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Aborto: il lutto negato e... l'Evangelium Vitae a 15 anni dalla sua pubblicazione

Ultimo Aggiornamento: 16/06/2013 14:13
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08/07/2010 10:19
 
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Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell'omicidio.



66. Ora, il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l'omicidio. La tradizione della Chiesa l'ha sempre respinto come scelta gravemente cattiva.83 Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente l'innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell'amore verso se stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme.84 Nel suo nucleo più profondo, esso costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte, così proclamata nella preghiera dell'antico saggio di Israele: «Tu hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire» (Sap 16, 13; cf. Tb 13, 2).

Condividere l'intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto «suicidio assistito» significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un'ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta. «Non è mai lecito — scrive con sorprendente attualità sant'Agostino — uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a liberare l'anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere».85 Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell'esistenza di chi soffre, l'eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante «perversione» di essa: la vera «compassione», infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. E tanto più perverso appare il gesto dell'eutanasia se viene compiuto da coloro che — come i parenti — dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti — come i medici —, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.

La scelta dell'eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l'ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell'arbitrio e dell'ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. Si ripropone così la tentazione dell'Eden: diventare come Dio «conoscendo il bene e il male» (cf. Gn 3, 5). Ma Dio solo ha il potere di far morire e di far vivere: «Sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32, 39; cf. 2 Re 5, 7; 1 Sam 2, 6). Egli attua il suo potere sempre e solo secondo un disegno di sapienza e di amore. Quando l'uomo usurpa tale potere, soggiogato da una logica di stoltezza e di egoismo, inevitabilmente lo usa per l'ingiustizia e per la morte.

Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.



67. Ben diversa, invece, è la via dell'amore e della vera pietà, che la nostra comune umanità impone e che la fede in Cristo Redentore, morto e risorto, illumina con nuove ragioni. La domanda che sgorga dal cuore dell'uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno. Come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, «in faccia alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo» per l'uomo; e tuttavia «l'istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l'idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell'eternità che porta in sé, irriducibile com'è alla sola materia, insorge contro la morte».86

Questa naturale ripugnanza per la morte e questa germinale speranza di immortalità sono illuminate e portate a compimento dalla fede cristiana, che promette e offre la partecipazione alla vittoria del Cristo Risorto: è la vittoria di Colui che, mediante la sua morte redentrice, ha liberato l'uomo dalla morte, «salario del peccato» (Rm 6, 23), e gli ha donato lo Spirito, pegno di risurrezione e di vita (cf. Rm 8, 11). La certezza dell'immortalità futura e la speranza nella risurrezione promessa proiettano una luce nuova sul mistero del soffrire e del morire e infondono nel credente una forza straordinaria per affidarsi al disegno di Dio.

L'apostolo Paolo ha espresso questa novità nei termini di un'appartenenza totale al Signore che abbraccia qualsiasi condizione umana: «Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14, 7-8). Morire per il Signore significa vivere la propria morte come atto supremo di obbedienza al Padre (cf. Fil 2, 8), accettando di incontrarla nell'«ora» voluta e scelta da lui (cf. Gv 13, 1), che solo può dire quando il cammino terreno è compiuto. Vivere per il Signore significa anche riconoscere che la sofferenza, pur restando in se stessa un male e una prova, può sempre diventare sorgente di bene. Lo diventa se viene vissuta per amore e con amore, nella partecipazione, per dono gratuito di Dio e per libera scelta personale, alla sofferenza stessa di Cristo crocifisso. In tal modo, chi vive la sua sofferenza nel Signore viene più pienamente conformato a lui (cf. Fil 3, 10; 1 Pt 2, 21) e intimamente associato alla sua opera redentrice a favore della Chiesa e dell'umanità.87 È questa l'esperienza dell'Apostolo, che anche ogni persona che soffre è chiamata a rivivere: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24).





«Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29): la legge civile e la legge morale



68. Una delle caratteristiche proprie degli attuali attentati alla vita umana — come si è già detto più volte — consiste nella tendenza ad esigere una loro legittimazione giuridica, quasi fossero diritti che lo Stato, almeno a certe condizioni, deve riconoscere ai cittadini e, conseguentemente, nella tendenza a pretendere la loro attuazione con l'assistenza sicura e gratuita dei medici e degli operatori sanitari.

Si pensa non poche volte che la vita di chi non è ancora nato o è gravemente debilitato sia un bene solo relativo: secondo una logica proporzionalista o di puro calcolo, dovrebbe essere confrontata e soppesata con altri beni. E si ritiene pure che solo chi si trova nella situazione concreta e vi è personalmente coinvolto possa compiere una giusta ponderazione dei beni in gioco: di conseguenza, solo lui potrebbe decidere della moralità della sua scelta. Lo Stato, perciò, nell'interesse della convivenza civile e dell'armonia sociale, dovrebbe rispettare questa scelta, giungendo anche ad ammettere l'aborto e l'eutanasia.

Si pensa, altre volte, che la legge civile non possa esigere che tutti i cittadini vivano secondo un grado di moralità più elevato di quello che essi stessi riconoscono e condividono. Per questo la legge dovrebbe sempre esprimere l'opinione e la volontà della maggioranza dei cittadini e riconoscere loro, almeno in certi casi estremi, anche il diritto all'aborto e all'eutanasia. Del resto, la proibizione e la punizione dell'aborto e dell'eutanasia in questi casi condurrebbero inevitabilmente — così si dice — ad un aumento di pratiche illegali: esse, peraltro, non sarebbero soggette al necessario controllo sociale e verrebbero attuate senza la dovuta sicurezza medica. Ci si chiede, inoltre, se sostenere una legge concretamente non applicabile non significhi, alla fine, minare anche l'autorità di ogni altra legge.

Nelle opinioni più radicali, infine, si giunge a sostenere che, in una società moderna e pluralistica, dovrebbe essere riconosciuta a ogni persona piena autonomia di disporre della propria vita e della vita di chi non è ancora nato: non spetterebbe, infatti, alla legge la scelta tra le diverse opinioni morali e, tanto meno, essa potrebbe pretendere di imporne una particolare a svantaggio delle altre.



69. In ogni caso, nella cultura democratica del nostro tempo si è largamente diffusa l'opinione secondo la quale l'ordinamento giuridico di una società dovrebbe limitarsi a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza e, pertanto, dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza stessa riconosce e vive come morale. Se poi si ritiene addirittura che una verità comune e oggettiva sia di fatto inaccessibile, il rispetto della libertà dei cittadini — che in un regime democratico sono ritenuti i veri sovrani — esigerebbe che, a livello legislativo, si riconosca l'autonomia delle singole coscienze e quindi, nello stabilire quelle norme che in ogni caso sono necessarie alla convivenza sociale, ci si adegui esclusivamente alla volontà della maggioranza, qualunque essa sia. In tal modo, ogni politico, nella sua azione, dovrebbe separare nettamente l'ambito della coscienza privata da quello del comportamento pubblico.

Si registrano, di conseguenza, due tendenze, in apparenza diametralmente opposte. Da un lato, i singoli individui rivendicano per sé la più completa autonomia morale di scelta e chiedono che lo Stato non faccia propria e non imponga nessuna concezione etica, ma si limiti a garantire lo spazio più ampio possibile alla libertà di ciascuno, con l'unico limite esterno di non ledere lo spazio di autonomia al quale anche ogni altro cittadino ha diritto. Dall'altro lato, si pensa che, nell'esercizio delle funzioni pubbliche e professionali, il rispetto dell'altrui libertà di scelta imponga a ciascuno di prescindere dalle proprie convinzioni per mettersi a servizio di ogni richiesta dei cittadini, che le leggi riconoscono e tutelano, accettando come unico criterio morale per l'esercizio delle proprie funzioni quanto è stabilito da quelle medesime leggi. In questo modo la responsabilità della persona viene delegata alla legge civile, con un'abdicazione alla propria coscienza morale almeno nell'ambito dell'azione pubblica.



70. Comune radice di tutte queste tendenze è il relativismo etico che contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea. Non manca chi ritiene che tale relativismo sia una condizione della democrazia, in quanto solo esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone, e adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme morali, considerate oggettive e vincolanti, porterebbero all'autoritarismo e all'intolleranza.

Ma è proprio la problematica del rispetto della vita a mostrare quali equivoci e contraddizioni, accompagnati da terribili esiti pratici, si celino in questa posizione.

È vero che la storia registra casi in cui si sono commessi dei crimini in nome della «verità». Ma crimini non meno gravi e radicali negazioni della libertà si sono commessi e si commettono anche in nome del «relativismo etico». Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione «tirannica» nei confronti dell'essere umano più debole e indifeso? La coscienza universale giustamente reagisce nei confronti dei crimini contro l'umanità di cui il nostro secolo ha fatto così tristi esperienze. Forse che questi crimini cesserebbero di essere tali se, invece di essere commessi da tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare?

In realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell'immoralità. Fondamentalmente, essa è un «ordinamento» e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere «morale» non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. Se oggi si registra un consenso pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va considerato un positivo «segno dei tempi», come anche il Magistero della Chiesa ha più volte rilevato.88 Ma il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l'assunzione del «bene comune» come fine e criterio regolativo della vita politica.

Alla base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli «maggioranze» di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto «legge naturale» iscritta nel cuore dell'uomo, è punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi.89

Qualcuno potrebbe pensare che anche una tale funzione, in mancanza di meglio, sia da apprezzare ai fini della pace sociale. Pur riconoscendo un qualche aspetto di verità in una tale valutazione, è difficile non vedere che, senza un ancoraggio morale obiettivo, neppure la democrazia può assicurare una pace stabile, tanto più che la pace non misurata sui valori della dignità di ogni uomo e della solidarietà tra tutti gli uomini è non di rado illusoria. Negli stessi regimi partecipativi, infatti, la regolazione degli interessi avviene spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più capaci di manovrare non soltanto le leve del potere, ma anche la formazione del consenso. In una tale situazione, la democrazia diventa facilmente una parola vuota.



71. Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere.

Occorre riprendere, in tal senso, gli elementi fondamentali della visione dei rapporti tra legge civile e legge morale, quali sono proposti dalla Chiesa, ma che pure fanno parte del patrimonio delle grandi tradizioni giuridiche dell'umanità.

Certamente, il compito della legge civile è diverso e di ambito più limitato rispetto a quello della legge morale. Però «in nessun ambito di vita la legge civile può sostituirsi alla coscienza né può dettare norme su ciò che esula dalla sua competenza»,90 che è quella di assicurare il bene comune delle persone, attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro fondamentali diritti, la promozione della pace e della pubblica moralità.91 Il compito della legge civile consiste, infatti, nel garantire un'ordinata convivenza sociale nella vera giustizia, perché tutti «possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità» (1 Tm 2, 2). Proprio per questo, la legge civile deve assicurare per tutti i membri della società il rispetto di alcuni diritti fondamentali, che appartengono nativamente alla persona e che qualsiasi legge positiva deve riconoscere e garantire. Primo e fondamentale tra tutti è l'inviolabile diritto alla vita di ogni essere umano innocente. Se la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave,92 essa non può mai accettare però di legittimare, come diritto dei singoli — anche se questi fossero la maggioranza dei componenti la società —, l'offesa inferta ad altre persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così fondamentale come quello alla vita. La tolleranza legale dell'aborto o dell'eutanasia non può in alcun modo richiamarsi al rispetto della coscienza degli altri, proprio perché la società ha il diritto e il dovere di tutelarsi contro gli abusi che si possono verificare in nome della coscienza e sotto il pretesto della libertà.93

Nell'Enciclica Pacem in terris, Giovanni XXIII aveva ricordato in proposito: «Nell'epoca moderna l'attuazione del bene comune trova la sua indicazione di fondo nei diritti e nei doveri della persona. Per cui i compiti precipui dei poteri pubblici consistono, soprattutto, nel riconoscere, rispettare, comporre, tutelare e promuovere quei diritti; e nel contribuire, di conseguenza, a rendere più facile l'adempimento dei rispettivi doveri. "Tutelare l'intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle agevole il compimento dei suoi doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere". Per cui ogni atto dei poteri pubblici, che sia o implichi un misconoscimento o una violazione di quei diritti, è un atto contrastante con la loro stessa ragion d'essere e rimane per ciò stesso destituito d'ogni valore giuridico».94



72. In continuità con tutta la tradizione della Chiesa è anche la dottrina sulla necessaria conformità della legge civile con la legge morale, come appare, ancora una volta, dall'enciclica citata di Giovanni XXIII: «L'autorità è postulata dall'ordine morale e deriva da Dio. Qualora pertanto le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con quell'ordine, e quindi in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare la coscienza...; in tal caso, anzi, chiaramente l'autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso».95 È questo il limpido insegnamento di san Tommaso d'Aquino, che tra l'altro scrive: «La legge umana in tanto è tale in quanto è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza».96 E ancora: «Ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto deriva dalla legge naturale. Se invece in qualche cosa è in contrasto con la legge naturale, allora non sarà legge bensì corruzione della legge».97

Ora la prima e più immediata applicazione di questa dottrina riguarda la legge umana che misconosce il diritto fondamentale e fontale alla vita, diritto proprio di ogni uomo. Così le leggi che, con l'aborto e l'eutanasia, legittimano la soppressione diretta di esseri umani innocenti sono in totale e insanabile contraddizione con il diritto inviolabile alla vita proprio di tutti gli uomini e negano, pertanto, l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Si potrebbe obiettare che tale non è il caso dell'eutanasia, quando essa è richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato. Ma uno Stato che legittimasse tale richiesta e ne autorizzasse la realizzazione, si troverebbe a legalizzare un caso di suicidio-omicidio, contro i principi fondamentali dell'indisponibilità della vita e della tutela di ogni vita innocente. In questo modo si favorisce una diminuzione del rispetto della vita e si apre la strada a comportamenti distruttivi della fiducia nei rapporti sociali.

Le leggi che autorizzano e favoriscono l'aborto e l'eutanasia si pongono dunque radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica. Il misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società ha motivo di esistere, è ciò che si contrappone più frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima l'aborto o l'eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile, moralmente obbligante.



73. L'aborto e l'eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. Fin dalle origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani il dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente costituite (cf. Rm 13, 1-7; 1 Pt 2, 13-14), ma nello stesso tempo ha ammonito fermamente che «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29). Già nell'Antico Testamento, proprio in riferimento alle minacce contro la vita, troviamo un esempio significativo di resistenza al comando ingiusto dell'autorità. Al faraone, che aveva ordinato di far morire ogni neonato maschio, le levatrici degli Ebrei si opposero. Esse «non fecero come aveva loro ordinato il re di Egitto e lasciarono vivere i bambini» (Es 1, 17). Ma occorre notare il motivo profondo di questo loro comportamento: «Le levatrici temettero Dio» (ivi). È proprio dall'obbedienza a Dio — al quale solo si deve quel timore che è riconoscimento della sua assoluta sovranità — che nascono la forza e il coraggio di resistere alle leggi ingiuste degli uomini. È la forza e il coraggio di chi è disposto anche ad andare in prigione o ad essere ucciso di spada, nella certezza che «in questo sta la costanza e la fede dei santi» (Ap 13, 10).

Nel caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l'aborto o l'eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, «né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto».98

Un particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in cui un voto parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva, volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in alternativa ad una legge più permissiva già in vigore o messa al voto. Simili casi non sono rari. Si registra infatti il dato che mentre in alcune parti del mondo continuano le campagne per l'introduzione di leggi a favore dell'aborto, sostenute non poche volte da potenti organismi internazionali, in altre Nazioni invece — in particolare in quelle che hanno già fatto l'amara esperienza di simili legislazioni permissive — si vanno manifestando segni di ripensamento. Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all'aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui.



74. L'introduzione di legislazioni ingiuste pone spesso gli uomini moralmente retti di fronte a difficili problemi di coscienza in materia di collaborazione in ragione della doverosa affermazione del proprio diritto a non essere costretti a partecipare ad azioni moralmente cattive. Talvolta le scelte che si impongono sono dolorose e possono richiedere il sacrificio di affermate posizioni professionali o la rinuncia a legittime prospettive di avanzamento nella carriera. In altri casi, può risultare che il compiere alcune azioni in se stesse indifferenti, o addirittura positive, previste nell'articolato di legislazioni globalmente ingiuste, consenta la salvaguardia di vite umane minacciate. D'altro canto, però, si può giustamente temere che la disponibilità a compiere tali azioni non solo comporti uno scandalo e favorisca l'indebolirsi della necessaria opposizione agli attentati contro la vita, ma induca insensibilmente ad arrendersi sempre più ad una logica permissiva.

Per illuminare questa difficile questione morale occorre richiamare i principi generali sulla cooperazione ad azioni cattive. I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la Legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione si verifica quando l'azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente o come condivisione dell'intenzione immorale dell'agente principale. Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede: per gli atti che ciascuno personalmente compie esiste, infatti, una responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e sulla quale ciascuno sarà giudicato da Dio stesso (cf. Rm 2, 6; 14, 12).

Rifiutarsi di partecipare a commettere un'ingiustizia è non solo un dovere morale, ma è anche un diritto umano basilare. Se così non fosse, la persona umana sarebbe costretta a compiere un'azione intrinsecamente incompatibile con la sua dignità e in tal modo la sua stessa libertà, il cui senso e fine autentici risiedono nell'orientamento al vero e al bene, ne sarebbe radicalmente compromessa. Si tratta, dunque, di un diritto essenziale che, proprio perché tale, dovrebbe essere previsto e protetto dalla stessa legge civile. In tal senso, la possibilità di rifiutarsi di partecipare alla fase consultiva, preparatoria ed esecutiva di simili atti contro la vita dovrebbe essere assicurata ai medici, agli operatori sanitari e ai responsabili delle istituzioni ospedaliere, delle cliniche e delle case di cura. Chi ricorre all'obiezione di coscienza deve essere salvaguardato non solo da sanzioni penali, ma anche da qualsiasi danno sul piano legale, disciplinare, economico e professionale.





«Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10, 27): «promuovi» la vita.



75. I comandamenti di Dio ci insegnano la via della vita. Iprecetti morali negativi, cioè quelli che dichiarano moralmente inaccettabile la scelta di una determinata azione, hanno un valore assoluto per la libertà umana: essi valgono sempre e comunque, senza eccezioni. Indicano che la scelta di determinati comportamenti è radicalmente incompatibile con l'amore verso Dio e con la dignità della persona, creata a sua immagine: tale scelta, perciò, non può essere riscattata dalla bontà di nessuna intenzione e di nessuna conseguenza, è in contrasto insanabile con la comunione tra le persone, contraddice la decisione fondamentale di orientare la propria vita a Dio.99

Già in questo senso i precetti morali negativi hanno un'importantissima funzione positiva: il «no» che esigono incondizionatamente dice il limite invalicabile al di sotto del quale l'uomo libero non può scendere e, insieme, indica il minimo che egli deve rispettare e dal quale deve partire per pronunciare innumerevoli «sì», capaci di occupare progressivamente l'intero orizzonte del bene (cf. Mt 5, 48). I comandamenti, in particolare i precetti morali negativi, sono l'inizio e la prima tappa necessaria del cammino verso la libertà: «La prima libertà — scrive sant'Agostino — consiste nell'essere esenti da crimini... come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta».100



76. Il comandamento «non uccidere» stabilisce quindi il punto di partenza di un cammino di vera libertà, che ci porta a promuovere attivamente la vita e sviluppare determinati atteggiamenti e comportamenti al suo servizio: così facendo esercitiamo la nostra responsabilità verso le persone che ci sono affidate e manifestiamo, nei fatti e nella verità, la nostra riconoscenza a Dio per il grande dono della vita (cf. Sal 139/138, 13-14).

Il Creatore ha affidato la vita dell'uomo alla sua responsabile sollecitudine, non perché ne disponga in modo arbitrario, ma perché la custodisca con saggezza e la amministri con amorevole fedeltà. Il Dio dell'Alleanza ha affidato la vita di ciascun uomo all'altro uomo suo fratello, secondo la legge della reciprocità del dare e del ricevere, del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro. Nella pienezza dei tempi, incarnandosi e donando la sua vita per l'uomo, il Figlio di Dio ha mostrato a quale altezza e profondità possa giungere questa legge della reciprocità. Con il dono del suo Spirito, Cristo dà contenuti e significati nuovi alla legge della reciprocità, all'affidamento dell'uomo all'uomo. Lo Spirito, che è artefice di comunione nell'amore, crea tra gli uomini una nuova fraternità e solidarietà, vero riflesso del mistero di reciproca donazione e accoglienza proprio della Trinità santissima. Lo stesso Spirito diventa la legge nuova, che dona ai credenti la forza e sollecita la loro responsabilità per vivere reciprocamente il dono di sé e l'accoglienza dell'altro, partecipando all'amore stesso di Gesù Cristo e secondo la sua misura.



77. Da questa legge nuova viene animato e plasmato anche il comandamento del «non uccidere». Per il cristiano, quindi, esso implica in definitiva l'imperativo di rispettare, amare e promuovere la vita di ogni fratello, secondo le esigenze e le dimensioni dell'amore di Dio in Gesù Cristo. «Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16).

Il comandamento del «non uccidere», anche nei suoi contenuti più positivi di rispetto, amore e promozione della vita umana, vincola ogni uomo. Esso, infatti, risuona nella coscienza morale di ciascuno come un'eco insopprimibile dell'alleanza originaria di Dio creatore con l'uomo; da tutti può essere conosciuto alla luce della ragione e può essere osservato grazie all'opera misteriosa dello Spirito che, soffiando dove vuole (cf. Gv 3, 8), raggiunge e coinvolge ogni uomo che vive in questo mondo.

È dunque un servizio d'amore quello che tutti siamo impegnati ad assicurare al nostro prossimo, perché la sua vita sia difesa e promossa sempre, ma soprattutto quando è più debole o minacciata. È una sollecitudine non solo personale ma sociale, che tutti dobbiamo coltivare, ponendo l'incondizionato rispetto della vita umana a fondamento di una rinnovata società.

Ci è chiesto di amare e onorare la vita di ogni uomo e di ogni donna e di lavorare con costanza e con coraggio, perché nel nostro tempo, attraversato da troppi segni di morte, si instauri finalmente una nuova cultura della vita, frutto della cultura della verità e dell'amore.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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