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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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OMELIE....DOMENICANE

Ultimo Aggiornamento: 03/07/2012 15:51
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05/06/2010 22:21
 
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Un solo Spirito con Dio

Tra il 21 e il 23 maggio i gruppi giovanili domenicani si sono ritrovati a Torino per il loro primo incontro nazionale e per andare a contemplare la Sindone. Per ricordare l'evento pubblichiamo qui di seguito l'omelia di fra Riccardo, priore provinciale della provincia domenicana di San Domenico.

Cari fratelli,

«mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo». Anche noi chiediamo che l’effusione dello Spirito compia in pienezza, cioè concluda, il nostro incontro.

Gesù ha promesso: «Io pregherò il Padre» e il Padre nel nome di Gesù ha effuso lo Spirito perché abiti in noi. La parola dell’apostolo è chiara: «lo Spirito di Dio abita in voi». A sua volta Gesù lega la presenza dello Spirito all’osservanza della sua parola, dei comandamenti, anzi del comandamento: senza lo Spirito non possiamo vivere secondo il vangelo né, come Gesù, dare la vita per la salvezza dei fratelli. Inoltre Spirito in noi insegna il mistero di Cristo e ricorda tutto ciò che il Signore Gesù ha detto: è la nostra tradizione, la memoria necessaria per vivere cristianamente.

Ognuno di noi ha una memoria trasmessa dalla famiglia, dalla scuola, dalla società e che lo situa nel mondo, lo fa reagire in un certo modo, gli conferisce una cultura e un’identità. Anche la Chiesa ha una sua memoria che ci viene trasmessa nei vari momenti di vita ecclesiale. Ma qui più profondamente il vangelo ci assicura che lo Spirito Santo è la nostra memoria di Gesù, una memoria che è dono, come è dono lo Spirito per osservare la parola e i comandamenti.

Tutto questo suppone che lo Spirito abiti in noi, rendendoci quasi connaturali a lui, e qui ricordiamo il santo padre Domenico, del quale papa Gregorio IX nel documento di canonizzazione (3.7.1234) scrisse che «era diventato un solo Spirito con Dio».

Gesù ha promesso: «Io pregherò il Padre» e il Padre nel nome di Gesù ha effuso lo Spirito perché diventi l’anima del nostro agire. Ascoltiamo l’apostolo: «tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio», cioè lo Spirito agisce in loro. Ad essere sinceri, ciò spesso non corrisponde alla nostra esperienza, come non vi corrisponde il dare la vita per amore e l’aver presente la memoria di Gesù. La parola di Dio rivela il senso di tale scarto parlando di una contrapposizione tra carne e spirito: non lasciarsi dominare dalla carne, non vivere secondo i desideri carnali, ma secondo lo spirito. La carne non sono le cose create e benedette da Dio sino al punto che «il Verbo si fece carne» (Gv 1,14).

La carne è il desiderio sregolato di dominio sulle cose sino a stravolgerle, a usarle non per il Signore ma per il nostro egoismo. Quali cose o quale carne? È un elenco ben noto: il cibo, il sesso, il denaro, il potere, il prossimo trattato con ingiustizia, un insano apparire, un certo modo di praticare l’arte e la cultura, il porre noi stessi come criterio ultimo rifiutando il vangelo. Le nostre azioni sono insidiate da questi cattivi desideri che diventano ciò che ci muove, impedendo allo Spirito di muoverci. Il superamento è la lotta che accompagna la vita cristiana e qui di nuovo ricordiamo il santo padre Domenico che, per diventare uno spirito con Dio sottomise «sempre la carne allo spirito, la sensibilità alla ragione» (ivi).

Gesù ha promesso: «Io pregherò il Padre» e il Padre nel nome di Gesù ha effuso lo Spirito perché tutta la Chiesa e ognuno di noi annunci le grandi opere di Dio.
La vita buona nello Spirito, l’amore per osservare i comandamenti, la memoria di Gesù nel cuore non esauriscono l’azione dello Spirito, il quale nella prima Pentecoste da vento e fuoco divenne parola per comunicare «le grandi opere di Dio» in modo accettabile e comprensibile nelle diverse lingue: così si è ripetuto nei secoli di storia della Chiesa e così ha da ripetersi in noi qui riuniti.

È istruttivo leggere la prima lettura alla luce di un particolare trasmesso da Giovanni, e cioè che gli apostoli se ne stavano con le porte chiuse «per timore dei Giudei» (Gv 20,19). Fu lo Spirito - e non gli apostoli - a scacciare la paura e ad aprire le porte. Quali sono oggi i nostri timori a fronte dell’annuncio del vangelo?
Forse la nostra inadeguatezza, la paura di non disporre di un linguaggio adatto all’uomo di oggi, di una testimonianza credibile per i giovani. E forse è vero, ma la continuità della tradizione, in cui siamo immersi, ci conforta assicurandoci che anche oggi lo Spirito, non senza le necessarie mediazioni culturali, scaccia l’inadeguatezza e la paura, rende testimoni accettabili, dona un linguaggio comprensibile.

Ma perché ciò accada bisogna seguire lo Spirito, in qualche modo “gettarsi”, come il santo padre Domenico, che nella Pentecoste del 1217, «dopo aver invocato lo Spirito», decise di disperdere per l’Europa i pochi e unici frati della comunità di Tolosa (Libellus 46).

Infine non possiamo dimenticare la ragione per cui siamo qui: la venerazione della Sindone «icona del sabato santo» e del nascondimento di Dio all’interno delle tragedie del XX secolo, come ha ricordato il papa Benedetto XVI. E tuttavia nella Sindone vediamo «non solo il buio, ma anche la luce». La Sindone è un’immagine che nello Spirito ci mette in movimento, poiché guardandola siamo trasformati nella stessa immagine secondo l’azione dello Spirito del Signore (2Cor 3,18). Così, grazie allo Spirito che ci è stato dato nella cresima e che scende su di noi in questa eucaristia e anche grazie alla “visione” della Sindone, diventiamo immagine di Cristo e nello Spirito ritroviamo il coraggio di annunciare le grandi opere di Dio.

[Fra Riccardo Barile]




CLICCANDO QUI troverete il resto della giornata


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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03/07/2012 15:46
 
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Spiritualità domenicana

 commento di San Tommaso all’incontro di Gesù con i primi due discepoli

Gv 1,35-42: «"Il giorno dopo Giovanni stava di nuovo là con due discepoli, e, fissando Gesù che passava, disse: Ecco l'Agnello di Dio. Due discepoli udirono queste parole e andarono dietro a Gesù. Gesù si voltò, e, visto che lo seguivano, domandò loro: Chi cercate? E quelli gli dissero: Rabbi (che tradotto vuol dire maestro), dove abiti? Egli rispose loro: Venite e vedrete. Andarono e videro dove egli abitava, e rimasero con lui per quel giorno. Era circa l'ora decima. Andrea, fratello di Simon Pietro, era uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e avevano seguito Gesù. Questi trovò dapprima suo fratello Simone, e gli disse: Abbiamo trovato il Messia (che tradotto vuol dire il Cristo). E lo condusse a Gesù. Gesù fissando bene in lui lo sguardo, disse: Tu sei Simone, il figliuolo di Giona: tu ti chiamerai Cefa, che vuol dire Pietro».

Perché Giovanni, a differenza di Cristo, predica sempre dallo stesso luogo

Il teste lo presenta con la frase: «Il giorno dopo Giovanni stava di nuovo là con due discepoli».
Col dire che «stava» mette in rilievo tre caratteristiche di Giovanni.
Intanto il suo modo d'insegnare, che era diverso da quello di Cristo e dei discepoli di lui. Infatti Cristo insegnava spostandosi qua e là, tanto che Matteo (4,23) scrive: «Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle sinagoghe...».
Così pure gli apostoli insegnavano percorrendo il mondo, attuando l'ordine ricevuto (vedi Mt 28,13): «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura». Giovanni invece insegnava stando fisso in un luogo.
Perciò nel Vangelo si legge: «Giovanni stava...», il che significa che stava fermo in un posto oltre il Giordano, e là istruiva intorno al Cristo tutti quelli che andavano da lui.
La ragione per la quale Cristo e i suoi discepoli insegnavano viaggiando è la seguente: la predicazione di Cristo muoveva alla fede mediante i miracoli.
Perciò egli e i discepoli andavano nelle varie regioni per far conoscere i miracoli e la virtù di Cristo.
Al contrario la predicazione di Giovanni non era confermata dai miracoli; infatti più oltre si dirà (Gv 10,41): «Giovanni non fece alcun miracolo». Essa era piuttosto convalidata dal suo prestigio e dalla santità della sua vita. Perciò «stava» fermo in un luogo, affinché persone da ogni parte potessero recarsi da lui ed essere indirizzate a Cristo. Inoltre, se Giovanni avesse viaggiato qua e là ad annunziare il Cristo, senza far miracoli, ciò avrebbe reso meno credibile la sua testimonianza; poiché avrebbe dato, l'impressione di far ciò in modo importuno e quasi per farsi strada.

Secondo, tale stabilità mette in risalto la costanza di Giovanni nella verità. Egli non era una canna agitata dal vento, ma restò saldo nella fede, conforme I'avvertimento dell'Apostolo (1 Cor 10,12): «Chi crede di stare in piedi stia attento a non cadere»; e nell'atteggiamento del profeta Abacuc (2,1): «Starò fermo al mio posto di vedetta».

Infine possiamo vedere nel verbo stare un significato allegorico: poiché in latino stare significa pure fermarsi, cessare. Leggiamo, per es. 2 Libro dei Re (4, 6): «... e l'olio ristette». Perciò Giovanni venne a fermarsi quando giunse il Cristo, perché quando si presenta la verità deve cessare la figura. Giovanni cessa, perché la Legge passa.

Giovanni, a differenza degli profeti, testimonia la presenza di Gesù

282 - Si passa poi a descrivere la certezza, quale modo con cui viene data la testimonianza: è una attestazione fatta di presenza; infatti il testo dice: «... fissando Gesù che passava».
A tale proposito va notato che già i Profeti avevano parlato di Cristo. Come dicono gli Atti degli apostoli (10,43), «di lui tutti i Profeti rendono testimonianza». E anche gli apostoli testimoniarono Cristo percorrendo le contrade del mondo, secondo le parole del Signore (At 1,8): «Sarete miei testimoni a Gerusalemme, e in tutta la Giudea, ecc.». Ma allora non lo testimoniarono mentre era presente, bensì in sua assenza. I Profeti quindi parlarono del Cristo venturo, gli apostoli del Cristo ormai passato.
Invece Giovanni diede testimonianza a Cristo mentre l'aveva sotto gli occhi. Perciò sta scritto: «... fissando Gesù», naturalmente e con gli occhi del corpo e con quelli della mente, secondo l'esortazione del Salmista (Sal 83,10):. «Guarda il volto del tuo Cristo,..».; e il vaticinio di Isaia. (52, 8): «Lo vedranno con gli occhi, faccia a faccia».
II testo aggiunge: «... che passava», per alludere al mistero della Incarnazione, per cui il Verbo di Dio ha assunto una natura mutevole, come leggeremo nei capitoli seguenti (cf. Gv 16,28): «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo...».

Giovanni dice: «Ecco l'Agnello di Dio»

283 - Nel testo evangelico segue la formulazione della testimonianza: «Ecco l'Agnello di Dio». Frase che non svela soltanto la virtù di Cristo, ma esprime per essa un senso di ammirazione, secondo il detto di Isaia (9,6): «Sarà chiamato col nome di Ammirabile...».
E realmente possiede una potenza meravigliosa questo agnello, il quale una volta ucciso ha ucciso il leone, quel leone del quale sta scritto (1 Pt 5, 8): «Il vostro avversario, il diavolo, si aggira come un leone ruggente, cercando chi divorare». Per tale motivo lo stesso agnello meritò di essere chiamato leone vittorioso e glorioso. Così nell'Apocalisse (5, 5): «Ecco ha vinto il leone della tribù di Giuda».
Giovanni dà una testimonianza concisa: «Ecco l'Agnello di Dio!», sia perché i discepoli ai quali la presentava erano già istruiti abbastanza sulla realtà di Cristo da quanto avevano udito da lui; sia anche perché quelle poche parole bastavano per esprimere ciò, a cui, mirava Giovanni, e che altro non era se non condurli a Cristo.
Però non dice loro: Andate da lui; affinché non sembri che i discepoli facciano un favore a Cristo nel seguirlo ma mette in risalto la grazia che li arricchisce, in modo che essi considerino una fortuna poterlo seguire. Di qui l’esclamazione «Ecco l’Agnello di Dio!», cioè, «ecco colui che possiede la grazia e la virtù di purificare dai peccati». Difatti, come abbiamo spiegato sopra, l'agnello veniva offerto per i peccati.

Andrea e Giovanni seguono Gesù

284 - Nei versetti seguenti, a cominciare dalla frase: «I due discepoli, sentendolo parlare così... », vengono descritti i frutti di tale testimonianza.
In primo luogo, vengono presentati i frutti della testimonianza di Giovanni e dei suoi discepoli, in secondo luogo il frutto proveniente dalla predicazione di Cristo, là dove dice: «L'indomani decise di partire per la Galilea».

Riguardo al primo punto vengono descritte separatamente due cose: primo, il frutto prodotto dalla testimonianza di Giovanni. Secondo, quello derivato dalla predicazione di uno dei suoi discepoli, a cominciare dal versetto: «Andrea, fratello di Simon Pietro, era uno dei due...».
Circa gli effetti della testimonianza di Giovanni vengono esaminate due cose: primo il cominciamento di questo frutto; secondo il suo compimento operato da Cristo, là dove si dice: «Gesù si voltò...».

285 - Per il cominciamento il testo inizia con la frase: «I due discepoli», che erano con lui, «sentendolo parlare (Ecco l'Agnello di Dio!), seguirono Gesù». Letteralmente: «Andarono con lui».
Su questa pericope ci sono da fare, secondo il Crisostomo, quattro considerazioni.
Primo, si noti che qui Giovanni parla mentre Cristo tace; e per la parola di Giovanni i suoi discepoli si aggregano al Cristo. Ora questo fatto accenna a un mistero. Infatti Cristo è lo sposo della Chiesa, mentre Giovanni è l'amico e il paraninfo dello sposo. Ebbene, il compito del paraninfo è quello di consegnare la sposa allo sposo e di trasmetterne verbalmente i patti; invece il compito dello sposo è quello di tacere per un senso di riserbo, e di disporre poi della sposa a suo piacimento. Alla stessa maniera i due discepoli sono consegnati a Cristo da Giovanni quasi fossero fidanzati con lui mediante la fede. Qui Giovanni parla e Cristo tace; ma poi è il Signore che istruisce con diligenza coloro che ha accolto.
Secondo, va notato che quando Giovanni aveva proclamato la dignità del Cristo, affermando: «Egli è stato fatto prima di me...»; oppure: «... Io non sono degno di sciogliere il legaccio dei suoi sandali», nessuno si era convertito. Ora invece che parla delle umiliazioni di Cristo e del mistero dell'Incarnazione, subito alcuni discepoli si mettono al suo seguito. E questo avviene perché l'umiltà di Cristo e le sofferenze da lui sofferte per noi ci muovono maggiormente. Ed ecco perché nel Cantico dei Cantici (1,2) è detto di lui: «Il tuo nome è come olio profumato che si spande», si traduce cioè nella misericordia, con la quale hai procurato la salvezza di tutti; e continua: «per questo le fanciulle ti hanno molto amato».
Terzo, le parole della predicazione sono come un seme che cade su terreni diversi: in uno porta frutto e in un altro no. Così quando Giovanni predica non tutti i suoi discepoli si convertono a Cristo, ma due soltanto, vale a dire quelli che erano ben disposti. Gli altri, al contrario, guardano a Cristo con invidia, e vengono a porgli dei quesiti, come vediamo nel racconto di Matteo (9,14).
Quarto, si noti che i discepoli di Giovanni, una volta ascoltata la sua testimonianza sul Cristo, non si azzardarono a parlare subito all'improvviso con lui, ma cercarono di conversare con lui in un luogo appartato, privatamente e quasi guardinghi, con una certa vergogna e di nascosto. Del resto nell'Ecclesiaste (8,6) si legge: «Per ogni cosa c'è un tempo e un'occasione opportuna».

Gesù si voltò e disse: "che cosa cercate?"

284 - Nei versetti seguenti, a cominciare dalla frase: «I due discepoli, sentendolo parlare così... », vengono descritti i frutti di tale testimonianza.
In primo luogo, vengono presentati i frutti della testimonianza di Giovanni e dei suoi discepoli, in secondo luogo il frutto proveniente dalla predicazione di Cristo, là dove dice: «L'indomani decise di partire per la Galilea».

Riguardo al primo punto vengono descritte separatamente due cose: primo, il frutto prodotto dalla testimonianza di Giovanni. Secondo, quello derivato dalla predicazione di uno dei suoi discepoli, a cominciare dal versetto: «Andrea, fratello di Simon Pietro, era uno dei due...».
Circa gli effetti della testimonianza di Giovanni vengono esaminate due cose: primo il cominciamento di questo frutto; secondo il suo compimento operato da Cristo, là dove si dice: «Gesù si voltò...».

285 - Per il cominciamento il testo inizia con la frase: «I due discepoli», che erano con lui, «sentendolo parlare (Ecco l'Agnello di Dio!), seguirono Gesù». Letteralmente: «Andarono con lui».
Su questa pericope ci sono da fare, secondo il Crisostomo, quattro considerazioni.
Primo, si noti che qui Giovanni parla mentre Cristo tace; e per la parola di Giovanni i suoi discepoli si aggregano al Cristo. Ora questo fatto accenna a un mistero. Infatti Cristo è lo sposo della Chiesa, mentre Giovanni è l'amico e il paraninfo dello sposo. Ebbene, il compito del paraninfo è quello di consegnare la sposa allo sposo e di trasmetterne verbalmente i patti; invece il compito dello sposo è quello di tacere per un senso di riserbo, e di disporre poi della sposa a suo piacimento. Alla stessa maniera i due discepoli sono consegnati a Cristo da Giovanni quasi fossero fidanzati con lui mediante la fede. Qui Giovanni parla e Cristo tace; ma poi è il Signore che istruisce con diligenza coloro che ha accolto.
Secondo, va notato che quando Giovanni aveva proclamato la dignità del Cristo, affermando: «Egli è stato fatto prima di me...»; oppure: «... Io non sono degno di sciogliere il legaccio dei suoi sandali», nessuno si era convertito. Ora invece che parla delle umiliazioni di Cristo e del mistero dell'Incarnazione, subito alcuni discepoli si mettono al suo seguito. E questo avviene perché l'umiltà di Cristo e le sofferenze da lui sofferte per noi ci muovono maggiormente. Ed ecco perché nel Cantico dei Cantici (1,2) è detto di lui: «Il tuo nome è come olio profumato che si spande», si traduce cioè nella misericordia, con la quale hai procurato la salvezza di tutti; e continua: «per questo le fanciulle ti hanno molto amato».
Terzo, le parole della predicazione sono come un seme che cade su terreni diversi: in uno porta frutto e in un altro no. Così quando Giovanni predica non tutti i suoi discepoli si convertono a Cristo, ma due soltanto, vale a dire quelli che erano ben disposti. Gli altri, al contrario, guardano a Cristo con invidia, e vengono a porgli dei quesiti, come vediamo nel racconto di Matteo (9,14).
Quarto, si noti che i discepoli di Giovanni, una volta ascoltata la sua testimonianza sul Cristo, non si azzardarono a parlare subito all'improvviso con lui, ma cercarono di conversare con lui in un luogo appartato, privatamente e quasi guardinghi, con una certa vergogna e di nascosto. Del resto nell'Ecclesiaste (8,6) si legge: «Per ogni cosa c'è un tempo e un'occasione opportuna».

Maestro dove abiti?

290 - Segue la risposta dei discepoli: «E quelli dissero: Rabbi…».
Richiesti di una cosa, ne rispondono due.
Primo, dicono perché seguono Cristo: cioè per imparare; ed e per questo che lo chiamano Rabbi, ossia Maestro. Come se dicessero: Chiediamo che tu ci insegni. Infatti già presupponevano quello che si legge in Matteo (23,10): «Uno solo è il vostro Maestro: il Cristo».
Secondo, rispondono interrogando a loro volta: «Dove abiti?». In senso letterale sì può dire che cercavano realmente la dimora di Cristo. Infatti, date le cose mirabili e grandi che di lui avevano udito da Giovanni, non si contentano di interrogano sommariamente e una volta sola, ma volevano farlo spesso e a fondo; perciò ne volevano conoscere la casa, per poter accedere spesso a lui, secondo il consiglio del Savio (Sir 6,36): «Se vedi un uomo sensato, vanne in cerca di buon mattino»; e secondo la sentenza dei Proverbi (4, 34): «Beato l'uomo che mi ascolta e che veglia quotidianamente alle mie porte».
In senso allegorico la casa di Dio è il cielo, secondo l'espressione del Salmista (122,1): «A te innalzo i miei occhi, a te che dimori nei cieli». Perciò quei due chiedono a Cristo dove abiti, perché dobbiamo seguirlo per giungere al cielo, ossia alla gloria celeste.
In senso morale poi, la domanda: «Dove abiti?», esprime il desiderio di sapere quali debbano essere gli uomini, per esser degni di ricevere Cristo affinché abiti in essi. Di tale inabitazione così si parla in Ef 2,22: «Voi pure siete parte di questo edificio, che ha da essere abitacolo di Dio nello Spirito». E nel Cantico dei Cantici (1,6): «Dimmi, amore dell'anima mia, dove pascoli, dove tu riposi nel meriggio».

“Venite e vedete”: in quale modo si incontra Gesù

291 - Segue l'istruzione dei discepoli da parte di Cristo, con quelle parole: «Venite e vedete...». In proposito notiamo tre cose: primo, viene descritta tale istruzione; secondo, viene esaltata l'obbedienza dei discepoli: «Vennero e videro... »; terzo, viene precisato il tempo di tale evento: «Era quasi l'ora decima»,

292 - Per prima cosa egli dice: «Venite e vedete...» dove io abiti. Ma qui nasce un problema: come fa il Signore a dire: «Venite e vedete dove io abito», quando altrove (Mt 8,20) dichiara: «Il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo»?
Risposta: A detta del Crisostomo, quando il Signore dichiara che «il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» vuole soltanto chiarire di non avere una abitazione propria; non già che non avesse alloggio in casa d'altri. Egli quindi nel dire: «Venite e vedete» invitava quei due a vedere questo alloggio.
In senso mistico tale invito, «Venite e vedete», serve a indicare che la dimora di Dio, sia quella della grazia, che quella della gloria, non si può conoscere se non per esperienza: perché non si può esprimere a parole. Nell'Apocalisse (2,17), vi si allude in quel passo: «A chi vince.., darò un sassolino bianco, e nel sassolino sta scritto un nome nuovo, che nessuno sa, se non chi lo riceve». Di qui l'invito: «Venite e vedete»: venite col credere e con l'operare; vedete con l'esperienza e con il contemplare.

293 - Si deve notare che a questa conoscenza si giunge in quattro modi.
Primo, mediante il compimento di opere buone ed è per questo che dice: «Venite». Già il Salmista (4,3) aveva detto: «Quando verrò e comparirò al cospetto di Dio?».
Secondo, mediante la quiete e la calma dell'anima. «Calmatevi e vedete che io sono Dio...» (Sal 45,11).
Terzo, mediante il godimento della dolcezza di Dio. «Gustate e vedete come è soave il Signore» (Sal 33,9).
Quarto, mediante l'esercizio della devozione. Geremia esortava: «Alziamo i nostri cuori insieme con le palme...» (Lam 3,41). Ecco perché il Signore risorto dirà (Lc 24, 39): «Palpate e vedete...».

Andarono e videro e rimasero con lui per tutto quel giorno

294 - Segue subito nel testo l'obbedienza dei discepoli: «Andarono e videro»; e poiché accedendo videro, e vedendo non vollero lasciarlo, si aggiunge: «E rimasero con lui per tutto quel giorno». Infatti, come il Signore dirà in seguito (Gv 6,45), «chiunque ha udito il Padre ed ha appreso viene a me». Quelli invece che si allontanano da Cristo non l'hanno ancora veduto, o conosciuto come bisogna vederlo.
Ma questi che lo videro con una fede perfetta «rimasero con lui per tutto quel giorno». Ascoltando e vedendo trascorsero un giorno felice e una notte beata, da dover esclamare con la regina di Saba: «Beati i tuoi uomini e beati i tuoi servi, che stanno sempre davanti a te» (1 Re 10,8). Perciò, come esorta sant'Agostino «edifi-chiamogli anche, noi nel nostro cuore una casa, in cui egli venga stare e a insegnare».
Usa l'espressione «per quel giorno», perché non può esserci notte, dove c'è la luce di Cristo, il sole di giustizia.

295 - Segue nel testo la determinazione dell'ora: «Era quasi l'ora decima». E l'Evangelista ha voluto rilevarla, per mettere in risalto, nel senso letterale, la virtù di Cristo e dei discepoli. Infatti l'ora decima è l'ora del tramonto: perciò la circostanza fa onore a Cristo, il quale era tanto zelante nell'insegnare, da non rifiutarsi di istruirli per l'ora così avanzata, ma si mise a istruirli alla decima ora. Proprio secondo il consiglio dell'Ecclesiaste (11,6): «Al mattino semina la tua semente, e la sera non stia oziosa la tua mano...».

296 - Ciò fa ugualmente onore alla temperanza dei due discepoli. Poiché all'ora decima in cui gli uomini sono soliti cenare, ed essere meno sobri e meno disposti ad apprendere la sapienza, essi erano così sobri e disposti all'ascolto da non essere distolti né dal cibo, né dal vino. Non c'è però da meravigliarsi, perché erano discepoli di un maestro, Giovanni, la cui bevanda era l'acqua, e le cui vivande erano le locuste e il miele selvatico.

297 - Secondo Agostino l'ora decima sta a significare la Legge, che venne promulgata nei dieci comandamenti. Perciò era l'ora decima quando questi due vennero e si trattennero con Cristo; affinché la Legge avesse in Cristo quel compimento, che non aveva ricevuto dai giudei. Ecco perché a quell'ora, nella decima ora, Cristo per la prima volta viene chiamato Rabbi, cioè Maestro.

Andrea, fratello di Simon Pietro...

298 - Nella frase seguente: «Andrea, fratello di Simon Pietro...», viene presentato il frutto prodotto da uno dei discepoli di Giovanni, convertitosi a Cristo.

E in proposito vengono precisate tre cose: primo, la descrizione di quel discepolo; secondo, il frutto che da lui ebbe inizio; terzo, si descrive la maturazione del frutto, compiuta da Gesù: «Gesù, fissando bene in lui lo sguardo, disse...».

299 - La descrizione di detto discepolo implica varie cose: primo, il nome: «Andrea, fratello di Simon Pietro...». Andrea significa virile, e richiama l'esortazione del Salmo (30, 25): «Comportatevi virilmente, e prenda coraggio il vostro cuore». Ne viene qui ricordato il nome per sottolineare i suoi privilegi: sia perché fu il primo a convertirsi perfettamente alla fede di Cristo; sia perché se ne fece predicatore. Cosicché come santo Stefano fu il primo martire dopo Cristo, così sant'Andrea fu il primo cristiano.

Secondo, la descrizione accenna alla parentela: «... fratello di Simon Pietro», e ciò perché più giovane di lui. Ma anche questo ridonda a suo onore; perché, pur essendo minore di età, divenne primo nella fede.
Terzo, accenna alla scuola da cui proveniva; poiché «egli era uno dei due che avevano udito da Giovanni». Di lui solo però si ricorda il nome, per mettere così in evidenza l'insigne privilegio di Andrea. Si tace invece il nome dell'altro discepolo: o perché quest'altro era l'Evangelista Giovanni, il quale ha l'abitudine di non nominare mai se stesso, per umiltà, nel proprio Vangelo quando si parla di lui; oppure, secondo il Crisostomo, perché costui non fu un personaggio insigne, e non fece nulla di grande; cosicché non avrebbe giovato a nulla fare il suo nome. Allo stesso modo Luca nel cap. 10 si astenne dal riferire i nomi dei settantadue discepoli, che il Signore mandò due a due davanti a sé, perché non furono persone importanti e celebri, come furono invece gli apostoli. Ovvero, come pensava Alcuino , quel discepolo era Filippo: e ciò logicamente; perché l'Evangelista subito dopo aver riferito di Andrea, parla di Filippo: «Il giorno seguente Gesti volle andare in Galilea, e trovato Filippo...».
Quarto, Andrea viene elogiato per la sua incondizionata devozione: «.,. avevano seguito Gesti». Ecco perché avrebbe potuto ripetere con Giobbe (23, 11): «Alle orme di lui s'attenne il mio piede».

Andrea ne parla a Simone, suo fratello

300 - Passa a trattare del frutto iniziato da Andrea, con le parole: «Questi trovò dapprima suo fratello Simone...». Per prima cosa viene indicato colui presso il quale fece frutto, cioè suo fratello: e ciò sottolinea la perfezione della sua conversione. Infatti, come dice san Pietro nell'Itinerarium Clementis, è segno evidente di una perfetta conversione quando il convertito, nella misura in cui è piti affezionato a qualcuno, phi s'industria di convertirlo a Cristo. Perciò Andrea, perfettamente convertito, non tenne per sé il tesoro che aveva trovato, ma si affrettò e corse subito dal fratello, per comunicargli i beni ricevuti.

Ecco perché il testo usa la frase: «Questi», ossia Andrea, «trovò dapprima suo fratello Simone», che evidentemente cercava; affinché come era suo fratello carnale, cosí diventasse suo fratello di fede. Nei Proverbi (18,19) si legge: «Un fratello aiutato da un fratello è come una città fortificata». E nell'Apocalisse (22,17): «Chi ascolta dice: Vieni».

301 - In secondo luogo si riferiscono le parole di Andrea: «Abbiamo trovato il Messia (che tradotto vuol dire il Cristo)».
Secondo il Crisostomo, Andrea risponde qui a un quesito non formulato. Se uno gli avesse chiesto su quale argomento fosse stato istruito da Cristo, la risposta sarebbe risultata evidente: era stato istruito a riconoscere, mediante le testimonianze della Scrittura, che Gesù era il Cristo. Perciò dice: «Abbiamo trovato...». La frase mostra inoltre che lo aveva cercato a lungo col desiderio, memore dell'insegnamento dei Proverbi (3,13): «Beato l'uomo che trova la sapienza...».
Il termine ebraico Messia equivale al greco Cristo, e al latino Unto, consacrato; poiché Gesù fu unto in modo speciale con l'olio invisibile che è lo Spirito Santo. Ecco perché di proposito lo chiama con questo nome, accennando alle parole del Salmo (44,8): «Ti ha unto Dio, il tuo Dio, con olio di letizia a preferenza dei tuoi uguali», ossia di tutti i santi. Infatti i santi ricevono tutti l'unzione con quest'olio; ma costui fu unto e consacrato in maniera singolare, ed è singolarmente santo. Per questo, nota il Crisostomo, qui non è chiamato semplicemente Messia, bensì «il Messia», con l'articolo determinativo.

«... lo condusse da Gesù» e Gesù svela a Pietro la propria divinità

302 - In terzo luogo viene posto il frutto che Andrea ottenne con Pietro: «... lo condusse da Gesù».
E in ciò risalta l'obbedienza di Pietro; perché accorse subito, senza ritardo.
E si noti la devozione e dedizione di Andrea: lo condusse a Gesù, non a se stesso (ben sapendo di essere una fragile creatura); quindi lo condusse a Gesù perché lui direttamente lo istruisse.
Indicava così quale debba essere l'impegno e lo sforzo dei predicatori: non devono ambire per sé i frutti della predicazione così da cercare il proprio vantaggio e il proprio prestigio, ma devono portare a Gesù, ossia a rendere a lui gloria ed onore. San Paolo di sé diceva (2 Cor 4, 5): «Noi non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo...».

303 - Si passa quindi a descrivere il compimento, la maturazione di questo frutto: «Gesù fissando bene in lui lo sguardo, disse...». Cristo volendo sollevare Simone alla fede nella propria Divinità, cominciò a produrre opere che sono proprie della Divinità, svelando cose occulte.
Primo, cominciò a svelare cose occulte, ma presenti. «Fissò bene in lui il suo sguardo», vale a dire che lo scrutò con la virtù della sua Divinità e gli disse qual era il suo nome: «Tu sei Simone». Né c'è da meravigliarsi; perché, come è detto in 2 Sam 16, 7, «l'uomo guarda all'apparenza, il Signore guarda al cuore».
Inoltre questo nome si addice a Pietro per il suo significato mistico. Infatti Simone significa obbediente, e indica che l'obbedienza è indispensabile per chi si converte a Cristo mediante la fede. Negli Atti (5,32) si accenna al fatto, che «Dio dà lo Spirito Santo a coloro che gli obbediscono».

304 - Secondo, rivela cose occulte, ma passate, svelandone la paternità: «... sei figliuolo di Giovanni»; perché così era chiamato tuo padre. Oppure, secondo Matteo, «figlio di Giona», «Simone Bariona».
Entrambi i nomi offrono validi significati mistici. Perché Giovanni significa grazia, e indica che gli uomini vengono alla fede di Cristo mediante la grazia, secondo l'espressione paolina (cf. Ef 2,5): «per grazia siete stati salvati...».
Giona invece significa colomba, e indica che noi veniamo resi stabili nell'amore di Dio dallo Spirito Santo che ci è stato dato, come si legge nell'Epistola ai Romani (5, 5): «La carità di Dio si è riversata nei nostri cuori per lo Spirito Santo che ci è stato dato».

305 - Terzo, svela le cose occulte del futuro, dicendo: «Tu ti chiamerai Cefa, che vuoi dire Pietro», mentre in greco significa capo.
E tutto ciò è intonato al mistero; affinché colui che doveva essere a capo di altri e vicario di Cristo, fosse radicato nella fermezza. Di qui le parole evangeliche (Mt 16,18): «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa».

306 - Abbiamo qui un problema di esegesi letterale. Perché Cristo impose il nome a Pietro all'inizio della sua conversione, e non volle che venisse così denominato fin dalla nascita?
Ci sono in proposito due soluzioni. Secondo il Crisostomo i nomi imposti da Dio stanno a indicare una certa eminenza di grazia spirituale. Ora, quando Dio conferisce a qualcuno una grazia speciale fin dalla nascita, gli impone fin da allora il nome che esprime tale grazia. Ciò è evidente nel caso di Giovanni Battista, che ebbe il nome da Dio prima che nascesse; perché fu santificato fin dal seno materno. Talora invece questa eminenza di grazia specialissima viene conferita nel corso degli anni; e allora tali nomi vengono imposti da Dio non alla nascita, bensì nel corso degli anni. Ciò è evidente nel caso di Abramo e di Sara, ai quali venne cambiato il nome quando ebbero la promessa che si sarebbe moltiplicata la loro stirpe. Allo stesso modo anche Pietro venne così denominato da Dio quando fu chiamato alla fede di Cristo e alla grazia dell'apostolato, e quando specialmente venne costituito principe degli apostoli di tutta la Chiesa; il che non avvenne per gli altri apostoli.
Invece secondo sant'Agostino il motivo di tale dilazione sta nel fatto che, se egli fosse stato chiamato Cefa fin dal principio, non sarebbe risultato con chiarezza il mistero. Perciò il Signore volle che ricevesse quel nome soltanto allora, affinché col mutamento del nome apparisse il mistero della Chiesa, che era fondata sulla confessione di fede dell'apostolo Pietro. Pietro infatti viene da pietra; «e la pietra era Cristo» (1 Cor 10, 4). Perciò nel nome di Pietro è figurata la Chiesa, che è edificata sopra una pietra immobile, ossia su Cristo.


Pubblicato 18.01.2012

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Spiritualità domenicana

Riflessioni sulla passione, morte, discesa agli inferi e risurrezione di Nostro Signore Gesù (dal commento al Credo di San Tommaso d'Aquino)

In questi ultimi giorni della settimana santa e nei primi di Pasqua meditiamo sulla passione, morte, discesa agli inferi di Gesù e sulla sua risurrezione e ascensione al cielo con le riflessioni che San Tommaso ha espresso nel suo commenti al Credo (la traduzione è di Pietro Lippini, o.p.)

Necessità della passione di Cristo

Che necessità c'era perché il Verbo di Dio patisse per noi?
Grande, come si può cogliere da questa doppia motivazione:
la prima, come rimedio contro i nostri peccati
e la seconda come esempio al nostro operare.

A - Come rimedio.

Perché è nella passione di Cristo che troviamo rimedio contro tutti i mali in cui possiamo incorrere per i nostri peccati.
Orbene, il peccato ci procura cinque mali:

1 - Ci macchia.

L'uomo, infatti, quando pecca deturpa la propria anima, perché, come la virtù per l'anima è la sua bellezza, così il peccato ne è la macchia. Diceva al riguardo il profeta Baruc: "Perché, Israele, perché ti trovi in terra nemica... perché ti contamini con i cadaveri?" (Bar 3,10-11). Ma questa macchia viene tolta dalla passione di Cristo, perché egli con la sua passione preparò un bagno con cui lavare i peccatori nel suo sangue. Dice infatti l'Apocalisse che egli "ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue" (Ap 1,5). L'anima infatti viene lavata dal sangue di Cristo nel Battesimo, perché esso trae la sua virtù rigeneratrice dal sangue di Cristo. Perciò, quando qualcuno si inquina nuovamente col peccato, reca un'offesa a Cristo e il suo peccato è più grande di quello commesso dagli uomini prima della redenzione. Scrive in proposito l'Apostolo: "Quando qualcuno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Di quanto maggior castigo allora pensate che sarà ritenuto degno chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell'alleanza" (Eb 10,28-29).

2 – Ci fa offendere Dio.

Infatti, come l'uomo carnale ama la bellezza carnale, così Dio ama quella spirituale, che è la bellezza dell'anima. Pertanto, quando l'anima si macchia col peccato, offende Dio il quale, di conseguenza, prende in odio il peccatore, come dice il Libro della Sapienza: "Sono in odio a Dio l'empio e la sua empietà" (Sap 14,9).
Orbene, questo viene rimosso dalla passione di Cristo, che ha soddisfatto il Padre - cosa che l'uomo da solo non avrebbe potuto fare – per il suo peccato. La carità e l'obbedienza di Cristo furono infatti più meritevoli di quanto non fossero state grandi la colpa e la disobbedienza dell'uomo. "Quand'eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo" (Rm 5,10).

3 - Ci indebolisce.

Difatti, dopo una prima caduta nel peccato, l'uomo si illude di potersene trattenere in seguito. Avviene invece tutto il contrario, perché dal primo peccato egli viene debilitato e reso maggiormente incline a ripeccare. Il peccato soggiogherà l'uomo più di prima e lo metterà nella condizione, per quanto dipende dalle sole sue forze, di non poter risorgere senza un intervento divino: come uno che si getta in un pozzo e non può esserne estratto che da un altro. Dal peccato del primo uomo la natura umana fu infatti indebolita e corrotta e l'uomo si ritrovò più incline a peccare e maggiormente dominato da esso. Cristo, è vero, curò questa sua infermità e debolezza, ma non totalmente; per cui, dalla passione di Cristo l'uomo è stato rinvigorito e ne è stata indebolita l'inclinazione al peccato, che in tal modo non lo domina più. Anzi, con l'aiuto della grazia di Dio, che gli viene conferita dai Sacramenti che traggono efficacia dalla passione di Cristo, può ora lottare per resistere al peccato, perché "il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui (Cristo), perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato" (Rm 6,6).

4 - Ci rende meritevoli del castigo.

La giustizia di Dio esige, infatti, che chi pecca venga punito e che la pena sia proporzionata alla colpa. Ora, siccome la colpa del peccato mortale è infinita, in quanto offesa di un bene infinito, ossia Dio, i cui precetti il peccatore disprezza, anche la pena dovuta al peccato mortale è infinita. Ma Cristo con la sua passione ci ha liberati da questa pena, sottoponendovisi al nostro posto. Come dice S. Pietro: "Egli portò i nostri peccati - cioè la pena dovuta ad essi - nel suo corpo sul legno della croce" (1 Pt 2,24). E la passione di lui fu di un valore così grande da bastare ad espiare tutti i peccati del mondo intero, anche se il loro numero fosse stato infinito. È per questo che coloro che ricevono il Battesimo vengono assolti da tutti i loro peccati e che anche il sacerdote può assolverli tutti.
Ne segue anche, che quanto più uno si conforma alla passione di Cristo, tanto maggior perdono egli ottiene e più grazia egli merita.

5 - Ci espelle dal Regno.

Coloro, infatti, che offendono il re, sono costretti ad andare in esilio.
Analogamente, per il suo peccato l'uomo viene cacciato dal paradiso: è quello che successe immediatamente ad Adamo a causa della sua colpa e, dopo, la porta del paradiso venne chiusa.
Ma Cristo con la sua passione la riaprì e richiamò nel regno gli esiliati. La porta del paradiso fu riaperta in seguito all'apertura del costato di Cristo, quando, a causa dello spargimento del suo sangue, la macchia del peccato fu lavata, Dio fu placato, la fragilità umana fu curata, la pena espiata e gli esuli furono richiamati nel regno. È per questo che al ladrone fu subito detto "oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43): parole che non erano mai state dette ad alcuno prima di allora: non ad Adamo, non ad Abramo, non a Davide. Solo oggi, dopo cioè che ne fu riaperta la porta, la domanda di perdono del ladrone venne accolta "avendo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù" (Eb 10,19).

Risulta, dunque, da quanto si è detto, l'utilità della passione di Cristo come rimedio.

B - Come esempio.

Ma non è minore l'utilità che ci viene dal suo esempio. Come dice, infatti, il beato Agostino, la passione di Cristo è sufficiente per orientare tutta la nostra vita. Chiunque voglia, infatti, vivere perfettamente non ha altro da fare che disprezzare ciò che Cristo ha disprezzato e desiderare ciò che Cristo ha desiderato. Nessun esempio di virtù è infatti esente dalla croce.
Infatti:
- Cerchi un esempio di carità? Eccolo. "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15,13). Così ha fatto Cristo sulla croce. Se perciò egli ha dato la sua vita per noi, non ci dovrebbe essere pesante sopportare qualsiasi male per lui. Infatti: "che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato?" (Sal 116,12).

2- Cerchi un esempio di pazienza? Ne trovi uno quanto mai eccellente sulla croce. La pazienza, infatti, si giudica grande in due circostanze: o quando uno sopporta pazientemente grandi avversità, o quando si sostengono avversità che si potrebbero evitare, ma non si evitano. Orbene, Cristo sulla croce sopportò grandi sofferenze: "Voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c'è un dolore simile al mio" (Lam 1,12). E le sopportò con pazienza, perché "oltraggiato non rispondeva con oltraggi e soffrendo non minacciava vendetta" (1 Pt 2,23); ed "era come agnello condotto ai macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori" (Is 53,7). Inoltre poteva evitare tali sofferenze ma non volle. Nel Getsèmani disse infatti a Pietro: "Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di Angeli?" (Mt 26, 53). La pazienza di Cristo sulla croce fu quindi grande, per cui "corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli, in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia"(Eb 12,1-2).

3 - Cerchi un esempio di umiltà? Guarda il crocifisso: è Dio che ha voluto essere giudicato sotto Ponzio Pilato e subire la morte "con giudizi da empio" (Gb 36,17), come fosse veramente un empio, perché dissero di lui: "condanniamolo a una morte infame" (Sap 2,20). Il padrone volle morire per il servo e lui, che è la vita degli Angeli, per l'uomo, "umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2, 8).

4 - Cerchi un esempio di obbedienza? Segui colui che si è fatto obbediente al Padre fino alla morte: "Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti" (Rm 5,19).

5 - Cerchi un esempio di disprezzo delle cose terrene? Segui colui che è il Re dei re e il Signore dei signori, nel quale si trovano "tutti i tesori della sapienza e della scienza" (Col 2,3), che tuttavia sulla croce compare nudo, schernito, sputacchiato, percosso, coronato di spine, e in fine abbeverato con fiele ed aceto. Non legare dunque il tuo cuore alle vesti e alle ricchezze, perché i soldati "si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte" (Sal 22,19); non agli onori, perché io, "sono stato oggetto di insulti e di flagelli"; non alle dignità, perché "sul mio capo, intrecciandola, posero una corona di spine"; non ai piaceri, perché "quando avevo sete mi hanno dato aceto" (Sal 69,2).
In un suo commento al passo della Lettera agli Ebrei: "Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia" (Eb 12,2), S. Agostino dice che "l'uomo Cristo Gesù disprezzò tutti i beni terreni per dimostrare che si devono disprezzare".
Preghiamo il Signore.

Discese agli inferi

Come abbiamo detto, la morte di Cristo avvenne per la separazione della sua anima dal corpo, come avviene per tutti gli altri uomini. Ma la divinità era così inscindibilmente unita all'uomo Cristo, che, nonostante la avvenuta separazione dell'anima dal corpo, essa rimase sempre presente sia all'anima che al corpo, sicché il Figlio di Dio, mentre col suo corpo era nel sepolcro, con la sua anima discese all'inferno. Ecco perché i santi Apostoli dissero: "Discese agli inferi".

Per quali motivi discese agli inferi

Vi sono quattro ragioni per spiegare perché Cristo scese con la sua anima agli inferi.

1- Per sottomettersi interamente alla pena del peccato e così espiarne tutta la colpa

Infatti, la pena dovuta al peccato non consisteva solamente nel dover subire la morte del corpo, ma anche una sofferenza dell'anima perché anch'essa aveva concorso al peccato. Perciò dopo la morte, prima della venuta di Cristo, discendeva all'inferno. Anche Cristo, per sottomettersi totalmente alla pena dovuta ai peccatori, volle così non soltanto morire ma anche discendere con la sua anima all'inferno. Il salmo può perciò dire di lui: "Sono annoverato tra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai privo di forza" (Sal 88,5). Cristo però discese agli inferi in maniera diversa da come vi erano discesi gli antichi padri. Essi vi erano discesi per necessità e vi erano stati condotti e trattenuti contro la loro volontà. Cristo invece con autorità e liberamente. Perciò si dice di lui: "Sono annoverato tra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai privo di forza" (Sal 88,8). Gli altri, quindi, vi erano come schiavi, mentre Cristo come uomo libero.

2 - Per aiutare in modo perfetto tutti i buoni, suoi amici

Cristo aveva infatti amici non solo nel mondo, ma anche agli inferi. Si è infatti suoi amici in proporzione alla carità. Ma negli inferi c'erano molti che erano morti nella carità e con la fede nel futuro Messia, come Abramo, Isacco, Giacobbe e Davide e molti altri uomini giusti e perfetti. E poiché Cristo aveva visitato i suoi che erano nel mondo e aveva loro portato aiuto con la sua morte, volle far visita anche ai suoi che si trovavano agli inferi e aiutarli con la sua visita: "Penetrerò in tutte le profondità della terra, visiterò tutti coloro che dormono e illuminerò tutti coloro che sperano nel Signore" (Sir 24,45, Volgata).

3 - Per trionfare totalmente sul diavolo

Uno infatti trionfa totalmente su un altro, quando non solo lo vince sul campo, ma gli occupa anche la sede del regno e la casa. Orbene, Cristo aveva trionfato del diavolo e lo aveva vinto sulla croce, come affermò lo stesso Gesù quando disse: "Ora è il giudizio di questo mondo, ora il principe di questo mondo - cioè il diavolo - sarà gettato fuori" (Gv 12,31), cioè dal mondo. Perciò, per trionfare di lui in maniera totale, Gesù volle togliergli la sede del suo trono e legarlo nella sua casa che è l'inferno. Scendendovi distrusse tutti suoi beni, lo legò e gli strappò la sua preda, come dice l'Apostolo: "Avendo privato della loro forza i Principati e le Potestà, ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale di Cristo" (Col 2,15). Inoltre, avendo in precedenza già ricevuto il potere sul cielo e sulla terra, Cristo volle in tal modo prendere possesso anche dell'inferno, affinché - come afferma l'Apostolo - "nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra" (Fil 2,10) e i suoi discepoli nel suo nome scacciassero i demoni (cf. Mc 16,17).

4 - Per liberare i santi che si trovavano agli inferi

Cristo, infatti, come volle sottostare alla morte per liberare da essa i viventi, così volle discendere agli inferi per liberare coloro che vi si trovavano. Scriveva in proposito il profeta Zaccaria: "Quanto a te, per il sangue dell'alleanza con te, io estrarrò i tuoi prigionieri dal pozzo senz'acqua" (Zac 9,11) e Osea profetizzò: "O morte, sarò la tua morte; o inferno, sarò il tuo morso" (Os 13,14). Infatti, sebbene Cristo abbia sconfitto totalmente la morte, non distrusse completamente l'inferno ma soltanto lo corrose, perché non liberò tutti dall'inferno ma solo quelli che erano senza peccato mortale: cioè quelli che erano personalmente senza peccato originale, in quanto ne erano stati mondati dalla circoncisione, ed erano senza peccato attuale, e che vi erano trattenuti in forza del peccato di Adamo dal quale, quanto alla natura, non potevano venire liberati che da Cristo. Vi lasciò invece coloro che erano in peccato mortale. Per questo è detto: "O inferno, sarò il tuo morso".
Ora è perciò chiaro che Cristo discese agli inferi e perché.

Insegnamenti che ne derivano

Da quanto si è detto si possono ricavare per la nostra istruzione quattro insegnamenti.

1- Ricavarne una ferma speranza.

Per quanto grande sia l'afflizione in cui si trova l'uomo, egli non deve disperare né diffidare dell'aiuto di Dio. Non c'è infatti uno stato più penoso di quello di trovarsi all'inferno. Se dunque Cristo liberò quelli che vi si trovavano, chiunque altro che sia amico di Dio deve avere grande fiducia di essere da lui liberato qualunque sia la tribolazione che lo affligge, perché (la Sapienza) "non abbandonò il giusto venduto ... scese con lui nella prigione, non lo abbandonò mentre era in catene" (Sap 10,13-14). E poiché Dio aiuta in modo speciale i suoi servi, colui che serve Dio deve sentirsi molto sicuro. Dice infatti il Siracide: "Lo spirito di coloro che temono il Signore vivrà, perché la loro speranza è posta in colui che li salva" (Sir 34,14).

2 - Concepire il timore di Dio e bandire la presunzione.

Sebbene abbia patito per i peccatori e sia sceso agli inferi, Cristo non ha però liberati tutti, ma - come si è detto - solamente quelli che erano senza peccato. Vi lasciò invece quelli che erano morti in peccato mortale. Perciò, nessuno che muoia in peccato mortale può sperare nel perdono, ma rimarrà all'inferno per tutto il tempo che i santi rimarranno in paradiso, cioè in eterno, come si legge in Matteo: "Se ne andranno questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna" (Mt 25,46).

3 - Essere vigilanti.

Cristo infatti, scese agli inferi per la nostra salvezza. Analogamente, anche noi dobbiamo essere solleciti a scendervi frequentemente per meditare sulle pene che vi si soffrono, come faceva il santo Ezechia che scrisse: "io dicevo: a metà della mia vita me ne vado alle porte degli inferi" (Is 38,10). Infatti, chi mentre vive scende frequentemente col pensiero all'inferno, facilmente non vi scenderà dopo la morte, perché tale meditazione lo ritrarrà dal peccato. È infatti una constatazione, che gli uomini di questo mondo si guardano dal commettere cattive azioni per timore della pena temporale. E ancora di più staranno attenti a non peccare per non incorrere nella pena dell'inferno, che è ben maggiore sia per la durata che per l'intensità: "in tutte le tue opere - diceva il Siracide - ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato" (Sir 7,40).

4 - Crescere nella carità.

Cristo scese infatti agli inferi per liberarvi i suoi. Analogamente, anche noi dobbiamo scendervi per portare aiuto ai nostri cari che per sé non possono fare nulla. Dobbiamo perciò aiutare le anime che sono in purgatorio. Si mostrerebbe infatti estremamente crudele chi non aiutasse un suo amico rinchiuso in un carcere; ma sarebbe ancor più crudele chi non aiutasse un suo amico che si trova in purgatorio, poiché non c'è alcun paragone tra le pene del purgatorio e quelle di questo mondo. "Pietà, pietà di me, almeno voi miei amici - diceva Giobbe - perché la mano di Dio mi ha percosso!" (Gb 19,21) e il Libro dei Maccabei diceva al riguardo: "è santo e salutare il pensiero di pregare per i defunti affinché siano liberati dai loro peccati" (2 Mac 12,46). Le anime dei defunti possiamo poi aiutarle - come dice Agostino - principalmente in tre modi: con le Messe, con le elemosine e la preghiera. E Gregorio ne aggiunge un quarto, cioè il digiuno. Né ci si deve poi meravigliare se per provare la possibilità di aiutare le anime del purgatorio abbiamo fatto ricorso al paragone che anche in questo modo l'amico può soddisfare per l'amico.
Preghiamo.

Il terzo giorno risuscitò da morte

È necessario che gli uomini conoscano due cose: la gloria di Dio e la pena dell'inferno, perché essi, allettati dalla gloria e spaventati dalla pena, possano star lontani dal peccato ed evitarlo. Ma sono cose queste molto difficili da conoscere. Per cui, della gloria si dice: "A stento ci raffiguriamo le cose terrestri, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi può rintracciare le cose del cielo?” (Sap 9,16). Ed è questa un'impresa difficile per chi è terreno, perché, come dice Giovanni (Gv 3,31): "Chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra"; non è cosa invece difficile per chi è spirituale, perché "chi viene dal cielo è al di sopra di tutti". Per questo il Signore è disceso dal cielo e si è incarnato: per insegnarci le cose celesti.
Era anche difficile venire a conoscere le pene dell'inferno. Il Libro della Sapienza pone sulla bocca degli stolti queste parole: “Non si è trovato alcuno che sia tornato dagli inferi" (Sap 2,1). Ma ora non si può più dire così, perché Cristo, com'è disceso dal cielo per insegnarci le cose celesti, così è risorto dai morti per insegnarci le cose degli inferi. È perciò necessario che noi crediamo non solo che egli si è fatto uomo ed è morto, ma anche che risuscitò dal morti. Perciò nel Simbolo viene detto: "il terzo giorno risuscitò dai morti".

Caratteristiche della sua risurrezione

Sappiamo che molti sono risuscitati dai morti, come Lazzaro, il figlio della vedova e la figlia dell'archisinagogo. Ma la risurrezione di Cristo differisce da quella di costoro e degli altri per quattro motivi.

1 - Quanto alla causa.

Gli altri risuscitati non risorsero per virtù propria ma, o per quella di Cristo o per le preghiere di qualche santo. Cristo, invece, risuscitò per virtù propria, perché egli non era soltanto uomo ma anche Dio, e la divinità non fu mai separata né dalla sua anima né dal suo corpo. Perciò, quando egli volle, il suo corpo riassunse l'anima e l'anima il corpo. Lo affermò lui stesso: "Io ho il potere di offrirla (la mia vita) e il potere di riprenderla di nuovo" (Gv 10,18). E, pur avendo subita la morte, questa non avvenne per infermità o per necessità, ma per propria volontà, spontaneamente: il che risulta anche dal fatto che egli, nel momento di emettere lo spirito gridò ad alta voce: cosa che non possono fare gli altri che muoiono a causa della loro infermità. Fu questo il motivo che fece dire al centurione: "Davvero costui era Figlio di Dio" (Mt 27,54). Pertanto, come per virtù propria depose l'anima, così per virtù propria la riprese, per cui giustamente si dice che egli "risuscitò" e non che "è stato risuscitato", come se ciò fosse avvenuto per intervento altrui. Egli può dire di sé quanto dice il salmista: "Io mi corico e mi addormento, mi sveglio (perché il Signore mi sostiene)" (Sal 3,6). Né questo è in contraddizione con quanto si legge negli Atti: "Questo Gesù Dio l'ha risuscitato" (At 2,32), perché il Padre lo risuscitò e il Figlio risuscitò se stesso, essendo unica la potenza del Padre e del Figlio.

2 - Quanto alla nuova vita del risorto.

Cristo risuscitò a una vita gloriosa e incorruttibile. Lo afferma l'Apostolo quando dice: "Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre" (Rm 6,4), mentre gli altri tornano alla medesima vita di prima, come sappiamo di Lazzaro e degli altri risorti.

3 - Quanto ai frutti che ne derivarono.

Tutti gli altri risorgono in virtù della risurrezione di Cristo. Infatti, dice il Vangelo che, alla risurrezione di lui, "molti corpi di santi morti risuscitarono" (Mt 27,52) e S. Paolo afferma che "Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti" (1 Cor 15,20). Non sfugga, però, che Cristo giunse alla gloria attraverso la passione, come egli stesso dichiarò ai suoi discepoli: "Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?" (Lc 24,26).
Così ci insegnò come anche noi potessimo giungere alla gloria, perché - come afferma S. Paolo - "è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio" (At 14,22).

4 - Quanto al tempo.

La risurrezione degli altri viene, infatti, differita alla fine del mondo, a meno ché ad alcuni non sia stata anticipata per privilegio, come alla Beata Vergine e, come piamente si crede, al beato Giovanni Evangelista. Cristo, invece, risuscitò al terzo giorno. La ragione è che la nascita, la morte e la risurrezione di lui erano ordinate alla nostra salvezza, e pertanto egli volle risorgere appena la nostra salvezza fu compiuta. Ma se fosse risorto subito dopo la morte, non si sarebbe creduto che egli fosse veramente morto; e se l'avesse differita di molto tempo, i suoi discepoli non avrebbero perseverato nella fede e di conseguenza la sua passione non sarebbe stata di alcuna utilità, come dice il salmo: "Quale vantaggio dalla mia morte, dalla mia discesa nella tomba?" (Sal 30,10). Risuscitò perciò il terzo giorno affinché fosse creduto morto e i suoi discepoli non perdessero la fede.

Quattro insegnamenti da ricavarne

Da quanto si è detto della risurrezione di Cristo possiamo ricavare a nostra erudizione quattro insegnamenti.

1 - Dobbiamo impegnarci per risorgere spiritualmente dalla morte dell'anima, in cui incorre l'uomo col peccato, alla vita di grazia che si riacquista mediante la penitenza. Dice infatti l'Apostolo: "Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà" (Ef 5,14). È questa quella prima risurrezione cui allude l'Apocalisse quando dice: "Beati e santi coloro che prendono parte alla prima risurrezione" (Ap 20,6).

2 - Non dobbiamo differire questa nostra risurrezione al momento della morte, ma dobbiamo attuarla subito, perché Cristo è risorto al terzo giorno. A tanto ci invita anche il Siracide: "Non aspettare a convertirti al Signore, e non rimandare di giorno in giorno" (Sir 5,8). Come potresti, infatti, pensare alla salvezza dell'anima quando sarai oppresso dalla malattia? Inoltre, perché perseverando nel peccato, vorresti privarti della partecipazione di tanti beni che si fanno nella Chiesa e incorrere in tanti mali? Il diavolo, inoltre, - come dice Beda quanto più a lungo possiede un'anima, tanto più difficilmente la lascia.

3 - Dobbiamo risorgere a una vita incorruttibile, per non morire di nuovo, cioè col proposito di non peccare più, come Cristo che "risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui" (Rm 6,9). Perciò, "Anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù. Non regni più dunque il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri; non offrite le vostre membra come strumenti di ingiustizia al peccato, ma offrite voi stessi a Dio come vivi tornati dai morti" (Rm 6,11-13).

4 - Sforziamoci di risorgere a una vita nuova e gloriosa, tale cioè da evitare tutte quelle cose che prima ci erano state occasione e causa di morte e di peccato. "Come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova" (Rm 6,4), e questa vita nuova è una vita di grazia che rinnova l'anima e porta alla vita di gloria.
Alla quale dobbiamo tutti aspirare.

È salito al cielo, siede alla destra del Padre

Dopo che alla risurrezione di Cristo, dobbiamo credere anche alla sua ascensione al cielo, perché Cristo vi salì quaranta giorni dopo. Perciò si dice nel Simbolo "Salì al cielo". Ma sulla sua ascensione vogliamo fare tre considerazioni: che fu un fatto eccezionale, ragionevole e utile.

1 - Fu un fatto eccezionale.

Fu veramente un fatto eccezionale questo suo salire nei cieli. E ciò per tre motivi. Innanzitutto perché egli salì al di sopra dei cieli materiali, essendo salito - come afferma l'Apostolo - "al di sopra di tutti i cieli" (Ef 4,10) e fu il primo a compiere una tale ascensione, perché prima di lui un corpo terrestre era rimasto sempre sulla terra, tanto è vero che lo stesso Adamo era vissuto in un paradiso terrestre.
Ma egli salì anche al di sopra dei cieli di natura spirituale, perché come scrive S. Paolo agli Efesini - il Padre "lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi" (Ef 1,20-22). Egli inoltre salì fino al trono di Dio Padre, come profetizzò Daniele: "Ecco apparire, sulle nubi dei cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al Vegliardo e fu presentato a lui" (Dan 7,13); e Marco conferma, che: "Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio" (Mc 16,19). Quando però si dice che egli sedette alla destra del Padre, non dobbiamo intenderlo in senso materiale ma soltanto metaforico, perché questo è un modo umano di esprimersi. Egli come Dio siede alla destra del Padre nel senso che è partecipe dei beni più eccellenti di lui. Questo lo aveva preteso il diavolo, quando, ai dire di Isaia, aveva pensato: "Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell'assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all'Altissimo" (Is 14,13-14). Ma a tali altezze non pervenne che il Cristo, del quale il Simbolo dice appunto, che "salì al cielo, siede alla destra del Padre" e il salmo dice: "Oracolo del Signore al mio Signore: siedi alla mia destra" (Sal 110,1).

2 - Fu un fatto ragionevole.

Lo dimostriamo con tre motivi, il primo dei quali è che il cielo era dovuto a Cristo in forza della sua natura. È infatti conforme a natura che ogni cosa ritorni là da dove ha tratto origine. Orbene, l'origine di Cristo è da Dio, il quale è sopra ogni cosa, ed era perciò giusto che egli salisse sopra tutte le cose. Lo dice Gesù stesso: "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre" (Gv 16,28) e "nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo" (Gv 3,13). È vero che anche i santi salirono e salgono al cielo, ma in maniera diversa da quella di Cristo; perché, mentre egli vi salì per virtù propria, i santi vi salgono perché attratti da lui: "Attirami dietro a te" (Ct 1,4). E si può anche dire che nessuno è salito al cielo tranne Cristo, perché i santi non vi salgono se non in quanto sono membra di lui, che è il capo della Chiesa (cf. Mt 24,28).
Ma il cielo era dovuto a Cristo anche per la sua vittoria. Egli era infatti stato mandato nel mondo per combattere contro il diavolo, e lo aveva sconfitto. Perciò si meritò di venire esaltato sopra tutte le cose. Ne dà conferma l'Apocalisse: "Io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono" (Ap 3,21).
Infine, il cielo gli era dovuto per la sua umiltà. Non c'è infatti umiltà più grande di quella di Cristo, il quale, essendo Dio, volle diventare uomo, ed essendo il Signore, volle - come dice S. Paolo - assumere la condizione di servo... "facendosi obbediente fino alla morte" (Fil 2,8) e discese fino agli inferi. Meritò perciò, di venire esaltato fino al trono di Dio, dato che "chi si umilia sarà esaltato" (Lc 14,11). E giustamente, quindi, l'Apostolo dice di lui: "Colui che discese è lo stesso che anche ascese ai di sopra di tutti i cieli" (Ef 4,10).

3 - Fu un avvenimento utile.

Lo fu per tre motivi, il primo dei quali è quello di essere guida per noi. Salì infatti al cielo, per guidarvici noi, alla stessa maniera che risorse per far risorgere noi. Non ne conoscevamo infatti la strada e Cristo ce la mostrò accessibile: "Chi ha aperto la breccia li precederà... e marcerà il loro re innanzi a loro" (Mi 2,13), assicurandoci in pari tempo della possibilità di possedere il regno celeste, perché egli disse: "Vado a prepararvi un posto" (Gv 14,2).
Rafforzò poi, questa nostra speranza il fatto che egli vi salì per esservi nostro intercessore, perché così, come dice l'Apostolo, egli “può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore" (Eb 7,25). E Giovanni aggiunge: "Abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo" (1 Gv 2,1).
Fu utile infine, per attrarre a sé i nostri cuori, dato che "dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore" (Mt 6,21) e indurci a disprezzare le cose temporali: "Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra" (Col 3,1-2).


Pubblicato 18.03.2008

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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