il Papa omette di discutere o di correggere, o persino di condannare come dovrebbe fare con “sì, sì – no, no” (Mt.5,37) è proprio quell’ UCCIDERE che è diventato invece legge degli uomini, questa chiarezza manca al suo Discorso.

Del resto Papa Francesco, a riguardo della PENA DI MORTE è stato così categorico e così chiaro nel dire che essa è INACCETTABILE, senza sé e senza ma. Tuttavia si dimostra eccessivamente prudente laddove dovrebbe dire con assoluta determinatezza quel che dice lo stesso Catechismo a riguardo dell’eutanasia: “Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l’eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile…”(CCC.n.2277)

E’ per questa ragione dottrinale che riteniamo, l’uso della questione e del termine “accanimento terapeutico” la chiave che apre all’eutanasia legalizzata… una chiave che se Papa Francesco da una parte chiede, effettivamente, di non usare e di non aprire quella “porta”, dall’altra parte però… lascia alla libera comprensione o interpretazione… Per questo è fondamentale ricordare a tutti noi, come insegna il Donzinger, che laddove l’incomprensione dilaga, il pensiero di un Pontefice deve essere interpretato “…nel senso secondo cui l’asserto è vero..“, e il Catechismo è chiaro!

Laudetur Jesus Christus








[Modificato da Caterina63 17/11/2017 12:01]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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15/12/2017 08:45
 
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IL BIOTESTAMENTO E' LEGGE

14-12-2017: l'Italia sancisce il diritto di farsi uccidere  

VITA E BIOETICA  14-12-2017

Le lacrime di Emma Bonino oggi in Senato

Con il voto di oggi al Senato sulle Dat l'Italia dà il via libera alla legge più permissiva in materia di fine vita. Si introduce un vero e proprio diritto a morire e a farsi togliere la vita. Nessuna obiezione di coscienza: uccidere sarà un dovere delle strutture pubbliche e private, anche cattoliche. 

-180 Sì PER SDOGANARE L'EUTANASIA

-DON GNOCCHI: NEL CROCIFISSO IL SENSO DI OGNI DOLORE di Costanza Signorelli

-VESCOVI, BASTA POLITICA. EDUCATECI ALLA FEDE di Benedetta Frigerio


La Chiesa italiana ha perso una battaglia che non ha neanche combattuto, rendendosi complice di uno statalismo che soffoca la persona. La comunità ecclesiale, e non solo questa, deve rendersi conto di quanto è successo e attrezzarsi per una resistenza in modo che la legge sia attuata il meno possibile.
- I PONTI SENZA VERITÀ NON REGGONOdi Giampaolo Crepaldi
- PER I MEDIA PIÙ IMPORTANTE IL CASO BOSCHI, di A. Zambrano
- POLITICA, FINCHÈ RESTA UN'IDEA..., di A. Zambrano
- VIA AL DIRITTO DI FARSI UCCIDERE, di Tommaso Scandroglio
- L'ITALIA VERSO IL NON DOMANI, di Stefano Fontana
-
 VIDEO: LOTTARE PER LA VITA, ANCORA DI PIÙdi Riccardo Cascioli

- IL LIBRO: APPUNTAMENTO CON LA MORTE, di Tommaso Scandroglio





  • COSA FARE

Dat o no? Meglio non scriverle: è scendere a patti

Scrivere o no le Dat? C'è chi pensa di difendersi dall'eutanasia redigendo una Disposizione anticipata di trattamento che allontani il rischio. Di per sè non sarebbe un male, ma la buona intenzione può portare a effetti diametralmente opposti. Oltre a confermare di scendere a patti con una legge eutanasica che invece si deve estirpare alla radice. 

Dat o non Dat? Questo è il dilemma dopo il varo della legge sull’eutanasia. Comprensibilmente alcuni paventano il rischio di finire morti ammazzati contro la loro volontà da questa norma iniqua e dunque pensano di difendersi redigendo una Disposizione anticipata di trattamento che allontani il più possibile tale rischio. Ad esempio il sig. Rossi potrebbe temere che, in caso di perdita di coscienza per incidente o trauma di diversa natura, gli nomino un rappresentante legale e questo decida di farlo morire privandolo di nutrizione e idratazione.

Meglio prevenire – pensa il sig. Rossi – e predisporre una Dat più o meno di questo tenore: “Non voglio l’eutanasia, dunque non voglio essere privato di idratazione e nutrizione assistita e parimenti non voglio essere oggetto di pratiche che configurano accanimento terapeutico. Di contro voglio essere sempre curato al meglio”. E’ una scelta eticamente condivisibile? La risposta non può che essere articolata.

Partiamo dall’art. 3 della legge che disciplina le Dat riportando solo il comma 1: “Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata fiduciario, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie”.

La prima domanda che ci dobbiamo fare è se questo articolo comanda un’azione malvagia o legittima una facoltà malvagia. La risposta è no: non comanda atti né concede facoltà intrinsecamente malvagi, bensì disciplina facoltà di per sé lecite. Quindi – ad un primo e superficiale esame - avremmo un articolo in sé eticamente lecito inserito in una legge malvagia. E dunque il sig. Rossi di cui sopra, avvalendosi delle facoltà indicate da questo comma, allorché redigesse una Dat in cui rifiutasse l’eutanasia e l’accanimento terapeutico e chiedesse di essere sempre curato compierebbe un atto di per sé buono.

Di contro ci potrebbe essere qualcuno che potrebbe usare di questo articolo per scopi personali non moralmente accettabili (d’altronde capita con tutte le leggi eticamente accettabili). Ad esempio il sig. Bianchi potrebbe redigere una Dat perché vuole l’eutanasia. Potremmo dire che abuserebbe di uno strumento normativo buono (il singolo articolo) per fini malvagi. Come una zappa che può essere usata per dissodare il terreno oppure per commettere un omicidio.

Ma c’è un primo importante distinguo da fare. Se andiamo a leggere con attenzione questo comma e gli altri commi che riguardano le Dat scopriamo che, sebbene nessuno di essi non prescriva azioni malvagie, tali commi indicano comportamenti non proporzionati al bene comune, non adeguati al bene della persona, configurando quindi un complessivo articolo 3 ingiusto. Infatti una legge come un singolo articolo di legge può essere iniquo non solo quando comanda o legittima condotte malvagie (abortire ad esempio), ma anche quando indica un fine buono (pagare le tasse) difettando di giusta proporzione con il fine (tasse troppo esose). Ossia le modalità per soddisfare il fine non sono adeguate al fine stesso.

Tommaso D’Aquino scrive: “Un atto che parte da una buona intenzione può diventare illecito, se è sproporzionato al fine” (Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 7 c.). Se andiamo a leggere questi commi scopriamo che le finalità del primo comma in sé non malvagie corrono il rischio di essere piegate a logiche eutanasiche (sono inadeguate alle finalità indicate e più in generale al bene della persona), ad esempio lasciando discrezionalità ampia di sospensione di cure salvavita a fiduciario e medico oppure non specificando bene cosa significhi “incapacità di autodeterminarsi” (anche un ubriaco è incapace di autodeterminarsi), oppure potendo interpretare le parole del dichiarante in senso favorevole all’eutanasia dato il possibile ampio margine di incertezza che portano con sé dichiarazioni di questo tipo.

Dunque attenzione al primo distinguo: il sig. Rossi se redigesse le sue Dat chiedendo di non venire ucciso ma curato compierebbe un’azione buona, invece i legislatori che hanno votato questa legge sulle Dat hanno compiuto un’azione malvagia, non solo perché hanno approvato alcuni articoli che aprono esplicitamente all’eutanasia, ma anche perché hanno approvato altri articoli specifici sulle Dat assai pericolosi per il bene della persona. Se io vendo un petardo che so che ha una buona probabilità di ferire chi lo usasse ho compiuto un’azione moralmente riprovevole.

Torniamo al sig. Rossi che in ipotesi astratta avrebbe compiuto un atto buono. La morale naturale insegna che un atto astrattamente buono quando è calato nelle contingenze può diventare malvagio ad esempio perché diventa dannoso.  Esemplifichiamo: mangiare dolci è un atto in sé buono, mangiare dolci se si è diabetici è un atto in genere da evitare. Questo esempio ci porta a formulare il seguente principio morale: compreso che un atto non è intrinsecamente malvagio occorre verificare se promette più utilità o più danni. In altri termini, dal punto di vista morale non è sufficiente aver compreso che un atto sia in sé buono per poterlo compiere, occorre anche verificare che sia efficace e non dannoso.

A volte quindi è bene evitare di assumere una condotta di per sé buona se inefficace o addirittura dannosa. E’ il medesimo principio prima espresso: “Un atto che parte da una buona intenzione può diventare illecito, se è sproporzionato al fine”. La buona intenzione di redigere le Dat per scampare all’eutanasia può portare, per un insieme di circostanze, a realizzare effetti diametralmente opposti.

Il campo è quindi assai scivoloso perché bisogna prevedere gli effetti positivi e negativi di un’azione nel futuro e valutare nel complesso se il gioco vale la candela, val a dire se c’è una proporzione maggiore di effetti positivi su quelli negativi. Calcolo spesso assai complicato da fare perché le variabili che possono influire su di esso sono pressoché infinite. Ma ahinoi ora non possiamo sottrarci alla domanda: è utile o no, ormai approvata la legge, redigere le Dat? Perché anche decidere di non redigere le Dat potrebbe essere più dannoso che redigerle.

La soluzione che offriremo non può, per sua natura, avere il crisma dell’infallibilità, proprio perché è un giudizio morale basato sul criterio di efficacia, ossia sulla previsione di effetti futuri calata nella contingenza degli eventi che di loro sono sempre mutevoli. Gli effetti positivi e negativi che dobbiamo tenere in considerazione in modo prioritario possono essere rinvenuti, a parere dello scrivente, essenzialmente in due ambiti: quello privato e quello pubblico.

Partiamo dall’ambito privato che è quello più importante. Effetto positivo: il sig. Rossi redige le Dat perché così spera di scampare all’eutanasia. Passiamo agli effetti negativi di questa azione che fanno riferimento soprattutto alla fragilità intrinseca dello strumento Dat. Questo documento, per motivi che più volte abbiamo denunciato (http://www.lanuovabq.it/it/14-12-2017-litalia-sancisce-il-diritto-di-farsi-uccidere), di suo è inefficace rispetto al fine di tutelare le volontà del dichiarante ed anzi è controproducente. E’ uno strumento che facilmente può essere usato per sopprimere chi invece voleva solo vivere. E’ un po’ come usare una granata pensata per difendersi dai nemici che nove volte su dieci ti scoppia in mano.

Si obietterà: usiamo le Dat solo per indicare la figura del fiduciario, persona da noi scelta perché certi che mai vorrà la nostra morte. Obiezione buona, ma allo stato attuale delle cose (però chissà a quali derive andremo incontro in futuro), non serve passare per le Dat per evitare di essere uccisi. Infatti il medico non può da sé prendere la decisione di staccare la spina, può farlo solo se è la persona cosciente ad averlo chiesto, oppure, se incosciente, se lo ha chiesto per tramite le Dat con o senza fiduciario, oppure dietro richiesta di genitori, tutori, etc.. Il paziente incosciente senza Dat dovrà essere curato e qualora venga nominato un suo rappresentante legale questi di solito viene scelto tra la cerchia di persone che vuole bene al paziente - coniuge, parenti, etc. – e che quindi non vuole di certo la sua morte.

Qualcuno controreplicherà: bene, allora scegliamo in anticipo questa persona indicandola nelle Dat. Non ci sarebbe nulla di male a farlo. E qui passiamo all’ambito pubblico. Eccetto in ipotesi particolari che consigliano di indicare per iscritto una persona che tuteli la nostra incolumità qualora perdessimo conoscenza perché ad esempio si teme che qualcuno abbia tutto l’interesse di staccarci la spina, anche nel caso di uso delle Dat per indicare solamente la persona del fiduciario sarebbe sconsigliabile redigere le Dat perché daremmo man forte all’ideologia eutanasica, accelereremmo il processo culturale a favore della dolce morte nella coscienza collettiva. Infatti  le Dat sono innervate dallo spirito eutanasico, sono strumento da sempre pensato da chi vuole l’eutanasia e da sempre associato a tale pratica nelle leggi pro-dolce morte. Ergo diffondono il credo eutanasico anche se redatte per scopi buoni e quindi potrebbero aiutare altri, configurando una collaborazione materiale al male, a redigere le Dat per scopi eutanasici. Si tratta quindi in buona sintesi di ragioni di inopportunità assai rilevanti.

Inoltre su un piano politico di più ampio respiro dire “Sì alle Dat” riproporrebbe quella strategia fallimentare già vista innumerevoli volte in merito ai principi non negoziabili quali divorzio, aborto, fecondazione artificiale e Unioni civili: evitare di attaccare alla radice la mala pianta di queste leggi inique e concentrarsi solo su alcuni rametti periferici, sfoltendo qualche fogliolina ingiallita. Dire “Sì alle Dat” significherebbe sul piano culturale e politico un’accettazione passiva della ratio della legge sull’eutanasia, perché avremmo fatto nostro uno strumento voluto dal nemico, e una battaglia di retroguardia solo sulle conseguenze pratiche e non sui principi ispiratori della legge. Un atteggiamento puramente difensivo – che ovviamente ci deve essere – senza quello offensivo – altrettanto doveroso, un’ammissione implicita di definitiva sconfitta impossibile da ribaltare e una volontà di venire a patti con il nemico chiedendo un prezzo per la resa non troppo esoso. Invece dire “No alle Dat” esprimerebbe un efficace rigetto in radice dello spirito di questa legge ingiusta e di qualsiasi sua applicazione.

Per citare un esempio del compianto Mario Palmaro, chi è contrario alla pena di morte non si batte per l’abolizione della sedia elettrica accettando che il condannato muoia solo per iniezione letale, bensì si batte perché tale pena venga definitivamente cancellata in tutte le sue modalità applicative. Vogliamo iniziare a invertire la rotta? Non sottoscriviamo le Dat.






  • BIOTESTAMENTO/CAVINA

"Medici, per la vita si deve andare controcorrente"

Nuovo affondo di un vescovo a favore dell'obiezione di coscienza, assente dalla legge sul Biotestamento. E' il turno di Cavina (Carpi): "Non c’è altra via all’obiezione di coscienza". 

-GLI INTERVENTI DI: CREPALDIRUINI, BAGNASCO, NOSIGLIA E NEGRI


«A questo punto l’elemento più grave di questa legge è la mancanza di qualunque riferimento all’obiezione di coscienza». Risponde così monsignor Francesco Cavina, vescovo di Carpi, sollecitato da La Nuova BQ sulla recente approvazione della legge sulle Dat.

Monsignore, cosa pensa di questa norma approvata dal Parlamento?
«Condivido quanto dichiarato dal cardinale Angelo Bagnasco, non mi sembra proprio che possa ritenersi un segno di civiltà».

Per quale motivo?
«Per diverse ragioni, ne cito una. Questa legge finisce per ridurre idratazione e alimentazione come delle terapie e, quindi, come tali si può arrivare a sospenderle. E qui si apre l’ulteriore gravissimo vulnus di questa legge: la mancanza di ogni riferimento all’obiezione di coscienza».

Cosa può fare un medico cattolico, ma anche un non cattolico, che si trovi in una situazione che lo mette di fronte ad un problema di coscienza di questo tipo?
«Come ha detto l’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, occorre saper testimoniare andando controcorrente. Qui si tratta di dover commettere atti contro la vita che non sono mai negoziabili. Perciò non c’è altra via all’obiezione di coscienza, come ha sottolineato don Carmine Arice, superiore generale del Cottolengo».

Mancando il riferimento all’obiezione di coscienza questa legge sembra aver dimenticato uno dei capisaldi dei tanto decantati diritti umani.
«Certamente c’è una strana contraddizione. Da una parte si dice di voler difendere i diritti delle persone sofferenti, mentre dall’altra si omette un caposaldo della dichiarazione universale dei diritti umani quale è, appunto, il riferimento all’obiezione di coscienza. E’ una schizofrenia che purtroppo vediamo sempre più spesso, soprattutto su certi cosiddetti “nuovi diritti” per cui si fanno grandi battaglie civili, ma poi si riduce lo spazio della libertà di coscienza. Un cortocircuito che dovrebbe far riflettere tutti».

 





[Modificato da Caterina63 20/12/2017 09:53]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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COME SI MUORE

La sedazione, il senso del dolore e la morte cristiana

VITA E BIOETICA 20-01-2018

Dopo la morte di Marina Ripa di Meana, avvenuta senza spiegazioni precise sulla sua condizione, si è generata una confusione fra eutanasia e sedazione profonda, mentre in casa cattolica si è aperto un interessante dibattito tra doloristi e non doloristi. Posizioni entrambe sbagliate: ecco cosa dice la Chiesa sul senso del dolore e il dovere della cura cristiani. Mentre in una intervista il dottor Bulla, esperto di cure palliative, spiega quando è lecito effettuare la sedazione.


COME MUORE UN CRISTIANO: ACCETTARE DI SOFFRIRE OPPURE NO?

COS'È LA SEDAZIONE PROFONDA E QUANDO SI PUO' PRATICARE


  CONFORMARSI A GESU'  Fine vita cristiano


Semplificando ed estremizzando, i primi rifiutano sempre e comunque qualsiasi forma di sedazione perché negli ultimi istanti di vita occorre conservare lucidità e perché in tal modo ci si conforma maggiormente all’esempio di Cristo in croce, ed invece i secondi accettano sempre e comunque qualsiasi forma di sedazione perché il dolore degrada la dignità umana ed esiste il dovere morale di lenire le sofferenze. Chi ha ragione?

In questi termini nessuno. Proviamo a capirci qualcosa. Il dolore fisico ha una sua utilità, perché è un campanello di allarme che l’organismo fa suonare per segnalare che qualcosa non va. Ma il dolore intacca anche la salute psicologica. Ora l’uomo ha il dovere morale di tutelare la propria salute e quindi anche di lenire il dolore. Ma come ogni dovere affermativo è contingente, ossia non deve essere rispettato sempre e comunque. Quale è il criterio allora per decidere se si deve in quel particolare frangente soffrire oppure no? È dato dal criterio di proporzionalità, cioè di efficacia etica. In altri termini l’uomo deve compiere quell’azione che gli promette il maggior bene (posto che tale azione non costituisca un atto intrinsecamente malvagio). Infatti tutti siamo chiamati alla perfezione. 

Applichiamo quanto sin qui detto al caso del sig. Rossi, paziente moribondo che soffre molto. Su costui ad esempio gravano alcuni obblighi morali: deve occuparsi ancora di gravosi impegni di famiglia e di alcuni affari importantissimi, deve rappacificarsi con un parente con cui da anni è in conflitto, sente l’esigenza di prepararsi spiritualmente per ricevere in modo conveniente l’assoluzione nella confessione e di affrontare la morte con lucidità e, dato che per un cattolico è doveroso dal punto di vista delle fede conformare la propria vita a Cristo, grava su di lui anche il dovere di realizzare questa imitatio Christi persino in punto di morte, conservando un certo grado di vigilanza che invece alcune terapie antalgiche potrebbero intaccare. Di contro il sig. Rossi ha anche il dovere morale di curare la propria salute, tra cui c’è anche la cura del dolore. Quali tra questi doveri prevale dato che sono tutti doveri affermativi e dunque obblighi che non devono essere adempiuti sempre e comunque? Nel rispetto del principio di proporzione o di maggior efficacia etica, prevalgono i doveri che hanno un contenuto di bene maggiore. In breve nel conflitto tra doveri prevalgono i doveri più importanti perché ci rendono più perfetti. E dunque la cura del dolore che porta all’obnubilamento delle facoltà razionali deve essere posposta rispetto ad alcuni gravi doveri familiari ed economici, al dovere di carità verso gli altri, alla salvezza della propria anima, alla sequela di Cristo, tutti doveri che comportano il pieno possesso delle proprie facoltà intellettive.

Ma facciamo il caso che il dolore sia così acuto che porti il sig. Rossi al deliquio persistente, ossia alla perdita più o meno marcata della lucidità di pensiero. Ecco allora che la sedazione del dolore sarebbe necessaria, anche nel caso in cui si arrivasse alla perdita di coscienza perché, sempre rifacendoci al principio di proporzione, è meglio essere incoscienti senza soffrire che soffrendo. Oppure facciamo l’ipotesi in cui il sig. Rossi prevedesse che, all’aumentare del dolore, perderà le staffe, diventerà insopportabile, correndo addirittura il rischio di inveire contro il Signore e dunque di morire non in grazia di Dio. La dottrina cattolica suggerisce con forza di tenersi lontano dalle tentazioni, ossia dalle occasioni di compiere il male. Sarebbe quindi opportuno che il sig. Rossi chieda la sedazione, anche se ciò gli procurerà la perdita di coscienza, per evitare che possa compiere il male. In modo più analitico potremmo dire che la mancanza di fortezza nell’affrontare il dolore non solo non gli permetterà di soddisfare alcuni doveri familiari e spirituali di alto pregio, ma potrebbe spingerlo a compiere alcuni atti malvagi. Meglio sedare.

Mutatis mutandis, santa Teresina di Lisieux raccontò nel suo Storia di un’animache una volta, in monastero, presa da rabbia profonda verso una sua consorella che le aveva fatto un torto e sapendo che non sarebbe riuscita a domarsi in quella precisa circostanza, decise di farsi sbollire la stizza rifugiandosi lontano da lei sulle scale del convento. Se sai che il nemico è più forte di te, meglio non affrontarlo viso a viso. Tornando al sig. Rossi, caso analogo all’esempio appena indicato sarebbe quello in cui, non perdendo di lucidità, le cure palliative potrebbero aiutarlo a vivere più serenamente gli ultimi istanti di vita e quindi potrebbero facilitarlo nell’ essere più vicino a Cristo, seppur non nella dimensione della sofferenza fisica, ma – per ipotesi – in quella psicologica permettendogli di fare un bilancio sereno della propria vita che potrebbe portarlo alla contrizione di cuore, meditando sulle sofferenze di Cristo, della Chiesa e dei fratelli, etc. La compressione del dolore in alcuni casi agevola una condotta cristiana più che l’accettazione in toto della sofferenza.

Altro caso in cui prevale il dovere di lenire il dolore è quello in cui la sofferenza è insopportabile. Il brocardo latino, che anche Tommaso D’Aquino rammenta spesso nelle sue opere, “ad impossibilia nemo tenetur” (alle cose impossibili nessun è tenuto) si può applicare anche al dolore impossibile da tollerare: in queste ipotesi non c’è il dovere morale di soffrire proprio perché non si può comandare un’azione impossibile da compiere. Troviamo queste considerazioni condensate in modo adamantino nel documento Iura et bona della Congregazione per la dottrina della fede, le cui argomentazioni verranno poi riprese in modo quasi identico nell’Evangelium vitae al n. 65. Si inizia indicando il vertice di perfezione a cui siamo chiamati, la sequela di Cristo fin sul Golgota perché anche le nostre sofferenze, se unite alle sue, possono acquistare potere salvifico per noi e per altri: “Secondo la dottrina cristiana, però, il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti di vita, assume un significato particolare nel piano salvifico di Dio; è infatti una partecipazione alla Passione di Cristo ed è unione al sacrificio redentore, che Egli ha offerto in ossequio alla volontà del Padre. Non deve dunque meravigliare se alcuni cristiani desiderano moderare l’uso degli analgesici, per accettare volontariamente almeno una parte delle loro sofferenze e associarsi così in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo crocifisso” (III).

Segue poi la precisazione che tale dovere di soffrire non è assoluto, ma relativo: “Non sarebbe, tuttavia, prudente imporre come norma generale un determinato comportamento eroico. Al contrario, la prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggior parte degli ammalati l’uso dei medicinali che siano atti a lenire o a sopprimere il dolore, anche se ne possano derivare come effetti secondari torpore o minore lucidità”. E dunque il dovere di conformarsi a Cristo è assoluto, da rispettarsi sempre, ma per alcuni significherà bere l’amaro calice della sofferenza fino all’ultima goccia, per altri invece significherà spegnersi più serenamente. Gli Apostoli morirono tutti martiri, eccetto Giovanni.

Da ultimo si ricorda il principio di proporzione, principio cardine per comprendere quale tra i diversi doveri morali e di fede debba prevalere, vale a dire se è doveroso o meno soffrire: “Gli analgesici che producono negli ammalati la perdita della coscienza, meritano invece una particolare considerazione. È molto importante, infatti, che gli uomini non solo possano soddisfare ai loro doveri morali e alle loro obbligazioni familiari, ma anche e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all’incontro con il Cristo. Perciò Pio XII ammonisce che "non è lecito privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo" (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957)” (ib.). Dunque se su un piatto della bilancia abbiamo la perdita di coscienza e dell’altro abbiamo l’impossibilità di soddisfare ad alcuni doveri familiari e spirituale è doveroso rimanere vigili - perché tali obblighi pesano maggiormente dell’obbligo di lenire la sofferenza - eccetto per gravi motivi ossia se l’effetto negativo della perdita di coscienza è superato, ad esempio, dall’effetto positivo di evitare occasioni per compiere il male o se soffrire meno ci permette di vivere più cristianamente gli ultimi istanti di vita. 
Il principio di proporzione è poi richiamato anche nel caso in cui la sedazione non solo farà perdere coscienza al paziente ma gli abbrevierà la vita: “L’uso intensivo di analgesici non è esente da difficoltà, poiché il fenomeno dell’assuefazione di solito obbliga ad aumentare le dosi per mantenerne l’efficacia. Conviene ricordare una dichiarazione di Pio XII, la quale conserva ancora tutta la sua validità.

Ad un gruppo di medici che gli avevano posto la seguente domanda: "La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici... è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?", il Papa rispose: "Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì" (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957). In questo caso, infatti, è chiaro che la morte non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone” (Ib.).

Sotto altra ma equipollente prospettiva il dilemma “soffrire sì, soffrire no” può essere validamente risolto, caso per caso, applicando il principio del duplice effetto (lo stesso che Pio XII aveva applicato al caso appena citato): lenire il dolore è azione buona, non si cerca ma si tollera la perdita di coscienza e quindi l’impossibilità di adempiere ad alcuni doveri, tali ultimi effetti negativi non producono l’effetto positivo della diminuzione del dolore, si deve versare in stato di necessità e – aspetto che nelle ipotesi descritte è qui centrale – l’effetto positivo della mancanza di sofferenza deve prevalere sugli altri effetti negativi. È su quest’ultimo punto che occorrerà verificare, caso per caso, la reale proporzione tra effetti negativi e positivi.

In sintesi spetterà alla virtù della prudenza del paziente comprendere qual è, date alcune circostanze, il maggior bene possibile, ossia quali doveri affermativi prevarranno rispetto ad altri doveri affermativi, quali beni morali peseranno maggiormente. Il medesimo principio di compiere il bene si declinerà allora in modalità differenti perché si rispetterà il principio di proporzione/efficacia etica e quindi per alcuni prevarranno alcuni doveri a prezzo di grandi sofferenze, per altri il dovere di lenire il dolore a prezzo della perdita di coscienza. 



INTERVISTA

"Cos'è la sedazione profonda e quando si può praticare"

Claudio Bulla, medico internista esperto di cure palliative, spiega quando la sedazione profonda è etica, in quale momento normalmente viene effettuata e con quale fine, al di fuori del quale non va contemplata, come quando lo scopo è provocare la morte.

Che cos’è precisamente la sedazione profonda? 
In genere si parla di sedazione palliativa. E’un atto di cura che consiste nel diminuire o togliere la coscienza ad un malato, con il suo consenso, quando la sofferenza non può più essere controllata dalle migliori cure disponibili. Può essere temporanea o continuativa, parziale oppure completa, cioè profonda. La prima si effettua quando, ad esempio, in un momento della giornata un sintomo della malattia del paziente è molto intenso e i farmaci non riescono a controllarlo, in questo caso si domanda al malato se vuole dormire, almeno la notte o qualche ora durante il giorno. Talora al risveglio il sintomo può essere più tollerabile. Se invece il sintomo è veramente refrattario è opportuno iniziare una sedazione permanente in cui la coscienza viene tolta in maniera continuativa fino al decesso naturale. 

Quanto può durare una sedazione profonda, ossia quando i sintomi di una malattia diventano intollerabili e incontrollabili?
La letteratura parla di un intervallo che va da un giorno a 13 giorni dall’inizio della sedazione fino alla morte. Ma nella mia esperienza questo tipo di sedazione si applica quasi sempre nelle ultime ore di vita. I sintomi sono intollerabili quando il paziente non ne porta più il peso nonostante tutti i migliori tentativi terapeutici di alleviarli.

Come giudica l'utilizzo della sedazione profonda quando non è necessaria al controllo del sintomo?

Ci sono linee guida pubblicate dalla Società Italiana di Cure Palliative: dicono che è necessario informare e raccogliere il consenso del paziente. La sedazione profonda è necessaria solo quando esiste un sintomo intollerabile che non risponde nemmeno alle migliori terapie sintomatiche. Diversamente non è possibile effettuarla, anzi è eticamente sbagliato perché la coscienza è un bene indispensabile della persona, anche alla fine della vita, un momento in cui molte persone hanno paura di morire e desiderano poter mantenere un contatto con la vita che resta e con i propri cari. 

Pio XII disse che era lecito sopprimere i dolori con l'uso dei narcotici “se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali”, riferendosi “unicamente” alla volontà di “evitare al paziente dolori insopportabili”.
Il sintomo per sua definizione è soggettivo. Ci sono delle scale di valutazione che cercano di definire l’entità mediante scale numeriche, ma in buona parte è solo il paziente che ci può dire il livello di sofferenza che patisce. Il problema è comprendere la percezione che il paziente ha del dolore: un disturbo che a me pare di modesta entità può essere percepito molto intenso dal malato. È vero anche il contrario, un sintomo che a me sembra insostenibile può non esserlo per il malato. Ricordo una giovane signora che negli ultimi cinque, sei giorni prima di morire presentava un vomito incoercibile causato da un’occlusione intestinale, il sintomo era refrattario e le migliori terapie somministrate non erano in grado di controllarlo. Pensavo fosse una situazione insopportabile, ma lei mi disse che non voleva perdere la coscienza e preferiva mantenere quel grave disagio pur di poter continuare a comunicare con la figlia e con le amiche. Fu una situazione imbarazzante anche per l’équipe di cura: alcuni di noi avrebbero voluto non rispettare queste disposizioni della signora e procedere alla sedazione senza il suo consenso.


Se la coscienza è un bene fondamentale della persona, quale altro bene oggettivo da tutelare giustifica la possibilità di sacrificarla?
Un sintomo refrattario grave che genera una sofferenza intollerabile a giudizio della persona che muore. Le faccio un altro esempio: la mancanza del respiro genera un’angoscia enorme nei malati. Quando i comuni rimedi utilizzati (morfina, cortisone, ansiolitici) non bastano a togliere il sintomo e l'angoscia che esso provoca, è doveroso proporre al malato la sedazione. Il bene oggettivo da tutelare è il dovere di alleviare le pene di un sofferente. Essa ha quindi questo fine unico, che ha poi come conseguenza la perdita della coscienza senza accelerare la morte che avverrà naturalmente. Dai dati presenti in letteratura questo trattamento si applica a circa il 20 per cento delle persone che muoiono, in genere nell’imminenza della morte stessa.

La sedazione profonda può essere usata anche per accelerare la morte? Se sì come?
Se l’organismo della persona non dà segni di una morte imminente, e magari la prognosi di sopravvivenza è oltre le tre-sei settimane (esistono scale di valutazione prognostica in cure palliative), effettuare la sedazione profonda, magari sospendendo l'idratazione e l'alimentazione, è un atto moralmente illecito che accelera la morte. 

È possibile usare una sedazione profonda per accelerare la morte senza privare la persona dell'alimentazione dell'idratazione?
Ripeto, la finalità della sedazione non è quella di provocare la morte ma di curare la sofferenza. La morte può essere accelerata se viene utilizzato un dosaggio dei farmaci sedativi sproporzionato alla necessità di diminuire o abolire il sintomo. È chiaro che se il fine del medico è solo di controllare il sintomo è difficile che si ecceda volontariamente nell’aumentare il dosaggio del farmaco.

È etico usare la sedazione dopo aver tolto, come accadde nel caso di Welby, il respiratore?
E’etico sedare il paziente che in assenza di ventilazione meccanica muore in stato di gravissima sofferenza. Altra questione è l’opportunità di cessare volontariamente la ventilazione artificiale lontano dall’imminenza della morte. Tutti i miei pazienti con il ventilatore sono morti con la ventilazione in funzione, staccata dopo la morte o negli ultimi minuti di vita. Non ci sono casi in cui il ventilatore è così fastidioso da dire “stacchiamolo perché fa più male che bene al paziente”. A quanto compresi dalla stampa, quella di Welby fu una scelta non determinata dal fatto che la respirazione meccanica fosse più dannosa che utile al suo benessere fisico.

Cosa pensa della legge sulle Dat?
In un recente passato ho subito delle contestazioni perché pubblicamente avevo affermato che molte volte i medici sedano i malati senza aver ottenuto il loro consenso e per questo fui chiamato in giudizio presso l'ordine dei medici della mia provincia. Le raccomandazioni delle società scientifiche di cure palliative dicono che la sedazione va discussa con il paziente. Questa legge insiste molto sulla necessità di un consenso informato. Nonostante questo ho anche una certa impressione che nel tentativo di evitare forme di accanimento terapeutico si apra piuttosto la strada a possibili soluzioni rinunciatarie, di possibile abbandono terapeutico, richiesto dal malato e acconsentito dal medico. Niente a che vedere con la filosofia delle cure palliative che si preoccupano invece di offrire ai malati la possibilità di terminare la propria vita in modo naturale, con minor sofferenza possibile e salvaguardando il valore della relazione tra chi cura e chi viene curato. Con questa legge si voleva abolire il cosiddetto “paternalismo” medico affermando l’autodeterminazione della persona malata, ma il rischio è quello di invertire l’asimmetria tra i due soggetti. La legge apre la possibilità infatti che il malato imponga al medico cosa possa fare e cosa non possa, senza appello. Non per niente il termine originale “dichiarazioni” è stata sostituita con “disposizioni”, molto più coercitiva sul comportamento del medico. Non per niente la legge non prevede neppure l’obiezione di coscienza da parte del curante.





[Modificato da Caterina63 20/01/2018 08:47]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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04/02/2018 21:51
 
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"I medici stavano per staccare la spina ma io sentivo tutto":Angele Lieby, ospite di Eugenia Scotti nello spazio Azzurro di Nel cuore dei giorni, il 13 Luglio del 2009 viene ricoverata d'urgenza presso l'ospedale di Strasburgo per una terribile emicrania.

I medici non capiscono quale sia la causa del suo malessere ma le sue condizioni peggiorano di ora in ora. Scelgono di farla cadere in un coma farmacologico. Dopo quattro giorni non si sveglia ancora, ma Angèle è cosciente e soffre senza poter reagire. Per il personale medico, viene considerata morta.

Il 25 luglio, giorno dell'anniversario di matrimonio, succede qualcosa: la figlia di Angèle s'accorge che una lacrima le scende dagli occhi; avverte il personale medico, che le risponde che è impossibile. Poi la donna muove leggermente il mignolo. Lentamente Angele torna in vita.

www.youtube.com/watch?v=BrZBsWAGEvs






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