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I 7 Vizi Capitali: Superbia, Accidia, Lussuria, Ira, Gola, Invidia, Avarizia e le vere virtù

Ultimo Aggiornamento: 24/01/2016 19:22
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20/04/2010 19:40
 
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La lussuria come ricerca malata dell'assoluto

Don Giovanni collezionista del nulla



Pubblichiamo stralci di uno degli articoli contenuti nel numero appena uscito della rivista "La Civiltà Cattolica".

di Giovanni Cucci

Si può dire che il vizio della lussuria, a prima vista proprio della sfera biologica, presenti caratteristiche soprattutto culturali. La lussuria è infatti legata essenzialmente alla fantasia e all'immaginazione, trovando stimoli e suggestioni nei mezzi di comunicazione:  televisione, romanzi, riviste, film. Gli stessi comportamenti tradizionalmente legati a tale vizio confermano la sua indole propriamente culturale. Si pensi alla celebre descrizione letteraria del personaggio di Don Giovanni:  egli mette in atto le sue seduzioni con un criterio strettamente intellettuale e non sembra succube di passioni o sentimenti particolari. L'unica cosa che lo interessi veramente è accrescere la propria "collezione" di donne. Significativa è al riguardo una celebre declamazione del "catalogo" di Don Giovanni, compiuta dal servo Leporello.

Quello che colpisce in tale descrizione è la totale assenza di passione e di umanità:  la lussuria viene qui presentata come una specie di catena di montaggio della libidine, ciò che importa è la quantità e la velocità di produzione delle conquiste, subito dissolte nella dimenticanza. Questa predilezione per il numero mostra come alla base della lussuria non si trovi affatto l'eros, ma piuttosto un gretto calcolo, come nota acutamente Mathieu:  "Non c'è dubbio che la smania di seduzione di Don Giovanni sia più cerebrale che sensuale. Lo stesso catalogo delle conquiste lo dimostra (...). Esso fa pensare che la tentazione diabolica sia di natura intellettuale".

Il rapporto tra lussuria e immaginazione diviene ancora più evidente qualora si prendano in considerazione i disturbi da dipendenza da internet. Qui l'immagine, e soprattutto la sua rielaborazione fantastica, finiscono per assorbire completamente la mente del "navigatore", fino a spegnere del tutto, non solo il desiderio sessuale, ma ogni altro tipo di interesse e attività:  "La più immediata ed evidente conseguenza della pornodipendenza è il calo drastico della tensione sessuale, sia per gli uomini sia per le donne e per gli uomini una insorgente impotenza parziale o totale.

La pornodipendenza modifica in modo negativo tutti gli aspetti della vita di un individuo:  rapporti di lavoro, capacità di applicazione e attenzione al proprio lavoro, applicazione allo studio, rapporti di amicizia e di amore, progressiva sfiducia in se stessi (...), condizionamento a guardare i potenziali partner soltanto ed esclusivamente come oggetti pornografici". La pornografia rivela grandi paure nell'ambito affettivo, perché conduce alla fuga dalle difficoltà legate a una relazione reale e stabile e a rifugiarsi in una fantasia irreale ma rassicurante.

Nell'uomo, l'organo sessuale per eccellenza è il cervello, il suo universo culturale; in tale sede trovano la loro radice i comportamenti devastanti della lussuria, una cosa d'altronde ben nota alla tradizione filosofica:  "L'appetito che gli uomini chiamano concupiscenza, e la frustrazione che ad esso è relativa, è un piacere sensuale, ma non solo quello (...), ma un piacere o gioia della mente consistente nell'immaginazione del potere di piacere, che essi posseggono in tanta misura".

La lussuria è dunque il vizio della quantità, non del piacere, della compulsione, non dell'amore, dell'atto, non del corpo; parlare dunque di "paralisi della mente", a opera della passione, può essere forse appropriato per l'ira, ma non per la lussuria. Ci può essere certamente una passione irrefrenabile, ma questo sarà semmai proprio di una caduta occasionale, non del ripetersi continuo di un atto, fino a diventare vizio, come nella lussuria. Si potrà avvertire la passione per una persona, ma in tal caso essa avrà piuttosto i connotati dell'innamoramento e dell'interesse personale il che, di nuovo, è ben diverso dalla "collezione anonima" del lussurioso, che cerca il piacere, non una specifica persona, subito dimenticata.

Il fatto che la lussuria non cessi con l'arrivo della "pace dei sensi", senile o virtuale come nelle dipendenze da internet, mostra il carattere spirituale di questo vizio, vizio intellettuale, di fantasia e immaginazione perché malato di assoluto. Don Giovanni nelle sue peripezie cerca la bellezza assoluta, totale, perfetta, eterna, senza riuscire mai a trovarla. Egli si illude di rinchiudere ogni cosa nel numero:  il numero del catalogo delle sue conquiste rispecchia la sua visione del mondo:  il "due più due fa quattro" è anche il suo modo di vedere la vita, all'insegna del materialismo. Bosch aveva colto molto bene questo elemento spirituale, raffigurando in maniera strana questo vizio, mediante un'arpa dimenticata dagli amanti, un dettaglio apparentemente secondario, che il pittore pone tuttavia al centro della scena, come a mettere in evidenza in questo smarrimento la deriva più grave della lussuria.

Un autore commenta questo dettaglio:  "Che significa tale abbandono? Semplicemente che i protagonisti del quadro, presi come sono dal loro gioco "terreno", non hanno tempo per volgere almeno un pensiero al cielo, cioè a quell'amore divino che è la forza motrice di tutte le cose e di cui l'arpa, appunto, è lo strumento per cantarne le lodi (...). La lussuria, infatti, è il vizio che caratterizza chi, rinnegando Dio, fa del corpo umano l'idolo a cui rendere un esclusivo omaggio. In un certo senso, il suo peccato di fondo è l'uso distorto di quell'amore che, secondo Dante, muove il sole e le altre stelle".

Questa richiesta di assoluto si nota anche nella tendenza a idealizzare la sessualità e a rivolgere all'altro richieste eccessive, non accettandone la finitezza. Una sessualità promiscua e discontinua, oltre a rendere più difficile la conoscenza dell'altro, passa con facilità agli estremi, ugualmente irreali, dell'idealizzazione e della svalutazione. È una conseguenza della cultura detta del narcisismo, in cui l'essere umano vorrebbe mettersi al posto di Dio, credendosi il centro dell'universo:  "I rapporti personali sono diventati sempre più rischiosi, perché non offrono più alcuna garanzia di stabilità. Uomini e donne avanzano reciprocamente richieste esagerate e se a tali richieste non corrisponde una risposta adeguata si abbandonano a sentimenti irrazionali di odio e astio".

Nella lussuria si è smarrita la "decorazione", rappresentata dall'arpa; in altre parole l'elemento culturale, simbolico, spirituale e religioso, cioè quanto di umano si trova nella sessualità. Chi cade in questo vizio si ritrova solo con le sue fantasie, incapace di incontrare l'altro.



(©L'Osservatore Romano - 21 aprile 2010)


 

I 7 Vizi Capitali

1) Superbia

Il superbo ostenta sicurezza e cultura e sminuisce i meriti altrui. La sua posizione psicologica è però più complessa: non sempre è realmente convinto di possedere tutte le qualità che lui stesso si attribuisce. Teme delusioni e insuccessi perché rivelerebbero la triste verità che egli stesso sospetta, quella di essere in realtà un mediocre, un normodotato, di rientrare nella media e in più si ostina (con superbia appunto) a rimanere nel suo errore.

2) Accidia

Indolenza, indifferenza: l'accidioso indugia voluttuosamente nell'ozio e nell'errore. Sa quali siano i suoi impegni, ma pur di non assolverli, ne ridimensiona la portata, autoconvincendosi che si tratti di piccolezze e che rimandarle non comporti conseguenze gravi.
 

3) Lussuria

La lussuria non è la semplice dedizione ai piaceri sensuali. Lussurioso è soprattutto chi si lascia rapire e cullare continuamente dalla fantasie sensuali. La lussuria diventa un vizio quando il costante volgersi del pensiero al desiderio impedisce il normale svolgimento delle incombenze quotidiane. Per questo la Chiesa ha sempre insegnato ad impegnare la mente e i pensieri alle cose sane, per questo condanna le riviste che inducono alla lussuria, per questo insegna la virtù del senso del pudore.

4) Ira

L'ira non è l'occasionale esplosione di rabbia:  diventa un vizio in presenza di un'estrema suscettibilità che fa sì che anche la più trascurabile delle inezie sia capace di scatenare una furia selvaggia. Nell'iracondo infatti vi è l'impossibilità a dialogare, a saper ascoltare l'altro, non c'è in lui la pazienza e non è in grado di amare il prossimo.


5) Gola

Il peccato di gola non è solo o semplicemente la mera ingordigia o la smodata consumazione di cibo, ma più seriamente il lusso alimentare, la predilezione esclusiva per la cucina raffinata, la propensione a cibarsi esclusivamente di pietanze  pregiate e costose. Consegue a questo vizio l'incapacità alla pratica del digiuno e del fioretto nel privarsi del gusto quale penitenza per combattere un vizio.


6) Invidia

Per l'invidioso, la felicità altrui è fonte di personale frustrazione. Sminuisce i successi altrui e li attribuisce alla fortuna o al caso o sostiene che siano frutto di ingiustizia. La sua conseguenza conduce il l'invidioso ad uno stato di inquietudine costante, impedendogli di alimentare i propri pregi e i propri talenti, sprecandoli.

7) Avarizia

Estremo contenimento delle spese non perché lo imponga la necessità, ma per il gusto di risparmiare fine a se stesso, per il gusto del possedere. L'avaro si sente un virtuoso e si descrive con aggettivi delicati ed equilibrati: prudente, attento, oculato, parco. Da non confondere con la parsimonia che è invece utile.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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G.A.M. - Gioventù Ardente Mariana (sud)
Numero 185



Una storia per te [SM=g1740733]

Quando le croci sono troppe (Giovanni Francile)

Un uomo viaggiava, portando sulle spalle tante croci pesantissime. Era ansante, trafelato, oppresso e, passando un giorno davanti ad un crocifisso, se ne lamentò con il Signore così:
"Ah, signore, io ho imparato nel catechismo che tu ci hai creato per conoscerti, amarti e servirti... Ma invece mi sembra di essere stato creato soltanto per portare le croci! Me ne hai date tante e così pesanti che io non ho più forza per portarle...".

Il Signore però gli disse: "Vieni qui, figlio mio, posa queste croci per terra ed esaminiamole un poco... Ecco, questa è la croce più grossa e la più pesante; guarda cosa c' è scritto sopra...".
Quell'uomo guardò e lesse questa parola: sensualità.

"Lo vedi?", disse il Signore, "questa croce non te l'ho data io, ma te la sei fabbricata da solo. Hai avuto troppa smania di godere, sei andato in cerca di piaceri, di golosità, di divertimenti... E di conseguenza hai avuto malattie, povertà, rimorsi".
"Purtroppo è vero, soggiunse l'uomo, questa croce l'ho fabbricata io! È giusto che io la porti!". Sollevò da terra quella croce e se la pose di nuovo sulle spalle.

Il Signore continuò: "Guarda quest' altra croce. C'è scritto sopra: ambizione. Anche questa l'hai fabbricata tu, non te l'ho data io. Hai avuto troppo desiderio di salire in alto, di occupare i primi posti, di stare al di sopra degli altri... E di conseguenza hai avuto odio, persecuzione, calunnie, disinganni".
"È vero, è vero! Anche questa croce l'ho fabbricata io! È giusto che io la porti!". Sollevò da terra quella seconda croce e se la mise sulle spalle.

Il Signore additò altre croci, e disse: "Leggi. Su questa è scritto gelosia, su quell'altra: avarizia, su quest'altra...".
"Ho capito, ho capito Signore, è troppo giusto quello che tu dici...".

E prima che il Signore avesse finito di parlare, il povero uomo aveva raccolto da terra tutte le sue croci e se le era poste sulle spalle.
Per ultima era rimasta per terra una crocetta piccola piccola e quando l'uomo la sollevò per porsela sulle spalle, esclamò:
"Oh! Come è piccola questa! E pesa poco!". Guardò quello che c'era scritto sopra e lesse queste parole: "La croce di Gesù".
Vivamente commosso, sollevò lo sguardo verso il Signore ed esclamò: "Quanto sei buono!". Poi baciò quella croce con grande affetto.

E il Signore gli disse: «Vedi, figlio mio, questa piccola croce te l'ho data io, ma te l'ho data con amore di Padre; te l'ho data perché voglio farti acquistare merito con la pazienza; te l'ho data perché tu possa somigliare a me e starmi vicino per giungere al cielo, perché io l'ho detto: "Chi vuole venire dietro a me prenda la sua croce ogni giorno e mi segua...", ma ho detto anche: "il mio giogo è soave e il mio peso è leggerò"».

L'uomo delle croci riprese silenzioso il cammino della vita; fece ogni sforzo per correggersi dei suoi vizi e si diede con ogni premura a conoscere, amare e servire Dio.

Le croci più grosse e più pesanti caddero, una dopo l'altra dalle sue spalle e gli rimase soltanto quella di Gesù.
Questa se la tenne stretta al cuore fino all'ultimo giorno della sua vita, e quando arrivò al termine del viaggio, quella croce gli servì da chiave per aprire la porta del Paradiso.



[SM=g1740717] [SM=g1740720] Il segno della Croce

Un segno da riscoprire (parte 3.2)
(Leggi Matteo 28,8.16-20)

La croce in San Paolo

San Paolo fa della Croce il contenuto centrale della sua predicazione: "Noi predichiamo, Cristo crocifisso". (1 Cor 1,23). Come per Giovanni anche per Paolo morte e risurrezione sono strettamente connesse. Soltanto nell’evento salvifico della risurrezione, si dischiude al credente il senso della morte di Gesù (1 Cor 15, 14. 17).

Nonostante questa relazione di fondo con la risurrezione, l’evento della croce, in Paolo, è maggiormente collegato all’incarnazione d Gesù. Questa appare già, per così dire, alla luce della croce. L’inno di Fil 2,6ss lo mette in evidenza. L’essere uomo di Gesù: "umilio se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce" (v.8).

Un altro concetto fondamentale è quello dell’espiazione. Nell’offerta di sé attuata da Cristo si compie la giustizia di Dio, per il fatto che Gesù Cristo prende su di sé, ubbidiente, la colpa per i peccati degli uomini; fatto - per così dire - peccato per noi (2 Cor 5,21), la sopporta fino alla morte, annullando così il debito e il peccato dell’uomo.

Un altro concetto è quello del riscatto (1 Cor 6,20). Con la sua morte in croce, Cristo annulla la potenza di perversione della legge che si atteggia a potenza di salvezza (Gal 3,13). Sulla croce si vede con chiarezza la libertà dalla legge, che poi - in positivo - diventa la liberta di affidarsi totalmente all’amore di Gesù. Sulla croce si scorge che la libertà è libertà da se stessi per donarsi agli altri.
Nel corpo della croce vengono tutti riconciliati e offerti a Dio. Per mezzo di Cristo è costituita in tal modo la pace universale (Ef 2,11-18). La pace è realizzata mediante la croce. Questo non solo dice che la pace è a caro prezzo e neppure soltanto che la pace richiede la vittoria sul peccato. Bensì che la pace passa attraverso la gratuità e il perdono, il dono di sé e la non violenza. Tutto questo, infatti, è la croce. Vedi Col 1,20.

Conclusione

Il segno di croce è il segno della nostra fede e della nostra appartenenza a Gesù Cristo. Esso è segno di Amore, segno di Salvezza, segno di potenza.

- Di Amore perché "non c'è amore più grande che dare la vita per coloro che si amano".

- Di Salvezza perché dalla croce Gesù dimostra la sua divinità (Il centurione romano, vedendolo morire così disse: «Costui era veramente Figlio di Dio» - Mc 15,39) e da lì ci salva dalla morte eterna.

- Di Potenza perché di fronte alla croce il Demonio non può nulla se non fuggire: di fronte a Lui «ogni ginocchio si pieghi: nei cieli, sulla terra e sotto terra. E ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore».

A Gesù Crocifisso

(Mons. Angelo Comastri)

O Gesù, mi fermo pensoso ai piedi della Croce:
anch'io l'ho costruita con i miei peccati!
La tua bontà, che non si difende e si lascia crocifiggere,
è un mistero che mi supera e mi commuove profondamente.
Signore, tu sei venuto nel mondo per me, per cercarmi,
per portarmi l'abbraccio del Padre.
Tu sei il Volto della bontà e della misericordia:
per questo vuoi salvarmi!
Dentro di me ci sono le tenebre:
vieni con la tua limpida luce.
Dentro di me c'è tanto egoismo:
vieni con la tua sconfinata carità.
Dentro di me c'è rancore e malignità:
vieni con la tua mitezza e la tua umiltà.
Signore, il peccatore da salvare sono io:
il figlio prodigo che deve ritornare, sono io!
Signore, concedimi il dono delle lacrime
per ritrovare la libertà e la vita,
la pace con Te e la gioia in Te.
Amen.



Flash
Il dolore dei peccati nasce al pensiero e alla visione del Crocifisso, ma questo Crocifisso porta alla Risurrezione (don Carlo De Ambrogio fondatore del G.A.M.).



Il Signore benedica voi e le vostre famiglie
Don Gaetano


[SM=g1740722]

Fraternamente CaterinaLD

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25/04/2010 11:01
 
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XXVII - XXIX. L'arte della guerra

Chi ha letto "L'arte della guerra" di Sun Tzu sa che il miglior generale è chi vince senza combattere. Fra Umberto di Romans (1254-1263 4° Maestro Generale dell'Ordine dopo san Domenico e beatificato dalla Chiesa), adotta il medesimo principio riguardo alla castità: chi è veramente virtuoso la tentazione non ha bisogno di combatterla, perchè nemmeno l'avverte. Ora, la virtù, proprio come l'arte della guerra, è una cosa che si impara. Bisogna conoscere le proprie forze, e quelle del nemico, e la conformazione del terreno.


Proprio come Machiavelli raccomanda al Principe, così Umberto raccomanda ai suoi frati - nella migliore tradizione del "realismo morale" - di sterminare il nemico molto prima che diventi potente e pericoloso. E per fare questo, Umberto, in qualità di stratega della guerra spirituale, dà qualche prezioso consiglio. Mi chiedevo, nel post precedente, perchè Umberto non ammonisse a controllare lo sguardo. Ed ecco che la prima pedina che il frate domenicano suggerisce di muovere è propria questa: attenti a cosa guardate! attenti a dove vi casca l'occhio... e la freccia del mouse!

XXVII. Sforziamoci quindi, fratelli, di preservare nel corpo e nella mente la continenza che noi proclamiamo cingendoci i fianchi (Lc 12) ed il seno con l'aurea cintura (Ap 1). Se, invero, la tentazione della carne o del demonio ci spinge la peccato, almeno non soggioghi una mente che resiste con fortezza.

Cambia molto avere le virtù cardinali o quelle purgative o quelle eroiche, poichè le ultime sono migliori delle prime tanto quanto possiedono già dopo il trionfo la quiete della purezza sincera. Infatti, sebbene sia assolutamente lodevole resistere ai desideri carnali, ancora più lodevole è non sentire le incitazioni della tentazioni. Infatti, nonostante si vinca in battaglia, comunque si viene colpiti e feriti. E anche nel caso di un tumulto che uno seda con le armi: proprio quando si sperava di avere ottenuto la pace, ecco che il tumulto scoppia di nuovo. Mai, battagliando, si potrà essere sicuri di un nemico, se poi, dopo la vittoria, lo si lascerà padrone nei suoi territori. Davide, dopo aver smesso di combattere perchè aveva sottomesso i nemici, era più sicuro che quando era sottoposto ai pericoli della guerra (2Re 11). Nell'arca di Noè la situazione viene dichiarata tranquilla quando tutti gli animali si riposano e si sono calmati (Gn 8). E allora noi giungiamo a questa lodevole pace, quando non abbiamo più bisogno di combattere contro i vizi che ci tentano, ma, appena ci si presentano davanti all'occhi della ragione, ci schifano peggio che un serpente (Qo 21).

XXVIII. Dobbiamo evitare non solo le nefaste opere della lussuria, ma anche le circostanze che ci spingono ad esse, come occhiate incaute, toccatine, baci e abbracci, frequenti chiaccherate e risata.

XXIX. E infatti, poichè la morte entra attraverso le nostre finestre (Ger 9), è necessario che lo sguardo stesso venga controllato con molta attenzione, affinchè, mentre incautamente guardiamo cose esteriori, non perdiamo ricchezze interiori. Certamente se Davide avesse evitato certi sguardi incauti, non sarebbe caduto affatto in tanta mala tentazione (2 Re 11). E anche Dina perse la castità, poichè gironzolando per guardare le donne della regione, non pensò a custodire se stessa (Gn 34). Ci tramanda un esempio per proteggere il nostro sguardo il Salvatore nostro, che, quando venne deriso, non rifiutò che i propri occhi fossero velati (Mc 14). Di conseguenza, caviamoci gli occhi che ci scandalizzano, secondo il consiglio del Signore, così che ci sforziamo di distogliere con naturalezza lo sguardo, per non assorbire vanità.


XXX. Inoltre dobbiamo guardarci dal contatto non solo con donne lascive, ma anche con quelle virtuose: infatti, per quanto la terra sia buona, e lo sia anche la pioggia, mischiate l'una all'altra danno il fango. In questo modo, anche presupposto che la mano dell'uomo e quella della donna siano buone, tuttavia dal loro contatto talvolta nascono pensieri o sentimenti fangosi. Se uno tocca la pece, si sporcherà senz'altro la mano (Qo 13). E quale sciocco crede di poter mettere la mano nel fuoco e non bruciare (Pro 6)? Per questo un tal santo, trasportando per un fiume la propria madre, avvolgeva la mano in una coperta per non toccarla (Vite dei Padri del deserto).

XXXI. Se, quindi, secondo il detto dell'Apostolo (1Cor 7), è bene non toccare una donna, tanto più lo è non baciarla.

La concupiscenza, tuttavia, inganna ed acceca alcuni al punto che sostengono che baciare è cosa lecita, visto che, a quanto pare, quello stesso apostolo aveva permesso il bacio (1 Cor 16). Che brutta fine fa il giudizio della ragione, quando la smania di fare qualcosa lo incomincia a dominare! Una mente ossessionata, infatti, si plasma la coscienza a piacimento mentre realizza le proprie brame. Compiuto il fatto, questa stessa coscienza punge con amari rimorsi la mente, che, deviando verso il male, ha lasciato la strada della verità. Coloro che si preparano alle nozze eterne non desiderino abbracci mortali! Chi desidera l'abbraccio dello sposo del cielo è meglio che sia provvisto delle lampade della purezza e l'olio della gioia (Mt 25).


XXXII. I rimedi contro la lussuria sono di sicuro: schivare le familiarità sospette, non confidare troppo in se stessi, fuggire le occasioni di tentazione, turare i propri sensi, limitare i pensieri cattivi, domare la carne, resistere alle passioni nascenti, tenersi sempre occupati in attività virtuose. Infatti, l'antico nemico dà da fare con le sue male faccende a chi non ha nulla di meglio da fare.

Anche se dobbiamo combattere contro gli altri vizi, sappiate, però, che il vizio dell'incontinenza lo dobbiamo fuggire in modo speciale. Non per nulla, così come il malato non raffredda la febbre bevendo acqua gelida, ma la rinfocola, così ricercare i rimedi per la concupiscenza quando si è già in mezzo alla tentazione, non sazia nè estingue la passione.

XXXIII. Il cuore va custodito con ogni custodia (Prv 4), giacchè è chiaro che viene combattuto in molti modi. Nel resistere è anche necessario che siamo più guardinghi proprio lì dove sperimentiamo che gli attacchi del nemico sono più forti. Infatti il diavolo pone le trappole delle tentazioni più spesso lì dove ci percepisce più incauti; e si sforza maggiormente di vincerci lì dove sa che siamo più deboli.

La pace e la concordia sono sempre lodevoli tranne quando si combatte contro i vizi. A ciò si fa opportunamente cenno quando si ricorda che la torre di Davide fu munita di bastioni e che fu decorata con mille scudi e con tutte le armi dei forti (Ct 4). E ancora, i Gebusei vennero lasciati vivere tra gli Israeliti perchè questi si esercitassero nella guerra (Gdc 1) e i Maccabei ebbero il permesso ci combattere di sabato (1Mc 2), in modo che sia chiaro quanto Dio gradisca la lotta contro il vizio. Riflettete bene su quel frate che un vecchio vide attaccato attraverso immagini di varie forme che gli si formavano davanti agli occhi e che, poichè per negligenza non le respinse, macchiarono la bellezza del suo cuore di fronte al Dio che tutto scruta (Vite dei Padri). Al contrario ece bene quel frate che, tentato, per dimenticarsi meglio tali cose, si plasmò una donna di fango (ibidem).

In riferimento alla custodia del nostro cuore, un cherubino dalla spada fiammeggiante è posto davanti alla porta del paradiso (Gn 3). Sforziamoci quindi di calpestare la testa del serpente, cioè di resistere ai primi cenni di tentazione per sconfiggere il nemico quando è debole; per distruggere la depravazione quando è ancora in seme; e per sbattere contro quella pietra che è Cristo i nostri bambini (Sal 136): e se il nostro nemico ci visita spesso con le tentazioni, la sua frequenza non ci venga a noia, per non essere come pietre scavate dalle gocce non con la violenza, ma con la costanza, come nel detto: "la goccia scava la pietra non con la forza, ma cadendo spesso". Ciò traspare dalla storia di quel padre del deserto che, come un atleta di Cristo resistette alla tentazione per quarant'anni, ma che poi cadde vinto nel tempo di una notte (Vite dei padri).

[Modificato da Caterina63 14/05/2010 23:37]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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L'arte e la malattia dell'anima

Il vizio specchio deformato della virtù


Anticipiamo ampi stralci di una delle relazioni del convegno "Malattia versus Religione tra antico e moderno" in corso a Roma, terzo incontro delle Giornate genovesi di cultura cristiana.

di Timothy Verdon

Se si vuole riflettere attraverso l'arte sulla religione versus la malattia, e su quella guarigione già promessa dal Dio d'Israele (cfr. Esodo, 15, 26), un'immagine soprattutto merita attenzione:  il grande riquadro musivo del Battistero di San Giovanni a Firenze, in cui due angeli comandano a neri demoni alati di uscire dagli uomini in cui questi hanno preso dimora.

Gli uomini, alzando le mani in un gesto di supplica, guardano verso i loro soccorritori con un misto di disperazione e speranza che i medici e i sacerdoti conoscono bene, e sotto il potere benefico dell'esorcismo angelico vengono liberati dal loro male. Come suggerisce uno scritto nell'alto del riquadro, gli angeli appartengono alla gerarchia delle virtutes ("virtù") e così è chiaro che i "demoni" esorcizzati sono in verità dei vizi.

Questa scena è parte del grandioso programma di mosaici eseguito tra il terzo e il nono decennio del Duecento per l'intradosso della cupola di San Giovanni:  una di sette simili raffigurazioni delle gerarchie angeliche minori - gli Angeli, gli Arcangeli, i Troni, le Virtù, le Potestà, le Dominazioni, i Principati - nonché due diverse figure che rappresentano i cori angelici più eccelsi, i cherubini e serafini. A loro volta, queste figure sovrastano decine di scene evocanti il Giudizio Universale e la Historia Salutis biblica, nonché immagini dei patriarchi, dei profeti, degli evangelisti, dei padri e dottori della Chiesa. Menziono la complessità del programma per sottolineare un punto importante:  l'intero discorso che intendo sviluppare - i vizi nella teologia e nell'iconografia - appartiene al gusto tardo-antico e medievale di organizzare le cose in grandi sistemi morali e spirituali.

Nella tradizione cristiana, il concetto del vitium ("vizio") infatti è strettamente correlato a quello delle virtù, di cui costituisce la negazione. A partire da san Gregorio Magno, i vizi "capitali" (da cui scaturiscono altri vizi) sono poi sette - superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia - in corrispondenza appunto alle tre virtù teologali e le quattro cardinali:  fede, carità, speranza, giustizia, temperanza, prudenza e fortitudo.

La logica strutturale di questo sistema era ben conosciuto nel Medioevo, come suggerisce il racconto di una sacra rappresentazione inscenata a Firenze nel 1304. Era uno spettacolo sull'acqua:  al giorno prestabilito, il popolo prese posto da entrambe le parti del fiume, e sull'Arno vide barche e navicelle, con sopra dei palchi sui quali gli scenografi avevano fatto "la somiglianza e figura dello 'nferno, con fuochi e altre pene e martori", come dice un cronista contemporaneo, Giovanni Villani. C'erano "uomini contraffatti a demonia orribili a vedere, e altri, i quali aveano figure d'anime ignude, che pareano persone; et mettevangli in quelli diversi tormenti con grandissima grida e strida e tempesta, la quale parea odiosa cosa e spaventevole a udire e a vedere".

Della trama di questo spettacolo parla nel secondo Trecento un altro scrittore, Antonio Pucci, secondo cui:  "Sette tormenti v'eran per regione, / punendo i sette peccati mortali, / e sovra ognun scritto in un sermone:  / in questo luogo son puniti i tali". Ma queste figure di esponenti dei sette vizi capitali non erano vere persone:  il Pucci continua, con evidente partecipazione:  "Or udirai bel giuoco / e come que' che 'l feciono eran savi (...) / L'anime ch'eran poste a tal tormento / eran camicie di paglia ripiene / e vesciche di bue piene di vento, / per modo acconcie che parevan bene, / guardando dalla lunge, le persone / che fosser poste a così fatte pene".

Lo spettacolo sull'Arno focalizzava sui singoli colpevoli dei peccati capitali e le loro punizioni, ma nel Medioevo si riteneva che sia virtù che vizi abbiano chiare ripercussioni anche sulla vita collettiva. A Siena, negli affreschi eseguiti da Ambrogio Lorenzetti negli anni 1338-1340 in Palazzo Pubblico, le virtù orchestrano la vita della città tutt'intera.
 
Nella celebre Sala della Pace dove su una delle pareti contempliamo i frutti del "buon governo cittadino", mentre sulla parete di fronte vediamo gli effetti del cattivo governo:  case diroccate, botteghe abbandonate e chiuse, una fanciulla molestata:  la chiave di lettura è l'immagine allegorica sulla parete frammezzo, in cui troneggiano le virtù richieste per bene governare. Sette personaggi, sei dei quali donne con i loro nomi scritti sopra:  Pax, Fortitudo, Prudentia, Magnanimitas, Temperantia, Justitia.
 
In mezzo vi è un dignitosissimo vegliardo con lo scettro nella mano destra, che rappresenta il Comune di Siena, e sopra la sua testa vediamo tradizionali figure delle virtù teologali, Fides, Caritas, Spes. Ma sulla parete a sinistra di quest'allegoria - quella dove è raffigurato il cattivo governo - sul trono siede Satana, e sopra di lui vediamo i tre vizi del potere:  la Superbia (al centro:  col giogo), l'Avarizia (a sinistra:  la con pressa), e la Vanagloria (a destra:  con abiti sfarzosi e uno specchio). In questa stessa vena, più di un secolo più tardi - alla metà del Quattrocento - un altro senese, Sassetta, raffigurerà san Francesco d'Assisi in estasi con, sopra, le virtù di cui il Poverello si era adornato, e, sotto i suoi piedi, i relativi vizi. Leggendo da sinistra a destra, in alto vediamo la Castità, l'Obbedienza e la Povertà, mentre in basso sono la Lussuria, l'Iracondia e l'Avarizia.

L'umanesimo classicheggiante offrirà nuovi paradigmi d'analisi morale, d'indole più filosofica che teologica. L'affascinante busto di giovane del Donatello al Museo nazionale del Bargello, noto come il Giovane platonico, è un caso tipico:  sul petto del ragazzo vediamo una medaglia con un carro tirato da due cavalli, di cui uno ben addestrato, l'altro selvaggio e incontrollabile. È chiara l'allusione alla figura poetica usata da Platone nel Fedro, dove le passioni sia positive sia negative vengono caratterizzate appunto come cavalli, di cui uno nobile e obbediente al conducente, l'altro ribelle. Il conducente è l'anima, chiamata a tener in equilibrio queste energie psicofisiche.

L'antico sistema speculare di virtù e vizi capitali verrà ripristinato dalla Riforma cattolica nel secondo Cinquecento. Negli affreschi dell'intradosso della cupola del Duomo fiorentino, eseguiti tra il 1572-79 da Giorgio Vasari e Federico Zuccari, troviamo un'edizione moderna del programma medievale del battistero fiorentino:  non narrativa, come i mosaici duecenteschi, ma squisitamente teologale. Un sistema di idee dottrinali senza alcun riferimento, seppur remoto, alla narrativa:  un sistema concettuale complesso che trascende la storia.

In ognuno degli otto spicchi della cupola, troviamo:  un coro angelico, un mistero della Passione, una categoria precisa di santi, una beatitudine evangelica, una virtù, un dono dello Spirito Santo. In basso un vizio corrispondente alla virtù di quel settore. Così ad esempio le virtù (armate e con uno scudo crociato) sono il coro angelico corrispondente ai santi martiri, la cui beatitudine riguarda i perseguitati per il nome di Cristo, il cui dono dello Spirito è la forza e la cui virtù è la pazienza. Il vizio contrario a questa pazienza è l'Ira, figurata come un orso feroce.
 
O ancora:  il coro angelico dei principati protegge i principi terreni dalla vita santa (tra cui Carlomagno, il re san Luigi di Francia e Cosimo i de' Medici, committente degli affreschi); il dono dello Spirito relativo è il Consiglio, la beatitudine la Misericordia, la virtù la Giustizia. Il vizio tipico dei principi è l'Avarizia, raffigurata come un rospo furioso che sbatte in testa ai dannati del suo settore un pesante sacco di denari.

Quest'enciclopedico programma iconografico è la parte culminante di un programma ancora più comprensivo, che si sviluppava novanta metri sotto le pitture della cupola, nel presbiterio della cattedrale, arricchita di sculture nei decenni precedenti l'avvio degli affreschi:  sculture rimosse tra il Settecento e l'Ottocento. Sull'altare maggiore c'era un enorme gruppo statuario di Baccio Bandinelli raffigurante il Cristo morto per i peccati degli uomini ai piedi di Dio Padre benedicente, e dietro l'altare c'era un gruppo dello stesso raffigurante il peccato di Adamo ed Eva, origine del peccato nel mondo e della necessità umana di un redentore che si sacrificasse. Il programma degli affreschi completava questo programma di sculture, e così sopra Adamo ed Eva peccatori, in terra, in cielo li ritroviamo salvati, "giustificati nel profondo" secondo la dottrina del coevo concilio di Trento; e sopra il Cristo morto sull'altare vediamo, nel cielo della cupola, lo stesso ma risorto in cielo, circondato da raggi di luce.

Quella gloria di luce che concentra l'attenzione su Cristo è importante anche sul piano dottrinale. Il decreto tridentino sulla giustificazione introduce la visione cattolica di un'effettiva santificazione dell'uomo identificando Cristo come il sol iustitiae ("il sole di giustizia"), immagine letteraria derivata dal profeta Malachia. Il passo biblico completo, dal quale il riferimento è tratto, è chiaramente inteso:  parlando dei salvati, Dio dice, "avrò compassione di loro come il padre ha compassione del figlio che lo serve. Voi allora vi convertirete e vedrete la differenza fra il giusto e l'empio, fra chi serve Dio e chi non lo serve. Ecco infatti sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia; quel giorno, venendo, li incendierà - dice il Signore degli eserciti - in modo da non lasciare loro né radice né germoglio. Per voi invece, cultori del mio nome, sorgerà il sole di giustizia con guarigione nei suoi raggi".

Il programma cinquecentesco della cupola del Duomo fiorentino pone al centro la sanitas, la "guarigione" della natura umana, che abbiamo visto in un particolare dell'iconografia duecentesca dei mosaici del battistero:  nello spirito del coevo concilio pone al centro "la giustizia di Dio, non quella per la quale Egli è giusto in se stesso", come precisa il decreto tridentino, "ma quella giustizia per la quale Dio ci rende giusti - cioè per la quale ci dà grazia per rinnovarci nell'intimo dell'anima nostra. Per quella giustizia non solo siamo chiamati giusti, ma lo siamo realmente, ricevendo la giustizia in noi, ognuno secondo la sua propria misura".


(©L'Osservatore Romano - 28 maggio 2010)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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03/06/2010 16:54
 
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Il volto sociale dell'invidia

Il lato oscuro
del desiderio di giustizia


di Oddone Camerana

In genere l'invidia veniva studiata e indicata come uno dei cosiddetti peccati o vizi capitali. In quanto tale rientrava nell'ambito di ciò che riguardava la sfera della coscienza personale. Vizio vergognoso, silenzioso, invisibile e segreto, veniva segnalato per la sua dipendenza dal prossimo da invidiare, ancorché, a differenza degli altri peccati capitali, si parlasse della "solitudine dell'invidioso". Più gretta che malinconica, l'invidia trovava le sue magre soddisfazioni facendo uso del malocchio e della maldicenza, e forse continua a farlo.
 
Meno studiata è stata l'invidia nella sua prospettiva sociale della vita organizzata e collettiva, l'invidia passiva di cui si può essere vittime, che invece è il punto di osservazione di Helmut Schoeck (1922-1993), sociologo e docente austriaco. Uscito nel 1966 e pubblicato in Italia nel 1974, L'invidia e la società è stato ristampato nel dicembre del 2009 (Macerata, Liberilibri, 402 pagine, euro 17). Un testo ricco ed esteso che organizza le riflessioni compiute dall'autore sull'invidia protagonista centrale di un patrimonio immenso di culture - si parla di tremila, comprese quelle estinte - e lungo un arco di tempo che va dai primitivi ai nostri giorni.

Una posizione centrale è quella occupata dal mondo greco dove l'invidia è espressione degli dei, una divinità senza volto che presiede a un sistema inesorabile di controllo sociale affidato a tre entità legate tra di loro:  mòira, a tutela della porzione di destino assegnata a ciascuno; ùbris che indica il limite oltre il quale interviene nèmesis o phthònos, la punizione alla quale nessuno sfugge. Raffinata e crudele elaborazione del mito alla quale, nella Grecia successiva, classica e avviata alla democrazia, subentra l'ostracismo, misura accusatoria, quest'ultima, che scatta nei riguardi dei rappresentanti della cosa pubblica, allontanati quando il potere da essi raggiunto era ritenuto eccessivo (leggi, da suscitare invidia). Dal che si vede come nel mondo antico l'aspetto dell'invidia pubblica esercitasse un richiamo molto più forte dell'invidia privata.

Ma la piena libertà dalla concezione magica e arcaica del mondo, come quella sopra descritta - perdurante, per altro, nei secoli successivi nonostante il pensiero cristiano - sarà un dono di Kant, autore di una definizione laica dell'invidia.

Dono che, raccolto e parafrasato dalla Rivoluzione francese, non esiterà tuttavia a cercare di fare in modo che l'appagamento dell'invidia diventasse poi il principio della legislazione universale.
A quel punto, il riconoscimento dato all'invidia di essere protagonista della vita sociale e di non appartenere che al genere umano, imponeva alcune domande:  che fare di essa? Cercare di estirparla? E come?

Domande giuste. Senonché, sfuggite di mano da quelli che le avevano poste in buona fede e carpite da coloro che avevano colto la portata del valore patrimoniale dell'invidia se sfruttata a fini di potere, esse contribuirono ad aprire il grande capitolo della demagogia egualitaria. Capitolo che Schoeck definisce "la resa agli invidiosi". È questo un momento cruciale della storia dell'invidia. In merito al quale Schoeck esprime tutta la sua severità. A suo parere, infatti, a partire dal tardo Settecento, per tacitare il risentimento crescente a causa delle ingiustizie sociali, alcune filosofie occidentali decisero di affidare a degli imbonitori la determinazione delle norme in grado di regolare la convivenza:  i cosiddetti imbonitori dell'eguaglianza, responsabili di un progetto nel quale vennero coinvolte anche persone di animo nobile, fiduciose nel messaggio della bontà dell'uomo, ma altrettanto incapaci di sopportare lo scontento altrui e perciò a caccia di alibi consolatori.

La mancanza di una prospettiva grazie alla quale, per essere dominata, l'invidia andava arginata invece che sfruttata e manipolata col miraggio dell'eguaglianza, com'era successo col marxismo e il socialismo integralista, è la carenza sulla quale la riflessione di Schoeck torna più volte.

Cadute da tempo le vecchie tutele tramandate dalle culture tribali, come il tabù dell'incesto, l'ostracismo greco, e poi le tecniche di non dare nell'occhio per non suscitare il malocchio, di rinunciare a eccellere, smessi i conformismi vari, fino all'understatement e alla scelta di agire da gentiluomini, la necessità di convivere con l'invidia richiedeva che si decidesse di accettarne l'ineluttabilità. Ineluttabilità che non poteva essere fronteggiata col simulacro dell'eguaglianza.

Tanto più che, come insegnava l'esperienza tratta dalla realtà delle famiglie numerose, delle comunità, dei collegi, dei conventi, delle carceri, delle aziende, era proprio tra gli uguali e dove le differenze sono minime che si registrava il grado maggiore di crescita dell'invidia e della discordia.
In altre parole, se essere uomini significa essere invidiosi, essere uomini sociali vuol dire saper dominare l'invidia considerandola una risorsa, così come il farmacista e il chimico considerano una risorsa il tossico e il veleno quando li usano per la cura di una malattia. È una questione di dosaggio. In questo senso l'invidioso ha di buono di essere una persona portata a vigilare, a controllare, a osservare, e, se guidato dalle leggi e dall'organizzazione, a segnalare e a denunciare il male.

L'uomo dell'antitrust che avverte la presenza di casi in cui la concentrazione di potere commerciale, industriale, bancario o finanziario può mettere in pericolo il commercio, l'industria e la finanza stessa non è tanto lontano da chi nell'antica Atene invocava l'ostracismo.

Il fatto è che la possibilità di mettere un fenomeno come quello dell'invidia nella giusta prospettiva deriva dall'avere o meno una visione dei rapporti umani. I grandi romanzieri, ha detto René Girard, sono quelli che ne hanno una molto chiara. Da Cervantes, Stendhal, Dostoevskij, Proust e poi dall'antropologia evangelica, Girard ha tratto la conclusione che detti rapporti si muovono essenzialmente lungo la direttrice dei desideri imitati, desideri che quando entrano in conflitto generano la discordia. Ed è su questo punto nodale delle relazioni umane che il pensiero di Girard e quello di Scoeck s'incontrano. Non è un caso che almeno nella lingua francese il termine envie serve a indicare sia il desiderio che l'invidia.

Stando così le cose, il problema del governo dell'invidia diventa un problema molto pratico. Come arginarla dal momento che è costitutiva? La risposta è:  trattando e scendendo a patti con essa. Dice un adagio nordamericano usato nel mondo del business dove i rapporti con gli avversari sono la norma:  If you can't beat them, join them ("se non puoi vincerli, vai loro incontro"). Alla stessa conclusione arrivano sia Schoeck che Girard. Considerata l'ineluttabilità della rivalità imitativa e dell'invidia, essi dicono, è inutile contrastarle. Meglio è o aggirarle con le leggi e la ragione, come suggerisce Schoeck, o scegliere un altro modello da copiare, come dicono Girard e la tradizione dell'imitazione di Cristo, indicando l'uomo che l'invidia non la conosceva.

Ciò detto, "il sospetto che la nobile aspirazione umana all'eguaglianza abbia le sue radici nell'ignobile sentimento dell'invidia" non dovrebbe più sorgere o scandalizzare il lettore. La soluzione del problema dell'invidia non è, infatti, nell'eguaglianza, bensì nel dominio dell'invidia stessa trasformata in apposite istituzioni.


(©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2010)
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La crisi dell'educazione

Quando i vizi
tornano di moda


Dal numero di giugno del "Messaggero di sant'Antonio" riprendiamo, nel giorno della memoria liturgica del grande dottore della Chiesa, la rubrica "Altre storie".
 

di Lucetta Scaraffia


Nessuno però sembra ricordare che l'educazione tradizionale era intesa in modo più ampio, in quanto consisteva anche nell'esercizio delle virtù, che venivano insegnate e alle quali i giovani dovevano allenare il loro animo.
La pazienza,
la prudenza,
l'obbedienza,
l'umiltà,
la generosità e
la carità,
la solidarietà,
il coraggio
:  erano tutti comportamenti che si imparavano all'interno di un modello educativo centrato sull'insegnamento delle virtù - che si otteneva esercitandosi a praticarle nella vita quotidiana - e sulla fuga dalla loro faccia opposta, i vizi.

Ma come si può, oggi, insegnare ai ragazzi a fuggire dai vizi dal momento che nella nostra cultura la loro condanna è scomparsa? Basta fare attenzione, ed eccoli tornare, rivestiti per di più di vesti sontuose, e accettati da tutti come comportamenti lodevoli, da praticare.

Come si fa a condannare la gola quando siamo sommersi da ricette, recensioni di ristoranti, inviti a riscoprire il gusto del cibo e la degustazione di vini, il tutto spesso camuffato da ritorno al genuino, o da occasione conviviale in cui godere dell'incontro con gli altri? La cultura che ci circonda ci vorrebbe far saltare da un ristorantino all'altro, comprare cibi squisiti, assaporare vini pregiati ogni sera:  mangiare e bere sono diventati un fiorente settore di affari, e tutto quello che fa guadagnare è visto come positivo.

La gola quindi va bene, perché è funzionale al mercato. E così succede anche per la lussuria, che oggi è diventata legittima ricerca del piacere al di là di legami affettivi e men che meno famigliari:  intorno gravitano l'industria cinematografica, molti programmi televisivi, i rotocalchi, il mondo del porno, per non parlare del turismo sessuale e dell'industria farmaceutica per i contraccettivi. Un bel business, senz'altro, che è difficile toccare, tanto che oggi la ricerca del piacere sembra addirittura essere stata inserita fra i Diritti umani, almeno per quanto riguarda l'Organizzazione mondiale della sanità.

E l'ira? Anche questo sentimento negativo oggi deve essere espresso, manifestato senza pudore per evitare che, compresso, dia origine a malattie psichiche o fisiche. L'egoismo poi è diventato accettabile amore di sé, narcisismo che favorisce i consumi e l'investimento in miglioramenti estetici; l'avarizia diventa bisogno di sicurezza; l'invidia - quando non è rimossa - viene scambiata per sana competizione. Ovviamente ci riferiamo ad atteggiamenti esagerati, reiterati, eccessivi:  un buon pranzetto ogni tanto, la giusta cura di sé, un sano spirito di emulazione sono tutt'altro che condannabili.

Ma davvero parlare di vizi e virtù è ridicolo e inutile, oltre a essere fuori moda? In fondo, queste liste di atteggiamenti umani contengono un suggerimento che, nella vita, può essere utile, può segnare la via in momenti complessi. Inoltre, la teoria delle virtù ha il grosso merito di rappresentare l'essere umano come una possibilità da realizzare e da disciplinare, non un individuo già compiuto in sé, che non può migliorare.

Offre quindi una visione dinamica, indubbiamente necessaria a chiunque voglia intraprendere un'operazione educativa:  solo se immaginiamo gli esseri umani come capaci di continuo miglioramento, possiamo infatti rivolgerci a loro con la speranza di trasmettere qualcosa di buono.


(©L'Osservatore Romano - 13 giugno 2010)
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03/07/2010 00:53
 
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Un accumulo tranquillizzante e illusorio

L'inganno dell'avarizia


Pubblichiamo in anteprima ampi stralci di uno degli articoli del numero in uscita della rivista "La Civiltà Cattolica".

di Giovanni Cucci


La riflessione di tutti i tempi ha riconosciuto il fascino che il denaro esercita su chi lo possiede e ancora di più su chi non lo possiede, dando origine al vizio noto come avarizia. Aristotele raccomanda di essere liberali circa i beni materiali, cioè di vivere il giusto mezzo, badando a che essi rimangano strumenti che consentono di vivere, mentre attaccarsi a essi è segno di ingiustizia:  "Poiché l'uomo ingiusto è un uomo che desidera avere di più, egli avrà a che fare con i beni:  non con tutti, ma con quelli cui sono relativi la buona sorte e la cattiva, i quali sono sempre beni in senso assoluto, ma non sempre per qualcuno. Gli uomini li chiedono nelle loro preghiere e li perseguono; ma si deve pregare che quelli che sono beni in senso assoluto lo siano anche per noi, e scegliere quelli che sono beni per noi".

Il pericolo dell'attaccamento alle cose è un tema molto presente nella Bibbia:  "Non affannarti per accumulare ricchezze, sii intelligente e rinuncia. Su di esse volano i tuoi occhi ma già non ci sono più:  perché mettono ali come aquila e volano verso il cielo" (Proverbi, 23, 4-5); "Non confidare nelle tue ricchezze e non dire "Basto a me stesso"" (Siracide, 5, 1); "L'insonnia del ricco consuma il corpo, i suoi affanni gli tolgono il sonno" (Siracide, 31, 1).

Per san Tommaso si tratta di una deriva presente anche negli altri vizi capitali, perché mostra l'elemento comune dell' "appetito disordinato", proteso verso ogni possibile bene, senza che sia presente una reale necessità. La ragione "formale" che fa dell'avarizia un vizio non è tanto mostrare un interesse speciale per il denaro e le cose in genere, ma che esse assumano un valore simbolico spropositato, divenendo sinonimo di stima, pace, sicurezza, potere.

Non si può certamente sostenere che l'avarizia sia un vizio attualmente biasimato, anzi una società che cerca di trasformare ogni tipo di avvenimento in valutazione monetaria - tale è in sostanza l'andamento della Borsa - difficilmente potrebbe stigmatizzare l'avarizia. Oscar Wilde lo aveva riconosciuto più di un secolo fa con il solito tagliente humour:  "Al giorno d'oggi i giovani credono che il denaro sia tutto. È solo quando diventano più vecchi che sanno che è così".

Questo generale consenso nei confronti di "sua maestà il denaro" si nota anche dallo spazio che i media dedicano a coloro che vengono impropriamente chiamati vip, posti al vertice di imprese, banche, istituti:  essi sembrano diventati i nuovi sacerdoti del tempio in cui si celebra il culto dell'uomo moderno. Quando queste persone vengono intervistate o descritte in qualche articolo, raramente è mostrata l'altra faccia della medaglia, cioè il prezzo pagato per tutto questo, non solo in termini di compromessi, ma soprattutto circa le persone, spesso i più deboli, che hanno fatto le spese di questa vittoriosa ascesa, trovandosi economicamente rovinati.

Anche lo sviluppo storico della società europea ha indubbiamente contribuito al formarsi di questa mentalità, nient'affatto ovvia e scontata:  si ricordi, ad esempio, la sorpresa degli esploratori dei secoli scorsi nel notare l'assenza di avidità presso molti popoli, ingiustamente definiti "primitivi". Tale confronto tuttavia non ha minimamente messo in discussione le convinzioni dell'uomo europeo in proposito:  se, a partire da Cartesio, ha cominciato a dubitare di tutto, il denaro non ha mai conosciuto questa rivisitazione critica propria della modernità, non è mai stato attraversato da perplessità di alcun genere. Riprendendo Cartesio, la moneta potrebbe anzi essere qualificata come una delle poche "idee chiare e distinte" che si impongono con la loro evidenza.

Come nota con acume Péguy: 
"Per la prima volta nella storia del mondo il denaro è solo davanti a Dio.
Ha raccolto in sé tutto quanto c'era di velenoso nel temporale e adesso è fatta. Per non si sa quale aberrazione di meccanismo, per uno svisamento, per un disordine, per un mostruoso impazzimento della meccanica, quello che doveva servire soltanto allo scambio ha completamente invaso il valore da scambiare. Non bisogna, dunque, dire solamente che nel mondo moderno la scala dei valori è stata capovolta. Bisogna dire che è stata annientata dacché l'apparato di misura, di scambio e di valutazione ha invaso tutto il valore che esso doveva servire a misurare, scambiare, valutare. Lo strumento è diventato la materia, l'oggetto e il modo".

Questa mentalità, che di fatto ammira chi si arricchisce a qualunque costo anche se in apparenza lo condanna - ma forse alla base di ciò si trova un altro vizio, l'invidia - può trovare una conferma nelle difficoltà giuridiche di valutare la gravità di tali azioni.
Si nota infatti una certa macchinosa fatica a riconoscere e, di conseguenza, a punire in modo appropriato chi si impossessa del denaro altrui in modo sofisticato, calpestando con la massima tranquillità la fiducia di ignari clienti e risparmiatori pur di ricavarne vantaggi, con conseguenze disastrosesu scala planetaria, come si può notare dall'attuale  crisi economica.

Anche se con il termine "avarizia" si intende propriamente l'attaccamento alle cose in genere, di fatto essa è stata considerata dalla riflessione letteraria e filosofica per lo più nella sua accezione specifica di philargyrìa, "amore per l'argento", riconoscendo nel denaro l'elemento rappresentativo di tutto quello che può essere utile e servire in ogni circostanza.
Chi ha riflettuto su questo vizio nota che non è il bisogno a muovere l'avaro ma il potere; egli spera che con l'accumulo potrà disporre come vuole della propria vita, scacciando l'ansia dell'insicurezza e della dipendenza dagli altri, mettendosi al riparo dai capricci della fortuna, dalle possibili calamità stagionali e, in ultima analisi, anche da Dio.

E con il tempo tale vizio acceca e rende capaci delle cose più orribili pur di aumentare la propria ricchezza. L'avarizia risulta perciò estremamente difficile da estirpare, perché penetra con soavità nel profondo del cuore umano, generando altre cattive disposizioni. È questa sua dinamica ramificata a renderla un vizio capitale.

Questa è una delle ragioni per cui, secondo san Tommaso, l'avarizia è un male molto difficile da guarire, "a causa della condizione del soggetto, poiché la vita umana è continuamente esposta alla mancanza, ma ogni mancanza spinge all'avarizia:  per questo, infatti, si ricercano i beni temporali, affinché sia portato rimedio alla mancanza della vita presente".

Bosch raffigura l'avarizia nelle vesti di un giudice corrotto che sembra ascoltare un contadino che gli chiede giustizia, ma tutta l'attenzione è concentrata nella sua mano sinistra che si appresta a ricevere una pesante borsa di monete per emettere una sentenza addomesticata.

Le considerazioni fin qui svolte mostrano come l'avarizia non consista essenzialmente nel fatto di possedere molti beni e nemmeno di per sé è sinonimo di ricchezza; è piuttosto la brama e l'avidità di possesso che indurisce il cuore e conduce alla presunzione di autosufficienza. Questa è la ragione per cui è stata strettamente associata alla superbia, all'invidia - perché vorrebbe possedere i beni degli altri - all'ira, qualora si perdano gli agognati beni o non risulti possibile conseguirli. Si tratta dunque di un vizio essenzialmente affettivo e spirituale:  "Rivolto al superfluo, il desiderio dell'avaro non può che essere infinito, ma, nella misura in cui è infinito, è anche necessariamente frustrato, poiché le ricchezze, quali e quante che siano, sono sempre comunque finite".

Da qui l'aspetto religioso dell'avarizia, perché il denaro fornisce l'illusione di essere onnipotenti:  per sua natura consente un'autosufficienza che nessun altro oggetto potrebbe fornire. Per Péguy esso è l'unica alternativa veramente atea a Dio, perché dà l'illusione di poter ottenere tutto, poiché ogni realtà può essere trasformata in denaro, che a sua volta consente di entrare in possesso di ogni cosa. Marx, analizzando la mentalità capitalista frutto della rivoluzione industriale, ha notato con acume e incisività il suo carattere essenzialmente religioso, cioè di consacrazione di tutto il proprio essere a una realtà considerata come assoluta, superiore a ogni altra.

Il denaro è il nuovo dio, il centro dell'universo capace di far girare attorno a sé ogni cosa, con esso ci si può sentire onnipotenti. L'avarizia, poiché non riguarda un bisogno del corpo, né tende a un piacere a esso proprio, ricerca una soddisfazione di tipo affettivo ma insieme impalpabile, legata all'immaginazione. Questo carattere spirituale dell'avarizia è ben mostrato dal suo oggetto basilare, il denaro, che ha in sé una componente essenzialmente simbolica, di rimando ad altro:  è un semplice pezzo di carta, ma consente l'accesso ad altre cose, fornendo in tal modo onori e considerazioni.

L'avarizia appare così come una forma mondana di consacrazione a un idolo, qualcosa cui si è disposti a offrire tutta la propria vita, sacrificando per esso anzitutto la propria libertà e dignità. In questo vizio si nota una situazione capovolta anche a proposito della pratica di mortificazione e penitenza; l'avaro si impone un'ascesi in vista del futuro, centellinando il presente invece di viverlo. Dante mostra questo carattere peculiare mediante uno schizzo folgorante; nel canto vii dell'Inferno sottolinea che gli avari risorgeranno con il pugno chiuso, a simboleggiare la loro maniera di approccio alla vita, agli altri e ai beni, che si è ormai cristallizzata per sempre. Per Dante, sono il gruppo più numeroso che si trova all'inferno:  "Qui vidi gente più che altrove troppa" nota con sarcasmo.

C'è un legame stretto tra avarizia e solitudine:  l'avaro si trova a suo agio soltanto in compagnia delle cose, l'unica realtà di cui può fidarsi. L'avaro si è fossilizzato, diventando una cosa sola con le ricchezze accumulate, assumendo la medesima fissità impersonale delle cose; il che è come dire che è già morto, come un faraone sepolto nella sua piramide.


(©L'Osservatore Romano - 3 luglio 2010)
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Da Messainlatino leggo e condivido:

Il Card. Siri e l'ottavo vizio



Pubblichiamo una riflessione, apparsa anche su Libertà e persona, che l'Autore Lorenzo B. cortesemente ci invia per condividerla.


E’ da un po’ di tempo che sono persuaso del fatto che l’ottavo vizio capitale sia la superficialità.

Nel 1984 il Card. Siri scriveva una lettera al suo clero - “e, se è possibile, anche al mondo” - dove finalmente ho trovato risposta precisa alla mia convinzione. Siri parla di “distrazione” per definire una mente che appunto si distrae dalle cose essenziali, per dirigersi verso quelle effimere, casuali, variabili e inconsistenti. Così l’ottavo vizio – la superficialità – trova la sua forma, ossia un continuo rivolgersi a questo e a quello senza mai approfondire, senza andare oltre alla prima sensazione, arrancando allegramente tra le cose del mondo.

Il Cardinale parlava di una “continua cinematografia” che “spinge a fare castelli (anche in aria), a moltiplicare voglie, pseudoideali, tifo, e dà la spinta a movimenti dello spirito in tutte le direzioni.” Chissà cosa direbbe oggi se potesse valutare come la “cinematografia” sia divenuta quasi uno status che riguarda ogni aspetto della vita sociale: la politica, il tran-tran famigliare, perfino certe manifestazioni ecclesiastiche. Se già nel 1984 le cause generanti la “distrazione” sono “in atto da mane a sera”, cosa direbbe oggi con l’esplosione del mondo della comunicazione attraverso la rivoluzione del web, la Tv via satellite, via cavo, I-phone e compagnia?

Non solo - come egli notava 15 anni fa – abbiamo adunanze per ogni banalità, sport a tutte le ore, settimane bianche e ferie pasquali come must, ma oggi tutto ciò viene vissuto in un vero e proprio “villaggio globale”, dove si può sapere tutto di tutti e in ogni momento, live. D’altra parte lo aveva in qualche modo profetizzato dicendo che “in avvenire automatismo, informatica, computers avranno il potere, perché sono in grado di fornire all’uomo più tempo vuoto dal lavoro”. Senza voler scomodare la saggezza popolare che dice dell’ozio padre dei vizi, appare chiaro che dosi massicce di “tempo libero” siano facilmente assalite da tutti coloro che vogliono farne “business” e così si entra nel regno dei guru del marketing dove si parla non tanto alla ragione, quanto all’istinto.

Una canzonetta di qualche anno fa parlava proprio di un “battito animale” come “istinto naturale”, che non “smette di picchiare fino a quando non sarà il tuo battito normale” (Il battito animale – Raf); questo mi pare un ottimo manifesto per questa cultura della distrazione che d’altra parte il mondo dello spettacolo coltiva da tempo con molta cura. Oggi come non mai.

La superficialità attacca inesorabilmente la libertà, la capacità di far interagire volontà con ragione nel momento in cui si fa qualcosa, quella virtù della prudenza che nessuno sa più cosa sia. L’istinto non ha più nessun metro di misura, se non se stesso; per dirla con il Siri “la distrazione diminuisce la attenzione, la riflessione, la diligenza e per tale motivo può arrivare a diminuire il cosiddetto «volontario» diminuendo responsabilità e imputabilità”.

Con un impeto di spirito evangelico qui il grande Cardinale di Genova sottolineava proprio questa diminuzione di responsabilità per poter “abbassare il livello di condanna dei nostri fratelli”, aggiungendo tuttavia che non è facile “dire se questo accada molte o poche volte.”
E’ il trionfo della superficialità.

Risulta però fulminante la considerazione di Siri circa il fatto che “Dio ha disposto le cose per bene, cerchio familiare, lavoro, culto del Signore, preghiera, riposo, socievolezza, giusto svago, proprio perché gli uomini non dovessero perpetuamente vivere in una dolorosa distrazione. Tutte queste cose sono state insozzate”.
Purtroppo si è giunti a tanto perché manca la “prospettiva del silenzio”, la capacità di restare “cor ad cor” – come diceva l’ormai Beato Card. Newman – con il Creatore, con colui che permette veramente di concentrare tutto l’agire sulle cose che contano e non passano.

C’è un luogo in cui il silenzio interiore può venire educato: la liturgia, lì dove il Sacro si materializza e lo si può davvero toccare con mano. Forse l’azione dell’ottavo vizio è partita proprio da qui, da quella liturgia cattolica che è sicuramente la peggior nemica di ogni “distrazione”, chissà che proprio da qui non possa ricominciare quel riappropriarsi del sacro di cui tutti noi - troppo distratti - sentiamo un profondo bisogno.




altro materiale da meditare:

IL COMUNE SENSO DEL....PUDORE... riscopriamolo!

L' ESAME DI COSCIENZA.......e la preparazione per una buona Confessione dei peccati!


I 6 peccati contro lo Spirito Santo, i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio




Bellissime riflessioni, un grazie alla Redazione!  
accanto all'ottavo vizio identificato nella SUPERFICIALITA', ci aggiungerei anche MEDIOCRITA'....  
 
Moltissime pastorali di questo tempo sono piene e zeppe di superficialità e MEDIOCRITA'... si preferisce una fede mediocre che non disturbi troppo il libero arbitrio del fedele...  
Il mediocre è colui che sta nel mezzo, che non si decide in una scelta che, nel nostro caso, possa condurre al martirio... o molto più cattolicamente ad essere quel segno di CONTRADDIZIONE che fa della Chiesa stessa quella istituzione che sta nel mondo, ma non è del mondo...  
Il "vivi e lascia vivere" o il "volemose bene" producono superficialità e mediocrità nelle azioni comportamentali della Chiesa stessa, sia dell'alto o piccolo prelato, quanto all'ultimo fedele....così come del teologo... e i frutti sono i "castelli in aria", un esempio? L'ATTIVISMO che impegna i preti a tal punto da non avere più il tempo per sostare in adorazione davanti al Santissimo, o per stare nel Confessionale... e i frutti? NIENTE VOCAZIONI....  
La stessa superficialità e mediocrità nel trattare argomenti scottanti come l'etica e la morale non fa altro che continuare a produrre coppie di divorziati-risposati.... e poichè a breve se continuiamo così, nelle nostre Parrocchie non ci saranno più tante persone a cui dare l'Eucarestia, ecco la superficiale soluzione: un condono, una amnestia e diamo la Comunione a tutti!!  
 
Davvero profetico questo passo:  
 
Con un impeto di spirito evangelico qui il grande Cardinale di Genova sottolineava proprio questa diminuzione di responsabilità per poter “abbassare il livello di condanna dei nostri fratelli”, aggiungendo tuttavia che non è facile “dire se questo accada molte o poche volte.”  

Il Signore Gesù non ci chiese di essere superficiali e mediocri, ma nella chiamata ESIGE TUTTO, LA TOTALITA'.... senza dubbio tale scelta è difficile, ma è l'unica verità da difendere e portare avanti....o tutto o niente: san Padre Pio sapeva bene che avrebbe potuto servire il Signore anche senza le stimmate, della cui visibilità si vergognava perchè non si riteneva degno.... ma di fronte al Signore che gli chiedeva la totalità di quella missione, san padre Pio RAGIONEVOLMENTE si arrese in una obbedienza totale....  
 
Impariamo dai Santi a vincere la superficialità e la mediocrità della chiamata che immeritatamente abbiamo ricevuto!  
Santa Domenica a tutti!  
e chi è a
Venezia e dintorni, rammenti che domani alle 11,00 abbiamo un appuntamento importante con il Superiore della FSSP...




[Modificato da Caterina63 28/08/2010 10:25]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Pulsioni e violenza

Il Padre rimosso


di Claudio Risé

"Mi aveva fatto venire i nervi", si è giustificato l'uomo che ha ridotto in coma un tassista a Milano.

"Mi ha insultato, e ho sbroccato", ha spiegato il giovane che con un pugno ha ucciso un'infermiera a Roma.

Per capire cosa stia accadendo si comincia a parlare di pulsioni (come ha fatto il sociologo Giuseppe De Rita sul "Corriere della Sera" del 13 ottobre). Un concetto psicologico abbastanza specifico, che indica le spinte istintuali dirette a soddisfare immediatamente un bisogno della persona.

Il discorso si fa così più concreto:  ci sono spinte, bisogni reattivi, spesso irrazionali, legati alla sfera dell'aggressività, che escono con più frequenza e forza di prima, suscitando inoltre sempre meno reazioni nei presenti, che raramente, e tardi, intervengono per fermarle.
A cosa è dovuto, però, il diffondersi di manifestazioni incontrollate di spinte distruttive?

Si ha l'impressione di assistere all'organizzazione di un intero sistema della violenza pulsionale:  c'è lo scoppio aggressivo, agito da una o più persone; l'evitamento da parte dei presenti, che pensano solo a non essere coinvolti (o a guardare da postazioni sicure, se la situazione lo consente, soddisfacendo altre pulsioni, voyeuristiche); e infine l'utilizzo spettacolare realizzato dai media dell'effetto di orrore, ma anche di altre sensazioni di natura pulsionale, istintivo-emotiva piuttosto torbide.

Il modo di vivere un atto violento è cambiato:  lo scoppio distruttivo della pulsione non rimane più nella società postmoderna il fatto individuale di chi non riesce a trattenerla, ma diventa l'esperienza sociale e collettiva di ampi gruppi di persone che vi partecipano da una posizione di sicurezza fisica, traendone una gamma di emozioni e sensazioni, di cui la compassione e la solidarietà per la vittima rappresentano una parte modesta. L'evento entra poi, in posizione di riguardo, nell'attività produttiva dei media, e nei consumi da essa indotti.

Di fronte a questo fenomeno, di carattere sistemico e non più individuale, la spiegazione più frequente - cioè che tutto ciò accade perché famiglia, scuola e autorità istituzionali non insegnano più norme e modi di vita - non sembra soddisfacente. Anche l'attribuzione di questa dimissione educativa al '68 e agli anni Settanta, cronologicamente esatta, non spiega come abbia potuto far crollare un intero sistema normativo una rivoluzione ovunque fallita, dotata di espressioni culturali di evidente modestia, e che non ha espresso in nessun Paese né un Governo né una formazione politica. Un sistema normativo, tra l'altro, non limitato alle norme positive, ma che riguarda il sentire e i comportamenti affettivi ed emotivi. Qualcosa che dal punto vista antropologico assomiglia al modello di cultura cui si ispira l'intera società.

Perché tutto ciò accada è di solito necessaria una trasformazione incisiva nel modo di sentire degli individui e dei gruppi, che tocca sia i livelli profondi della psiche individuale e collettiva, sia l'ordine simbolico, che produce e struttura le relazioni fra gli uomini. Dal punto di vista psicologico sembra infatti che si stia realizzando un rovesciamento  profondo  della struttura  della  psiche individuale descritta  dal  fondatore della psicoanalisi Sigmund Freud.

L'Io, il rappresentante della coscienza personale, vi compariva come assediato dalle pressioni delle pulsioni inconsce (l'Es), ma assistito nel contenerle dalle indicazioni delle proprie istanze normative (Super Io), una sorta di dispositivo di controllo personale che teneva conto anche delle norme e dei comportamenti proposti dal collettivo.

Oggi appare invece una sorta di capovolgimento della posizione del Super Io, che da alleato dell'Io nel far fronte alle spinte pulsionali è diventato di fatto un loro alleato dell'inconscio nell'incalzare l'Io, il soggetto; con l'avallo più o meno palese del sistema delle comunicazioni. Si tratta di uno sviluppo che Theodor Adorno, filosofo della scuola di Francoforte, aveva previsto già negli anni Quaranta. Il suo manifestarsi aveva poi influenzato la visione psicoanalitica di Jacques Lacan, e la sua piena realizzazione viene oggi confermata dalle acute e anticonformiste analisi del filosofo sloveno Slavoj Zizek. Si tratta di un rovesciamento profondo nel modo di funzionare della psiche delle persone, che può spiegare molti dei fenomeni oggi in atto.

Dal punto di vista antropologico, però, perché un intero ordine simbolico venga sovvertito è necessario che la Grundnorm ("norma fondamentale") che lo regge sia stata negata nella coscienza collettiva o rimossa. E questo rimanda non tanto ai genitori che non insegnano più a contenere le pulsioni, ma al vasto sommovimento valoriale realizzato nel processo di secolarizzazione che si può sintetizzare nella frase "se Dio è morto, tutto è possibile".

È lo spingere il Padre lontano dalla vita quotidiana di ognuno di noi che lascia il soggetto umano e la sua coscienza privi di difese dal mondo potente delle pulsioni, incorporate nel frattempo nello stesso sistema di produzione, di consumo e comunicazione. Perché è la visione del Padre che trasforma la pulsione.



(©L'Osservatore Romano - 17 ottobre 2010)

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La penitenza tra primo e secondo millennio

Radiografia del peccato


Si è svolto tra il 4 e il 5 novembre presso la Penitenzieria Apostolica un simposio sul tema "La penitenza tra il primo e il secondo millennio". Pubblichiamo stralci di alcune relazioni.

di Johan Ickx


Negli anni Quaranta del Novecento, già Paul Anciaux nella sua opera magistrale La Théologie du Sacrement de Pénitence au xii siècle ha osservato l'assenza di qualsiasi trattato teologico consacrato al tema della penitenza durante l'xi secolo. Pietro Sorci ci ha mostrato il passaggio, lento e piuttosto laborioso, dalla penitenza canonica alla penitenza-confessione attraverso la penitenza cosiddetta "tariffata", verificatasi tra il secolo vi e il secolo xii in particolare nei libri liturgici.

Dal sacramentario Gelasiano antico, di origine romana, in uso nelle chiese affidate alla cura pastorale di un presbitero, composto tra il 628 e il 715 ma trascritto in Gallia nel monastero di Chelles, presso Parigi, verso la metà del secolo viii, in piena epoca della transizione; passando per il Penitenziale Alitgario, vescovo di Cambrai, dell'inizio del secolo ix, nel quale si riferisce della penitenza tariffata e il Pontificale Romano Germanico, compilato in Germania nel monastero di Sant'Albano nei pressi di Colonia intorno al 960, che riporta tanto il rito della penitenza pubblica, quanto quello della penitenza tariffata. Come comunemente saputo, i monaci irlandesi svolgono un ruolo di primo piano oltre che nella evangelizzazione e formazione della civiltà europea cristiana, anche nello sviluppo del sacramento della Conversione che, venendo sulla terraferma per evangelizzare i popoli del Nord Europa, applicavano ai fedeli che si rivolgevano a loro per la prassi in uso nei monasteri.

La diffusione di questa nuova prassi nasce dalla convinzione che non soltanto coloro che si sono macchiati di gravi crimini sono peccatori e bisognosi di penitenza, ma tutti.

Importante fu la riflessione di Teodulfo vescovo di Orleans (+821):  "Ciò che noi diciamo delle pene inflitte secondo gli antichi canoni si applica a coloro che fanno pubblicamente penitenza per una colpa pubblica. Se invece la stessa colpa è rimasta nascosta e il colpevole si è rivolto in segreto al sacerdote, a condizione di aver fatto una confessione sincera, farà penitenza secondo la decisione del confessore (...) Così, se un sacerdote ha commesso un adulterio e il misfatto è di pubblica notorietà, sarà deposto dal suo ordine e sottoposto per dieci anni alla penitenza pubblica. Ma se il suo atto di fornicazione è rimasto nascosto agli occhi della gente, andrà a confessarsi in segreto e riceverà una penitenza occulta".

Salvarani apporta degli elementi interessanti riguardo alla situazione "penitenziale" prima dell'anno Mille:  un esempio emblematico di penitenza pubblica è la deposizione di Ludovico il Pio (833) per imposizione di una penitenza solenne more antiquo. Ludovico il Pio, che pure si era sottoposto a penitenza pubblica una prima volta nell'822, nell'833 fu deposto dai vescovi perché gli fu applicata la penitenza more antiquo, che implicava la cessazione di ogni incarico e funzione pubblica, il divieto di sposarsi e di vivere il matrimonio, l'impossibilità di stipulare qualsiasi accordo, compreso il vincolo di fedeltà che legava i sudditi al sovrano.

Il processo di cambiamento profondo al livello della società fu accompagnato da una crisi disciplinare e dottrinale al di dentro della Chiesa stessa.

Nell'xi secolo i teologi non si interessano quasi per niente alla dottrina penitenziale, eccezion fatta per l'opuscolo di Lanfranco, vescovo di Canterbury (1005-1089) De vera et falsa Poenitentia, che ha influenzato molti autori successivi. Ciò farà sì che all'inizio del secolo xiii i libri penitenziali rapidamente cedano il posto alle Summae confessorum o de paenitentia e alle Summae de casibus conscientiae.

Questo approfondimento permetterà ai teologi del secolo xii di precisare che la confessione, davanti al sacerdote, assieme all'assoluzione impartita dal sacerdote, costituisce il signum efficax gratiae Dei che dona alla penitenza il diritto di essere annoverata tra i sette sacramenta novae legis. Dal xii secolo in poi si trovano chiari indizi nei trattati che la penitenza viene connessa con il battesimo, riappellandosi alle parole di Ugo di San Vittore e Pietro Lombardo die Busse kann dan als "Wiederaufleben" der Taufgenade betrachtet werden. Questo sembra essere un arricchimento notevole sul piano teologico, visto che fino a quel tempo il sacramento della penitenza fu considerato in stretta relazione al sacramento dell'eucaristia.

Un concetto interessante è quello della Chiesa come domus Dei e il compito della Chiesa visibile di curare e restaurare la struttura di questa "casa", completamente assente nella letteratura ecclesiologica moderna. Sarebbe opportuno che si elaborassero ancora di più le diverse sfumature presso i diversi canonisti medievali a proposito di questo concetto.

Infatti viene confermato che i problemi davanti ai quali si trovavano i teologi e canonisti a partire del xii secolo si riferiscono a tre concetti:  l'aspetto sacramentale della penitenza, la necessità e l'obbligo della confessione, il potere dei sacerdoti in merito alla remissione dei peccati.

Marschler ha indicato con chiarezza il frangente nel quale si nota la differenziazione tra penitenza interiore e esteriore, che ha il suo punto di partenza in Pietro Lombardo (1100-1160), anche se egli si riporta a una opinione già preesistente nell'xi secolo, e peraltro sarà il primo a indicare che il sacramento della penitenza trova il suo fondamento nel Nuovo Testamento, tema elaborato poi dai maestri della seconda metà del xii secolo.

Ciò non è insignificante, visto che questo vescovo di Parigi avrebbe influenzato Alberto Magno, Tommaso di Aquino, e Guglielmo di Occam. Marschler poi ha delineato lo scontro tra le diverse scuole, il dialettico Abelardo (1079-1142) da una parte, che sottolinea l'efficacia del rimorso e pentimento interiore provocando una reazione della autorità ecclesiastica del suo tempo per la sua dottrina in merito al potere del sacerdote nella penitenza, e dall'altra parte i suoi critici, tra i quali Ugo di San Vittore (1096-1141), come grande oppositore.

Nei suoi pensieri in merito alla penitenza si ritrova un concetto fondamentale che già nei secoli precedenti fu attribuito ai vescovi e sacerdoti, e cioè il sacerdote vestito con un incarico "medicinale", che lo rende indispensabile, concetto in un primo momento non ancora da tutti gli scolastici accettato senza riserva, ma comunque inconvertibile. La trattazione di Gratianus del problema, spesso indicata come una sua profonda incertezza al riguardo, può essere vista anche dal semplice punto di vista tecnico-didattico. Era inevitabile che verso la seconda metà del xii secolo si doveva risolvere il problema nel quale era scivolata la teologia in merito al ruolo del "ministro ecclesiastico":  fu egli medico (i vittoriani), semplice notaio (Abelardo), giudice (concezione ereditata dal tempo carolingio)?

La risposta a questa sfida è duplice:  l'efficacia del processo di penitenza va assicurata completamente dall'incontro interiore tra Dio e uomo e alla Chiesa viene consentito soltanto un ruolo nella pre e postsacramentale preparazione di quest'incontro, ma visto che questa strada significava una rottura completa con una tradizione secolare presente nella Chiesa, gli scolastici non la scelgono.

Rimaneva la strada opposta e i teologi del xiii secolo preferivano un sempre crescente ruolo del sacerdote nel sacramento della penitenza.

Potrebbe nascere qui un fraintendimento, perché noi guardiamo a tali cambiamenti storici con una tradizione più recente alle spalle che tende a misconoscere o almeno colorare tali discussioni medievali. Infatti, nessun autore del xii secolo dubita sul fatto che la penitenza esteriore, la confessione orale e la soddisfazione sono obbligatorie e indispensabili. I maestri discutono invece sulla questione della "natura del peccato e della conversione interiore e in quale senso la confessione sia necessaria per la remissione dei peccati", queste sono le domande che suscitano la polemica tra Abelardo e Ugo di San Vittore.

Ora si vede come la canonistica farà da "coagulante" per la "riforma" vera e propria, confermando per Roma il ruolo che le fu, a mio avviso, da tempo assegnato e tenuto in vita attraverso la religiosità popolare, i pellegrinaggi e la predicazione. Infatti, i canonisti guardavano indietro "alle origini della Chiesa", e quindi le collezioni medievali non avevano valore per se stesse ma, agli occhi dei maestri di allora, erano soltanto strumenti per trasmettere i canoni sacri o autentici.


(©L'Osservatore Romano - 10 novembre 2010)

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27/11/2010 11:25
 
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[SM=g1740733] RIEPILOGO Audio dal Dialogo della Divina Provvidenza di Santa Caterina da Siena

Dopo la breve presentazione e il primo audio con il capitolo 115 che troverete qui:
http://it.gloria.tv/?media=112231 (1)
e dove si parla del primato petrino....

qui troverete il capitolo 116:
it.gloria.tv/?media=112263 (2)
"chi perseguita un Sacerdote, perseguita Dio"

Seguono ora due capitoli insieme il 122 e il 123,
it.gloria.tv/?media=112470 (3)

"come nei Ministri cattivi regna l'ingiustizia soprattutto nel non correggere i sudditi, Caterina spiega poi nel capi. 123 quali siano i difetti dei Ministri che maggiormente offendono Dio e il Prossimo."

Segue ora il capitolo 124
it.gloria.tv/?media=112704 (4)

" santa Caterina ascolta dalla Divina Provvidenza il dolore che certi Ministri procurano con il peccato contro natura.... e narra di una visione che Caterina ebbe...."

Vi offriamo ora il capitolo 126
it.gloria.tv/?media=112956 (5)
La Divina Provvidenza spiega a santa Caterina gli effetti del peccato della lussuria all'interno dell Chiesa......

Con questo audio termina, per ora, questa Lettura
...



Audio (1)



AUDIO (2)



AUDIO (3)



AUDIO (4)



AUDIO (5)

[SM=g1740738]

[SM=g1740750] [SM=g1740752]


[Modificato da Caterina63 27/11/2010 11:27]
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28/01/2011 18:02
 
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Essere affabili e mansueti con tutti


Da Cordialiter:

Un'anima che ama la carità fraterna, deve essere affabile e mansueta con qualsiasi persona. La mansuetudine si chiama la virtù dell'Agnello, cioè la virtù diletta di Gesù Cristo, il quale volle esser chiamato agnello. Nel parlare e nel trattare, usate dolcezza con tutti, specialmente con coloro che in passato vi hanno offeso oppure vi son naturalmente antipatiche.

Caritas patiens est, la carità è paziente, quindi ha vera carità chi sopporta i difetti del prossimo. Su questa terra non c'è persona, per virtuosa che sia, che non abbia i suoi difetti. Perché le mamme sopportano con pazienza le insolenze dei figli? Perché li amano.

Qui pertanto si vede se voi amate il prossimo con amor di carità, il quale, essendo soprannaturale, deve esser più forte del naturale. Con qual carità il nostro Salvatore sopportò le imperfezioni dei suoi discepoli per tutto il tempo che visse con loro! Con quanta carità sopportò Giuda, sino a lavargli i piedi per intenerirlo!
Con qual pazienza il Signore sinora ha sopportato ciascuno di noi?
Il medico odia l'infermità, ma ama l'infermo; e così anche noi, se abbiamo carità, dobbiamo odiare il difetto, ma nello stesso tempo dobbiamo amare chi lo commette.

Quando qualche persona ci parla con ira, o ci ingiuria e ci rimprovera di qualche cosa, rispondiamogli con dolcezza, e subito la vedremo placata. Responsio mollis frangit iram (Prov. XV, 1), una risposta dolce seda lo sdegno. Se a quella persona che ci parla con ira noi gli rispondiamo con ira, come potrà placarsi? Anzi, si accenderà maggiormente nello sdegno.

Se invece risponderemo con dolcezza vedremo spento il fuoco dell'ira.
 
A questo proposito narra Sofronio che mentre due monaci stavano viaggiando a piedi tra le campagne, avendo errato la via entrarono in un campo seminato; il contadino che guardava quel terreno, nel vederli entrati nel campo li sommerse di ingiurie. I due monaci inizialmente tacquero, ma vedendo che il contadino s'infuriava di più e continuava ad ingiuriarli, gli dissero: “Fratello, abbiamo fatto male; per amore del Signore perdonaci.” Allora il contadino sentendo questa risposta così umile si compunse e chiese loro perdono delle ingiurie dette; e tanto si compunse, che lasciò il mondo e si fece monaco con essi.


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23/02/2011 12:50
 
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Il male? È un nano miope, codardo e narcisista


di Paolo Pegoraro*

ROMA, martedì, 22 febbraio 2011 (ZENIT.org). Pär Lagerkvist è un nome ingiustamente trascurato. Poeta, drammaturgo e romanziere, Premio Nobel del 1951, dalla sua opera più nota – Barabba – fu tratto un kolossal con Anthony Quinn, Vittorio Gassman e Silvana Mangano. Ma il trionfalismo hollywoodiano è quanto di più distante si possa immaginare dalla stringata scrittura di Lagerkvist; e si racconta che alla prima proiezione lo scrittore si mise a ridere, mentre la moglie si addormentò.

Pur dichiarandosi non credente, tutta la sua opera è permeata da una spasmodica tensione verso quell’infinito che altrettanto fermamente nega. Avverso a ogni scetticismo di comodo, Lagerkvist si lasciò interrogare intimamente dall’enigma di un male che cova anche all’interno delle civiltà più sviluppate. Di ritorno da un viaggio alle sorgenti della civiltà europea – la Palestina e la Grecia – lo scrittore svedese rimase esterrefatto nell’attraversare un’Europa dominata dagli slogan nazionalistici. Fu il seme dal quale concepì – nel 1944 – il suo capolavoro: Il nano (Iperborea, pp. 208, € 11,50). Il romanzo racconta la vita di una corte rinascimentale immaginaria vista attraverso gli occhi del nano di corte, anonimo e fedelissimo servitore del principe Leone. Conosceremo ogni personaggio e ogni vicenda attraverso il suo sguardo incredibilmente acuto, capace di svelare ogni malefatta e di portare alla luce ogni fantasia malevola, eppure totalmente incapace di riconoscere il bene.

Il nano può vedere distintamente perfino di notte, contare anche i singoli fili d’erba, eppure non riesce a scorgere le stelle. È sì un genio, ma un genio del disprezzo e dell’odio. Il nano è «inattaccabile, indistruttibile, incrollabile», un essere completo che appartiene perfettamente a se stesso, un uomo “tutto d’un pezzo” come gli inflessibili moralisti di cui è parodia. Egli è infatti il fustigatore sarcastico incapace di ridere e prestarsi all’autoironia, l’esecratore universale che cerca sempre di far pendere la bilancia verso il basso e irride qualunque genere di conoscenza – ovvero di relazione – della vita. Il nano si ritrae da maestro Bernardo – ritratto dello scienziato umanista modellato su Leonardo – come se egli fosse un pazzo, perché qualunque cosa riesce ad affascinarlo. Disprezza quell’«orribile peccato» che è l’amore – incarnato dai due adolescenti Giovanni e Angelica, novelli Romeo e Giuletta che l’infido nano spingerà a tragedia. Non apprezza neppure la passione carnale: è disgustato dalla lascivia della principessa Teodora e dalle gozzoviglie del falstaffiano don Riccardo, un volgare «buffone che ama la vita» in tutte le sue forme, pericoloso destabilizzatore da eliminare appena se ne presterà l’occasione. Il nano detesta l’innocenza, le viscere e più di tutto la musica, che s’insinua nel corpo senza che se ne possa avere controllo… in altre parole, egli odia tutto quello che è interiorità e debolezza.

«Quando nasce l’uomo è tenero e debole – ha scritto Pier Vittorio Tondelli – quando muore è duro e rigido. […] Perché ciò che è duro e forte è servo della morte; ciò che è tenero e debole è servo della vita». E per il nano è proprio così: detesta ogni concessione al lato umano, apprezza soltanto il potere e più ancora la sua violenta imposizione, rappresentata dal mercenario Boccarossa, brutale monolito d’istinti che non ha la debolezza di un’anima né il rallentante tormento di un pensiero. Ciò nonostante il nano non è un guerriero: adora la soffiata e la delazione, torturare i nani più inermi, e avvelenare – oltre che materialmente – con il sospetto e la calunnia. Come potrebbe, all’apice del proprio delirio di onnipotenza, ammettere di essere un codardo…?

Il nano è l’unico personaggio del romanzo a non avere nome: egli è il diabolus ex machina, il cuore di tenebra che catalizza e permette che si realizzino i sentimenti più antiumani covati dal Potere, anche quando esso si ammanta con le vesti dell’umanista principe Leone, luminoso e colto come un Medici, ma ambiguo e scaltro come un Machiavelli. Il nano – in fondo – non è che un’appendice del principe stesso, l’ombra perpetuamente assisa alle sue spalle, la bassezza morale alla quale egli è disposto a ricorrere quando i mezzi leciti non sortiscono l’effetto desiderato. «Credono che sia io a spaventarli – afferma infine il nano –, e invece è il nano nascosto dentro di loro, quell’essere simile all’uomo, dal volto di scimmia, che leva la testa dal profondo della loro anima [...] E sono deformi senza che ne traspaia nulla».

Infallibile conoscitore delle miserie umane, il nano è però del tutto inabile a stupirsi o a partecipare alle sorti altrui. La sua mostruosa disumanità – ha notato Fulvio Ferrari – è tutta concentrata nel suo sguardo, nel suo modo di avvicinare il mondo. O meglio, di non avvicinarlo e di non lasciarlo avvicinare. Proprio come il male di cui è incarnazione, il nano da l’illusione di conoscere tutto, mentre conosce solo se stesso. È un occhio malato, impietrito davanti a uno specchio che esclude la visione del mondo (e degli altri) dal proprio spettro. Il giovane Gilbert K. Chesterton aveva inaugurato la sua formidabile carriera di polemista asserendo: «È assai probabile che ci troviamo ancora nell’Eden. Sono stati solo i nostri occhi a mutare» (The Defendant). E alcuni decenni dopo gli avrebbe fatto eco alcuni versi di J.R.R. Tolkien: «…il Male […] non sta / nell’immagine divina ma nello sguardo, / non nella fonte, ma nella mala scelta, / e non nel suono, ma nella voce perversa» (“Foglia”, di Niggle). Entrambi, in fondo, avevano una medesima fonte in comune: «La lampada del corpo è l’occhio. Se dunque il tuo occhio è limpido, tutto il tuo corpo sarà illuminato; ma se il tuo occhio è malvagio, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grandi saranno le tenebre!» (Mt 6,22-23).

Un assaggio dell’opera

Sono alto ventisei pollici, ben fatto, il corpo proporzionato, forse la testa è un po’ troppo grossa. I capelli non sono neri come quelli degli altri, ma rossicci, molto ispidi e folti, rigettati indietro dalle tempie e dalla fronte, ampia anche se non particolarmente alta. Il mio volto è imberbe, ma per il resto assolutamente identico a quello degli altri uomini. Le sopracciglia si congiungono. Ho una notevole forza fisica, specie se vengo provocato. Quando fu organizzato l’incontro tra me e Josafat, dopo venti minuti di combattimento lo misi con le spalle a terra e lo strangolai. Da allora sono l’unico nano a corte.

La maggior parte dei nani sono buffoni. Devono dire facezie ed eseguire trucchi che inducano al riso i padroni e gli ospiti. Io non mi sono mai abbassato a cose del genere. Né nessuno me lo ha mai nemmeno proposto. Già il mio aspetto d’altra parte impedisce un tale impiego della mia persona. Il mio volto non s’addice a ridicoli scherzi. E io non rido mai. Non sono un buffone. Sono un nano, e nient’altro. Ho invece una lingua tagliente che può, forse, procurare un po’ di divertimento a qualcuno tra le persone che mi circondano. Non è la stessa cosa che essere il loro buffone.

Ho detto che il mio volto è identico a quello degli altri uomini. Ma non è del tutto esatto, in realtà è molto più avvizzito, completamente solcato da rughe. Io non lo considero un difetto. Sono fatto così e non posso farci niente se gli altri non sono come me. Mi rivela esattamente per quel che sono, senza abbellimenti né trucchi. Forse non è intenzionale. Ma è così che mi piace apparire.

Le rughe mi fanno sembrare molto vecchio. Non lo sono. Ma ho sentito dire che noi nani discendiamo da una razza più antica di quella che oggi popola il mondo, e che per questo siamo già vecchi quando nasciamo. Non so se sia vero, ma in tal caso saremmo noi le creature originarie. Non mi dispiace affatto appartenere a una razza diversa da quella attuale, e che sia evidente dal mio aspetto. Trovo infatti il volto degli altri assolutamente insignificante.

I padroni sono ben disposti nei miei confronti, specialmente il principe, che è un potente e grande signore. Un uomo dai vasti progetti e capace anche di attuarli. Un uomo d’azione, benché al tempo stesso molto colto, una di quelle persone che trovano tempo per tutto, e a cui piace conversare sui più disparati soggetti fra cielo e terra. Le sue vere intenzioni le nasconde parlando d’altro. Può sembrare superfluo interessarsi tanto di tutto – sempre che egli se ne interessi davvero – ma forse deve essere così, forse deve farlo proprio perché è un principe. Dà l’impressione di comprendere e dominare qualsiasi argomento, o almeno di volerci riuscire. Nessuno potrebbe negare che sia una personalità che incute rispetto. Di tutti quelli che ho incontrato, è l’unico che io non disprezzi. È molto falso.

Conosco bene il mio signore. Non che con questo pretenda di conoscerlo perfettamente. Ha un carattere piuttosto complicato, non tanto facile da decifrare. Sarebbe comunque un errore affermare che nasconda in sé degli enigmi, non è affatto così, ma in un certo senso resta impenetrabile. Io stesso non arrivo a capirlo del tutto e, a dire il vero, ancor meno a spiegarmi perché lo segua con la devozione di un cane. D’altra parte neanche lui capisce me. Non provo affatto nei suoi riguardi la soggezione che provano gli altri. Mi piace però essere al servizio di un signore capace di incutere soggezione. Non voglio negare che sia un grand’uomo. Ma nessuno è grande di fronte al proprio nano.

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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l'Università "La Sapienza" di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L'Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.


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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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27/03/2011 19:47
 
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La preghiera di quaresima di Sant Efrem il Siro.


«Signore e Sovrano della mia vita, non darmi uno spirito di pigrizia, di scoraggiamento, di dominio e di vana loquacità!

Concedi invece al tuo servo uno spirito di castità, di umiltà, di pazienza e di carità.

Sì, Signore e Sovrano, dammi di vedere le mie colpe e di non giudicare mio fratello; poiché tu sei benedetto nei secoli dei secoli.
Amen.»


Questa preghiera è attribuita a uno dei grandi maestri della spiritualità orientale:

sant’Efrem il Siro.
Si potrebbe definire come la preghiera di quaresima per eccellenza.
La si recita facendo un inchino alla fine di ciascuna delle sue tre parti.
Nella sua semplicità, sottolinea chiaramente gli aspetti del pentimento che costituiscono l’essenza del cammino quaresimale.
All’inizio essa presenta quattro punti negativi, che sono gli ostacoli da eliminare.


Lo spirito di pigrizia

Lo spirito di scoraggiamento

Lo spirito di dominio

Il parlare vano



Lo spirito di pigrizia è all’origine della malattia più pericolosa per la vita spirituale.

Questo spirito cattivo, impedisce ai nostri buoni desideri di svilupparsi e di realizzarsi.
Ci convince davanti alle nostre colpe ripetute, che nessun cambiamento è possibile. Lo stato di pigrizia è la radice di ogni peccato, perché avvelena l’energia spirituale alla sorgente.


La conseguenza della pigrizia è lo scoraggiamento, che è l’espressione più evidente dell’accidia. Il nostro padre provinciale, Benoît Grière, ci ha lasciato una bella spiegazione riguardo a questa malattia dello spirito.

Scrive tra l’altro: “…Non so se conoscete questo sentimento che rode il religioso e che i Padri greci chiamano accidia. Si tratta di un male subdolo che invade il cuore del monaco e che gli fa perdere ogni gusto per le realtà divine. Nelle malattie dell’anima, il termine che converrebbe meglio utilizzare per definire l’accidia è quello di depressione.

Ma l’accidia è, prima di tutto, una crisi spirituale che fa precipitare nella tristezza.

L’accidia è una specie di disgusto, di noia, per le “cose divine”.

Il monaco, il religioso, non trova più attrazione per la preghiera, per la relazione con Dio...»

Quando la nostra vita non è orientata verso Dio, inevitabilmente diventa egoista e centrata su noi stessi. Allora, si apre la via allo spirito di dominio che ci conduce a considerare la realtà, unicamente in funzione delle nostre idee, dei nostri desideri e dei nostri bisogni.

Attraverso l’esclusione di Dio dal centro della nostra vita, noi provochiamo una vera morte spirituale o più precisamente, il nostro suicidio spirituale.
Il suicidio spirituale consiste in questo: impedire alla parola di Dio di generare la vita nella nostra vita. Restiamo soli con la nostra parola, una parola vana, vuota, che diventa un chiacchierare sterile.

Questi quattro aspetti negativi, sono gli ostacoli da eliminare; ma solo la grazia di Dio può permetterci di realizzare questa purificazione.
«Concedi invece al tuo servo…»

Dopo questa constatazione dell’impotenza umana, la preghiera ci mostra gli scopi positivi del cammino di conversione, che sono anch’essi quattro:

La castità

L’umiltà

La pazienza

La carità


La castità si oppone al desiderio di possesso, che abita il nostro cuore.
Essa ci permette di comprendere la vita nella sua integralità.

La castità ci mette di fronte all’esigenza di riconoscere che da soli, non siamo capaci di realizzare i desideri profondi del nostro cuore e che tutto nella nostra vita è frutto della benevolenza divina.

La visione integrale della vita, che possediamo grazie allo spirito di castità, fa nascere in noi la virtù dell’umiltà, che è la capacità di vedere e di accogliere la verità.

L’umiltà ci fa tendere le mani verso Dio, nella consapevolezza che niente possiamo dire nostro e che tutto ci è donato.

La castità e l’umiltà sono seguite dalla pazienza.

Lo spirito di possesso ci spinge a volere tutto e subito, senza mai permetterci di sentirci veramente soddisfatti. Ci fa vivere continuamente nell’ansia, senza mai permetterci di accontentarci.

La pazienza nasce dall’esperienza della fedeltà di Dio, dal suo non deluderci mai, e dalla consapevolezza che la felicità si sedimenta nel nostro cuore col tempo ed è sperimentabile solo da chi acquista uno sguardo profondo ed integrale della vita.

Il cammino di conversione tocca l’apice quando si manifesta la virtù della carità, dono di Dio e frutto di ogni sforzo spirituale.

Il percorso quaresimale è infine riassunto nella domanda finale della preghiera:

«dammi di vedere le mie colpe e di non giudicare mio fratello ».

L’orgoglio è la sorgente del male e ogni male è orgoglio.
Il cammino di quaresima ci conduce ai piedi della croce del Cristo, per riconoscere il nostro bisogno di essere guariti dalla sua misericordia e per essere a nostra volta misericordiosi verso i nostri fratelli.

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Gli otto spiriti malvagi di Evagrio Pontico - La gola

Chi è Evagrio Pontico?

Evagrio Pontico ( Ebora, 345Egitto, 399) fu un monaco, asceta e scrittore cristiano.
Diacono e teologo. Amico di Basilio il Grande e di Gregorio di Nazianzo, visse a Costantinopoli, prima di ritirarsi tra i Padri del deserto (nel 385) come discepolo di MacarioEgiziano. Nei suoi scritti, in particolare nel Trattato sulla preghiera e nel Praktikos, racchiuse il suo insegnamento sulla vita monastica. A lui si deve una prima classificazione dei vizi capitali e dei mezzi per combatterli.


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 ***

Capitolo 1


La gola

L’origine del frutto è il fiore e l’origine della vita attiva è la temperanza chi domina il proprio stomaco fa diminuire le passioni, al contrario chi è soggiogato dai cibi accresce i piaceri. Come Amalec è l’origine dei popoli così la gola lo è delle passioni. Come la legna è alimento del fuoco così i cibi sono alimento dello stomaco.
Molta legna anima una grande fiamma e un’abbondanza di cibarie nutre la cupidigia. La fiamma si estingue quando viene meno la legna e la penuria di cibo spegne la cupidigia. Colui che ha potere sulla mascella sbaraglia gli stranieri e scioglie facilmente i vincoli delle proprie mani. Dalla mascella gettata via sgorga una fonte d’acqua e la liberazione dalla gola genera la pratica della contemplazione. Il palo della tenda, irrompendo, uccise la mascella nemica ed il lògos della temperanza uccide la passione. Il desiderio di cibo genera disobbedienza e una dilettosa degustazione caccia dal paradiso. Saziano la strozza i cibi fastosi e nutrono l’insonne verme dell’intemperanza. Un ventre indigente prepara ad una preghiera vigile, al contrario un ventre ben pieno invita ad un lungo sonno. Una mente sobria si raggiunge con una dieta molto scarna, mentre una vita piena di mollezze tuffa la mente nell’abisso. La preghiera del digiunatore è come il pulcino che vola più alto dell’aquila mentre quella del crapulone è avvolta nelle tenebre. La nube nasconde i raggi del sole e la grassa digestione dei cibi offusca la mente.

Capitolo 2

Uno specchio sporco non riflette distintamente la forma che gli si pone di fronte e l’intelletto, ottuso dalla sazietà, non accoglie la conoscenza di Dio. Una terra incolta genera spine e da una mente corrotta dalla gola germogliano cattivi pensieri. Come il brago non può emanare fragranza neppure nel goloso sentiamo il soave profumo della contemplazione. L’occhio del goloso scruta con curiosità i banchetti, mentre lo sguardo del temperante osserva i simposi dei saggi. L’anima del goloso enumera i ricordi dei martiri, mentre quella del temperante imita il loro esempio. Il soldato vigliacco rabbrividisce al suono della tromba che preannuncia la battaglia, ugualmente trema il goloso di fronte ai proclami di temperanza. Il monaco goloso, sottomesso a sferzate dal proprio stomaco, esige il suo tributo giornaliero. Il viandante che cammina di buona lena raggiungerà presto la città e il monaco temperante arriverà presto ad uno stato di pace; il viandante lento si fermerà solo, all’aperto, ed il monaco ghiottone non raggiungerà la casa dell’apàtheia. L’umido vapore del suffumigio profuma l’aria, come la preghiera del temperante delizia l’olfatto divino. Se ti concedi al desiderio dei cibi nulla più ti basterà per soddisfare il tuo piacere: il desiderio dei cibi, infatti, è come il fuoco che sempre accoglie e sempre avvampa. Una misura sufficiente riempie il vaso mentre un ventre sfondato non dirà mai: «basta!». L’estensione delle mani mise in fuga Amalec e una vita attiva elevata sottomette le passioni carnali.

Capitolo 3

Stermina tutto ciò che ti ispirano i vizi e mortifica fortemente la tua carne. In qualunque modo, infatti, sia ucciso il nemico, esso non ti incuterà più paura, così un corpo mortificato non turberà l’anima. Un cadavere non avverte il dolore del fuoco e tantomeno il temperante sente il piacere del desiderio estinto. Se percuoti un egiziano, nascondilo sotto la sabbia, e non ingrassare il corpo per una passione vinta: come infatti nella terra grassa germina ciò che è nascosto così nel corpo grasso rivive la passione. La fiamma che illanguidisce si riaccende se viene aggiunta della legna secca e il piacere che si va attenuando rivive nella sazietà dei cibi; non compiangere il corpo che si lagna per lo sfinimento e non rimpinzarlo con pranzi sontuosi: se infatti lo rinforzerai ti si rivolterà contro muovendoti una guerra senza tregua, finché renderà schiava la tua anima e ti menerà servo della lussuria. Il corpo indigente è come un docile cavallo e mai disarcionerà il cavaliere: questo, infatti, costretto dal freno, arretra e obbedisce alla mano di chi tiene le briglie, mentre il corpo, domato dalla fame e dalle veglie, non recalcitra per un cattivo pensiero che lo cavalca ne nitrisce eccitato dall’impeto delle passioni.

La lussuria - Evagrio Pontico


Capitolo 4

La lussuria

La temperanza genera l’assennatezza, mentre la gola è madre della sfrenatezza; l’olio alimenta il lume della lucerna e la frequentazione delle donne attizza la fiaccola del piacere. La violenza dei flutti infuria contro il mercantile mal zavorrato come il pensiero della lussuria sulla mente intemperante. La lussuria accoglierà come alleata la sazietà, la congederà, starà con gli avversari e combatterà alla fine con i nemici. Rimane invulnerabile alle frecce nemiche colui che ama la tranquillità, chi invece si mescola alla folla riceve in continuazione percosse.
Vedere una femmina è come un dardo velenoso, ferisce l’anima, vi intrude il tossico e quanto più perdura, tanto più alligna la sepsi. Chi intende difendersi da queste frecce sta lontano dalle affollate riunioni pubbliche e non gironzola a bocca aperta nei giorni di festa; è infatti assai meglio starsene a casa passando il tempo a pregare piuttosto che compiere l’opera del nemico credendo di onorare le feste. Evita la dimestichezza con le donne se desideri essere saggio e non dar loro la libertà di parlare e neppure fiducia. Infatti all’inizio hanno o simulano una certa cautela, ma in seguito osano di tutto spudoratamente: al primo abboccamento tengono gli occhi bassi, pigolano dolcemente, piangono commosse, l’atteggiamento è grave, sospirano con amarezza, pongono domande sulla castità e ascoltano attentamente; le vedi una seconda volta e alzano un poco il capo; la terza volta si avvicinano senza troppo pudore; hai sorriso e quelle si sono messe a ridere sguaiatamente; in seguito si fanno belle e ti si mostrano con ostentazione, cambia il loro sguardo annunciando l’ardenza, sollevano le sopracciglia e ruotano gli occhi, denudano il collo e abbandonano l’intero corpo al languore, pronunciano frasi ammollite nella passione e ti sfoggiano una voce fascinosa ad udirsi finché non espugnano completamente l’anima. Accade che questi ami ti adeschino alla morte e queste reti intrecciate ti trascinino alla perdizione; e dunque non farti neppure ingannare da quelle che si servono di discorsi ammodo: in costoro infatti si occulta il maligno veleno dei serpenti.

Capitolo 5

Accostati al fuoco ardente piuttosto che ad una giovane donna, soprattutto se sei giovane anche tu: quando infatti ti avvicini alla fiamma e senti un bel bruciore, ti puoi allontanare rapidamente, mentre quando sei lusingato dalle ciarle femminili, difficilmente riesci a darti alla fuga. L’erba cresce quand’è vicina all’acqua, come germina l’intemperanza bazzicando le femmine. Colui che si riempie il ventre e fa professione di saggezza è simile a chi afferma di frenare la forza del fuoco nella paglia. Come infatti è impossibile contrastare il mutevole guizzare del fuoco nella paglia, così è impossibile colmare nella sazietà l’impeto infiammato dell’intemperanza. Una colonna poggia sulla base e la passione della lussuria ha le fondamenta nella sazietà. La nave preda delle tempeste si affretta a raggiungere il porto e l’anima del saggio cerca la solitudine: l’una fugge le minacciose onde del mare, l’altra le forme femminili che portano dolore e rovina. Una fattezza abbellita di donna affonda più di un maroso: ma l’uno ti dà la possibilità di nuotare se vuoi salva la vita, invece la bellezza muliebre, dopo l’inganno, ti persuade a disprezzare anche la vita stessa. Il rovo solitario si sottrae intatto alla fiamma e il saggio che sa tenersi lontano dalle donne non si accende d’intemperanza: come infatti il ricordo del fuoco non brucia la mente, così neppure la passione ha vigore se manca la materia.

Capitolo 6

Se avrai pietà per il nemico esso ti sarà nemico, e se farai grazia alla passione essa ti si ribellerà contro. La vista delle donne eccita l’intemperante, mentre spinge il saggio a glorificare Dio; se in mezzo alle donne la passione sta tranquilla non prestare fede a chi ti annuncia che hai raggiunto l’apàtheia. E infatti il cane scodinzola quando è lasciato in mezzo alla folla, mentre, quando se ne allontana, mostra la propria malvagità. Solo quando il ricordo della donna affiorerà in te privo di passione, allora ritieniti giunto ai confini della saggezza. Quando invece la sua immagine ti spinge a vederla e i suoi strali accerchiano la tua anima, allora ritieniti fuori dalla virtù. Ma non devi perdurare così in tali pensieri né la tua mente deve per molto familiarizzare con le forme femminili, la passione è infatti recidiva e ha accanto il pericolo. Come infatti accade che un’appropriata fusione purifichi l’argento, ma, se prolungata, facilmente lo distrugga, così una insistente fantasia di donne distrugge la saggezza acquisita: non avere infatti familiarità a lungo con un volto immaginato affinché non ti si appicchino le fiamme del piacere e non bruci l’alone che circonda la tua anima: come infatti la scintilla, rimanendo in mezzo alla paglia, sprigiona le fiamme, così il ricordo della donna, persistendo, incendia il desiderio.




[SM=g1740771]
[Modificato da Caterina63 12/11/2011 14:34]
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L'avarizia


Capitolo 7

L’avarizia

L’avarizia è la radice di tutti i mali e nutre come maligni ramoscelli le rimanenti passioni e non permette che inaridiscano quelle fiorite da essa. Chi vuole recidere le passioni ne estirpi la radice; se infatti poti per bene i rami e l’avarizia permane, non ti gioverà a nulla, perché essi, nonostante siano stati recisi, subito fioriscono. Il ricco monaco è come una nave troppo carica che viene sommersa dall’impeto di un fortunale: come infatti una nave che imbarca acqua è messa alla prova da ogni onda, così il ricco è sommerso dalle preoccupazioni. Il monaco che nulla possiede è invece un agile viaggiatore e trova dimora ovunque. Egli è come l’aquila che vola in alto e scende giù a cercare cibo quando vi è costretta. È superiore ad ogni prova, se la ride del presente e si leva in alto allontanandosi dalle cose terrene e accompagnandosi a quelle celesti: infatti ha ali leggere mai appesantite dalle preoccupazioni. Sopraggiunge l’oppressione ed egli lascia il luogo senza dolore; la morte arriva e quegli se ne va con animo sereno: infatti l’anima non è stata legata da vincolo terreno di sorta.
Chi invece molto possiede soggiace alle preoccupazioni e, come il cane, è legato alla catena, e, se viene costretto ad andarsene, si porta dietro, come un grave peso e un’inutile afflizione, i ricordi delle sue ricchezze, è punto dalla tristezza e, quando ci pensa, soffre molto, ha perso le ricchezze e si tormenta nello scoramento. E se arriva la morte abbandona miseramente i suoi averi, rende l’anima, mentre l’occhio non tralascia gli affari; a malincuore viene trascinato via come uno schiavo fuggiasco, si separa dal corpo e non si separa dai suoi interessi: poiché la passione lo trattiene più di ciò che lo trascina via.

Capitolo 8

Il mare non si riempie mai del tutto pur ricevendo la gran massa d’acqua dei fiumi, allo stesso modo il desiderio di ricchezze dell’avaro non è mai sazio, egli le raddoppia e subito desidera quadruplicarle e non cessa mai questo raddoppio, finché la morte non mette fine a tale interminabile premura. Il monaco assennato baderà alle necessità del corpo e sopperirà con pane e acqua allo stomaco indigente, non adulerà i ricchi per il piacere del ventre, né asservirà la sua libera mente a molti padroni: infatti le mani sono sempre sufficienti a servire il corpo e soddisfare le necessità naturali. Il monaco che non possiede nulla è un pugile che non può essere colpito in pieno e un corridore veloce che raggiunge rapidamente il premio dell’invito celeste. Il monaco ricco gioisce per i molti proventi, mentre quello che non ha nulla gode per i premi che gli vengono dalle cose ben riuscite. Il monaco avaro lavora duramente mentre quello che non possiede nulla usa il tempo per la preghiera e la lettura. Il monaco avaro riempie d’oro i penetrali, mentre quello che nulla possiede tesoreggia in cielo. Che sia maledetto colui che foggia l’idolo e lo nasconde, simile a colui che è affetto da avarizia: l’uno infatti si prostra di fronte al falso e all’inutile, l’altro porta in sé l’immagine della ricchezza, come un simulacro.



[SM=g1740771]

L'ira - Evagrio Pontico


Capitolo 9

L’ira

L’ira e una passione furente e con facilità fa uscir di senno quelli che hanno la conoscenza, imbestialisce l’anima e degrada l’intero consorzio umano. Un vento impetuoso non piegherà la torre e l’animosità non trascina via l’anima mansueta.
L’acqua è mossa dalla violenza dei venti e l’iracondo è agitato dai pensieri dissennati. Il monaco iracondo vede qualcuno e arrota i denti. La diffusione della nebbia condensa l’aria e il moto dell’ira annebbia la mente dell’iracondo. La nube procedendo offusca il sole e così il pensiero rancoroso ottunde la mente. Il leone in gabbia scuote continuamente i cardini come il violento nella cella (quando è assalito) dal pensiero dell’ira. È deliziosa la vista di un mare tranquillo, ma non è certo più dilettosa di uno stato di pace: infatti i delfini nuotano nel mare in bonaccia e i pensieri volti a Dio si immergono in uno stato di serenità. Il monaco magnanimo è una fonte tranquilla, gradevole bevanda offerta a tutti, mentre la mente dell’iracondo è continuamente agitata ed egli non darà l’acqua all’assetato e, se gliela darà, sarà intorbidata e nociva; gli occhi dell’animoso sono sconvolti e iniettati di sangue e annunziano un cuore in tumulto. Il volto del magnanimo mostra assennatezza e gli occhi benigni sono rivolti verso il basso.

Capitolo 10

La mansuetudine dell’uomo è ricordata da Dio e l’anima mite diviene il tempio dello Spirito Santo. Cristo reclina il capo in spirito mite e solo la mente pacifica diviene dimora della Santa Trinità. Le volpi allignano nell’anima rancorosa e le fiere si appiattano nel cuore sconvolto. Fugge l’uomo onesto l’alloggio malfamato, e Dio un cuore rancoroso. Una pietra che cade in acqua la agita, come un cattivo discorso il cuore dell’uomo. Allontana dalla tua anima i pensieri dell’ira e non bivacchi l’animosità nel recinto del tuo cuore e non lo turbi nel momento della preghiera: infatti come il fumo della paglia offusca la vista così la mente è turbata dal livore durante la preghiera. I pensieri dell’animoso sono prole di vipera e divorano il cuore che li ha generati. La sua preghiera è un incenso abominevole ed il salmodiare dà un suono sgradevole. Il dono del rancoroso è come un’offerta che brulica di formiche e di certo non si avvicinerà agli altari aspersi di acqua lustrale. L’animoso avrà sogni turbati e l’iracondo si immaginerà assalti di belve. L’uomo magnanimo ha la visione di consessi di santi angeli e colui che non porta rancore si esercita con discorsi spirituali e nella notte riceve la soluzione dei misteri.

La tristezza - Evagrio Pontico


Capitolo 11

La tristezza

Il monaco affetto dalla tristezza non conosce il piacere spirituale: la tristezza è un abbattimento dell’anima e si forma dai pensieri dell’ira. Il desiderio di vendetta, infatti, è proprio dell’ira, l’insuccesso della vendetta genera la tristezza; la tristezza è la bocca del leone e facilmente divora colui che si rattrista. La tristezza è un verme del cuore e mangia la madre che l’ha generato.
Soffre la madre quando partorisce il figlio, ma, una volta sgravata, è libera dal dolore; la tristezza, invece, mentre è generata, provoca lunghe doglie e, sopravvivendo, dopo i travagli, non porta minori sofferenze. Il monaco triste non conosce la letizia spirituale, come colui che ha una forte febbre non avverte il sapore del miele. Il monaco triste non saprà muovere la mente verso la contemplazione né sgorga da lui una preghiera pura: la tristezza è un impedimento per ogni bene. Avere i piedi legati è un impedimento per la corsa, così la tristezza è un ostacolo per la contemplazione. Il prigioniero dei barbari è legato con catene e la tristezza lega colui che è prigioniero delle passioni. In assenza di altre passioni la tristezza non ha forza come non ne ha un legame se manca chi lega. Colui che è avvinto dalla tristezza è vinto dalle passioni e come prova della sconfitta viene addotto il legame. Infatti la tristezza deriva dall’insuccesso del desiderio carnale poiché il desiderio è congiunto a tutte le passioni. Chi vincerà il desiderio vincerà le passioni e il vincitore delle passioni non sarà sottomesso dalla tristezza. Il temperante non è rattristato dalla penuria di cibo, né il saggio quando raggiunge una folle dissolutezza, né il mansueto che tralascia la vendetta, né l’umile se è privato dell’onore degli uomini, né il generoso quando incorre in una perdita finanziaria: essi evitarono con forza, infatti, il desiderio di queste cose: come infatti colui che è ben corazzato respinge i colpi, così l’uomo privo di passioni non è ferito dalla tristezza.

Capitolo 12

Lo scudo è la sicurezza del soldato e le mura lo sono della città: più sicura di entrambi è per il monaco l’ap theia. E infatti spesso una freccia scagliata da un forte braccio trapassa lo scudo e la moltitudine dei nemici abbatte le mura mentre la tristezza non può prevalere sull’ap theia. Colui che domina le passioni signoreggerà sulla tristezza, mentre chi è vinto dal piacere non sfuggirà ai suoi legami. Colui che si rattrista facilmente e simula un’assenza di passioni è come l’ammalato che finge di essere sano; come la malattia si rivela dall’incarnato, la presenza di una passione è dimostrata dalla tristezza. Colui che ama il mondo sarà molto afflitto mentre coloro che disprezzano ciò che vi è in esso saranno allietati per sempre. L’avaro, ricevuto un danno, sarà atrocemente rattristato, mentre colui che disprezza le ricchezze sarà sempre indenne dalla tristezza. Chi brama la gloria, al sopraggiungere del disonore, sarà addolorato, mentre l’umile lo accoglierà come un compagno. La fornace purifica l’argento di bassa lega e la tristezza di fronte a Dio il cuore preda dell’errore; la continua fusione impoverisce il piombo e la tristezza per le cose del mondo sminuisce l’intelletto. La caligine indebolisce la forza degli occhi e la tristezza inebetisce la mente dedita alla contemplazione; la luce del sole non raggiunge gli abissi marini e la visione della luce non rischiara un cuore rattristato; dolce è per tutti gli uomini il sorgere del sole, ma anche di questo si dispiace l’anima triste; l’ittero toglie il senso del gusto come la tristezza che sottrae all’anima la capacità di percepire. Ma colui che disprezza i piaceri del mondo non sarà turbato dai cattivi pensieri della tristezza.

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[SM=g1740733] questo passo sulla tristezza deve essere correttamente interpretato alla luce propria dei Santi che riflettono la Luce Divina....
infatti anche Gesù "provò tristezza: L'ANIMA MIA E' TRISTE" si legge nel Vangelo nella scena del Getzemani.... provare tristezza è di conseguenza, una normalissima reazione dei sentimenti, e guai se non ci fosse tale "senso", la sua assenza ci provocherebbe apatia, indifferenza....
gli stessi discepoli, a seguito dei fatti della Croce, si rattristarono... e così la Maddalena... il senso della tristezza smuove dunque, in noi, I VERI SENTIMENTI VERSO DIO.... e di conseguenza il vero peccato è CEDERE, ABBANDONARSI alla tristezza... la quale, come OGNI TENTAZIONE, viene permessa da Dio affinchè possiamo vincerla...in Cristo, con Cristo e per Cristo....
Il Siracide, dice infatti: "Non abbandonarti alla tristezza, non tormentarti con i tuoi pensieri. La gioia del cuore è la vita per l’uomo, l’allegria di un uomo è lunga vita!" (Sir 30,22-23). La Parola di Dio è la nostra gioia.


[SM=g1740734]




[Modificato da Caterina63 24/11/2011 12:31]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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L'acedia - Evagrio Pontico


Capitolo 13

L’acedia

L’acedia è una debolezza dell’anima che insorge quando non si vive secondo natura né si fronteggia nobilmente la tentazione. Infatti la tentazione è per un’anima nobile ciò che è il cibo per un corpo vigoroso. Il vento del nord nutre i germogli e le tentazioni consolidano la fermezza dell’anima.
La nube povera d’acqua è allontanata dal vento come la mente che non ha perseveranza dallo spirito dell’acedia. La rugiada primaverile accresce il frutto del campo e la parola spirituale esalta la fermezza dell’anima. Il flusso dell’acedia caccia il monaco dalla propria dimora, mentre colui che è perseverante se ne sta sempre tranquillo. L’acedioso adduce quale pretesto la visita degli ammalati, cosa che garantisce il proprio scopo. Il monaco acedioso è rapido a svolgere il suo ufficio e considera un precetto la propria soddisfazione; la pianta debole è piegata da una lieve brezza e immaginare la partenza distrae l’acedioso. Un albero ben piantato non è scosso dalla violenza dei venti e l’acedia non piega l’anima ben puntellata. Il monaco girovago, secco fuscello della solitudine, sta poco tranquillo e, senza volerlo, è sospinto qua e là di volta in volta. Un albero trapiantato non fruttifica e il monaco vagabondo non dà frutti di virtù. L’ammalato non è soddisfatto da un solo cibo e il monaco acedioso non lo è da una sola occupazione. Non basta una sola femmina a soddisfare il voluttuoso e non è abbastanza una sola cella per l’acedioso.

Capitolo 14

L’occhio dell’acedioso fissa le finestre continuamente e la sua mente immagina che arrivino visite: la porta cigola e quello balza fuori, ode una voce e si sporge dalla finestra e non se ne va da lì finché, sedutosi, non si intorpidisce. Quando legge, l’acedioso sbadiglia molto, si lascia andare facilmente al sonno, si stropiccia gli occhi, si stiracchia e, distogliendo lo sguardo dal libro, fissa la parete e, di nuovo, rimessosi a leggere un po’, ripetendo la fine delle parole, si affatica inutilmente, conta i fogli, calcola i quaternioni, disprezza le lettere e gli ornamenti e infine, piegato il libro, lo pone sotto la testa e cade in un sonno non molto profondo, e infatti, di lì a poco, la fame gli risveglia l’anima con le sue preoccupazioni. Il monaco acedioso è pigro alla preghiera e di certo non pronuncerà mai le parole dell’orazione; come infatti l’ammalato non riesce a sollevare un peso eccessivo, così anche l’acedioso di sicuro non si occuperà con diligenza dei doveri verso Dio: all’uno infatti difetta la forza fisica, all’altro viene meno il vigore dell’anima. La pazienza, il far tutto con molta assiduità e il timor di Dio curano l’acedia. Disponi per te stesso una giusta misura in ogni attività e non desistere prima di averla conclusa, e prega assennatamente e con forza e lo spirito dell’acedia fuggirà da te.


La vanagloria - Evagrio Pontico


Capitolo 15

La vanagloria

La vanagloria è una passione irragionevole e facilmente s’intreccia con tutte le opere di virtù. Un disegno tracciato nell’acqua si confonde, come la fatica della virtù nell’anima vanagloriosa.
Diviene candida la mano nascosta in seno e l’azione che rimane celata risplende di una luce più smagliante. L’edera s’avvinghia all’albero e, quando giunge in alto, ne dissecca la radice, così la vanagloria si origina dalle virtù e non si allontana finché non avrà reciso la loro forza. Il grappolo d’uva, buttato a terra, marcisce facilmente e la virtù, se si appoggia alla vanagloria, perisce. Il monaco vanaglorioso è un lavoratore senza salario: si impegna nel lavoro e non riceve alcuna paga; la borsa bucata non custodisce ciò che vi è riposto e la vanagloria distrugge i compensi delle virtù. La continenza del vanaglorioso è come il fumo del camino, entrambi si disperderanno nell’aria. Il vento cancella l’orma dell’uomo come l’elemosina del vanaglorioso. La pietra lanciata non raggiunge il cielo e la preghiera di chi desidera piacere agli uomini non salirà fino a Dio.

Capitolo 16

La vanagloria è uno scoglio sommerso: se vi urti contro rischi di perdere il carico. Nasconde il suo tesoro l’uomo prudente quanto il saggio monaco le fatiche della sua virtù. La vanagloria consiglia di pregare nelle piazze, colui che invece vi si oppone prega nella sua stanzetta. L’uomo poco assennato rende nota la propria ricchezza e spinge molti a tendergli insidie. Nascondi invece le tue cose: durante il cammino ti imbatterai in lestofanti finché non arriverai alla città della pace e potrai usare i tuoi beni tranquillamente. La virtù del vanaglorioso è un sacrificio consunto e non è certo offerto all’altare di Dio. L’acedia dissolve il vigore dell’anima, mentre la vanagloria fortifica la mente che dimentica Dio, rende robusto l’astenico e il vecchio più forte del giovane, solo finché sono molti i testimoni che assistono a tutto questo: allora saranno inutili il digiuno, la veglia e la preghiera, è infatti la pubblica approvazione che eccita lo zelo. NÉ metterai in vendita le tue fatiche per la fama, né rinuncerai alla gloria futura per essere acclamato. Infatti l’umana gloria si accampa in terra e sulla terra la sua fama si estingue, mentre la gloria della virtù rimane in eterno.



La superbia - Evagrio Pontico


Capitolo 17

La superbia

La superbia è un tumore dell’anima pieno di sangue.
Se matura scoppierà, emanando un orribile fetore. Il bagliore del lampo annuncia il fragore del tuono e la presenza della vanagloria annuncia la superbia. L’anima del superbo raggiunge grandi altezze e da lì cade nell’abisso. Si ammala di superbia l’apostata di Dio ascrivendo alle proprie capacità le cose ben riuscite. Come colui che sale su una tela di ragno precipita, così cade colui che si appoggia alle proprie capacità. Un’abbondanza di frutti piega i rami dell’albero e un’abbondanza di virtù umilia la mente dell’uomo. Il frutto marcio è inutile al contadino e la virtù del superbo non è accetta a Dio. Il palo sostiene il ramo carico di frutti e il timore di Dio l’anima virtuosa. Come il peso dei frutti spezza il ramo così la superbia abbatte l’anima virtuosa. Non consegnare la tua anima alla superbia e non avrai terribili fantasie. L’anima del superbo è abbandonata da Dio e diviene oggetto di gioia maligna per i demoni. Di notte egli si immagina branchi di belve che l’assalgono e di giorno è sconvolto da pensieri di viltà. Quando dorme facilmente sussulta e quando veglia lo spaventa l’ombra di un uccello. Lo stormire delle fronde atterrisce il superbo e il suono dell’acqua spezza la sua anima. Colui che infatti poco prima si è opposto a Dio respingendo il suo soccorso, viene poi spaventato da volgari fantasmi.

Capitolo 18

La superbia precipitò l’arcangelo dal cielo e come un fulmine lo fece piombare sulla terra. L’umiltà invece conduce l’uomo verso il cielo e lo prepara a far parte del coro degli angeli. Di che ti inorgoglisci, o uomo, quando per natura sei melma e putredine, e perché ti sollevi sopra le nuvole? Guarda alla tua natura poiché sei terra e cenere e fra un po’ tornerai alla polvere, ora superbo e tra poco verme. A che pro sollevi il capo che tra non molto marcirà? Grande è l’uomo soccorso da Dio; una volta abbandonato egli riconobbe la debolezza della natura. Nulla possiedi che tu non abbia ricevuto da Dio. Perché dunque ti scoraggi per ciò che appartiene ad altri come se fosse tuo? Perché ti vanti di quel che viene dalla grazia di Dio come se fosse una tua personale proprietà? Riconosci colui che dona e non ti inorgoglire tanto: sei creatura di Dio, non disprezzare perciò il creatore. Dio ti soccorre, non respingere il beneficatore. Sei giunto alla sommità della tua condizione, ma lui ti ha guidato; hai agito rettamente secondo virtù ed egli ti ha condotto. Glorifica chi ti ha innalzato per rimanere al sicuro nelle altezze; riconosci colui che ha le tue stesse origini perché la sostanza è la medesima e non rifiutare per iattanza questa parentela.

Capitolo 19

Umile e moderato è colui che riconosce questa parentela; ma il demiurgo plasmò sia lui sia il superbo. Non disprezzare l’umile: infatti egli è più al sicuro di te: cammina sulla terra e non precipita; ma colui che sale più in alto, se cade, si sfracellerà. Il monaco superbo è come un albero senza radici e non sopporta l’impeto del vento. Una mente senza boria è come una cittadella ben munita e chi vi abita sarà imprendibile. Un soffio di vento solleva la festuca e l’insulto porta il superbo alla follia. Una bolla scoppiata svanisce e la memoria del superbo perisce. La parola dell’umile addolcisce l’anima, mentre quella del superbo è ripiena di millanteria. Dio si piega alla preghiera dell’umile, è invece esasperato dalla supplica del superbo. L’umiltà è la corona della casa e tiene al sicuro chi vi entra. Quando salirai al sommo delle virtù allora avrai molto bisogno di sicurezza. Colui infatti che cade sul pavimento rapidamente si rialza, ma chi precipita da grandi altezze, rischia la morte. La pietra preziosa si addice al bracciale d’oro e l’umiltà umana risplende di molte virtù.


[SM=g1740733]






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I nostri svaghi e la Vergine Maria

Quanto segue è tratto per me e per voi, Amici, da: Filotea Mariana, una raccolta di saggi, aneddoti, preghiere e devozione della tradizione e si chiama: "Un segreto di felicità" di padre Francesco M. Avidano S.M. - Nona Edizione - Torino - con Imprimatur 1962


Il Cristianesimo è la religione della vera gioia!


Chi lo rappresenta come la religione della tristezza, gli rende un gran brutto servizio!

Ma tutto sta a capire di quale gioia parliamo, e cosa vogliamo intendere per gioia.
Innanzi tutto la nostra religione è bellezza e gioia, ed ha reso tollerabile semmai ciò che c'è di più insopportabile nella vita, basti pensare alla malattia per esempio, alla sofferenza, persino alla povertà, senza dimenticare che san Francesco giunse persino a chiamare la Morte, Sorella, e la povertà come sua sposa.
San Paolo è il banditore di questa gioia dopo avera perseguitata, quando ancora non la conosceva bene, ma dopo avere avuto la grazia di conoscerla, non ha saputo più tacere, nè contenersi, egli annuncia a tutti: gaudete, iterum dico, gaudete! Gioite!

Ma di cosa dobbiamo giore? Della nostra fede perchè se il Cristianesimo è la religione della gioia, lo è in virtù della Redenzione, della riabilitazione dell'anima, delle eterne speranze, e lo è perchè è la fede della Santissima Vergine

Maria, della Madre del Redentore, Madre della vera gioia che è Gesù stesso. E' la gioia della Vergine Maria che noi vantiamo, per questo la invochiamo con il titolo di: Causa nostrae letitiae; o nella Salve Regina quando diciamo: dolcezza, speranza nostra!
Se la "causa della nostra letizia" non è riposta nella Vergine Maria e nel Suo Divin Figlio, che è la gioia incarnata, il Verbo Incarnato, allora non stiamo parlando della stessa gioia, questo è l'unico limite oltre il quale non vi può essere vera gioia, perchè la "causa della letizia" se non è posta in Maria Santissima e nel Suo Divin Figlio, allora è riposta altrove, non in Dio, e perciò non può essere vera gioia, è una illusione, una falsità, una letizia puramente terrena, mondana, lontana da Dio.
Il Cristianesimo pertanto, non ci impedisce mai di essere felici e gioiosi, al contrario! Possiamo e dobbiamo manifestare questa gioia in molti modi, purchè sia una manifestazione onesta, e cioè, che sia Maria Santissima la "causa della nostra letizia" e il "frutto del Suo seno, Gesù" attraverso l'insegnamento stesso della Santa Chiesa che nella figura delle Sacre Scritture, è il Corpo di Nostro Signore, Egli è il Capo, e Maria Santissima ne è la legittima e degnissima Madre.

State allegri, ma non fate peccati! diceva il grande san Filippo Neri, ecco come i Santi sanno riassumere la legge della gioia cristiana.

E sono sempre i Santi a riassumerci nella Devozione a Maria Santissima la fonte, la sorgente delle consolazioni, della letizia, della gioia stessa di diventar santi.
Se la nostra servitù per mezzo di Maria, è una servitù di vero amore, allora vivremo nella gioia, mai un giorno nella tristezza, e se anche la tristezza vi giungesse per altre vie che il Diavolo sempre potrebbe infilarci nelle tentazioni, la Madonna stessa ci verrà in soccorso. San Filippo Neri ebbe molto di che soffrire, ma non era mai triste, ed ogni giorno diceva tutto il Rosario intero e da dove, diceva, gli veniva caricato il cuore di immense gioie.

La nostra buona Padrona è Regina! Non è un avaro che cerca di sfruttare i suoi dipendenti a suo vantaggio! Ella ci permette e anzi ci comanda, a tempo e a luogo, divertimenti e sane ricreazioni, assicurandoci che, anche divertendoci, possiamo amarLa e piacerLe, purchè tutto si faccia con onestà che altro non è che guardare al Suo Divin Figlio, la fonte della gioia vera.


seguiranno consigli specifici.....


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1. Santifica le tue ricreazioni:

- ricreati pensando a Maria quando giocava con Gesù Bambino;
- ricevendole e facendole con Maria, ossia, in modo che Ella possa partecipare alla nostra ricreazione e così trovarsi bene. Come si può fare questo? Fate in modo di fare la ricreazione sempre alla Sua presenza davanti ad un Suo piccolo altarino, davanti alla Sua Immagine, davanti ad una piccola grotta se avrete la possibilità di un giardino o di un balcone, o di un cortile...
- nella ricreazione cantate a Maria, ci sono molti inni, molti canti devozionali che si possono svolgere in queste occasioni: sorridete a Maria, fate tutto alla Sua presenza.
- non parlate mai male di nessuno, non criticate specialmente chi è assente, sforzatevi di fare della ricreazione una "palestra di virtù" perchè è proprio nella convivenza, è al contatto ed anche nell'attrito con gli altri che si conosce la vera carità, che si manifestano o le virtù o i difetti, qui si conosce la vera pietà, qui si rende palese se siamo veri servi di Maria.
- fuggi dalle ricreazioni con persone poco raccomandabili, non pensare di essere un perfetto virtuoso, la tentazione è sempre in agguato e tu hai il dovere di fuggirla, di governarla, non c'è vera gioia senza la pratica delle virtù.
- non farti coinvolgere in feste dissacranti la purezza, la castità, la continenza, la vera gioia non sta nel dissacrare il nostro corpo che è Tempio di Dio, o nell'uccidere la nostra anima che fu comprata a caro prezzo. Che gioia potresti mai provare trovandoti fra persone che bestemmiano, offendono la Madre di Dio, i Santi, il Sommo Pontefice? Se non sei all'altezza di fare apostolato, sii umile, è meglio una ritirata per onore della Santissima Madre di Dio che una sconfitta per aver preteso di convertire degli stolti, illudendosi di portare gioia laddove viene rifiutata. Rammenta l'umiltà di san Tommaso d'Aquino che sapeva riconoscere: "Quando perciò si giudica probabile che il peccatore non accetterà l'ammonizione, ma farà peggio, si deve desistere dal correggerlo" (Glossa ordinaria su Galati, 2, 14).

2. Santifica le tue vacanze:

- è importante ricordare che siamo sempre di Maria in ogni tempo e luogo, e quindi anche in vacanza, e forse potremo dire in modo speciale in tempo di vacanze quando, le tentazioni, si fanno più forti. La vacanza inoltre deve diventare luogo di apostolato, palestra di fedeltà a Maria, alla preghiera specialmente al Rosario, alla Confessione, alla Santa Messa.
- Taluni andando in vacanza pensano scioccamente che anche Dio ci lascia e va in villeggiatura! Ma non sia per te questo ragionare. Tu in vacanza cerca un altare della Madonnina e premunisciti di curarlo ogni giorno con dei fiori freschi, con il sostare presso di Lei e fare lettura del Breviario.
- porta nel tue bagaglio tutte le virtù e mettile a frutto, specialmente la purezza, il vestire modesto, non essere di scandalo a nessuno, non essere tentazione di cattivi pensieri per gli altri.
- cercate di essere gioiosi per insegnare, a chi vi sta accanto, quella "causa della nostra letizia", non vergognatevi di essere innocenti, praticate il santo pudore, come insegna l'Apostolo Pietro: date sempre ragione della gioia e della speranza che è in voi (cfr 1Pt.3,15).
- rammentate sempre che l'ozio è il padre dei vizi, anche in vacanza!
- approfittate di questo tempo di vacanza per fare apostolato soprattutto con l'esempio, fermandovi a consolare qualche afflitto, fermandovi a consigliare qualche dubbioso, fermandovi a dire con qualcuno  un Rosario anche durante una passeggiata.
- usate questo tempo per imparare i canti della Tradizione, molti canti della Devozione mariana, come inni dedicati ai Divini Misteri, si prestano proprio per creare allegre compagnie.
- non dimeticare di portare in vacanza la Sacra Scrittura e qualche buon libro dei Santi o che parlino di loro e delle loro gesta, approfitta di questo tempo per approfondire argomenti nei quali sei in difficoltà, approfondisci la sacra Dottrina.
- anche in questo tempo non trascurare piccoli sacrifici, qualche leccornia magari per acquistare qualche libretto devozionale e seminarli attorno a te, "dimenticarli" nelle case dove vai in vacanza e pensa quale immenso dono Dio ti potrebbe fare di più se a causa tua qualche anima, anche se a tua insaputa, potrà convertirsi, grazie alla tua testimonianza, grazie ad un libretto che avrai lasciato in giro....
- se vai al mare affida i tuoi bagni alla Stella del Mare, non vergognarti di farti un segno della Croce anche se sei sulla spiaggia o fra amici; se puoi indossa la Sua Medaglietta. Non spogliarti troppo, cerca di essere pudica, i ragazzi siano modesti negli sguardi e nei pensieri, imparate a rispettarvi vicendevolmente, ricordate che siete entrambi di Maria Santissima.
- se andate in montagna affidate le vostre escursioni o passeggiate alla Beata Vergine del Monte Carmelo;
- se non vi potete permettere alcuna vacanza, non siate tristi, pensate alla Madonna Santissima che non andava certo in vacanza! Dell'unica vacanza che conosciamo fu quando andò a far visita alla cugina santa Elisabetta, ma per portarle aiuto poichè era anziana ed incinta! Ricordate il Suo canto di gioia che è il Magnificat.
- quando vi spostate con un mezzo, invocate Nostra Signora del Buon Viaggio, la Madonna della Strada, santa Maria in via, non dimenticate mai di invocare l'Angelo Custode.
Non vergognarti di invocare Maria quale Nostra Signora della Buona Morte, perchè noi qui sulla terra siamo in viaggio e la nostra meta è il Cielo, e non sappiamo nè il giorno, nè l'ora che il Signore ha previsto e predisposto per il grande passo, meglio farsi trovare sempre pronti, per quanto ci sarà possibile, perciò non far trascorrere troppo tempo da una Confessione all'altra.
Ricordatevi sempre cosa diciamo nella Salve Regina: che questa è una valle di lacrime e pertanto è Lei la Causa della nostra letizia, è il frutto benedetto del Suo seno la nostra gioia. Nessuna vacanza perciò, potrebbe mai darci la vera gioia se con noi non ci fosse Maria Santissima, se con noi non  ci fosse Nostro Signore Gesù Cristo.



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Santi Comandamenti


Quanto segue è tratto per me e per voi, Amici, da: Filotea Mariana, una raccolta di saggi, aneddoti, preghiere e devozione della tradizione e si chiama: "Un segreto di felicità" di padre Francesco M. Avidano S.M. - Nona Edizione - Torino - con Imprimatur 1962



[SM=g1740733] I pasti e la Madonna

La santa Schiavitù ti aiuterà a nobilitare e santificare anche questa azione in sè così materiale. Quante anime pie, infatti, e anche religiose, che hanno saputo rinunciare a tutto, sono poi state invece schiave della gola!
Ascolta cosa devi fare: impara a mangiare da uomo, da cristiano, da schiavo di Maria.

1. Da Uomo: impara innanzi tutto questo, mangiare per vivere e non vivere per mangiare. Gli animali vivono per mangiare, eppure se essi sono addomesticati imparano a rispettare le regole che tu, uomo, dai loro, a maggior ragione comportati come uno che ha delle regole.
E poi pensa qual dolorosa necessità dover interrompere la preghiera, il lavoro, per pensare a mangiare e poi per digerire... Assoggetati perciò ad essa come ad una umiliante necessità "per vivere devo mangiare", ma non essere di quelli che fanno del cibo il pensiero dominante della vita e non sanno parlare d'altro che di ciò che hanno mangiato e di quel che mangeranno qualche ora più tardi; non essere di quelli che non s'accontentano mai di nulla a tavola e che se non soddisfano il gusto sono capaci di mandarsi storta la giornata. Tu mangia da uomo saggio, che se la salute te lo permette certamente, apprezza tutto ciò che ti sarà offerto in cibo, impara a mangiar ciò che ti fa bene ma forse non ti piace nel gusto, sii gioioso se qualche volta il pasto è poco saporito. Non riempirti lo stomaco fino alla sazietà, così mangiano gli animali, ma loro sono giustificati, eppure se li addomestichi s'accontentano di ciò che il padrone gli dà, impara anche poco alla volta le piccole rinuncie fino a soddisfare, piuttosto, il piacere di qualche diogiuno.

2. Da Cristiano: il primo condimenti dei tuoi pasti sia la preghiera e la mortificazione, il fioretto. Se hai più tempo aggiungi alla preghiera del pasto anche un'Ave Maria, e glieLa offrirai pensando a Lei mentre era in fuga in Egitto, quasi partoriente, non aveva molto di che mangiare. Anche durante il pasto non smettere di nutrire l'anima, se ti è possibile, ascolta qualche passo della Scrittura, in famiglia qualcuno a turno, durante il desco, può leggere qualche brano ispirato scritto dai Santi, oppure dal Trattato della Vera Devozione a Maria, o dal Segreto di Maria, o dalle Glorie di Maria, perchè "non di solo pane vive l'uomo", pensa a quanti sono senza pane e ciò che tu mangi è dono di Dio.
Questi consigli ci sono dati dall'Apostolo Paolo, quando dice:  1Corinzi 10, 31 Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate alcun'altra cosa, fate tutte le cose per la gloria di Dio.
Non dimenticare le pene che siscontano in Purgatorio per i peccati di gola! E ti sia di giovamento pensare alle eterne ricompense con cui Dio rimunerà anche la più piccola mortificazione che avrai fatto per amor Suo.
Quando Gesù mangiava pensava anche all'Ultima Cena, pensava a quel pane e a quel vino  che avrebbe trasformato nel Suo Corpo e nel Suo Sangue, sacrificato per la nostra salvezza, così il vero Cristiano, anche a tavola, non pensa a se stesso, ma piuttosto pensa agli altri, mentre mangia può pensare a cosa fare magari per un vicino di casa in difficoltà, o per qualche fedele della parrocchia in difficoltà, o per andare a trovare un malato, vedi come anche mangiando si può pianificare il proprio apostolato.
Infine, se sei invitato a qualche pranzo importante, non metterti in mostra, cerca sempre l'ultimo posto, non ostentare, ed anche qui, senza offendere il padrone di casa,  nascondi le tue mortificazioni.

3. Da Schiavo di Maria: pensa subito e spesso a come è divinamente bello immaginare la Vergine Santa mentre serve Gesù a tavola, mentre porge il piatto al Suo Casto Sposo san Giuseppe, dopo una giornata di lavoro. Immagina come Gesù, seduto a tavola, mangiasse con loro. Stai pur certo che la Madonna non pensava al cibo in sè, ma guardava il Suo adorabile Gesù, e sempre pensava a quel Mistero che aveva davanti: tutto Dio ed anche tutto Uomo, Suo Figlio, e pensava di certo come avrebbe potuto servirLo al meglio nel mentre che cresceva.
Che bello e che dono poter mangiare sempre alla presenza della Divina Famiglia. Maria dava i bocconi più prelibati a Gesù Bambino, così i Santi hanno imparato a fare altrettanto con i poveri, dando il meglio che avevano a loro, spesso si astenevano da qualche ghiotto boccone che offrivano alla Madonna perchè in qualche modo Ella potesse far giungere quella rinuncia a qualche povero.
Maria era tutta protesa all'ascolto di Gesù, sappi anche tu introdurre delle buone conversazioni a tavola, e se sei un religioso, sfrutta la lettura di tavola, è importante non perdersi nelle chiacchiere peccaminose, specialmente quelle vanitose, quelle in cui ci si autogratifica di se stessi.

4. Impara a vedere in chi ti serve la Vergine Santissima e ti sarà più facile:

a. mangiare con umiltà: io che sono il servo, vengo servito! Ho davvero guadagnato questo cibo? Sappi riconoscere la Provvidenza e di spesso: Oh! come la Madonna Santa tratta bene i suoi servi!

b. con la santa mortificazione: come potrei lamentarmi di tal simile Provvidenza sulla mia tavola? E questa non è fantasia! La Madonna vuole davvero che tu accetti, in nome Suo, tutto ciò che ti portano, senza lamentarti, ma ringraziando sempre il Signore prima, durante e dopo il pasto.

c. con fedeltà e devozione, cioè: sempre come se stessi alla presenza di Dio, ricordando di avere sempre accanto a te il tuo Angelo Custode. Usa la fedeltà specialmente nei giorni di digiuno prescritti dalla santa Chiesa, giungi ad un santo digiuno di devozione specialmente il Venerdì e al Sabato dedicato alla Madonna, ricordandoti che alle ore 15,00 del Venerdì Gesù moriva sulla Croce per te. Questo pensiero ti aiuterà a mantenerti fedele nella mortificazione e nel digiunare.

Se all'inizio dell'impresa ti riuscirà difficile mantenerti fedele, non scoraggiarti, aiutati con la Confessione, con la santa Eucaristia, con il Rosario, non smettere mai di impegnarti e alla fine vedrai che i risultati arriveranno, e tu guadegnerai immensi benifici e tanto giovamento. Pensa sempre che più ti impegnerai a favore dei peccatori, dei poveri, di chi è lontano dalla Chiesa, per la loro conversione, e più tu riciverai benefici.
La Madre Matilde del SS. Sacramento, Abbadessa del Monastero, aveva stabilito che fosse portata, ogni giorno, la miglior porzione ai piedi della Santissima Vergine, e così che venisse distribuita ai poveri che andavo a bussare in quell'ora.

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DIGIUNO....PECCATO DI GOLA..... c’è tutta una scienza, tutta una teologia, tutta una realtà schiacciante che dovrebbe farci riflettere a lungo ;-)

NON DI SOLO PANE VIVE L’UOMO…. il peccato di gola è così quell’eccesso che non ci fa vedere quale sia quest’altro “cibo” che dovrebbe nutrirci e cosa dovrebbe nutrire…
già, oltre al corpo, cosa c’è da nutrire? L’ANIMA! ;-) ma sarebbe come ammettere che l’anima esiste con tutto ciò che questa scoperta porterebbe….

Ottimo articolo!!!

 

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GOLA

Il cibo non è l’inferno.

Ma non è manco il paradiso.

 

Il realismo cattolico a tavola

 

 

 

Mettere in guardia dalla gola significa allora trasformarsi in asceti duri e puri, vivendo più di aria che di cibo? No, è stato già spiegato, altrimenti ci riduciamo senza forze e, se non abbiamo la fede del Curato d’Ars, il rischio è che facciamo più male che bene alla nostra anima. L’accusa rivolta a Gesù di essere un mangione e un beone, deve farci evitare qualsiasi fuga dal cibo stiamo progettando in riparazione dei nostri peccati. Non perché il Maestro fosse davvero un godereccio amante della buona tavola e a cui piaceva alzare volentieri il gomito. Il punto è un altro: evidentemente, di fronte all’esteriorità culturale praticata in Israele da molti, il suo atteggiamento sereno nei confronti del cibo lasciava indignati coloro che vedevano attentati ad una presunta purezza ovunque meno che nei loro stessi comportamenti. Dai Vangeli sappiamo che Gesù sapeva digiunare anche a lungo ma, con la stessa naturalezza, si sedeva alle tavole a cui veniva invitato.

di Claudia Cirami
 
Quando arriva la Quaresima, i primi “fioretti” che ci vengono in mente – per lo meno a noi donne, ma pare anche agli uomini – hanno a che fare con l’alimentazione. Raccogliendo buoni propositi in giro, risulta che, nel tempo quaresimale, alle pratiche del digiuno e di astinenza dalle carni, già prescritti dalla Chiesa e, si spera, seguiti dai fedeli, aggiungiamo anche altri sacrifici: via dolci e cioccolato prima di tutto, ma c’è anche chi si astiene da pizza, bevande gassate, patatine fritte, etc… Qualche malizioso potrebbe sospettare che lo facciamo per questioni di dieta – e al 60% è così – e che simili fioretti non abbiano molto valore. Con la scusa di offrire a Dio i nostri sacrifici per un serio itinerario penitenziale, saliamo più disinvolti sulla bilancia, certi che, almeno in Quaresima, questa non ci farà brutti scherzi. C’è però quel 40% che ci porta a riflettere su quello che è ritenuto uno dei sette vizi capitali ma che, in tutta sincerità, la maggior parte di noi si ricorda solo a partire dal momento in cui il sacerdote, mettendoci le ceneri in testa, ci dice: “polvere sei e polvere ritornerai” (o il più gettonato e politicamente corretto: “convertitevi e credete al Vangelo”).
 
LA PIÙ SANTA DELLE FESTE DIVENNE LA PIÙ PAGANA
 
Riflessione quella sulla gola che, di solito, torna a nascondersi nei meandri oscuri della nostra mente non appena scocca l’ora x: l’arrivo della Pasqua. Che, di solito, non è vissuta in un gioioso clima di festa e convivialità, in cui il cibo è parte integrante ma non protagonista assoluto, come conviene alla Festa delle feste che chiude il cammino di penitenza con la notizia sulla Resurrezione. La Pasqua è, invece, spudoratamente omaggiata con assalti imbarazzanti alle uova di cioccolato, pantagruelici pranzi e luculliane gite gastronomiche fuoriporta. Nemmeno fosse la più pagana delle feste e noi come poveri affamati da tempo immemore che si lanciano sulla prima pasta al forno che vedono, come nella celebre scena del film “Miseria e nobiltà” con l’inimitabile Totò. Buttandoci alle spalle, quasi con fastidio, quel poco di sobrietà dei pensieri e delle azioni che la Quaresima ci ha ispirato e non pensandoci più. Perché – confessiamolo – chi considera, per il resto dell’anno, che quell’abbuffata di Capodanno o al pranzo di matrimonio dei cugini, quel gettarsi a capofitto – in un momento di rabbia o di tristezza – sulla prima scatola di cioccolatini che ci capita a tiro, quell’ innocente “Com’è buono! Ne prendo ancora un pò”, ripetuto in serate di cene con i parenti, di pizzerie con gli amici, di spuntini con i colleghi, di aperitivi con i conoscenti (in cui quel “un pò” diventa presto un mattone sullo stomaco), chi considera – ripeto – che tutto questo abbia a che fare con la nostra vita spirituale? Che c’entrano gli scatti di ira, la maldicenza, le bugie, l’indolenza nei riguardi di Dio e del prossimo, le cadute sessuali e via dicendo con quel vasetto di crema al cioccolato, finito a tempo di record, con quel piatto speciale della nonna defunta, mangiato in quantità industriali, con quei “ravioli con cuore di noci in un letto di crema di pistacchi con tripudio di granella di nocciole e cannella” che tanto ti ha entusiasmato l’ultima volta al ristorante (e che, per imparare il nome, hai dovuto pure leggerlo più volte)? Suvvia, non facciamo i moralisti…


DEL PERCHÈ I PROTESTANTI MANGIANO MALE E I CATTOLICI BENE

 
E invece, dobbiamo ricrederci. Partiamo dal riconoscere la possibilità di peccare con la gola. Che il peccato di gola fosse un vero peccato (e non un slogan pubblicitario) lo sapeva bene Leo Moulin, intellettuale con vari interessi, tra cui la storia dell’alimentazione. A Messori, in Inchiesta sul cristianesimo, spiegò la differenza tra la cucina polacca, ottima, e quella tedesca, non particolarmente riuscita (non me ne vogliate, amici tedeschi, ma c’è di meglio tra le altre cucine), nonostante la similitudine tra le due nazioni riguardo a clima e alimenti. Disse Moulin: “la spiegazione è religiosa: ovunque la gastronomia dei riformati è meno saporita e meno ricca di quella dei cattolici. Il fatto è che il protestantesimo ha creato sì una società economicamente assai vivace… ma ha compresso la joie de vivre: l’uomo è visto come solitario davanti a Dio, deve assumere tutto il peso delle sue azioni e delle sue colpe, compresa quella dell’abbandono alla ‘sensualità’ del cibo. Il cattolico è più libero, meno complessato, perché sa che, ad aiutarlo e a giustificarlo, c’è tutta una rete di mediazioni ecclesiali e culturali, c’è soprattutto la confessione con il suo perdono liberante”. Capiamoci bene, dunque: se aspettiamo il perdono liberante anche per i peccati di gola, vuol dire che non possiamo considerarli inezie. E, a questo punto, dobbiamo dare anche alla gola tutta l’importanza che questo vizio merita per imparare a domarlo.
 
LA GOLA È LA SCINTILLA CHE FA DIVAMPARE TUTTI GLI ALTRI PECCATI
 
Come ricorda il catechismo della Chiesa Cattolica, “I vizi possono essere catalogati in parallelo alle virtù alle quali si oppongono, oppure essere collegati ai peccati capitali che l’esperienza cristiana ha distinto, seguendo san Giovanni Cassiano e san Gregorio Magno. Sono chiamati capitali perché generano altri peccati, altri vizi. Sono la superbia, l’avarizia, l’invidia, l’ira, la lussuria, la golosità, la pigrizia o accidia”. Anche la gola o, meglio, golosità, dunque, è generatrice di peccati. Qual è il nesso? San Giovanni Crisostomo spiega: “l’eccesso nel mangiare e nel bere allenta l’energia del corpo e corrompe la salute dell’anima” e “come da una fonte, così dall’intemperanza e dall’ebbrezza derivano tutte le specie dei peccati; e come l’abbondanza del materiale attizza più grande il fuoco e leva in alto la fiamma, così qui l’abbandonarsi all’intemperanza e all’ebbrezza fa sì che aumenti l’incendio dei peccati”. Roba da farci guardare storto l’ultimo snack che stavamo pensando di addentare. Soprattutto il collegamento peccati di gola-peccati carnali sembra molto forte. S. Alfonso Maria de’ Liguori chiarisce: “…chi dà libertà alla gola, facilmente darà poi anche libertà agli altri sensi; poiché, avendo perduto il raccoglimento… facilmente caderà in altri difetti di parole indecenti e di gesti scomposti. E ‘l peggior male si è che coll’intemperanza ne’ cibi passa gran pericolo la castità” e ricorda poi la frase di san Girolamo: Ventris saturitas seminarium libidinis (La sazietà del ventre è vivaio della sensualità). Non siamo ancora convinti? S. Josemaria Escrivà de Balaguer, in Cammino, scrive perentorio: “La gola è l’avanguardia dell’impurità”.

SOMMERSI DALL’OBBLIGO SOCIALE DI ANDARE PER TRATTORIE A FAR I FINTI PALATI FINI
 
Eppure liberarsi dalla tentazione della golosità non è facile. In un articolo sull’Osservatore Romano di qualche tempo fa, Lucetta Scaraffia si chiedeva: “Come si fa a condannare la gola quando siamo sommersi da ricette, recensioni di ristoranti, inviti a riscoprire il gusto del cibo e la degustazione di vini, il tutto spesso camuffato da ritorno al genuino, o da occasione conviviale in cui godere dell’incontro con gli altri? La cultura che ci circonda ci vorrebbe far saltare da un ristorantino all’altro, comprare cibi squisiti, assaporare vini pregiati ogni sera:  mangiare e bere sono diventati un fiorente settore di affari, e tutto quello che fa guadagnare è visto come positivo”. E’ un discorso che ha una sua logica persino in tempi di crisi come quello in cui stiamo vivendo, nei quali la propensione a commettere peccati di gola, pur trasformandosi, è rimasta: sebbene oggi sia diminuita la possibilità per molti di frequentare i ristoranti, c’è la corsa in tv, nei libri, ma anche tra la gente, a presentare piatti sempre più succulenti utilizzando gli avanzi del giorno prima, alimenti meno pregiati e, persino, gli scarti dell’alimentazione (come le bucce di frutta o verdura). Non tanto perché la persona venga nutrita, quanto perché – anche in tempi duri – il suo gusto venga sollecitato e il suo palato soddisfatto con pietanze apparentemente più povere ma, in realtà, sempre elaborate.
 
IL REALISMO CRISTIANO CHE HA SEMPRE SCORAGGIATO GLI ECCESSI ASCETICI
 
Certo, sentire il menù quotidiano del santo Curato d’Ars mette i brividi (culinari): qualche patata cotta, persino stantia da cui, tra lo sbigottimento dei parrocchiani che più lo conoscevano, grattava via la muffa, sostenendo che era ancora mangiabile; poi semplici frittelle di farina che si faceva bastare per diversi giorni; qualche frutto… L’iconografia ce lo presenta magro, dal volto ossuto e quasi diafano. Più volte si ammalò perché le forze non reggevano i tanti impegni parrocchiali (confessava fino a 18 ore al giorno). La sua vita spirituale, in compenso, veleggiava verso lidi sempre più lontani finché raggiunse l’approdo certo della santità. Non tutti i santi, però, si riducevano pelle e ossa come san Giovanni Maria Vianney, ma certo non hanno mai evitato di sottoporsi a penitenze alimentari, sapendo quale benessere per la vita di fede poteva venir loro da queste rinunce. Raccomandandole anche a chi li frequentava. Sempre mantenendo, tuttavia, quel sano realismo cattolico che impedisce a chi segue Cristo di praticare un’ascesi insostenibile e fine a se stessa che porta più danni che benefici. In Filotea, che accompagna i laici nella vita spirituale, san Francesco di Sales, a proposito di digiuni esasperati, scrive: “I cervi corrono goffamente in due circostanze: quando sono troppo grassi e quando sono troppo magri. Anche noi siamo molto fragili di fronte alle tentazioni sia quando il nostro corpo è troppo pasciuto, come quando è troppo debole; nel primo caso è presuntuoso nel suo benessere, nell’altro è disperato nel suo malessere. Come principio generale è meglio conservare forze corporali più di quanto serve, che perderne più di quanto è necessario; si può sempre fiaccarle, volendo; ma non sempre basta volerlo, per recuperarle”.
 
LA REGOLA DI SAN BENEDETTO: “SOLO QUANTO BASTA A TENERCI IN PIEDI. MA TUTTAVIA…”
 
In quel capolavoro di realismo che è la Regola di san Benedetto è descritta persino la quantità di cibo che il monaco deve consumare: niente più di quello che gli consenta di rimanere in piedi. Con grande sapienza, sono anche previste le eccezioni in caso di soggetti indeboliti. Ma se i monaci non hanno particolari problemi di salute “due pietanze cotte, dunque, siano sufficienti per tutti i confratelli, e qualora vi fosse la possibilità di avere frutta e verdura fresca, se ne aggiunga pure una terza. Di pane basterà una libbra abbondante al giorno” e viene ricordato “nel caso in cui il lavoro sia stato più faticoso, l’abate se lo ritiene utile, avrà la facoltà di aggiungere qualcosa in più, purché si eviti qualsiasi eccesso di cibo e si badi che mai il monaco faccia indigestione, poiché nulla è tanto sconveniente al cristiano quanto l’intemperanza nel cibo…”. L’obiezione è nell’aria: la regola è rivolta ai monaci. Vero, ma quanto detto finora ci porta a considerare che anche le nostre alimentazioni non dovrebbero essere più pesanti e ricche di questa. Ricordiamo tutti Poldo, amico di Braccio di Ferro e goloso fino al ridicolo (nonché fino alla scrocconeria più esasperata). Se immaginavamo di ondeggiare come lui, con le nostre rotondità “colpevoli”, sulla strada del cammino di fede, possiamo metterci una pietra sopra: il peccato di gola e il Regno di Dio non vanno a braccetto.


SULLE ORME DI UN MAESTRO “MANGIONE E BEONE” MA CHE SAPEVA DIGIUNARE

 
Mettere in guardia dalla gola significa allora trasformarsi in asceti duri e puri, vivendo più di aria che di cibo? No, è stato già spiegato, altrimenti ci riduciamo senza forze e, se non abbiamo la fede del Curato d’Ars, il rischio è che facciamo più male che bene alla nostra anima. L’accusa rivolta a Gesù di essere un mangione e un beone (cf Mt 11,19; Lc 7,34) deve farci evitare qualsiasi fuga dal cibo stiamo progettando in riparazione dei nostri peccati. Non perché il Maestro fosse davvero un godereccio amante della buona tavola e a cui piaceva alzare volentieri il gomito. Il punto è un altro: evidentemente, di fronte all’esteriorità culturale praticata in Israele da molti, il suo atteggiamento sereno nei confronti del cibo lasciava indignati coloro che vedevano attentati ad una presunta purezza ovunque meno che nei loro stessi comportamenti. Dai Vangeli sappiamo che Gesù sapeva digiunare anche a lungo ma, con la stessa naturalezza, si sedeva alle tavole a cui veniva invitato. Vale allora quello che ci dice l’Imitazione di Cristo a proposito delle tentazioni in genere: “Non possiamo vincere semplicemente con la fuga; ma è con la sopportazione e la vera umiltà che saremo più forti di ogni nemico. Ben poco progredirà colui che si allontana pochino e superficialmente dalle tentazioni, senza sradicarle: tosto ritorneranno ed egli starà ancora peggio.
 
Vincerai più facilmente, a poco a poco, con una generosa pazienza e con l’aiuto di Dio, più facilmente che insistendo cocciutamente nel tuo sforzo personale”. Nemmeno, però, dobbiamo guardare il cibo con sospetto, come fosse strumento di satana per condurci lontano da Dio, e servirsene con la paura di cadere nel peccato. Il cibo è un dono di Dio: mangiare non è peccato se lo facciamo con moderazione e senza ingordigia ma anche – oggi che manie dietiste e salutiste varie sembrano frenarci nelle quantità – senza la ricerca esasperata della soddisfazione del gusto, quella stessa che, a volte, ci fa considerare pessimo un buon pranzo con diverse portate solo perché “il riso non è cotto al punto giusto” o “nella crema di quella torta c’è un eccesso di liquore”. Il cibo ci è utile per sopravvivere, ma non dobbiamo dargli più valore di quanto non ne abbia, ricordandoci che i beni – che Dio ci ha dato per il nostro sostentamento – concorrono anch’essi ad aiutarci ad arrivare all’unico Bene, che è Dio, ma non possono sostituirlo. Il digiuno e l’astinenza dalla carne che la Chiesa ci richiede in questo tempo ci fanno prendere coscienza proprio del fatto che non siamo schiavi dei nostri desideri e delle nostre voglie. Abbiamo tutto il tempo quaresimale per meditarci sopra. Sperando, con l’aiuto di Dio, che le nostre riflessioni non finiscano poi per naufragare senza ritegno nel solito mare di cioccolata pasquale.

[SM=g1740738]



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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IL POTERE DELLA PUBBLICITA' E L'ISTIGAZIONE AL VIZIO

Non c'è soltanto qualcuno che vuole imporre il suo prodotto, ma chi segue pervicacemente l'ideologia totalizzante dello schiavismo del peccato

di Cristina Siccardi

La pubblicità è una delle forme più persuasive per indirizzare i gusti e le scelte delle persone. Il primo annuncio pubblicitario risale al 1630 e apparve su un giornale di quel tempo: era una semplice inserzione che richiamava il nome del prodotto. Con la rivoluzione industriale e con l'incremento della produzione delle merci è aumentato l'uso di fare pubblicità, fino a diventare la cosiddetta "anima del commercio".
Essa è il motore trainante degli indirizzi degli usi e dei costumi delle diverse generazioni e la sua importanza ha dato vita ad una vera e propria scienza, che utilizza le tecniche e tecnologie più avanzate, avvalendosi del lavoro di psicologi, sondaggisti, sociologi, disegnatori, fotografi, grafici, registi, attori, musicisti, cantanti... e le cifre impiegate sono da capogiro.

Nel 1928 il pubblicitario statunitense Edward Bernays, scrisse nel suo libro intitolato Propaganda: «coloro che hanno in mano questo meccanismo (...) costituiscono (...) il vero potere esecutivo del paese. Noi siamo dominati, la nostra mente plasmata, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite, da gente di cui non abbiamo mai sentito parlare. (...) Sono loro che manovrano i fili...». Bernays si riferiva sia alla propaganda politica, che a quella commerciale, i cui strumenti sono gli stessi: la sua campagna per la American Tobacco Company negli anni Venti, per incitare le donne a fumare, consistette, per esempio, nell'associare visivamente in maniera costante la sigaretta e l'emancipazione della donna.

Se i media sono il quarto potere, la pubblicità è il quinto. Attraverso la pubblicità noi possiamo osservare storicamente e filosoficamente i cambiamenti della civiltà postmoderna. Rimanendo nel contesto italiano, si riscontra quanto siano mutati, da quando esiste la Tv, non soltanto i gusti della popolazione, ma come siano cambiati i parametri della realizzazione delle stesse pubblicità. La televisione italiana iniziò a mandare in onda le pubblicità con un programma che ebbe un successo strepitoso, il celebre Carosello, che la RAI mandò in onda dal 3 febbraio 1957 al 1º gennaio 1977.

Sebbene esso abbia attraversato la rivoluzione sessantottina, mantenne, fino alla fine, un decoro ed un rispetto dei canoni basilari del buon gusto e della decenza. Dagli anni Ottanta in poi le cose sono precipitate, sia in Tv che sui rotocalchi... Oggi la situazione è grave, considerando anche il fatto che si è aggiunto un nuovo ed invasivo canale di trasmissione: Internet. I cartelloni pubblicitari che si trovano per le strade delle nostre città e a volte le réclame che fasciano i mezzi pubblici sono un altro campo di semina nefasto e devastante per diffondere non soltanto mode cattive e perverse, ma anche esercitare pressioni ideologiche lontane dai valori e dai principi cristiani o addirittura semplicemente naturali.
Poste a veri e propri lavaggi del cervello, a volte, soltanto visivi, ma che si imprimono indelebilmente nella mente, senza difese, senza barriere, senza... pietà. Numerose sono le réclame dove i protagonisti sono volgarità, aggressività, prepotenza. E le principali vittime sono i bambini, spesso e volentieri non protetti dagli stessi genitori, ormai assuefatti alla droga pubblicitaria, che avanza come un orco famelico. Non resta che l'autodifesa: non guardare, non ascoltare, nonostante l'imposizione di un mondo senza verità e scatenato nella manipolazione innaturale delle menti.

Imperano nella pubblicità: il relativismo, l'egoismo, l'edonismo, l'idolatria del corpo, il piacere dei cinque sensi. Spesso lo stile di vita proposto non è quello tradizionale della famiglia, ma del single e tutto ruota intorno a questo unico individuo, che non si sacrifica per nessuno e vive soltanto per se stesso, per piacersi e per piacere. Il ritmo della musica è spesso serrato, il linguaggio e il tono delle voci sono veloci, penetranti, conturbanti. La figura femminile, sia essa un'adolescente o una madre di famiglia, è sovente spregiudicata e arrogante; la figura maschile occupa ruoli a volte non consoni al proprio stato. E, ormai, si è giunti alla pubblicità che inneggia, subliminalmente oppure sfacciatamente, all'omosessualità.

Oggi, la maggior parte dei locali pubblici ha il suo megaschermo televisivo, persino alcuni studi medici e dentistici possiedono l'apparecchio che trasmette, ad libitum, pubblicità su pubblicità, senza considerare chi sta di fronte: dal neonato all'ultracentenario. Non abbiamo soltanto più a che fare con qualcuno che vuole imporre il suo prodotto, ma con chi segue pervicacemente l'ideologia totalizzante dello schiavismo del peccato. Enumerare i peccati che la pubblicità continuamente propone è impressionante: le figure retoriche con le loro iperboli, antonomasie, metonimie o metafore sono concepite in modo tale da condurre la persona sulla via della menzogna e dell'illusione.

La pubblicità cerca di sedurre attraverso un'immagine del "politicamente corretto": tutti devono essere appagati ed è indubbio che siano presi in considerazione i vizi capitali. Nel 1947 Georges Bernanos affermò che i motori di scelta della pubblicità sono proprio i sette peccati capitali, per la ragione che è molto più facile puntare ai vizi dell'uomo, piuttosto che alle sue virtù.

 
Fonte: Corrispondenza Romana, 12/06/2012
Pubblicato su BASTABUGIE n.252

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Stephen Crohn, suicidio di un uomo "immortale"
 
 
di Tommaso Scandroglio 09-10-2013

 

“Dead man walking” è l’espressione che gli americani usano per indicare i condannati a morte. Persone sì vive, ma di fatto con entrambi i piedi già dentro la fossa. Stephen Crohn, l’artista gay che in tutto il mondo divenne famoso perché immune al virus dell’HIV, forse si sentiva un “dead man walking”. Ne parliamo al passato perché si è tolto la vita a New York lo scorso 23 agosto, a 66 anni, ma i familiari ne hanno dato notizia solo di recente. L’aver contratto il virus a metà degli anni Ottanta avrebbe dovuto essere per lui, come per tutti allora, una condanna a morte, ma un difetto genetico – uno di quei difetti che spingono molti ad eliminare il figlio imperfetto prima che venga alla luce – lo aveva reso immune al virus dell’HIV, il quale non riusciva ad infettare le sue cellule.

Nel 1999 Crohn in un’intervista dichiarò: «È difficile vivere con questo dolore, con questa angoscia continua: ogni anno perdi persone care. Sei, sette. Anche la settimana scorsa: sfoglio il giornale e trovo il necrologio di un amico carissimo. È dura quando l’AIDS si porta via amici così giovani e la cosa va avanti per decenni. Come in una guerra senza fine». Nonostante oggi la ricerca scientifica sia riuscita sostanzialmente a cronicizzare il male e quindi quella guerra infinita a cui accennò Crohn abbia subito sicuramente una battuta d’arresto, evidentemente gli echi di quel conflitto in lui non si erano mai sopiti. Impossibile e da sciocchi aver la pretesa di sondare i reali motivi per cui un uomo vuole farla finita, ma la vicenda di Stephen Crohn ci fa comprendere come siano vere le parole di Gesù allorquando ammoniva: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo […] Temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l'anima e il corpo nella Geenna» (Mt. 10, 28).

Crohn, per un motivo o per l’altro, era morto dentro perché, sebbene scampato ad un virus letale per il corpo, aveva contratto chissà quale virus mortale dell’anima. Era un “uomo morto che cammina”, graziato dall’AIDS, ma non graziato da un male di vivere che, per ipotesi, aveva le sue radici proprio in quella moria di amici a cui aveva dovuto assistere come un highlander. Un immortale tra decine di mortali. Forse che a distanza di anni ha dovuto scontare la sindrome del sopravvissuto? Forse che si sentiva un condannato a vivere? Forse che il peso di essere un eletto proprio all’interno della comunità gay la quale veniva falcidiata in quegli anni in modo continuo era ormai divenuto oggi insopportabile? Forse vittima anche lui dell’AIDS, ma in altro modo, contagiato dalle lunghe ombre dei cadaveri che questo virus nei decenni passati ha lasciato dietro di sé?

Domande oziose che però ci fanno capire che la strada del suicidio e dell’eutanasia è sempre intrapresa da chi ormai non si sente più vivo dentro e vuole quasi rettificare questa sua angoscia interiore con un gesto esteriore che porti il corpo ad assumere quella stessa condizione mortale che l’anima sta già sperimentando. Allora la storia di Crohn, lui che vinse una lotteria alla rovescia, ci insegna che la depressione e il buio interiore non devono essere assecondati, ma sconfitti con la speranza, virtù non per nulla teologale. Perché puoi avere tutte le fortune di questa terra, essere un supereroe immune da qualsiasi malattia, però se perdi il senso ultimo delle cose e della tua vita, sei affetto da una patologia letale che prima o poi ti porterà alla tomba spirituale.

[SM=g1740771]


[Modificato da Caterina63 11/10/2013 19:17]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  Papa Francesco: gelosie, invidie e chiacchiere dividono e distruggono le comunità cristiane



I cristiani chiudano le porte a gelosie, invidie e chiacchiere che dividono e distruggono le nostre comunità: è l’esortazione lanciata da Papa Francesco, stamani 23 gennaio 2014, nella Messa presieduta a Santa Marta

La riflessione del Papa è partita dalla prima lettura del giorno che parla della vittoria degli israeliti sui filistei grazie al coraggio del giovane Davide. La gioia della vittoria si trasforma presto in tristezza e gelosia per il re Saul di fronte alle donne che lodano Davide per aver ucciso Golia. Allora, “quella grande vittoria – afferma Papa Francesco - incomincia a diventare sconfitta nel cuore del re” in cui si insinua, come accadde in Caino, il “verme della gelosia e dell’invidia”. E come Caino con Abele, il re decide di uccidere Davide. “Così fa la gelosia nei nostri cuori – osserva il Papa - è un’inquietudine cattiva, che non tollera che un fratello o una sorella abbia qualcosa che io non ho”. Saul, “invece di lodare Dio, come facevano le donne d’Israele, per questa vittoria, preferisce chiudersi in se stesso, rammaricarsi” e “cucinare i suoi sentimenti nel brodo dell’amarezza”: 

“La gelosia porta ad uccidere. L’invidia porta ad uccidere. E’ stata proprio questa porta, la porta dell’invidia, per la quale il diavolo è entrato nel mondo. La Bibbia dice: ‘Per l’invidia del diavolo è entrato il male nel mondo’. La gelosia e l’invidia aprono le porte a tutte le cose cattive. Anche divide la comunità. Una comunità cristiana, quando soffre – alcuni dei membri – di invidia, di gelosia, finisce divisa: uno contro l’altro. E’ un veleno forte questo. E’ un veleno che troviamo nella prima pagina della Bibbia con Caino”. 

Nel cuore di una persona colpita dalla gelosia e dall’invidia – sottolinea ancora il Papa - accadono “due cose chiarissime”. La prima cosa è l’amarezza: 

“La persona invidiosa, la persona gelosa è una persona amara: non sa cantare, non sa lodare, non sa cosa sia la gioia, sempre guarda ‘che cosa ha quello ed io non ne ho’. E questo lo porta all’amarezza, un’amarezza che si diffonde su tutta la comunità. Sono, questi, seminatori di amarezza. E il secondo atteggiamento, che porta la gelosia e l’invidia, sono le chiacchiere. Perché questo non tollera che quello abbia qualcosa, la soluzione è abbassare l’altro, perché io sia un po’ alto. E lo strumento sono le chiacchiere. Cerca sempre e vedrai che dietro una chiacchiera c’è la gelosia e c’è l’invidia. E le chiacchiere dividono la comunità, distruggono la comunità. Sono le armi del diavolo”. 

“Quante belle comunità cristiane” – ha esclamato il Papa – procedevano bene, ma poi in uno dei membri è entrato il verme della gelosia e dell’invidia e, con questo, la tristezza, il risentimento dei cuori e le chiacchiere. “Una persona che è sotto l’influsso dell’invidia e della gelosia – ribadisce – uccide”, come dice l’apostolo Giovanni: “Chi odia il suo fratello è un omicida”. E “l’invidioso, il geloso, incomincia ad odiare il fratello”. Quindi, conclude:

“Oggi, in questa Messa, preghiamo per le nostre comunità cristiane, perché questo seme della gelosia non venga seminato fra noi, perché l’invidia non prenda posto nel nostro cuore, nel cuore delle nostre comunità, e così possiamo andare avanti con la lode del Signore, lodando il Signore, con la gioia. E’ una grazia grande, la grazia di non cadere nella tristezza, nell’essere risentiti, nella gelosia e nell’invidia”.






Un sacerdote risponde

http://www.amicidomenicani.it/leggi_sacerdote.php?id=4245 

Che cosa sono i peccati o vizi capitali, quanti sono, se si tratta sempre di peccati gravi

Quesito

Carissimo padre
Potrebbe per favore il significato dei peccati capitali?
Perché sono distinti dagli altri?
Si può peccare sia mortalmente che venialmente nella specie di ciascuno di essi?
Il consenso che si può dare in un peccato occasionale di ira può davvero essere deliberato visto che la reazione di ira è un qualcosa di impulsivo e pertanto di difficile controllo?
E per la gola come stabilire in tutta onestà il limite tra veniale e mortale?
La ringrazio per la sua risposta.
Le chiedo se può dedicarmi una preghiera con l'intenzione che mi vengano risparmiate, per quanto possibile, quelle tentazioni che faccio tanta fatica a combattere e nelle quali vengo spesso vinta. Mi sento tanto debole.
Non so se faccio bene a chiederle questa preghiera o se sia più giusto pregare per avere maggiore forza nel combattere vizi e tentazioni.
Io le assicuro un ricordo nelle mie preghiere  perché il Signore sia sempre con lei e benedica ogni sua azione.


Risposta del sacerdote

Carissima, 
1. alcuni peccati, che degenerano in vizi perché si esprimono con frequenti cadute, vengono detti capitali perché sono come la madre, la generatrice, la sorgente di altri peccati e vizi.
Scrive San Tommaso: “Capitale deriva da capo. E capo propriamente è quella parte dell'animale che è principio ed elemento direttivo di tutto l'animale. Perciò in senso metaforico si denomina capo qualsiasi principio: anzi, si denominano capi persino gli uomini che dirigono e governano gli altri. 
Quindi vizio capitale deriva … in senso metaforico dal termine capo, cioè nel senso di principio e trascinatore di altri.
E allora vizio capitale non solo è principio di altri, ma ne è pure la guida e in qualche modo il trascinatore… Ecco perché S. Gregorio paragona i vizi capitali ai comandanti di un esercito” (Somma teologica, I-II, 84, 3).

2. San Tommaso preferisce parlare di vizi captali piuttosto che di peccati capitali per indicare che si tratta di abiti o propensioni cattive che sono state originate  da peccati ripetuti.
Perciò, ad esempio, chi si è ubriacato solo una volta o poche volte non si può dire che abbia contratto il vizio capitale.
I vizi invece inducono a compiere altri peccati o perché li suscitano o perché conducono ad essi.

3. Al seguito di San Gregorio Magno comunemente i vizi capitali sono computati in numero di sette: vana gloria, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, accidia (pigrizia nelle cose spirituali). 
Alcuni vi aggiungono la superbia, che viene definita da San Tommaso la regina e inizio di ogni peccato.
Infatti la superbia, che è uno disordinato desiderio di primeggiare, è all’inizio di ogni peccato.
Altri mettono la superbia come il primo dei vizi capitali, allora i vizi capitali vengono computati in numero di otto. Così ad esempio Evagrio Pontico.

4. Per San Tommaso i vizi capitali sono sette e mette insieme superbia e vanagloria. E ne porta la spiegazione.
Quattro sono i generi di beni che l’uomo è solito desiderare in maniera disordinata e tre sono i beni  che l’uomo fugge perché gli pare che vi sia annesso anche un male.
Il primo dei beni che si perseguono in maniera disordinata è il proprio primeggiare sugli altri, da cui il desiderio disordinato dell’onore e della lode. Di qui nasce la superbia e la vana gloria.
Un altro bene che molto spesso viene cercato in maniera disordinata è il bene del corpo.
Questo bene del corpo è duplice: la conservazione di sé, che si attua con l’assunzione disordinata di cibi e di bevande. E qui abbiamo la gola.
L’altro bene del corpo riguarda la conservazione della specie alla quale si è inclinati attraverso il desiderio sessuale che quando viene vissuto in maniera disordinata causa la lussuria.
Il quarto bene che viene cercato in maniera irrazionale è costituito dalle ricchezze, circa le quali ha a che fare l’avarizia
Invece i beni che vengono fuggiti in maniera disordinata perché ad essi è congiunto un male sono: il bene spirituale che viene tralasciato per la fatica corporale che vi è aggiunta. E questa fuga si chiama accidia
Oppure si tratta del bene degli altri che causa in noi tristezza perché impedisce il nostro primeggiare. Questa tristezza è costituita dall’invidia.
Oppure si tratta di un bene degli altri che suscita in noi la volontà di toglierglielo. E questo  produce l’ira (cf. Somma teologica, I-II, 84, 4).

5. La malizia dei vizi capitali non sempre è superiore a quella degli altri peccati perché vi sono peccati peggiori, come l’odio di Dio o la bestemmia.
Inoltre non sempre la materia di questi vizi è grave.

6. Venendo alle due domande precise.
Anzitutto bisogna distinguere tra ira intesa come emozione e ira come vizio capitale.
Nel primo caso di per sé non si tratta di peccato. Dipende dal come si reagisce dinanzi al comportamento altrui.
Se si reagisce in maniera non controllata si commette peccato. 
Ma molto spesso questo peccato non eccede il veniale.
Diventa mortale quando si toglie all’altro un bene di un certo valore e del quale si ha diritto.
Ugualmente per la gola. Vi è peccato grave quando ci si ubriaca oppure si va a vomitare quanto si è mangiato per puro piacere.

Volentieri assicuro una preghiera per le intenzioni che mi hai indicato, ti auguro ogni bene e ti benedico. 
Padre Angelo






[Modificato da Caterina63 08/08/2015 21:42]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Carissimi Amici, il santo Padre Francesco, nel Discorso alla Curia del 21.12.2015, ha fatto una sorta di "catalogo" usando le iniziali della parola
M-I-S-E-R-I-C-O-R-D-I-A e offrendo a TUTTI (lo ha detto, non solo alla Curia) una sorta di elenco delle virtù della Misericordia da sviluppare e mettere in pratica....
Noi ve lo offriamo, condensato, in video e audio. Approfittiamone. [SM=g1740722] :-)

gloria.tv/media/KfPZxLzEdSf

www.youtube.com/watch?v=56xT7EILoRc

1. M come «Missionarietà e pastoralità.
2. I come «Idoneità e sagacia.
3. S come Spiritualità e umanità.
4. E come Esemplarità e fedeltà.
5. R come Razionalità e amabilità.
6. I come Innocuità e determinazione.
7. C come Carità e verità. Due virtù indissolubili
8. O come Onestà e maturità.
9. R come Rispettosità e umiltà.
10. D come Doviziosità e attenzione.
11. I come Impavidità e prontezza.
12. A come affidabilità e sobrietà.






[SM=g1740771]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  Ho peccato in pensieri parole opere ed omissioni
(cliccare sulle immagini per ingrandirle)

 

Gesù ha detto: “ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt. 5,28).

Come vediamo, per compiere il peccato non basta il pensiero. È necessario anche il desiderio. Ma una volta adulterato il pensiero, ossia pianificato il desiderio perverso, non basta il non compierlo per trovarsi in regola, bisogna emendare il desiderio e il cattivo pensiero maturato perchè, insegna sempre Gesù  che dal cuore si emanano gli adultèri e le azioni disoneste che macchiano l'uomo (Mt. 15,19). L'apostolo Paolo bolla di frequente, con parole roventi tutti i vizi e altrove ribadisce: "Fuggite l'impudicizia!" (1Cor. 6,18) che è la madre dei cattivi desideri. "Non immischiatevi con gli impudichi" (1Cor. 5,9); "In mezzo a voi, non siano neppur nominate l'incontinenza, l'impurità di ogni genere e l'avarizia" (Ef. 5,3); "Disonesti, adulteri, effeminati e sodomiti, non possederanno il regno di Dio...." (1Cor. 6,9-10)

In sostanza, poi, i famosi peccati contro lo Spirito Santo sono imperdonabili non perché Dio non voglia perdonarli, ma perché chi li compie si chiude del tutto all’azione della grazia di Dio e al pentimento, non si pente, ossia non elimina quel desiderio malvagio e perverso, giustificandolo e dunque ha un cuore chiuso alla conversione.

Ho peccato in pensieri parole opere ed omissioni è un "pacchetto" unico perchè i cattivi pensieri partono da desideri disordinati e si trasformano in parole, dalle parole agli atti, dagli atti alle omissioni, ossia, l'omissione al riconoscere ciò che è peccato. Molti pensano che il peccatore sia semplicemente un eretico, sia un semplice apostata, un immorale. ma non è solo questo: si può essere malvagiamente persino ortodossi nella dottrina e tuttavia vivere da peccatori. Che cosa sono dunque queste omissioni?

Stiamo attenti a non agire come il fariseo nella sua preghiera e agiamo piuttosto come il pubblicano, nella parabola che troviamo nel Vangelo di Luca 18,9-14.

C'è una bellissima risposta del cardinale Muller, Prefetto della CdF al quale in una lunga intervista, apparsa il 30 dicembre scorso sul settimanale tedesco Die Zeit, alla domanda:

che cosa pensi di quei cattolici che attaccano il Papa definendolo “eretico”, egli risponde: «Non solo per il mio ufficio, ma per convinzione personale devo dissentire. Eretico nella definizione teologica è un cattolico che nega ostinatamente una verità rivelata e proposta come tale dalla Chiesa da credere. Tutt’altro è quando coloro che sono ufficialmente incaricati di insegnare la fede si esprimono in modo forse infelice, fuorviante o vago. Il magistero del Papa e dei vescovi non è superiore alla Parola di Dio, ma la serve. (…) Pronunciamenti papali hanno inoltre un diverso carattere vincolante – a partire da una decisione definitiva pronunciata ex cathedra fino ad un’omelia che serve piuttosto all’approfondimento spirituale».

La risposta del cardinale la prendiamo per fare nostro questo esame della coscienza e non già per giudicare le coscienze degli altri... i nostri pronunciamenti dottrinali, per esempio, come sono? Quale testimonianza diamo alla Verità? Quale testimonianza diamo alla sana Dottrina? Quale testimonianza diamo nella vita quotidiana in famiglia, con gli amici, sul posto di lavoro, ai figli, e così via? Quale testimonianza diamo a chi è nel dubbio, nell'errore, nel peccato? Quanti peccati omettiamo di dire nel confessionale perchè ci riteniamo giusti, approvati dalle false dottrine perchè ci fanno comodo?

 

Lo diciamo all'inizio della Messa e si chiama Atto penitenziale, il Confiteor: Confesso a Dio onnipotente, e a voi, fratelli, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni: (battendosi il petto) per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa. E supplico la beata sempre vergine Maria, gli angeli, i santi e voi, fratelli di pregare per me il Signore Dio nostro.

Vale la pena, allora, fare uno sforzo per evitare che l'abitudine a ripetere certe formule non diventino però ostacolo al riconoscere davvero questo peccare, e fare ogni autentico proposito per debellare in noi quel desiderio malvagio che ci porta costantemente lontani da Dio. Infatti non è mai Dio ad allontanarsi da noi, ma noi da Lui, e quanto maggiormente chiudiamo il cuore a questo percorso di purificazione, maggiormente ci illudiamo di stare nel giusto.

C'è un'importante precisazione da fare riguardo ai peccati di omissione. Omettere vuol dire tralasciare. Il giudizio finale, invece, avverrà tutto proprio sui peccati di omissione:

«Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli... e saranno riunite davanti a Lui tutte le genti, Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra... Poi dirà a quelli alla sua sinistra: "via lontano da me, maledetti nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché...(..) In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli (cioè gli emarginati) non l'avete fatte a me". E se ne andranno questi al supplizio eterno e i giusti alla vita eterna» (Mt 25, 31, 32, 41-43, 45, 46).

Non diamo ascolto a quelli che dicono che l'Inferno non esiste, o che si svuoterà, o che è lo spauracchio che la Chiesa usa per tenere il popolo oppresso, no! Ricordiamo piuttosto il monito dei Santi che dell'Inferno ce ne hanno parlato, ricordiamo le parole di Santa Suor Faustina Kowalska, colei che ha ricevuto da Gesù di parlare della Sua Divina Misericordia, ma dove anche le fece vedere l'Inferno che ella descrisse nel suo Diario:

"Oggi, sotto la guida di un angelo, sono stata negli abissi dell'inferno. È un luogo di grandi tormenti per tutta la sua estensione spaventosamente grande. (...) Il peccatore sappia che col senso col quale pecca verrà torturato per tutta l'eternità. Scrivo questo per ordine di Dio, affinché nessun'anima si giustifichi dicendo che l'inferno non c'è, oppure che nessuno c'è mai stato e nessuno sa come sia. Io, Suor Faustina, per ordine di Dio sono stata negli abissi dell'inferno, allo scopo di raccontarlo alle anime e testimoniare che l'inferno c'è. Ora non posso parlare di questo. Ho l'ordine da Dio di lasciarlo per iscritto. (..) Quello che ho scritto è una debole ombra delle cose che ho visto. Una cosa ho notato e cioè che la maggior parte delle anime che ci sono, sono anime che non credevano che ci fosse l'inferno..."

Quindi il non fare il bene è cosa di cui bisognerà rendere conto al punto che le omissioni indicate da Gesù significheranno semplicemente la dannazione!

Dicono che il Dio dell'Antico Testamento sgomenta per la sua intransigenza, ma qui è Gesù che parla: e non è Gesù "il nostro Signore e nostro Dio" una sola cosa col Padre che chiama Padre e una cosa sola con lo Spirito Paraclito?

Dio è amore e come qui si vede, Egli non tollera che dei suoi figli lascino morire di fame o di ignoranza altri suoi figli, per questo il Catechismo insegna le "7 opera di misericordia corporali e le 7 opere di misericordia spirituali".

 

Anzi Gesù, paradossalmente e apparentemente, mostra maggiore severità del Padre nel pretendere la perfezione dell'uomo, perchè Lui è venuto ad insegnarci come si fa, pagandone il prezzo.
Infatti alcuni comandamenti vennero "amplificati" da Gesù nel senso che Egli volle far comprendere il loro più profondo significato e che il peccato è non tanto nell'azione, quanto nel sentimento che lo produce, nell'intenzione, nella perversione, nella giustificazione nel commetterlo. E' dal pensiero malvagio che si produce poi l'effetto.
Egli solo e proprio perché Figlio di Dio e quindi Dio, poteva parlare con autorità divina e dichiarare:
«Avete inteso che fu detto agli antichi... ma Io vi dico...

Ed ecco che al comandamento: "non commettere adulterio"; Gesù aggiunge: "chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" ( Mt 5,28), e questo vale anche per le donne come insegnerà Paolo.

Al 5° comandamento: "non uccidere", Gesù aggiunge: "chiunque si adira con il proprio fratello sarà sottoposto a giudizio (...) sarà sottoposto al fuoco della geenna" (Mt 5, 22).
Tanto grande è la dignità dell'uomo, che insultare un essere umano con disprezzo e con odio, è come insultare il Signore, perché l'uomo è creato a immagine di Dio! Ma soprattutto qui è chiamato in causa il perdonare. Lo diciamo nel Padre Nostro: "rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori..." chi non perdona il prossimo che gli ha fatto qualcosa che è male, ed agisce con odio e vendetta, sarà ripagato da Dio con la stessa moneta. L'odio e la vendetta, infatti, alimentano nel cuore dell'uomo pensieri malvagi, per questo il nostro modello è Gesù, un Dio fatto uomo e non il contrario. Perchè Gesù è perfetto, è senza peccato, è Dio, e i suoi insegnamenti sono divini, sono perfetti.

Possiamo fare un'altra precisazione a proposito del 6° comandamento. Esso è stato tradotto dall'ebraico anche con le parole: non fornicare. La fornicària, in lingua latina, è la prostituta: chi andava con una prostituta, tradiva la moglie e quindi commetteva adulterio. Però, con significato più esteso, fornicare vuol dire darsi a piaceri illeciti.

Sentiamo che cosa dice l'Apostolo a questo proposito:
«Quanto alla fornicazione e a ogni specie di impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra voi come si addice a santi; lo stesso si dica per le volgarità, insulsaggini, trivialità... Perché sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro o avaro... avrà parte al regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi inganni con vani ragionamenti: per queste cose infatti piomba l'ira di Dio su coloro che gli resistono. Non abbiate quindi niente in comune con loro. Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore» (Ef 5, 3-8).

I «vani ragionamenti» che possono ingannare le coscienze sono proprio quelli che si fanno oggi e cioè che tutto è lecito, che bisogna liberarsi dai tabù del passato, ecc.
Chi dice così o non sa che la parola di Dio, vale per tutti i tempi perché Dio non è come gli uomini che oggi possono dire una cosa e domani la riconoscono errata ed hanno quindi bisogno di correggerla! Non abbiamo un Dio giocarellone e ciò che era peccato ieri è peccato anche oggi, i Comandamenti non mutano con i tempi....
Oppure chi dice così: che bisogna liberarsi dai tabù del passato... omette di ben ragionare perchè definisce maliziosamente i Comandamenti e la legge di Dio come un tabù del passato e così dimostra solo di non aver mai creduto davvero nella legge divina.
Le parole dell'Apostolo Paolo sono state dichiarate Parola di Dio perché ispirate dallo Spirito Santo e sono in perfetta armonia con quelle di Gesù che dichiara, e che pochi sacerdoti e catechisti citano:
«Quel che esce dall'uomo, questo sì contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo» (Mc 7, 20-23).

Contaminare vuol dire infettare, corrompere, deturpare, macchiare, omettere.
E questo è il peccato: macchia, corruzione, abbruttimento dell'anima, omissione della verità e quindi la menzogna. In questo stato l'anima non può avere comunione con Dio che è purezza assoluta e santità.

Vogliamo proprio attirarci addosso il castigo di Dio? Dice ancora S. Paolo:
«Non illudetevi, né immorali, né idolatri, né effemínati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci, erediteranno il regno di Dio» (1 Cor 6, 9-10).
E ancora: «Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra. fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l'ira di Dio su coloro che disobbediscono» (Col 3, 5, 6).
E scrivendo agli ebrei dichiara: «Il matrimonio sia rispettato da tutti e sia il talamo incontaminato. I fornicatori e gli adulteri saranno giudicati da Dio» (Eb 13, 4).

Non siamo chiamati ad emettere giudizi sulle persone che peccano, ma come abbiamo dimostrato siamo chiamati a dare testimonianza alla Verità, chiamati a chiamare il peccato con i tanti nomi che lo distinguono, chiamati a non omettere nulla di ciò che la legge Dio, fatta per noi peccatori, insegna affinchè ce ne liberiamo al più presto possibile, senza farci degli sconti, senza corruzione, senza alcun compromesso.

Severi dunque prima con se stessi, e poi predicatori contro i peccati e non contro i peccatori, ma non con le proprie opinioni, le proprie misericordie, il proprio buonismo, piuttosto con la Scrittura alla mano, con le parole e l'insegnamento di Gesù Cristo, con le raccomandazioni della Sua Santissima Madre a Fatima e a Lourdes, per esempio, con l'insegnamento della Chiesa che è Madre e Maestra del nostro viver quotidiano e per il nostro vero bene, per la nostra vera felicità.

Sia lodato Gesù Cristo +

 Le 7 opere di misericordia corporali e le 7 spirituali

 Mio Dio che non si bestemmi il Nome Tuo per causa mia

 


 


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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