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Curiosità .... Cattoliche e dalla Città del Vaticano... (2)

Ultimo Aggiornamento: 22/08/2014 16:12
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06/10/2010 19:11
 
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 ATTENZIONE!!!

Visto il successo riscosso dal thread:
Curiosità .... Cattoliche e dalla Città del Vaticano...  
(con oltre 3mila visite)
e avendo esso raggiunto i 30 messaggi dopo dei quali si va alla seconda pagina, l'apriamo qui con un nuovo thread per avere una lettura diretta e immediata....

comincia qui, dunque, una nuova raccolta di notizie interne alla Città del Vaticano, aneddoti e curiosità varie...
Buona lettura!




La festa del Corpo della Gendarmeria

Fedele servizio al Papa


Celebrata martedì 5 ottobre in Vaticano la tradizionale festa del Corpo della Gendarmeria in occasione della solennità del patrono san Michele arcangelo.

Una festa svoltasi in tre momenti:  al mattino la messa celebrata dal cardinale Lajolo nella cappella del Governatorato, nel pomeriggio la parata dei reparti del Corpo, sul piazzale del Governatorato, e l'incontro conviviale nel suggestivo scenario della terrazza della Pinacoteca. Numerosi gli invitati.

Tra le autorità religiose erano i cardinali Tarcisio Bertone, Giovanni Lajolo, Angelo Comastri, Eduardo Martínez Somalo, Giovanni Battista Re, Jean-Louis Tauran, e Bernard Francis Law; molti arcivescovi e vescovi, tra i quali il sostituto della Segreteria di Stato Fernando Filoni, il quale ha dato lettura di un telegramma augurale di Benedetto XVI, e il segretario generale del Governatorato Carlo Maria Viganò, e diversi prelati della curia. Significativa la presenza di monsignor Georg Gänswein, segretario particolare del Papa.

Tra le autorità civili erano il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei Ministri italiano, Gianni Letta, numerosi ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, il direttore delle Ville Pontificie Saverio Petrillo, il vice direttore e il direttore del nostro giornale. Presenti ufficiali della Guardia Svizzera Pontificia, con il comandante Daniel Rudolf Anrig, e le più alte cariche della Polizia di Stato, dell'Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Polizia Penitenziaria e dei Vigili Urbani di Roma.

Nel suo discorso il comandante della Gendarmeria, Domenico Giani, dopo aver ringraziato le autorità presenti, ha voluto sottolineare lo spirito di collaborazione che unisce il Corpo della Gendarmeria con la Guardia Svizzera, con la quale condivide la responsabilità quotidiana della sicurezza del Pontefice e dei confini dello Stato, ma anche con le autorità di polizia italiane e internazionali. Infine ha ricordato l'alto profilo professionale raggiunto dal Corpo, ormai al passo con gli apparati di sicurezza di ogni altro Paese. Da parte sua, il cardinale Lajolo ha espresso i sentimenti di gratitudine del Vaticano per il fedele e apprezzato servizio reso quotidianamente dalla Gendarmeria.



(©L'Osservatore Romano - 7 ottobre 2010)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/10/2010 18:22
 
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Dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato

Inaugurati i locali dell'Elemosineria apostolica


È il luogo in cui si esercita quotidianamente il servizio della carità del Pontefice, quello di andare incontro a quanti gli si rivolgono in cerca di un aiuto fraterno: 
per questo stamane, venerdì 22 ottobre, è stato il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, a benedire e inaugurare gli uffici rinnovati dell'Elemosineria apostolica.
 
"Con la sua presenza - ha detto l'arcivescovo Félix del Blanco Prieto, elemosiniere di Sua Santità, rivolgendosi al porporato - siamo anche consapevoli di avere vicino Benedetto XVI, sicuri di rendergli cosa gradita il lavoro compiuto".

Il cardinale Bertone da parte sua ha sottolineato come "questa speciale comunità di lavoro che ha sede nella Città del Vaticano realizza in maniera esemplare" il mandato della carità "ed è molto vicina al Santo Padre".
 
L'Elemosineria infatti è anche delegata a concedere la benedizione apostolica a mezzo di diplomi in pergamena. Il segretario di Stato ha poi ricordato come nello scorso anno ben settemila persone si siano rivolte a quella che ha definito "un terminale delle sofferenze umane", che ha erogato oltre un milione di euro nel 2009. Infine ha espresso riconoscenza per la capacità di accoglienza e per la pazienza "a tutta prova" di chi deve confrontarsi ogni giorno con il peso dei problemi personali e familiari di quanti si rivolgono all'Elemosineria.

La ristrutturazione dei locali al cortile Sant'Egidio è stata ultimata dopo due anni, durante i quali le attività erano state temporaneamente trasferite al palazzo San Carlo. L'arcivescovo del Blanco Prieto - al quale si è unito l'arcivescovo Oscar Rizzato, già elemosiniere - ha voluto perciò ringraziare quanti hanno reso possibile l'opera:  l'Apsa che l'ha finanziata e il Governatorato - rappresentato dal segretario generale, arcivescovo Carlo Maria Viganò - che con le sue maestranze ha realizzato ambienti accoglienti e funzionali.


(©L'Osservatore Romano - 23 ottobre 2010)

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27/11/2010 00:15
 
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Intervista al presidente dell'Associazione Santi Pietro e Paolo

Servizio e accoglienza
nella Casa del Papa


di Gianluca Biccini


È la prima associazione di volontariato di istituzione pontificia. Ma è anche l'erede diretta di un corpo armato che è stato demilitarizzato; in pratica un antico esercito, che oggi si occupa di accoglienza e assistenza.

Si può riassumere così la storia dell'Associazione Santi Pietro e Paolo, che si appresta a celebrare un duplice anniversario:  il quarantesimo di fondazione e i 160 anni dalla nascita della Guardia Palatina, da cui ha raccolto il testimone nel segno della continuità. Nella sede al Cortile di San Damaso abbiamo incontrato il presidente Calvino Gasparini. Quasi inevitabile chiedergli anzitutto il perché di quel nome piuttosto inusuale. "È una storia personale legata ai miei antenati - spiega - che non ha niente a che vedere con il protestantesimo. Pensi che sono entrato nella Guardia Palatina nel 1962. Avevo diciassette anni e operavo nel gruppo ragazzi di cui era responsabile Gianluigi Marrone, il primo presidente dell'associazione".

È stato proprio a lei a raccoglierne l'eredità lo scorso anno.

Sì, nel maggio 2009 dopo la morte di Marrone, a lungo Giudice unico dello Stato della Città del Vaticano. Nelle elezioni è stato rinnovato l'intero consiglio di presidenza, visto che lo statuto datoci da Papa Montini nel 1971 prevedeva una sorta di referendum, legando tutto il consiglio alla presidenza. Il mese seguente, a giugno, la Segreteria di Stato ha approvato l'elezione.

Ci spieghi meglio il legame con la Guardia Palatina.

Quando Paolo VI, con lettera del 14 settembre 1970, comunicò al cardinale Villot, suo segretario di Stato, la decisione di sciogliere i corpi militari pontifici a eccezione dell'antichissima Guardia Svizzera, in pratica azzerò la Guardia Palatina, ma non sciolse i suoi membri dal giuramento di fedeltà al Papa e ai suoi successori. Questo comportò la conservazione di quel legame e diede vita alla prima associazione di volontariato di istituzione pontificia. Per evitare sovrapposizioni con il Circolo San Pietro, Villot suggerì il titolo di Associazione Santi Pietro e Paolo. Il primo animatore e assistente fu monsignor Giovanni Coppa, oggi cardinale, al quale va tutta la nostra riconoscenza. Poi Giovanni Paolo II ci chiamò l'Associazione della Casa del Papa. Forse siamo un caso unico nella storia:  un corpo militare che è stato demilitarizzato, per svolgere incarichi di servizio e per l'accoglienza nelle celebrazioni pontificie e in San Pietro. Credo che nessun esercito al mondo abbia subito un cambiamento del genere, così radicale.

Nella nascita dell'associazione appare evidente il ruolo della Segreteria di Stato. C'è ancora questo collegamento?

Certo. Basti pensare che essa nomina il nostro assistente spirituale, scegliendolo tra suoi officiali. Attualmente è monsignor Joseph Murphy, che ha come vice monsignor Mitja Leskovar. L'assistente emerito è monsignor Alfred Xuereb - oggi nella segreteria particolare di Benedetto XVI - che a sua volta era il vice di monsignor Francesco Follo, attuale Osservatore permanente della Santa Sede presso l'Unesco a Parigi.

Camminando nella sede dell'associazione notiamo alcune antiche uniformi, persino armi d'epoca. Viene da chiedere:  allora eravate soldati a tutti gli effetti?

La Guardia Palatina d'onore fu istituita dal beato Pio IX con regolamento emanato il 14 dicembre 1850 attraverso la fusione di due corpi armati civili - la Milizia Urbana e la Civita Scelta - già esistenti da secoli nello Stato pontificio. Entrambi avevano compiti nell'Urbe e, a conferma che la Guardia ne era la continuatrice, venne nominato primo comandante palatino Giuseppe Guglielmi. Fu lui a comunicare ai militari che il Papa aveva decorato il Corpo con il titolo "d'onore" per la fedeltà dimostrata e il servizio prestato. Papa Mastai Ferretti, inoltre, nella stessa circostanza concesse il Concerto musicale, rimasto ancora oggi il corpo bandistico ufficiale dello Stato della Città del Vaticano, anche se assorbito dalla prefettura della Casa Pontificia in occasione della riforma di Paolo VI. Questo perché la Guardia Svizzera non possedeva una banda musicale propria per i cerimoniali con le udienze ad ambasciatori e capi di Stato.

In pratica la banda musicale è stata distaccata da voi?

Noi come associazione possiamo chiedere alla Prefettura, per concessione di affinità, i servizi della banda due volte l'anno:  a Pasqua e in occasione della nostra festa patronale del 29 giugno, come già faceva la Guardia Palatina che, in quelle date, solennizzava l'avvenimento rinnovando sulla tomba di san Pietro il giuramento di fedeltà al suo successore. Attualmente stiamo ricostituendo un piccolo gruppo di ottoni per i nostri momenti liturgici o per particolari occasioni. Durante la festa dell'associazione, nel giugno scorso, questo gruppo ha eseguito la famosa Marcia delle trombe d'argento per Pio IX alla presenza di noi tutti.

Abbiamo parlato delle uniformi e della banda. Per completare un esercito mancano le armi e la bandiera.

Pio IX concesse il vessillo su cui campeggiava lo stemma del Pontefice fondatore. Questa bandiera è conservata al Museo lateranense, in quanto ha una particolare rilevanza storica:  è l'unica dello Stato pontificio ancora esistente. Quanto alle armi in dotazione la logica ottocentesca era quella di porre livelli successivi di difesa. All'esterno del Palazzo Apostolico vi erano la Guardia Svizzera e la Gendarmeria, mentre al piano terra del Palazzo, nei Cortili di San Damaso, del Belvedere e della Pigna, c'era la Guardia Palatina:  circa cinquecento romani, che nel Cortile del Triangolo avevano persino due cannoni. Infine al primo piano c'era la Guardia Nobile. Altra funzione aveva il servizio di "anticamera":  nella Sala Clementina c'era la Guardia Svizzera, poi nella seconda sala c'era la Gendarmeria, nella terza che era d'angolo c'eravamo noi, nella quarta i Bussolanti, poi i Camerieri di cappa e spada, e prima dello Studio privato del Pontefice la Guardia Nobile. Fino allo scioglimento facevamo servizio di anticamera e la nostra sede era, come già detto, nella Sala d'Angolo, con una sentinella nella sala dei Gendarmi, alla porta della chiocciola che scende nel Cortile sistino. Nel dopoguerra, a partire dal 1947, siamo passati alla sistemazione attuale. Il quartiere andava dall'ingresso nel cortile di san Damaso, che è quello che usiamo ora, a quello ordinario nel cortile del Triangolo, che dava accesso alle camerate e ai locali di servizio. All'uniforme si associava, come arma, il moschetto Remington a retrocarica con baionetta, dono dei cattolici belgi nel 1868.

Poi ci fu la trasformazione voluta da Papa Montini. Quante guardie divennero soci?

Nel 1970 la Guardia Palatina d'onore costituiva in Vaticano una realtà che si era arricchita di ausiliari nel corso dell'ultimo conflitto mondiale per i servizi di vigilanza anche nelle zone extraterritoriali, raggiungendo il numero di 1.500 unità. Durante l'avanzata delle truppe alleate, soprattutto a Castel Gandolfo le guardie si distinsero per coraggiose iniziative di soccorso e solidarietà alle numerose vittime della guerra. Tra questi volontari, che ebbero anche scontri con le ss e le milizie fasciste, ricordiamo il professor Salvatore Canalis, allievo ausiliario palatino, che il 24 marzo 1944 venne trucidato nell'eccidio delle fosse Ardeatine. Nel 1971, con l'approvazione dello statuto dell'Associazione Santi Pietro e Paolo, aderirono la maggior parte dei membri della Palatina e, passato il periodo in cui parlare della Guardia significava voler fare del revanscismo, iniziammo ad ammettere cattolici romani che - come recita lo Statuto - "nel desiderio di rendere particolarmente testimonianza di vita cristiana e di fedeltà alla Sede di Pietro" dedicano una parte del loro tempo libero alle attività dell'Associazione. Oggi delle cinquecento guardie originarie siamo rimasti in duecento, per questioni naturali di età, ma integrati da circa trecento nuovi soci.

Come si entra a farne parte?

Vengono accolte non più di venti domande di ammissione l'anno. Ora vorremmo lavorare più sui giovani. I nuovi soci prima di essere ammessi seguono una formazione spirituale e umana di due anni. Tra soci attivi, soci sostenitori e gruppo anziani, abbiamo raggiunto la cifra di circa novecento persone. Consideri che il nostro carico di lavoro per una celebrazione pontificia - si scende in basilica tre o quattro ore prima dell'orario d'inizio, per poi ritirarsi quando tutti i fedeli hanno lasciato il sagrato o la basilica - ha un impegno che va dalle sei alle otto ore.

Fermiamoci un momento e spieghiamo in dettaglio che cosa fate esattamente.

L'Associazione, che fonda le sue basi sul motto già appartenuto alla Guardia Palatina Fide constamus avita, svolge  il proprio operato attraverso tre sezioni:  liturgia, cultura e carità.

Iniziamo dall'ultima.

Essa risale a un'antica tradizione. La Santa Sede dava alla Guardia Palatina un piccolo appannaggio, che ordinariamente veniva devoluto per la dote delle ragazze bisognose assistite da ordini religiosi. Questa pratica è rimasta in uso fino al 1870. Poi si passò ad altre forme di autosostegno, che nel 1936 si concretizzarono nella fondazione di una conferenza di San Vincenzo de' Paoli. Nello spirito vincenziano, uno dei compiti delle reclute consisteva nel recarsi tutte le domeniche presso il vicino ospedale di Santo Spirito in Sassia per distribuire la stampa cattolica - in particolare L'Osservatore Romano e Famiglia Cristiana - e consegnare quei beni di prima necessità che le suore infermiere ci richiedevano per i ricoverati. La conferenza di San Vincenzo è ancora attiva. Oggi siamo passati a progetti di più ampio respiro, come quello che ci sta impegnando per il sostegno del seminario dell'arcidiocesi di Ranchi, in India. Molte sono anche le famiglie da noi assistite grazie a uno stile fatto di dialogo, prima che di elemosina. Infine svolgiamo un piccolo servizio alla mensa della casa Dono di Maria e alcuni nostri volontari medici e odontoiatri collaborano attivamente con il dispensario pediatrico Santa Marta per la cura dei bambini e, qualche volta, anche dei genitori.

Ma gli abiti blu, con le cravatte a righe giallorosse dell'associazione, si vedono soprattutto nelle messe del Papa.

E di questo si occupa la sezione liturgia, che su richiesta dei superiori partecipa a tutte le celebrazioni pontificie in Vaticano e, in particolari occasioni, al Laterano. In alcuni casi lo facciamo anche a San Paolo fuori le Mura. Svolgiamo inoltre un servizio continuo quotidiano di accoglienza nella basilica di San Pietro. Infine, vorrei ricordare il ruolo, ormai storico, svolto durante la processione del Corpus Domini da San Giovanni a Santa Maria Maggiore, che ci vede tutti impegnati. Fu Papa Wojtyla a dirci una volta:  "Voi che sapete stare in riga perché non fate una bella processione?".

E la commissione culturale?

Uno dei nostri cappellani, monsignor Amleto Tondini, segretario dei brevi ai Principi, vedeva la necessità che le guardie palatine fossero formate nel modo di vivere della realtà vaticana, sotto tutti gli aspetti, soprattutto artistico e storico:  diceva che solo immedesimandosi in quel tipo di cultura si capiva in quale ambiente ci si muoveva. Era indiscutibilmente vero, tanto che l'abbiamo riportato poi nello statuto dell'Associazione. Per dare sostegno all'informazione e al legame dei palatini, monsignor Tondini nel 1945 fondò il giornale Vita Palatina, che mensilmente faceva la cronaca degli avvenimenti vaticani e del magistero pontificio. Tale tradizione è proseguita con Incontro, il trimestrale dell'Associazione. Ora la sezione culturale svolge attività di formazione e informazione indirizzata soprattutto ai nuovi soci, ma organizza anche conferenze, mostre, pellegrinaggi e stimola la partecipazione di tutti a queste attività. Il frutto di questa cultura, che nasce dal motto palatino, chiarisce come si sia potuti passare dalla Guardia all'Associazione senza traumi:  è fondamentale la volontà degli aderenti - fondata su una sincera vocazione cristiana - che illuminati dalla luce della carità del magistero pontificio sono pronti a tutte le prove. Del resto, lo stile dell'Associazione è quello di sempre:  "Umile nei suoi compiti, grande nel suo animo, assoluta nella sua fede".



(©L'Osservatore Romano 22 agosto 2010)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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27/11/2010 12:13
 
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L'USO DELLE TROMBE D'ARGENTO

Mons. Guido Marini e don Massimo Palombella S.D.B.
Il complesso musicale detto “Trombe d’argento” accompagnava le Celebrazioni Pontificie nella Basilica Vaticana suonando dal primo loggiato del tamburo della cupola o dalla loggia interna dell’Aula delle Benedizioni.


Esso suonava la “Marcia Solenne” all’ingresso e all’uscita del Sommo Pontefice (dalla Loggia interna dell’Aula delle Benedizioni) e il “Largo Religioso” al momento dell’Elevazione (dal primo loggiato del tamburo della cupola).

Le due composizioni – che risalgono al 1846 – sono opera di due Guardie Nobili: il Conte Domenico Silveri e il Marchese Giovanni Longhi. Esse ebbero larghissima fama, tanto che qualche inglese finì con il confondere il nome di Silveri con la voce “silver” che significa argento.

Tuttavia il nome “Trombe d’argento” derivava non tanto dalla materia di cui erano composti gli strumenti quanto dal loro suono puro, dolce e squillante che si fruiva nella Basilica di San Pietro.
L’uso delle “Trombe d’argento” è rimasto anche dopo la Riforma Liturgica avviata dal Concilio Vaticano II, ma solo per alcune particolari Celebrazioni.

Oggi, nel processo di sviluppo armonico della Liturgia papale, in piena sintonia con la Riforma Liturgica e nel radicamento della più significativa tradizione romana,  le “Trombe d’argento” vengono nuovamente usate nelle Celebrazioni più solenni del Sommo Pontefice al momento dell’ingresso nella Basilica di San Pietro. Al suono delle “Trombe d’argento” seguirà il canto del “Tu es Petrus” da parte della Cappella Musicale Pontificia detta “Cappella Sistina”.

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02/12/2010 20:09
 
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Dall'Alto Adige a San Pietro l'albero di Natale


È giunto in Vaticano all'alba di questa mattina, giovedì 2 dicembre, dall'Alto Adige - precisamente da Luson, un comune in provincia di Bolzano, a tredici chilometri da Bressanone - l'albero di Natale che quest'anno abbellirà piazza San Pietro.

Si tratta di un abete alto circa 34 metri, di 94 anni di età e dal peso di cinque tonnellate, scelto tra le centinaia del maso Lengerei, una tenuta di proprietà di Martin Ragginer che si trova a un'altitudine di 1.150 metri. Venerdì 3, alle 7, verrà innalzato al centro della piazza, accanto all'obelisco e al presepe in fase di allestimento.

Tiraggio, messa in opera e in sicurezza, e interventi di innesto per riparare i danni del trasporto sono a cura di Marco Bargellini, direttore del servizio dell'edilizia interna della Direzione dei Servizi Tecnici del Governatorato.

Successivamente il laboratorio elettrotecnico ed elettronico della stessa Direzione provvederà all'allestimento, decorandolo con circa 3.000 sfere di colore oro e argento unitamente a circa 1.500 led luminosi bianchi e gialli, dotati di maggiore efficienza in termini di consumo e manutenzione rispetto alla tradizionale illuminazione. L'impianto sarà completato dall'installazione di festoni per tutta l'altezza dell'albero. Alla sua cima verrà collocata una grande stella a luce pulsante. Nel pomeriggio di venerdì 17 dicembre, il cardinale Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, presiederà la cerimonia di inaugurazione. Il comune di Luson ha anche donato una cinquantina di abeti più piccoli destinati a decorare sale e ambienti della Città del Vaticano.

È giunto in Vaticano all'alba di questa mattina, giovedì 2 dicembre, dall'Alto Adige - precisamente da Luson, un comune in provincia di Bolzano, a tredici chilometri da Bressanone - l'albero di Natale che quest'anno abbellirà piazza San Pietro. Si tratta di un abete alto circa 34 metri, di 94 anni di età e dal peso di cinque tonnellate, scelto tra le centinaia del maso Lengerei, una tenuta di proprietà di Martin Ragginer che si trova a un'altitudine di 1.150 metri. Venerdì 3, alle 7, verrà innalzato al centro della piazza, accanto all'obelisco e al presepe in fase di allestimento.

Tiraggio, messa in opera e in sicurezza, e interventi di innesto per riparare i danni del trasporto sono a cura di Marco Bargellini, direttore del servizio dell'edilizia interna della Direzione dei Servizi Tecnici del Governatorato. Successivamente il laboratorio elettrotecnico ed elettronico della stessa Direzione provvederà all'allestimento, decorandolo con circa 3.000 sfere di colore oro e argento unitamente a circa 1.500 led luminosi bianchi e gialli, dotati di maggiore efficienza in termini di consumo e manutenzione rispetto alla tradizionale illuminazione. L'impianto sarà completato dall'installazione di festoni per tutta l'altezza dell'albero. Alla sua cima verrà collocata una grande stella a luce pulsante. Nel pomeriggio di venerdì 17 dicembre, il cardinale Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, presiederà la cerimonia di inaugurazione. Il comune di Luson ha anche donato una cinquantina di abeti più piccoli destinati a decorare sale e ambienti della Città del Vaticano.


(©L'Osservatore Romano - 3 dicembre 2010)




Nuovo dirigente all'Ispettorato presso il Vaticano





Raffaele Aiello è il nuovo dirigente generale dell'Ispettorato italiano di Pubblica Sicurezza presso lo Stato della Città del Vaticano. Succede al dirigente Giulio Callini, che ha recentemente concluso il suo servizio in Polizia.

Sessant'anni, tre figli, laureato in giurisprudenza e formatosi tra le file dell'Azione Cattolica Italiana, il nuovo dirigente generale è originario di Rocca Piemonte, una cittadina della provincia di Salerno. Dopo aver frequentato l'accademia di Polizia ha prestato servizio presso diversi reparti mobili e diverse questure prima di assumere l'incarico di capo di Gabinetto della questura di Salerno. Nel 1998 è stato dirigente del reparto mobile di Napoli e nel 2002 questore di Benevento. Trasferito a Roma ha ricoperto diversi incarichi di alta responsabilità.

È stato anche docente in materia di ordine e sicurezza pubblica presso istituti di alta formazione e di perfezionamento per le forze di polizia e per funzionari. "Oltreché un grande onore - ha detto commentando la sua nomina - per me è il coronamento di una vita vissuta seguendo i dettami del nostro Credo. Ho costruito la mia esistenza sui principi appresi negli anni della mia militanza nell'Azione Cattolica, dunque con una particolare attenzione agli insegnamenti della fede e di quel magistero che ora sono chiamato a servire nella figura del Papa".

Al dottor Raffaele Aiello giungano i più cordiali auguri di buon lavoro dalla direzione e dalla redazione de "L'Osservatore Romano".


(©L'Osservatore Romano - 5 dicembre 2010)



[Modificato da Caterina63 04/12/2010 18:17]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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15/12/2010 18:33
 
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Animali e simbologie della basilica Vaticana

Bestiario sacro


Un insolito percorso tra le colonne della basilica Vaticana. Un viaggio alla ricerca degli animali che si mimetizzano nella solennità di un'immensa opera d'arte e che raccontano storie antiche di secoli. È in libreria il volume Gli animali nell'arte religiosa. La basilica di San Pietro in Vaticano (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pagine 239, euro 33). Pubblichiamo quasi integralmente la prefazione e, sotto, l'introduzione scritta dall'autore del libro.

di Paolo Portoghesi

La basilica di San Pietro così come è giunta fino a noi, con la sua navata, la sua cupola, la sua piazza, è l'immagine più chiara ed evidente dell'universalità della Chiesa cattolica. Orientata verso il sole nascente, essa possiede un respiro cosmico in quanto abbraccia la volta celeste come ideale copertura della piazza e la rappresenta in astratto nell'invaso azzurro della cupola decorato con fasci di stelle ascendenti. Michelangelo, con la marcata struttura cruciforme, ha legato l'edificio al simbolo della passione di Cristo, e Paolo v, con l'aiuto di Carlo Maderno, prolungando la navata ha dato allo spazio interno il senso del popolo di Dio in pellegrinaggio verso la salvezza.

In un edificio siffatto che, come il tempio di Gerusalemme, incarna la lode di Dio, come potrebbe non rispecchiarsi l'immagine del creato? E difatti lo scenario naturale, attraverso la ricchezza della decorazione, entra a pieno titolo come fattore di bellezza e di complessità in quel meraviglioso repertorio iconografico che irrora di significati l'interno della basilica.

Il mondo vegetale appare nella veste decorativa degli ordini architettonici classici e nelle immagini che caratterizzano gli stucchi e i mosaici delle pale d'altare. Ancora più ricca è poi la presenza del mondo animale, che nessuno finora si era assunto il compito di illustrare sistematicamente. Lo ha fatto con risultati sorprendenti Sandro Barbagallo, accompagnandoci in una visita ideale della basilica alla scoperta della sua smagliante veste simbolica.

Tra i meriti del libro va riconosciuta la capacità di offrire, con il linguaggio eloquente delle immagini, un importante argomento per chiarire il rapporto tra il cristianesimo e il mondo animale che in tempi recenti ha nutrito l'equivoco di una connessione causale fra la tradizione giudaico-cristiana e l'atteggiamento occidentale verso la natura che negli ultimi secoli ha prodotto l'attuale crisi degli equilibri ecologici.

Per la Chiesa di oggi il "rispetto del creato", secondo la felice espressione usata da Benedetto XVI nell'enciclica Caritas in veritate, è divenuto un imperativo, ma questo atteggiamento non è un fatto nuovo ed è in piena sintonia con le Sacre Scritture. All'inizio della Genesi all'uomo è affidato, prima del peccato originale, il compito di nominare, presiedere e "signoreggiare" tutti gli animali, ma questo non significa che l'uomo possa abusare di questo potere ignorando l'amore e la soddisfazione espressa dal Creatore nei confronti del creato.

Nella Bibbia gli animali sono presenti in modo pervasivo e Noè, in prossimità del diluvio che segue un periodo paragonabile a quello in cui viviamo, in cui "la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza e ogni uomo aveva pervertito la sua condotta" (Genesi, 6, 11-12), riceve da Dio stesso l'invito a ospitare nell'arca ogni sorta di animali. Più volte nella storia sacra tra uomini e animali si descrive un rapporto  attivo  di  solidarietà  in cui si rivela un piano divino. È il caso dell'asina  che salva la vita a Balaam, perché si arresta di fronte all'angelo (Numeri, 22, 33); è il caso del corvo che si prende cura di Elia (1 Re, 17, 6); è il caso di Giona rigettato dalla balena (Giona, 2ss).

Nel libro di Daniele (3, 52-90) si inscrive il Cantico dei tre giovani nella fornace, salvati per la loro fede dal fuoco che avrebbe dovuto bruciarli. In quaranta versetti Sadrach, Mesach e Abdenego celebrano ogni aspetto della creazione, anticipando il Cantico delle creature di san Francesco, citando tutti gli esseri viventi:  "Benedetto sei tu, Signore Dio dei padri nostri e benedetto è il santo nome della tua Gloria (...) Benedetto il Signore, o pesci con tutto quel che si muove nelle acque; lodatelo ed esaltatelo nei secoli. Benedite il Signore, uccelli del cielo; lodatelo ed esaltatelo nei secoli. Benedetto il Signore, fiere e armenti; lodatelo ed esaltatelo nei secoli".

Nel Nuovo Testamento gli animali sono chiamati in causa come testimonianza dell'amore di Dio per tutte le sue creature e la superiorità dell'uomo è affermata attraverso un supplemento di amore divino:  "Considerate i corvi; essi non seminano, non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto voi siete da più degli uccelli?". L'attenzione del Creatore non si limita agli uomini ma riguarda la totalità del creato. "Cinque passeri non si vendono forse per due assi? - si chiede Gesù - Eppure nemmeno uno di questi è dimenticato davanti a Dio".

Nel tempo che Gesù trascorre in solitudine nel deserto, dopo aver ricevuto il battesimo, Marco racconta che "stava con le fiere e gli angeli lo servivano" (1, 13), come a rappresentare, nel rapporto con gli animali, una condizione di riconciliazione cosmica.

Il rispetto e l'amore per il creato suggeriscono a san Paolo la speranza che gli stessi esseri creati saranno liberi dalla schiavitù della corruzione verso la libertà della gloria dei figli di Dio, lasciando pensare che anche gli animali possano condividere in qualche modo il destino della risurrezione. "Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto; essa non è sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo" (Romani, 8, 22-23). Per Paolo il Cristo è una realtà cosmica in cui tutte le cose si ricapitolano, "quelle del cielo come quelle della terra" (Efesini, 1, 1-9).

In continuità con l'insegnamento paolino i primi cristiani vedono degli animali il volto amichevole e protettivo. A contatto con gli eremiti i leoni diventano vegetariani. Il leone di Gerasimo, nel deserto giordano, protegge l'asino del suo benefattore e lo rimpiazza alla bisogna. La stessa connivenza si produce presso gli eremitaggi occidentali, dove il ruolo dei leoni è svolto dagli orsi.

Toccherà a Francesco d'Assisi tradurre in linguaggio poetico la fratellanza universale e la possibilità di rivolgersi agli animali con amore, e questa sensibilità si ritrova in molti santi dei secoli successivi come Giovanni della Croce, Francesco di Sales, Filippo Neri, mentre si generalizzava l'idea cartesiana dell'animale-macchina assorbita anche dai giansenisti, e un filosofo come Malebranche, pur essendo oratoriano, poteva pronunciare la celebre sentenza:  "Gli animali mangiano senza piacere, gridano senza dolore, crescono senza sapere; non desiderano nulla, non temono nulla, non conoscono nulla".
 
La sensibilità barocca però non risente minimamente della tesi meccanicista e celebra nella pittura, nella scultura, nella decorazione architettonica il mondo della creazione come una foresta di simboli che aiutano l'uomo a capire il messaggio divino che la sottende, e la basilica di San Pietro, come dimostra l'attento studio del Barbagallo, è specchio fedele di questa sensibilità.
La cultura illuminista creò le basi per l'avvento della società industriale disegnando la natura come risorsa inesauribile da sfruttare oltre che come soggetto di ricerca scientifica e di classificazione, e il romanticismo riproponendone la sacralizzazione non riuscì ad arrestare un processo che avrebbe creato il conflitto attuale che rischia di compromettere il futuro dell'umanità.

Rimangono numerose testimonianze toccanti del richiamo all'origine divina nella cultura europea e americana del secolo xix, prima ancora che nel xx nascesse la coscienza della responsabilità umana verso il creato. È doveroso ricordare in questo senso le pagine dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij (1880) in cui lo starec Zosima esorta al rispetto religioso della natura:  "Amate tutta la creazione divina nel suo insieme e in ogni granello di sabbia; amate ogni fogliolina, ogni raggio di sole! Amate gli animali, amate le piante. Se amerai tutte le cose, coglierai in esse il mistero di Dio. Una volta coltolo, comincerai a conoscerlo senza posa ogni giorno di più e più profondamente e finirai per amare tutto il mondo di un amore ormai totale e universale (...) Tutto è innocente, all'infuori dell'uomo e Cristo è con essi (gli animali) ancor prima che con noi. (...) Ma è possibile che Cristo sia anche con essi? E come potrebbe essere altrimenti? Gli dico io, il Verbo è infatti per tutti:  ogni creatura, ogni essere, ogni fogliolina aspira al Verbo, canta la gloria di Dio, piange inconsapevolmente rivolgendosi al Cristo, e così fa per il mistero della sua esistenza senza peccato".

Nella Caritas in veritate Benedetto XVI dà voce attuale a una eredità di pensiero e di amore che abbiamo cercato di sintetizzare, ed esprime con cristallina chiarezza la responsabilità dei credenti.
Nella natura il credente riconosce il meraviglioso risultato dell'intervento creativo di Dio, che l'uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni - materiali e immateriali - nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno, l'uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne. La natura è espressione di un disegno di amore e di verità. Essa ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Ci parla del Creatore (cfr. Romani, 1, 20) e del suo amore per l'umanità".

La chiave di lettura per il sacro bestiario della basilica Vaticana è in queste parole illuminate e illuminanti.


(©L'Osservatore Romano - 16 dicembre 2010)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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15/12/2010 18:35
 
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Tra miti e leggende


di Sandro Barbagallo

Circa dieci anni fa, mentre giravo per la basilica di San Pietro per studiarne i capolavori, mi capitò di imbattermi in un pipistrello appollaiato sulla porta della sacrestia.

Questa strana apparizione divenne come per magia la lente di ingrandimento che mi fece riconoscere l'incredibile quantità di rappresentazioni zoomorfe contenute nella basilica. Ma compresi subito che quelle immagini avevano un senso preciso. Bastava cercarlo, decifrarlo e quindi scriverlo.

Cominciai la ricerca. Più raccontavo, più aguzzavo l'occhio, più indagavo, più quel bestiario vaticano si infoltiva di nomi e significati.
Mi resi rapidamente conto che la rappresentazione di molti animali era di due tipi:  per il novanta per cento aveva una funzione simbolica o allegorica, per il restante dieci per cento puramente decorativa, come avrebbe potuto essere per intenderci una foglia d'acanto.

Andare a caccia di animali, comprendere il significato segreto della loro collocazione o vicinanza a un personaggio piuttosto che un altro, è diventato un libro, il cui interesse e la cui utilità non si ferma a una pura curiosità per eruditi, ma colma lacune dovute alla trasformazione in atto nella cultura corrente. Cultura sempre meno alimentata da una conoscenza approfondita sia della letteratura greco-latina sia della Bibbia, a cui quasi sempre le immagini da me trattate si riferiscono.

Gran parte del mio lavoro si è basato infatti sulla ricucitura di uno strappo che permette di capire e di riconoscere cosa c'è dietro alle rappresentazioni di animali come una lucertola o un delfino, un'aquila o un leone. Ho rintracciato storie antiche, leggende, favole e miti, prima pagani e poi cristiani, ho cercato insomma di ridare voce a un mondo che era diventato muto a causa della trasformazione di una società più abituata a consultare mezzi informatici che a entrare in una biblioteca per aprire un libro.
Senofane racconta in pochi versi un episodio riguardante Pitagora:  "Vide passando, percuotere un cane. Si dice che n'ebbe pena e che parlò così:  "Basta, non battere più, che lì c'è l'anima d'uno che m'è caro, lo sento dalla voce"".

Sicuramente il cardinale Mario Nasalli Rocca ignorava questo episodio quando si oppose con veemenza alla commissione dei cardinali ab eo creati che doveva approvare il bozzetto dello scultore Emilio Greco per il monumento di Papa Giovanni xxiii. Il progetto, infatti, mostrava in primo piano un bel cane che se ne stava accucciato tra le pieghe del piviale del Papa. "Non voglio vedere cani nel più grande tempio cristiano".

Fu allora che monsignor Giovanni Fallani, presidente della Commissione per la tutela dei Monumenti Storici e Artistici della Santa Sede, intervenne dicendo:  "Eminenza, perché se la prende con la bestiola scolpita da Emilio Greco? Non sa che in San Pietro esistono altri tre cani:  uno con la fiaccola in bocca fa compagnia alla statua di san Domenico nell'abside della basilica; un altro custodisce il sarcofago di Papa Clemente x; un terzo è in alto tra le statue dei santi fondatori di ordini religiosi, ed è compagno fidato di san Guglielmo abate... Come vede, eminenza, la bella bestiola scolpita da Greco è proprio l'ultima arrivata. E poi, in San Pietro ci sono talmente tanti animali che è quasi uno zoo sacro".

Dopo questa perorazione il cardinale Nasalli Rocca non ebbe più nulla da ribattere ed Emilio Greco poté realizzare la sua opera con il cane, dove ancora oggi si può ammirare. Ma quale pregiudizio o quale tabù verso gli animali può aver ispirato le parole del cardinale?

Forse la radice va ricercata nell'epoca in cui gli animali venivano più usati che rispettati. Infatti, anche al tempo di Aristotele, che fu il primo a occuparsi di scienze naturali, gli animali esistevano in funzione dell'uomo che aveva il diritto di servirsene. Questo principio, derivato dalla Bibbia, influenzerà anche il cristianesimo:  "Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro:  "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra"".

Da un lato, quindi, ci sono gli studiosi di scienze naturali, dall'altro filosofi o scrittori come Plinio il Vecchio che vede la natura in senso antropocentrico. Amore e odio, simpatia e antipatia. Anche per lui, infatti, gli esseri della natura esistono solo in funzione dell'uomo.

Interessante, poi, è la visione fiabesca di autori come Esopo o Fedro (i secolo dell'era cristiana) che umanizzarono gli animali, prestando loro reazioni e sentimenti. Gli animali delle loro favole sono metafore dei vizi e delle virtù umane, poiché spesso mostrano comportamenti simili ai nostri. Bisognerebbe rileggere quelle favole alla luce delle più recenti ricerche scientifiche sul comportamento degli animali.

L'atteggiamento dell'uomo nei confronti della natura, nei secoli passati, è sempre stato ambiguo. L'uomo si è sentito partecipe, ma al tempo stesso padrone della natura, senza prestare attenzione ai propri limiti e a quelli del suo ambiente.
L'amore e il rispetto per gli animali è stato invece più sentito da quei filosofi o da quegli scrittori che credevano nella metempsicosi. Molti di loro erano spinti da motivi religiosi, altri ancora da pura zoofilia. È comunque interessante notare come i pitagorici, ancor prima dei cristiani, dicessero che:  "La bontà verso gli animali è un utile esercizio per rafforzare la filantropia e la compassione".

La presenza in un racconto mitologico o biblico (ma anche nella vita di un santo) di un animale piuttosto che d'un altro, è legata al significato simbolico che gli antichi gli attribuivano. Nell'iconografia tradizionale molti animali si sono trasformati in simboli, poi stratificatisi nell'immaginario collettivo tanto da divenire archetipi della cultura occidentale. Un esempio per tutti, il cane simbolo di fedeltà.

Accingendomi ad affrontare questa sorta di "safari mistico", ho capito che sarebbe un'impresa troppo vasta redigere un censimento dell'intero bestiario presente in Vaticano (nei suoi Musei, vi è persino una Sala degli animali). Così, per non perdere l'interesse dei lettori, ho voluto restringere il campo alla basilica di San Pietro e alla sua piazza.

Ed è proprio dalla bella piazza di Bernini che partirà il nostro viaggio alla ricerca di un animale che si mimetizza, o si nasconde, nella maestosa solennità di un'opera d'arte.


(©L'Osservatore Romano - 16 dicembre 2010)
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23/12/2010 18:33
 
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Cinquantaquattro rappresentazioni artistiche da diversi Paesi del mondo

Tutti i presepi
del segretario di Stato



di Nicola Gori

Sono in legno, avorio, oro, argento, pietre preziose, ma anche in ceramica, cera, marmo, ferro, stoffa, cartapesta. Si spazia dai colori più tenui a quelli più sgargianti, dalle dimensioni in stile bonsai a quelle quasi ad altezza naturale.

Troviamo ambientazioni esotiche, rupestri, di borgata. Dai tempi antichi ai nostri giorni, passando per il medioevo e l'età moderna. Provengono dalle più disparate località di tutto il mondo:  dalle Ande, dalla Terra Santa, dalle Filippine, dalla Colombia, dal Nicaragua, dal Kenya, dal Panama, dal Messico, dalla Polonia, dalla Sicilia, dalla Campania, dal Piemonte. Sono i cinquantaquattro presepi ospitati nell'appartamento del segretario di Stato.
 
Piccoli capolavori artigianali simbolo della tradizione cristiana, che assumono un valore particolare per la loro significativa collocazione, come ha spiegato il cardinale Bertone al nostro giornale. "La policromia e universalità dei presepi allestiti alla prima Loggia - ci ha detto - rappresentano l'universalità della Chiesa e la fitta rete delle relazioni internazionali che caratterizzano l'attività del segretario di Stato e di tutti i miei eccellenti collaboratori. Nell'interscambio di rapporti e di indirizzi rimane lineare la convergenza all'unico superiore centro di riferimento:  il Principe della pace, che irradia a tutto il mondo il messaggio di amore, di giustizia e di pace. Così il presepio è la prima cattedra del Maestro divino".

Si comincia dal presepe allestito all'esterno della porta di ingresso da suor María del Carmen Aparicio, una delle religiose dell'appartamento. Per farlo si è ispirata a quello ideato dai bambini di una scuola di Bogotá, in Colombia, tenuta dalle suore cappuccine della Madre del Divino Pastore, a cui appartiene. Si tratta di una sessantina di ritagli di cartoncino color oro avvolti a forma di cono e disposti come tanti raggi di sole, che provengono dal centro della scena, dove stanno Gesù, Maria e Giuseppe. Quasi come una stella dorata che focalizza l'attenzione sulla natività. Dato che le statuette sono collocate su una colonna, è stata posta anche una scala che permette idealmente di raggiungere Gesù.

Passiamo poi al presepe in cartapesta allestito con i personaggi che si trovavano esposti nell'appartamento privato di Giovanni Paolo ii durante gli anni del suo pontificato. Sfondo in mattoncini, scene di vita quotidiana, e Gesù che nasce in mezzo allo scorrere della vita nella città. Basta fare pochi metri e troviamo una copia in calco - eseguita nei laboratori dei Musei Vaticani - del più antico presepe realizzato da Arnolfo di Cambio nel 1291, a quasi settanta anni da quello "vivente" di Greccio del 1223. Era stato scolpito per essere collocato nella cappella Sistina della basilica di Santa Maria Maggiore in Roma, dove si conservano le reliquie della culla di Gesù.

Sempre dai laboratori dei Musei Vaticani arriva una copia in calco del frammento di coperchio di sarcofago rappresentante la scena dell'Epifania, rinvenuto presso la Necropoli vaticana e risalente al 380 circa. È immortalato il momento dell'arrivo dei tre re magi - Gaspare, Melchiorre e Baldassarre - che recano oro, incenso e mirra. Poco più in là, Gesù giace nella mangiatoia, circondato da Maria e Giuseppe, e riscaldato dal bue e dall'asinello.

Troviamo poi una serie di presepi provenienti da Caltagirone:  alcuni sono fatti in ceramica, altri in terracotta e stoffa, e uno in lamine d'oro e argento donato a Giovanni Paolo ii. Sempre in terracotta è esposto un simpatico gruppo di statuine di dimensioni lillipuziane che provengono da León, in Nicaragua. Si respira aria di montagna, invece, davanti al presepe in legno della Val Gardena. Ancora in legno è la rappresentazione della natività che viene dal Kenya, esattamente da Isiolo, il vicariato apostolico che riceve aiuti dal centro missionario dell'arcidiocesi di Vercelli, dove il cardinale Bertone fu arcivescovo dal 1991 al 1995. Un'altra creazione artistica prodotta in Kenya è quella in ebano, il cui colore conferisce un tono particolare a tutta la scena della natività.

Dal Piemonte, in particolare da Alessandria, arriva un caratteristico presepe in iuta, dono delle suore carmelitane. Al periodo in cui il cardinale è stato arcivescovo di Genova risale il gruppo di statue in terracotta regalatogli nel 2003 dall'Associazione medici cattolici italiani. Da Pozzuoli arriva un tradizionale presepe napoletano in ceramica e stoffa, dono della diocesi e dell'Azione Cattolica ragazzi per il Natale 2007.

Ancora alla tradizione napoletana si ispira quello creato dall'architetto Aniello D'Antonio in memoria di Giovanni Paolo ii e donato nel 2008 al segretario di Stato da Angela, Angelo e Carlo Di Maio e don Tommaso Raiola. La particolarità di questo presepe è che mancano i pastori tradizionali, perché - nelle intenzioni degli ideatori - i pastori sono in realtà tutti quelli che si avvicinano alla mangiatoia di Gesù per rivivere il mistero di quella notte. Sullo sfondo di questa creazione artistica si vedono la basilica di San Pietro e la torre campanaria di Romano Canavese, il paese natale del cardinale Bertone.

È realizzato con materiali di recupero artisticamente assemblati e plasmati a forma di statuine il presepe di Ciro Cipolloni, della cittadella internazionale dei focolari di Loppiano. Dalla Colombia, invece, è giunto un minuscolo presepe in smeraldi e vetro. È del Portorico un'elegante scena della natività realizzata in legno, accanto alla quale sono stati posti dei variopinti pappagalli del Paese caraibico.

Da Betlemme troviamo alcune rappresentazioni della nascita di Gesù in legno e madreperla e in legno e olivo. Dal Messico, un presepe in terracotta e uno in cera proveniente dallo Stato di Guanajuato, che quest'anno ha offerto il presepe per l'Aula Paolo vi. Non manca nemmeno una raffigurazione cara alla tradizione orientale. Si tratta di un uovo argentato:  su di un lato è raffigurata la natività, sull'altro la risurrezione.

E, infine, una creazione la cui ambientazione è stata ricavata da una radice di olivo vecchia più di duecento anni della varietà Rosciola, proveniente dalla collina nella contrada Le Coste, di Olevano Romano, donato dalla tenuta della famiglia Minosse nel 2009. Avvicinandosi si percepisce come un richiamo a immergersi nella natura, si sente ancora l'odore di legno e di muschio. La Sacra Famiglia ha trovato riparo sotto l'imponente radice che la protegge e le offre un ambiente accogliente. Sulle piccole fessure del legno sono stati posti i personaggi:  angeli, pastori, pecorelle. Anche una piccola formica fa capolino dall'interno della radice, conferendo all'insieme un tocco di autenticità.


(©L'Osservatore Romano - 24 dicembre 2010)
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29/12/2010 19:11
 
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Nei Musei Vaticani la mostra "La via del mare" e il nuovo spazio espositivo della collezione etnologica

Tutte le barche di Pietro


All'ingresso dei Musei Vaticani è stato inaugurato uno spazio espositivo intitolato "La via del mare". L'ideatore - curatore del Dipartimento etnologico dei Musei Vaticani - ne illustra i contenuti.

di Nicola Mapelli


Con i suoi sessanta modelli di imbarcazioni questa mostra accompagna i primi passi dei visitatori alla scoperta dei tesori custoditi nei Musei Vaticani. I modellini collocati lungo la rampa elicoidale provengono da tutto il mondo e sono stati realizzati circa un secolo fa, poi inviati in Vaticano quali doni a Papa Pio xi in occasione della grande Esposizione missionaria del 1925. Le piccole imbarcazioni sono inserite tra grandi immagini fotografiche in bianco e nero - realizzate anch'esse oltre un secolo fa - raffiguranti volti ed episodi di vita quotidiana dei popoli del mondo, e una serie di remi a grandezza naturale.

Alla base della rampa, il visitatore viene accolto dall'unica barca di dimensioni reali dell'esposizione:  una grande piroga melanesiana - circa 10 metri di lunghezza - proveniente dalle Isole Salomone, donata a Pio xi nel 1929. La piroga ha potuto essere presentata al pubblico grazie a un lungo, attento e paziente lavoro di restauro realizzato dal Laboratorio Polimaterico dei Musei Vaticani, coordinato da Stefania Pandozy. Fanno da cornice alla piroga otto sezioni di agate brasiliane, dai colori screziati e variopinti che rimandano alle infinite sfumature della sabbia e dei fondali marini, donate da Primo Rovis.

Il viaggio prosegue con due velieri, uno inglese e uno giapponese, collocati in un'unica vetrina a significare l'incontro e l'unione fra i popoli, e continua con modelli di imbarcazioni dell'Asia, dell'Oceania, dell'America e dell'Africa. Chiudono la mostra tre splendidi modelli di imbarcazioni della popolazione Yoruba, in Nigeria, dell'arcivescovo Carlo Maria Viganò. Il mare, le navi, hanno da sempre simboleggiato il desiderio dell'uomo di uscire dai confini della propria terra e incontrare altri popoli e culture:  è significativo che, al termine della "Via del mare", il visitatore dei Musei Vaticani sia accolto dalla visione della cupola di San Pietro.

La Chiesa, "barca di san Pietro", è pronta ad accogliere ognuno nel suo viaggio. Un viaggio che, se il visitatore lo vorrà, potrà condurlo a visitare non solo Michelangelo e Raffaello, ma anche il nuovo spazio espositivo del Museo Etnologico, inaugurato lo scorso 15 ottobre con una mostra dedicata agli aborigeni australiani e alle popolazioni dell'Oceania.

I modelli esposti sono infatti parte di una più vasta collezione di modelli di imbarcazione - oltre duecento - che, a sua volta, è solo una piccola goccia all'interno del grande mare rappresentato dalle collezioni custodite in questi spazi. Il Museo Etnologico dei Musei Vaticani è stato fondato per volontà di Pio xi con il motu proprio Quoniam tam praeclara il 12 novembre 1926 per accogliere i materiali giunti a Roma in occasione della grande Esposizione missionaria organizzata nell'Anno santo del 1925.

Pio xi volle infatti che tutto quel materiale - oltre 100.000 manufatti - non si disperdesse alla chiusura dell'esposizione ma rimanesse a Roma per divenire un "libro aperto" sui popoli del mondo, la loro cultura e l'opera dei missionari. La sede originaria era nel Palazzo del Laterano. Lo studio e l'ordinamento scientifico del materiale vennero affidati al noto etnologo verbita Guglielmo Schmidt, che fu anche il primo direttore del Museo, ufficialmente inaugurato il 20 dicembre 1927.

Nel 1963 il Museo è stato chiuso al pubblico e i suoi materiali, per volontà di Papa Giovanni xxiii, trasferiti temporaneamente presso il Palazzo di San Callisto nell'attesa che si realizzasse uno spazio permanente all'interno della Città del Vaticano presso i Musei Vaticani. Qui, nel 1973, il Museo fu riaperto al pubblico su una superficie totale di oltre 7.000 metri quadrati e un percorso di circa 700 metri suddiviso in venticinque sezioni, corrispondenti ad altrettante aree geo-culturali.

Il nucleo principale delle collezioni è costituito da 40.000 oggetti dell'Esposizione missionaria del 1925. A questo nucleo originario si sono aggiunti nel tempo oggetti e collezioni frutto di acquisti, ma soprattutto di donazioni private fatte ai Pontefici, in particolare in occasione dei loro viaggi apostolici.

Tra i primi lotti venuti ad accrescere le collezioni si segnalano quelli provenienti dal Museo Borgia, circa duemila, che da oltre due secoli custodiva oggetti inviati a Roma dai missionari nel corso dei loro primi viaggi.

Attualmente il museo custodisce oltre 80.000 oggetti e opere d'arte. Buona parte è dedicata all'Asia, seguono Africa, America e Oceania. Vi è inoltre una ricca collezioni di reperti preistorici e altri oggetti straordinari come per esempio un antico calendario runico:  veri e propri tesori continuamente richiesti per mostre internazionali.

Chiuso e riaperto più volte nel corso degli anni per motivi legati allo stato di conservazione delle opere, lo scorso 15 ottobre il museo ha definitivamente riaperto i battenti inaugurando - all'interno di una sezione ricavata dal vecchio percorso e ora dedicata alle mostre temporanee - una mostra dedicata agli aborigeni australiani dal titolo "Rituals of Life".

La mostra vuole contribuire a far conoscere ai visitatori quella che è fra le culture più antiche, se non la più antica in assoluto, dell'umanità con l'esposizione di oltre cento opere donate al Pontefice un secolo fa. Gli aborigeni australiani, che hanno abitato ininterrottamente la loro terra per oltre 40.000-60.000 anni, sono custodi di un'antica sapienza che è possibile cogliere e apprezzare attraverso le opere esposte.

Sono presenti, per esempio, le più antiche pitture "portatili" su pietra e corteccia realizzate dagli aborigeni australiani:  opere uniche al mondo.

Per realizzare questa mostra, io stesso mi sono recato presso le comunità degli aborigeni che decenni fa hanno donato le loro opere al Vaticano. L'esperienza ha permesso di ricollegare le opere con i discendenti degli artisti, tutti orgogliosi che quanto è stato realizzato dai loro avi sia ora esposto nel museo del Papa e commossi per la riscoperta, attraverso le immagini a loro mostrate, dei capolavori realizzati dai loro padri.

La stessa commozione si avvertiva quando un gruppo di aborigeni ha accompagnato il cardinale George Pell e molti altri rappresentanti del mondo ecclesiastico australiano il giorno dell'inaugurazione della mostra. Alla cerimonia era presente anche il ministro degli esteri australiano, Kevin Rudd, oltre che l'ambasciatore dell'Australia presso la Santa Sede, Timothy Andrew Fischer, che ha dato il suo prezioso supporto per l'intera durata del progetto che ha coinvolto, fra gli altri, il National Museum of Australia, in particolare Katherine Aigner, e i collaboratori del Museo Etnologico, tra cui Nadia Fiussello.

La mostra "Rituals of Life" è accompagnata da un'esposizione di oltre cinquanta opere d'arte provenienti dall'Oceania, tra cui statue dell'Isola di Pasqua, un grande copricapo in piume  della  Papua  Nuova  Guinea, tre preziosissime statue dell'isola di Mangareva nella Polinesia Francese, una Madonna in legno con Bambino delle Isole Salomone, e molto altro ancora.
L'Oceania è il grande continente dell'acqua e ci riporta alle imbarcazioni della mostra "La via del mare". Appartiene infatti a questo vasto e affascinante continente la grande piroga delle Isole Salomone, stupendo gioiello di abilità marina, con la quale abbiamo aperto questo articolo. I Musei Vaticani sono fra i pochi musei al mondo a possedere una di queste straordinarie imbarcazioni delle Isole Salomone, per la costruzione della quale si impiegavano mesi, se non anni.

La piroga Ivukapi - questo il nome presente sull'imbarcazione - viene dalla piccola isola di Choiseul, dove a partire dagli inizi del xx secolo operavano i missionari Maristi. Lunga 10 m, con la prua e la poppa che raggiungono quasi i 2,5 metri di altezza, riccamente decorata da frammenti di conchiglia, la piroga è arricchita da altre decorazioni in legno:  due uccelli a prua, ove si trova - lungo la linea di galleggiamento - una testa rappresentante presumibilmente lo spirito protettore, e a poppa una scultura raffigurante un volto umano.

Dopo aver ammirato la lunga piroga, il visitatore potrà iniziare il suo cammino verso le altre zone dei Musei Vaticani passando davanti ai sessanta modelli di imbarcazioni di tutto il mondo. L'internazionalità dei Musei del Papa è così espressa fin dall'inizio del percorso di visita:  uno sguardo sul mondo che accoglie visitatori da tutto il mondo.


(©L'Osservatore Romano - 30 dicembre 2010)

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Storia di un antico simbolo del buon odore di Cristo

 

La “Rosa d’oro” alla Basilica di Gostyń

 

 

Roma, 25 marzo 2012

 

Il P. Procuratore Generale ha l’onore di comunicare a tutte le Congregazioni che Sua Santità Benedetto XVI, nel Cinquecentesimo della approvazione data dal Vescovo di Poznan ai miracoli da cui sorse il Santuario di N. S. “Rosa Mystica”, si è degnato di concedere la “Rosa d’oro” al Santuario-Basilica retto dalla Congregazione dell’Oratorio di Gostyń, la prima sorta in Polonia (1668).

 

Ringraziando il Sommo Pontefice per il gesto di sovrana benevolenza che rallegra l’intera Confederazione Oratoriana, il P. Procuratore Generale si unisce ai Confratelli della Congregazione per esprimere a Sua Santità i più filiali sentimenti di tutti i figli di San Filippo Neri. La solenne esecuzione dell’Atto Pontificio si terrà nella Basica-Santuario di Gostyń il prossimo 24 giugno.
 

 

Breve Pontificio
 

Benedictus PP. XVI
ad futuram rei memoriam.


In Monte Sancto Gostyni Sanctuarium Dei Matri, Rosae Mysticae, dicatum universos Poloniae apud fideles conspicuum nomen locumque obtinet. Etenim frequentes ad id omne genus peregrinatores caelestem Matrem veneraturi ac petituri superna beneficia, tum corporis tum spiritus, confluere solent. Inibi Confoederationis Oratorii S. Philippi Nerii sodales congruam operam dant ut per Ecclesiae sacramenta, Dei verba, fidelis populus convenienter colatur. Sanctuarii ipsius antiquitas, claritas et origo incitamento sunt, ut vita accomodatior teneatur ad Evangelii praescripta. Cum vero iam appetat quingentesima anniversaria memoria ex quo tempore Venerabilis Frater Joannes Lubrański, Episcopus Posnaniensis, Decretum evulgavit, quo miracula, eaque in isto Sancto Monte effecta, confirmata sunt. Saeculorum decursu locis iste veluti propugnaculum extitit catholicae fidei, quam Deiparae cultus confirmatus tutius est. Superioribus temporibus idem Sanctuarium B.M.V. - Rosae Mysticae - Venerabili Servo Dei Paulo VI, Decessore Nostro, annuente, ad altiorem gradum est evectum, scilicet ad Basilicae Minoris dignitatem, ut, amplificato honore, pietas pariter augeretur. Ut autem haec Aedes congruentius extollatur atque nihil in eo loco ornando, colendo, praetermittere cupientes ac postulationibus subvenientes Venerabilis Fratris Stanislai Gadecki, Archiepiscopi Metropolitae Posnaniensis, Nos Rosam ex aureo conflatam magna cum animi affectione harum Litterarum vi tribuimus et donamus, quae inibi exinde servabitur, peculiaris Nostrae benevolentiae veluti signum ac spectabile documentum, quo Sanctuarii huius praestantiam augere cupimus. Quae vero in sollemni benedictionis rosae caerimonia a Deo, Patre misericordiarum, efflagitavimus, ea rursus ab Eo postulamus ut omnibus hominibus bonae voluntatis affatim impertiat eosque supernis cumulet donis. Datum Romae, apud Sanctum Petrum, sub anulo Piscatoris, die XIV mensis Februarii, in SS. Cyrilli et Methodii die festo, anno MMXII, Pontificatus Nostri septimo 
 

Benedictus PP. XVI

 

 

La rosa d'oro del Papa

Benedetto XVI, visitando alcuni insigni santuari mariani, ha donato una rosa d'oro quale segno di pietà e devozione. Si tratta di un gesto antico, riservato al Papa e mai caduto in disuso: Paolo vi donò la rosa d'oro al santuario di Fátima nel 1965 e a quello della Vergine di Guadalupe nel 1966, mentre Giovanni Paolo ii la inviò alla Madonna nera di Jasna Góra nel 1982. 
 

L'accento posto, nel corso dei secoli, sul dono pontificio ha messo in ombra l'originario significato del gesto, che si inquadrava nella liturgia stazionale romana. Analogamente ad altri riti e tradizioni papali, anche per la rosa d'oro, possiamo distinguere due periodi: prima di Avignone e dopo il rientro dei Papi a Roma. 
 

Nel primo periodo, la rosa d'oro veniva benedetta durante la statio della domenica di Quaresima, che si teneva a Santa Croce in Gerusalemme. Nel corso della liturgia della domenica Laetare, il Papa portava nella mano sinistra, dopo averla benedetta, la rosa d'oro, che deponeva poi sull'altare della basilica sessoriana. Al termine della celebrazione eucaristica, il Pontefice la riprendeva e la portava fino al rientro nel patriarchio lateranense, donandola, infine, al prefetto dell'Urbe, che aveva partecipato al rito a nome della città. 
 

L'Ordo XI descrive la celebrazione nei dettagli. Il Papa si recava con solenne cavalcata, dal palazzo lateranense alla basilica di Santa Croce, dove cantava la messa, predicava tenendo in mano la rosa d'oro benedetta e, dopo essersi soffermato sulla liturgia del giorno, la mostrava al popolo, istruendolo sul suo mistico significato. Al termine della celebrazione ritornava al Laterano in cavalcata con la rosa in mano. Al portico della basilica, vestito di porpora con calze color oro, il prefetto di Roma - che lo aveva accompagnato a piedi, fungendo da palafreniere - lo aiutava a scendere da cavallo sostenendogli la staffa. Smontato dalla cavalcatura, il Papa gli donava la rosa, che egli riceveva genuflesso, baciando subito dopo il piede del Pontefice. 
 

Al rientro da Avignone si cominciò a benedire la rosa d'oro nel palazzo lateranense. A partire dalla metà del Quattrocento si destinò a tale scopo la sala dei Paramenti. Il cerimoniale di Patrizi Piccolomini e del Burcardo, pubblicato poi da Cristoforo Marcello, descrive la sequenza rituale, rimasta, con qualche piccola variazione, immutata fino al secolo scorso. Il testo ricorda che è consuetudine per il Papa nella quarta domenica di Quaresima, nella quale si canta Laetare Hierusalem, benedire la rosa d'oro. Destinata poi a essere donata dallo stesso Pontefice, immediatamente dopo la celebrazione della messa, a un principe, se presente al sacro rito, o a essere inviata a qualche personalità o istituzione dopo aver consultato i cardinali "in circolo nella sua camera o dove ad egli più piacerà".
 

All'inizio del rito la rosa d'oro veniva posta su un piccolo altare, appositamente allestito nella sala dei Paramenti, con due candelieri accesi. Il Papa, dopo aver indossato il camice, la stola, il manto e la mitra, si avvicinava all'altare dove era collocata la rosa. E deposta la mitra, iniziava il rito con il versetto Adiutorium nostrum in nomine Domini, il saluto liturgico e l'orazione di benedizione. Terminata la quale, un chierico di camera, in cotta e rocchetto, reggeva la rosa dinanzi al Pontefice, che la ungeva con il balsamo e introduceva una piccola parte di unguento, misto a muschio tritato, nel bocciolo più grande, dov'era stato ricavato un piccolo serbatoio. Balsamo e muschio gli venivano presentati dal sacrista pontificio.
 

Subito dopo, infuso l'incenso portogli dal cardinale primo dei preti, il Papa aspergeva con l'acqua benedetta la rosa e la incensava. Il chierico di camera la consegnava quindi al cardinale diacono che a sua volta la dava al Papa, il quale si recava ad assistere alla cappella con la rosa nella mano sinistra e la destra benedicente. Giunto al faldistorio davanti all'altare, prima di inginocchiarsi per un breve momento di adorazione, il Papa porgeva nuovamente al cardinale diacono la rosa, che veniva consegnata al chierico di camera, il quale la poneva sull'altare, nel mezzo, su un velo rosaceo ricamato in oro.
 

Al termine della messa, ripetuta l'orazione al faldistorio davanti all'altare, il Papa riprendeva la rosa con le stesse modalità e ritornava nella sala dei Paramenti, o nei suoi appartamenti, dove veniva ammesso il principe o il personaggio a cui la rosa era destinata. Questi genuflesso ai piedi del Pontefice riceveva il dono con queste parole: Accipe rosam de manibus nostris, qui licet immeriti locum Dei in terris tenemus, per quam designatur gaudium utriusque Hierusalem, triumphantis scilicet et militantis Ecclesiae, per quam omnibus Christi fidelibus manifestatur flos ipse speciosissimus, qui est gaudium, et coronam sanctorum omnium suscipe hanc tu dilectissime fili, qui secundum saeculum nobilis, potens ac multa virtute praeditus es, ut amplius omni virtute in Christo Domino nobiliteris tamquam rosa plantata super rivos aquarum multarum, quam gratiam ex sua ubertati clementia tibi concedere dignetur, qui es trinus et unus in saecula saeculorum. Amen. In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti ("Ricevi dalle nostre mani, quale immeritato vicario di Cristo in terra, la rosa, con la quale è reso manifesto il gaudio delle due Gerusalemme, della Chiesa trionfante come di quella militante, e per la quale a tutti i fedeli di Cristo è significato Egli stesso, il fiore più splendente, che è la gioia e la corona di tutti i santi: accettala, Tu, o dilettissimo figlio, che in terra sei nobile, potente e ricco di virtù, affinché, come la rosa piantata lungo copiosi corsi d'acqua, così tutte le tue virtù siano in Cristo Signore nobilitate. A te, dalla sua infinita clemenza, si degni di concedere tale grazia, Colui che è uno e Trino nei secoli dei secoli. Amen. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo"). 
 

Qualora il destinatario non fosse presente, la rosa veniva fatta pervenire per mezzo di un'apposita legazione, della quale facevano parte anche i latori della rosa d'oro, membri del patriziato romano, la cui carica era prevista sino alla riforma della cappella e della famiglia pontificia compiuta da Paolo vi. La consegna della rosa era accompagnata da una lettera apostolica che ne illustrava il significato e da un'apposita istruzione dei maestri di cerimonia apostolici sui riti da osservare.
 

La benedizione della rosa era riservata sempre e solo al Papa. Infatti, quando egli era fuori Roma - come accadde nel corso della visita di Pio vi a Vienna nel 1782 - la rosa non veniva benedetta, ma si esponeva nella cappella papale quella benedetta l'anno precedente. Qualora nel corso dell'anno non fosse stata donata, si benediceva nuovamente la stessa rosa. Nel caso, invece, di impedimento del Pontefice, per malattia o per l'età avanzata, la rosa veniva benedetta nella cappella privata. Alcune volte, in ragione del calendario che faceva coincidere la quarta domenica di Quaresima con la solennità dell'Annunciazione, la rosa si benediceva nella sagrestia della basilica di Santa Maria sopra Minerva, dove si teneva la cappella papale. 
 

Originariamente la rosa d'oro indicava principalmente gioia e allegrezza per la Pasqua imminente, e aveva un profondo significato cristologico, in quanto - come recitava la preghiera di benedizione - essa rappresentava il giglio delle valli, il fiore di campo: cioè Cristo. All'unico Signore si chiedeva che la Chiesa, per mezzo delle buone opere, potesse associarsi alla fragranza di quel fiore e spandere il buon profumo di Cristo nel mondo. Così, a chi la riceveva in dono, veniva riconosciuto il compito di portare il buon odore di Cristo, con la vita e le opere al servizio della Chiesa. Anche il dono a una chiesa o a un santuario mariano riconduceva allo stesso significato: portare Cristo al mondo.
 

Circa l'origine del rito sappiamo che Leone ix (1049-1054) chiese ai monasteri da lui fondati in Alsazia di far giungere ogni anno a Roma una rosa d'oro già fusa, o il quantitativo d'oro sufficiente a confezionarla. La rosa doveva arrivare in città in tempo per la statio quaresimale della domenica Laetare. Dunque, durante il pontificato di Leone ix la cerimonia della rosa d'oro era data già in uso. Un erudito del Settecento, Francesco Annivitti, riprodusse il testo di un manoscritto conservato nel monastero di Santa Croce in Gerusalemme, contenente l'omelia di Onorio iii in occasione della domenica Laetare del 1217, che attribuiva ad un beato Gregorio Papa l'introduzione del rito. Chi fosse questo beato è difficile dire. 
 

A Benedetto XIV - sulla cui opera anche in campo liturgico non si è forse scritto e investigato abbastanza - dobbiamo molte notizie utili sull'argomento. Nella sua lettera Quarta vertentis, del 24 marzo 1751, troviamo un piccolo trattato sulla rosa d'oro, che egli mandava alla metropolitana di Bologna, sua antica sede episcopale. Papa Lambertini, infatti, fece studiare a fondo il significato e l'origine della rosa, promuovendo anche alcune accademie, svoltesi alla sua presenza. Molti scrittori sono concordi nel narrare che l'alsaziano Leone ix, volle sottoporre immediatamente alla Sede romana, esentandolo dalla giurisdizione del vescovo locale, il monastero di Santa Croce nella diocesi di Tulle. E a ricordo di questa libertà, impose di mandare al Papa, ogni anno, otto giorni prima della quarta domenica di Quaresima, una rosa d'oro o due oncie romane dello stesso metallo. Il pagamento di tale quantità di oro verrà puntualmente registrata nel Liber censuum di Cencio Camerario. 
 

Monsignor Lonigio, maestro di cerimonie sotto Paolo v, narra invece che Leone ix avrebbe chiesto il pagamento della rosa d'oro alla badessa del monastero di Bamberga, a ricordo dell'esenzione dalla giurisdizione dell'ordinario. Il Besozzi, altro erudito che aveva scritto sull'argomento, osservava che se Leone ix obbligò le monache di Bamberga a mandare la rosa d'oro, la tradizione di benedire la rosa esisteva già da qualche tempo. Benedetto xiv sposò questa affermazione, non ritenendo Leone ix autore del rito, in quanto la rosa d'oro era già consuete portari nella quarta domenica di Quaresima: parole che dimostrerebbero come il rito fosse stato precedentemente introdotto e che il Pontefice alsaziano ne avesse solo addossato la spesa al suo monastero.
 

Possiamo, pertanto, convenire con Benedetto xiv che si tratta di un rito particolarmente antico, già in uso al tempo di Leone ix. Gaetano Moroni sembra accogliere l'ipotesi che "questo sagro donativo vuolsi dai Papi surrogato a quello delle chiavi d'oro e d'argento, che con la limatura delle catene di san Pietro solevano benedire e inviare in dono ai grandi personaggi". 
 

Anche la forma della rosa mutò con il tempo. Originariamente era composta da un solo fiore, tinto di rosso nel bocciolo. Il rosso fu poi sostituito da un rubino e da altre pietre preziose. Successivamente la rosa assunse la forma di un ramo spinoso con più fronde, fiorito e con in cima una rosa più grande, in oro puro. Nel mezzo della principale era inserita una piccola coppa, con un coperchio o una sottile lamina forata, nella quale il Papa versava il balsamo e il muschio tritato, rito introdotto per imitare la fragranza soave della rosa e anche per sottolineare il profondo significato cristologico che le veniva attribuito. Infine, a partire dal XVI secolo, si cominciò a inserire il ramo di rose in un vaso e a sostituire l'oro con argento dorato. L'introduzione del vaso renderà scomodo al Papa reggerla nella mano sinistra e per questo il chierico di camera che presentava al Pontefice la rosa avrà il compito di portarla nel tragitto dalla sala dei Paramenti alla cappella, precedendo il Pontefice. 
 

Scorrendo la lunga lista degli oltre 180 destinatari della rosa d'oro, possiamo leggere anche una singolare storia del papato, che si interseca con avvenimenti grandi e piccoli, oltre che con note di colore. La prima rosa consegnata fuori Roma toccò a Fulcone d'Angers, che aveva dato ospitalità a Urbano ii (1088-1099). Le rose date ai dogi di Venezia erano, invece, considerate non come dono alla persona, ma alla Repubblica. Quella che Benedetto xi inviò nel 1304 al convento dei domenicani di Perugia fu ben presto venduta per sopperire alla necessità dei poveri. Enrico viii d'Inghilterra ne ricevette ben due: la prima da Giulio ii, l'altra da Leone x. Quelle donate da Martino v alla basilica vaticana e da Clemente vii alla confraternita del Gonfalone saranno parte del bottino dei lanzichenecchi nel sacco di Roma del 1527. 
 

Nel 1462 Pio ii la donò a Tommaso Paleologo, fratello di Costantino XI, ultimo imperatore di Costantinopoli, che il 29 maggio 1453 aveva trovato la morte sulle mura della città, ormai caduta in mano turca. Fu l'estremo omaggio del Papa umanista alla cultura di Bisanzio. Una certa eccentricità mostrò Sisto IV, che volle inviare alla sua città di Savona non una rosa d'oro, ma un ramo di rovere, allusivo al suo cognome e al suo stemma. Alessandro vi, invece, la concesse a Cesare Borgia. 
 

Alcune rose d'oro segnarono il restauro o l'abbellimento delle grandi basiliche romane, come quella donata da Paolo v alla basilica vaticana per la traslazione dei Papi santi di nome Leone nel 1608. Molte furono, poi, inviate alle cattedrali dove i Pontefici erano stati precedentemente vescovi: Innocenzo xii a Napoli, Urbano viii a Spoleto, Benedetto xiv a Bologna, solo per citarne alcuni. Tra i santuari mariani, quello di Loreto ne ricevette il maggior numero. Pio ix la mandò a Maria Adelaide di Savoia, consorte di Vittorio Emanuele ii, mentre Leone xiii ne fece dono a Mary Caldwell, unica borghese ad averla ottenuta, per i meriti acquisiti nella fondazione dell'università cattolica di Washington. L'ultima sovrana italiana a riceverla sarà la regina Elena, sposa di Vittorio Emanuele III di Savoia, nel 1937, da parte di Pio XII.
 

Infine, è significativo notare come, a partire dalla metà del Seicento, la rosa d'oro diventerà sempre più un dono destinato ai santuari mariani, alle regine o a personalità femminili, preferendosi per gli uomini altre distinzioni cavalleresche, in particolare lo stocco ed il berrettone, che si benedicevano a Natale: segno, anche questo, del mutare della percezione del valore simbolico del rito.

 

Stefano Sanchirico 
(©L'Osservatore Romano - 9 gennaio 2011)



Benedetto XVI consegna la Rosa d'Oro alla Madonna del Rosario di Pompei





Cingoli : pellegrinaggio dei nostri gruppi in occasione delle celebrazioni in onore di Pio VIII Castiglioni





La splendida Città di Cingoli, provincia di Macerata, si appresta a varare il programma per ricordare il suo figlio più illustre : Pio VIII, Francesco Saverio Castiglioni, nato il 20 novembre 1761, da nobilissima famiglia milanese trapiantata nel sec.XIV in territorio cingolano.
Il 31 marzo 1829, il cardinale Castiglioni salì al Soglio Pontificio a 68 anni, con il nome di Pio VIII.
L’attuale capo della Casata Castiglioni, Francesco Saverio Marchese di Botontano, si vanta che la Famiglia non ricavò alcun beneficio dall’ascesa al soglio pontificio del loro Avo che aveva scritto ai suoi parenti : “Nessun posto, nessuna pompa, nessuna elevazione!

Pio VIII morì a Roma il 30 novembre 1830 e sepolto in San Pietro dopo 20 mesi di pontificato.
Durante tutte le fasi della sua carriera ecclesiastica Francesco Saverio Castiglioni elargì dei preziosi e significativi doni al Capitolo della Cattedrale Cingolana che saranno esposti durante le prossime celebrazioni in suo onore.

Il gesto più prestigioso che Papa Pio VIII destinò alla sua città natale è il dono della Rosa d’Oro: un’antica consuetudine , riservata al Papa , mai caduta in disuso, che si inquadrava nella liturgia stazionale romana.
Anticamente il Papa benediva la rosa d'oro durante la statio della domenica detta di Laetare la IV di Quaresima, che si teneva a Santa Croce in Gerusalemme. Dopo la cattività avignonese la Rosa d’oro venne benedetta nel palazzo lateranense e successivamente in Vaticano con un cerimoniale che è rimasto immutato fino al secolo scorso. Il Papa nella quarta domenica di Quaresima, nella quale si canta Laetare Jerusalem, benedice la rosa d'oro, destinata poi a essere donata dallo stesso Pontefice, immediatamente dopo la celebrazione della messa, a un principe, se presente al sacro rito, o a essere inviata a qualche personalità o istituzione.

La Rosa d'Oro destinata alla Città e Diocesi di Cingoli fu consegnata il 21 marzo 1830, IV domenica di Quaresima, da monsignor Filippo Appignanesi, su incarico dello stesso Pio VIII, che volle accludere una sua lettera in cui spiegava il significato che intendeva dare a questo oggetto "Simbolo di Cristo Re dei Re, e Signore dei dominanti" e con le indicazioni per la consegna della rosa d'oro che avrebbe dovuta essere custodita nel monastero di Santa Caterina. ( Monastero cistercense fra i più importanti d’Italia, purtroppo è stato soppresso dallo stato unitario 150 anni fa e trasformato in Ospedale, il prezioso archivio rimasto è oggetto di studi e pubblicazioni).
Le Marche potevano vantare tre Rose d’Oro consegnate a Loreto, Urbino e Cingoli.

La Rosa d’Oro di Urbino fu consegnata ai francesi invasori dall’Arcivescovo
filo-napoleonico Mons. Spiridione Berioli nonostante le proteste spontanee dei fedeli e del Clero che volle rispondere fieramente alla linea conciliante dell’Arcivescovo verso gli invasori con l'assoluta intransigenza. Il Capitolo Metropolitano non volle assistere alla messa in suffragio del Ministro del Culto Giovanni Bovara.
Per questo tutti i dodici Canonici furono esiliati ad Ancona per 234 giorni.
L'Arcivescovo Berioli, ai cui Pio VII donò il perdono, dovette fare, per penitenza pubblica: ogni giorno, fino alla morte, dovette servire, come un semplice sagrestano, tutte le Messe che si celebravano nel Duomo di Urbino.
Ritorniamo alla bellissima Rosa d’Oro di Cingoli che è costituita “ ...da un cespo di rose, montato su un vaso, foggiato ad anfora, e su un basamento a sezione triangolare. Il tutto poggia, mediante tre piedini a disco, su un gradino liscio, che funge da supporto al basamento. Questo elemento in bronzo dorato presenta tre zampe leonine desinenti a voluta fogliacea alla base, spigoli smussati percorsi da festoni, e le raffigurazioni delle Virtù teologali, Fede, Speranza e Carità sulle tre facce. Dal bordo superiore del basamento, caratterizzato negli smussi angolari da tre teste di caprone, si diparte poi un ulteriore piedistallo su cui poggia un vaso, finemente decorato nella parte inferiore da un cespo di foglie d'acanto e, nel corpo centrale, da una cornice a girali e da festoni fogliacci pendenti da due protomi leonine. Dalla bocca del vaso, adorna tutt'intorno di palmette stilizzate, esce il cespo di rose. I fiori sono imitati con perfetta verosimiglianza, tutti in oro laminato sottile, con le foglie assai fitte. Le rose sono tredici: quella alla sommità ha una teca interna chiusa da un piccolo coperchio bucherellato che serviva per sprigionare profumi, le altre dodici, uguali, sono più piccole. Pare volessero significare Cristo e gli apostoli. Sulle foglie del cespo di rose si rilevano due bolli a garanzia della bontà superiore dell'oro a ventidue carati. La presenza di questi bolli non è usuale, visto che di regola non venivano mai bollate le oreficerie di provenienza papale. Quanto all'autore del raffinatissimo oggetto, data la mancanza di marchi personali, non è possibile avere certezze. Andrà comunque ricercato nell'ambito degli orafi ufficiali della corte pontificia, a cui venivano tradizionalmente affidati gli incarichi per l'esecuzione di queste particolarissime onorificenze. Comunque è logico supporre che anche questo spettacolare oggetto sia stato realizzato nella bottega orafa di Giuseppe e Pietro Paolo Spagna, a cui Pio VIII come s'è visto, era solito rivolgersi per commissionare le preziose suppellettili sacre.” Gabriele Barucca, Il Tesoro della Concattedrale di Cingoli e i doni di Pio VIII. Le Cattedrali, Macerata Tolentino Recanati Cingoli Treia, Fondazione Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata, 2010.
Fino a qualche decennio fa la Rosa d’Oro veniva custodita a turno dai Canonici della Cattedrale. Poco prima della Messa Solenne dell’Assunta il Canonico Camerlengo la esponeva in cattedrale con la vigile presenza dei Carabinieri.
Successivamente per motivi di sicurezza ed anche perchè in Canonici son tutti morti le forze dell’ordine hanno preso in custodia il prezioso dono.
Scompare in questo modo l’immagine del Canonico, rivestito di ampio mantello, che riusciva a nascondere dagli occhi, terminata l'ostensione, la valigia che conteneva la Rosa d’Oro.
Diversi miei ex alunni dell’allora Istituto Magistrale mi hanno suggerito di organizzare un pellegrinaggio a Cingoli dei gruppi legati alla Tradizione litugica, recentemente esaltata dal Motu Proprio “Summorum Pontificum” e dall’Istruzione “Universae Ecclesiae”, con alcune tappe “obbligate” : il Santuario di Santa Sperandia, l’Insigne Collegiata di Sant’Esuperanzio Vescovo e la Concettedrale di Santa Maria Assunta.
Sarò lieto, non appena verificata la possibilità di alloggio per tutti, di rivolgere l’invito a tutti i gruppi legati all'antica tradizione liturgica "Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande" ( Benedetto XVI, 7-7-2007) di venire in pellegrinaggio a Cingoli nel ricordo di Pio VIII.
Buona calda giornata a tutti !
Andrea Carradori


Foto : Arredo per l'altare della Cattedrale, attr. scuola degli Spagna ( Roma)

La celebre "Rosa d'Oro" donata nel 1830 a Cingoli

Monumento a Pio VIII nella Cattedrale di Cingoli

Il ritratto di Pio VIII conservato a Palazzo Castiglioni ( Cingoli visitabile su prenotazione )


[Modificato da Caterina63 20/07/2014 14:35]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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20/01/2011 18:45
 
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Le suore della Sacra Famiglia di Nazareth li preparano per la benedizione

Due agnelli in ricordo
del martirio di sant'Agnese


di Nicola Gori

Li lavano, li asciugano, li nutrono, li coccolano, li adornano a festa. A occuparsi dei due agnelli che venerdì 22 gennaio, memoria liturgica di sant'Agnese, verranno presentati al Papa - e la cui lana sarà usata per confezionare i sacri palli - sono le suore della Sacra Famiglia di Nazareth, che da quasi 130 anni svolgono questo singolare e discreto compito. Un incarico che si inserisce nel carisma della congregazione - come ci ha detto la superiora Maria Solecka - quello cioè di vivere secondo lo stile della Sacra Famiglia, nel nascondimento e nel servizio alla Chiesa. Ce ne parla in questa intervista al nostro giornale suor Hanna Pomnianowska, una tra le religiose che vivono da più tempo nella comunità romana dell'Esquilino
.


Da quanti anni vi occupate della preparazione degli agnelli?

Ha cominciato la nostra madre fondatrice, la beata Frances Siedliska nel 1884. A quel tempo, vi erano delle suore di un'altra congregazione che si occupavano della preparazione degli agnelli per la festa di sant'Agnese, ma si trattava di una comunità di religiose ormai anziane. La loro casa confinava con quella che la Siedliska aprì sull'Esquilino, a Roma. Dato che la nostra prima comunità era formata da molte giovani, quelle suore chiesero alla fondatrice se era disposta a prendersi quell'incarico. E lei accettò molto volentieri. Da allora, la tradizione si ripete:  salvo alcuni anni nel periodo della seconda guerra mondiale, abbiamo sempre provveduto a preparare gli agnelli per il rito.

Cosa avviene quando ricevete gli agnelli?

Il 20 gennaio di ogni anno i trappisti delle Tre Fontane ci portano i due agnelli. Appena ricevuti, li portiamo all'ultimo piano della nostra casa, dove abbiamo un grande terrazzo con la lavanderia. Potete immaginare che essi diventano la gioia di tutta la comunità, specialmente delle suore più giovani. La suora incaricata della cura dei due agnelli è Wanda Baran che, da quando è arrivata a Roma negli anni della seconda guerra mondiale, si occupa di loro. In genere è aiutata da altre tre o quattro suore. La prima cosa che facciamo è lavarli. Li mettiamo in un lavatoio e con del sapone per bambini eliminiamo delicatamente lo sporco. In questo modo, facciamo risplendere il bianco della loro lana. Poi li asciughiamo:  una volta si faceva con dei panni ora con il phon. Stiamo molto attente a non lasciare umido il loro manto, perché sono piccoli e potrebbero ammalarsi. Per questo riscaldiamo bene l'ambiente. Dopo l'asciugatura, li mettiamo all'interno di una vasca ricoperta di paglia e chiusa con dei teli, perché non prendano freddo. Diamo loro da mangiare del fieno e a questo punto sono pronti per trascorrere la notte nella lavanderia.

In che modo vengono adornati?

Al mattino successivo, cioè il giorno della festa di sant'Agnese, mettiamo loro una specie di mantello sul dorso. Per un agnello è di colore rosso, in ricordo del martirio della santa, per l'altro è bianco, in ricordo della sua verginità. Sui due mantelli ci sono tre lettere:  da una parte, s.a.v., che sta per sant'Agnese vergine, e dall'altra s.a.m., cioè sant'Agnese martire. Poi intrecciamo due corone di fiori - una di colore rosso e una bianca - e gliele poniamo sul capo. Mettiamo loro anche dei fiocchetti alle orecchie. Dopo questa sorta di vestizione, i due agnelli vengono posti ognuno dentro una cesta. Siamo costretti a legarli per evitare che scappino:  una volta, infatti, ho visto un agnello fare un salto e scappare dall'altare. I due animali sono così pronti per la cerimonia.

Dopo cosa succede?

Verso le nove del mattino vengono da noi alcuni addetti della basilica Lateranense, che portano i due agnelli a Sant'Agnese fuori Le Mura, sulla via Nomentana. Appena giunti, vengono messi sull'altare della santa e benedetti con il tradizionale rito. Terminata la cerimonia nella basilica di Sant'Agnese, alcuni sediari pontifici portano con un furgone i due agnelli nel Palazzo Apostolico, dove vengono presentati al Papa.

Voi siete presenti anche al rito in Vaticano?

Due nostre consorelle, quelle che in genere festeggiano il giubileo di professione religiosa, sono ammesse nella cappella di Urbano VIII del Palazzo Apostolico, alla presenza del Papa, dove assistono personalmente alla cerimonia.

Quali altre attività svolgete in comunità?

Siamo 15 suore nella casa madre di Roma. Abbiamo una scuola materna composta da due classi divise per età. Potete immaginare che l'arrivo degli agnelli diventa una festa per tutti i bambini, ma non solo, perché l'avvenimento è seguito anche dagli abitanti del quartiere. La gente si assiepa intorno alla casa per vedere i due agnelli. Non c'è la folla che accorreva quando sono arrivata qui a Roma, nel 1947, ma si tratta comunque di una tradizione ancora molto sentita.



(©L'Osservatore Romano - 21 gennaio 2010)


                                    


[Modificato da Caterina63 21/01/2011 14:45]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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24/01/2011 13:04
 
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C'E' UNO ZOO IN SAN PIETRO

Sul numero di Panorama in edicola questa settimana, racconto di questo "zoo sacro" che si trova dentro la Basilica di San Pietro.
Lo storico dell'arte
Sandro Barbagallo ha censito tutte le specie animali presenti nelle opere d'arte della Basilica e ha pubblicato un volume "Gli animali nell'arte religiosa. La Basilica di San Pietro in Vaticano". Libreria Editrice Vaticana, 240 pagine, 33 euro.



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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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17/02/2011 12:11
 
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Gli Appartamenti di Giulio III tra nostalgia e mistero


Ne “Le Stanze Nuove del Belvedere nel Palazzo Apostolico Vaticano”


di Sergio Mora

ROMA, mercoledì, 16 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Giulio III, uno dei Papi della Controriforma, decise di ritagliarsi uno spazio di tre stanze all'interno del Palazzo Apostolico del Vaticano, nelle cui pitture si riflettessero la sua nostalgia per il fausto del Rinascimento e il suo rimpianto del braccio armato in favore della Chiesa.

Questi sono alcuni dei punti emersi martedì durante la presentazione del volume della Libreria Editrice Vaticana dal titolo “Le Stanze Nuove del Belvedere nel Palazzo Apostolico Vaticano”.

Le stanze sono state costruite sotto la sovrintendenza di Michelangelo e sono state ridisegnate in seguito sia nell’architettura che nelle decorazioni da Papa Urbano VIII.

Non si conoscono i nomi di tutti gli autori, alcuni dei quali lavoravano a giornata. Tra i più notabili figura il romano Guido Ubaldo Abbatini, prima apprendista nella bottega del Bernini, e poi collaboratore di Giovanni Battista Calandra. Mentre dai pagamenti fatti nel 1637 si risale al fiorentino Simone Lagi e a Marco Tullio Montagna nato a Cori.

L’opera è stata presentata dal prof. Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani, e da mons. Vincenzo Francia, Officiale della Congregazione delle Cause dei Santi e curatore del volume.

Le Stanze Nuove oggi ospitano diversi uffici della Segreteria di Stato vaticana. Per questo, nel corso della presentazione i relatori hanno espresso il desiderio che queste opere possano in futuro essere aperte al pubblico.

“Le Stanze Nuove hanno opere di inestimabile valore, anche se in una città come Roma, accanto a uno splendore come quello della Loggia di Raffaello entrano in un cono d’ombra”, ha detto il direttore dei Musei Vaticani.

Le pitture restituiscono immagini di una Roma antica, con il Castel Sant’Angelo illuminato dalle torce e dai fuochi d’artificio, la Basilica di San Pietro in costruzione senza neanche la facciata conclusa, così come si presentava quando morì Michelangelo, o senza la cupola ma con i campanili oggi non più esistenti, o con il cupolone ma senza il colonnato del Bernini.

Altri quadri rappresentano figure così come volevano essere immaginate, e quindi vediamo Carlo Magno nell'anno '800 che fa il suo ingresso a Roma assieme al Papa Leone III, mentre sullo sfondo si vede la Basilica di San Pietro con il cupolone (concluso nel 1602).

La presentazione coordinata dalla Presidente dell’Associazione Internazionale dei Critici Letterari, Neria De Giovanni, è stata accompagnata da una proiezione delle opere esistenti nelle stanze e commentate da mons. Francia.

Il volume contiene studi inediti di quattro giovani studiosi: Flaminia Enea, Alessandro Lusana, Patrizia Papini e Antonio Cataldi.




Un convegno storico e il rilancio del gruppo giovani

Quarant'anni dell'Associazione
Santi Pietro e Paolo



Due iniziative caratterizzano la fase iniziale delle celebrazioni per il quarantennale dell'Associazione Santi Pietro e Paolo: un colloquio storico che si terrà sabato prossimo, 19 febbraio, e il ritorno del gruppo allievi che - come fu già per la Guardia palatina d'onore - cura la formazione delle giovani generazioni, in particolare i ragazzi dai 15 ai 18 anni di età.

"Fedeltà palatina da Pio IX a Benedetto XVI" è il tema dell'incontro che si svolgerà sabato mattina, con inizio alle ore 10.30, nell'Aula vecchia del Sinodo. Dopo i saluti del presidente Calvino Gasparini, interverranno l'arcivescovo Antonio Guido Filipazzi, nunzio apostolico, che tratterà "Dallo Stato Pontificio alla Città del Vaticano", il sacerdote Roberto Regoli, docente alla Pontificia Università Gregoriana, che parlerà su "La Santa Sede in epoca contemporanea", e il professor Antonio Martini, della Fondazione Marco Besso, che approfondirà l'argomento "Dalla Guardia palatina d'onore all'Associazione Santi Pietro e Paolo". Modererà il dibattito il direttore del nostro giornale.

L'avvenimento culturale è stato preceduto dalla rinascita del gruppo giovanile, fortemente voluto dall'assistente spirituale, monsignor Joseph Murphy. Ricevuta l'approvazione del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, il quale ha anche suggerito modifiche allo statuto e al progetto formativo, il gruppo è stato intitolato al beato Pier Giorgio Frassati, il giovane torinese modello di impegno cristiano.

La sezione allievi - di cui è stato nominato supervisore Eugenio Cecchini - offre ai ragazzi una formazione umana integrale, curando l'aspetto religioso e spirituale, e fornendo anche preparazione culturale, musicale, caritativa e sportiva. Tra l'altro i primi allievi hanno partecipato a un corso per diventare arbitri di calcio.
Dal 1970 - quando con lo scioglimento della Guardia palatina ebbe termine anche l'esperienza del gruppo allievi - è la prima volta che in Vaticano c'è una realtà formativa e ricreativa dedicata ai ragazzi. Infatti - a eccezione del preseminario San Pio X, che ha comunque una propria connotazione specifica - non esisteva qualcosa di simile per i figli dei dipendenti vaticani. Il gruppo allievi è nato dunque anche per colmare questa "lacuna".

Partito quest'anno ad experimentum con cinque ragazzi, avrà dal prossimo settembre venti allievi per anno, per tre anni di formazione con un numero di sessanta giovani a regime. Possono diventare allievi - con tanto di uniforme - non solo figli e nipoti dei soci del sodalizio, ma tutti i figli dei dipendenti dell'amministrazione dello Stato della Città del Vaticano che ne faranno domanda. Il cardinale Angelo Comastri, responsabile pastorale della Città del Vaticano, e Saverio Petrillo, decano dei direttori del Governatorato, si sono già detti entusiasti dell'iniziativa.



(©L'Osservatore Romano - 18 febbraio 2011)

                                                
cittadinanza, residenza e accesso città del vaticano
 
CITTA' DEL VATICANO, 1 MAR. 2011 (VIS). Il 22 febbraio scorso, festa della Cattedra dei San Pietro Apostolo, il Santo Padre Benedetto XVI ha promulgato la "Legge sulla cittadinanza, la residenza e l'accesso" alla Città del Vaticano, legge che entra in vigore oggi, 1 marzo 2011.
 
  La presente normativa sostituisce la precedente "Legge sulla cittadinanza e permanenza" del 1929, anno in cui furono firmati i Patti Lateranensi.
 
  Il capitolo 1° della nuova legge definisce il profilo del cittadino dello Stato della Città del Vaticano; nel capitolo II, l'articolo 6 regola la condizione di residente e le relative autorizzazioni per risiedere nello Stato; nel capitolo III, l'articolo 9 ha per oggetto il titolo di accesso, cioè il permesso di cui deve munirsi chi, non essendo cittadino o residente, ha qualche motivo per accedere alla Città del Vaticano; il capitolo IV riguarda gli alloggi e le sanzioni da applicare in caso di violazione delle disposizioni della legge.



Promulgata da Benedetto XVI lo scorso 22 febbraio

Nuova legge su cittadinanza residenza e accesso in Vaticano


di GIORGIO CORBELLINI

Vescovo titolare di Abula
Vice segretario generale del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano

Il 22 febbraio del corrente anno 2011, giorno della festa della Cattedra di San Pietro, il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha promulgato la legge sulla cittadinanza, la residenza e l'accesso, n. CCXXXI, disponendone l'entrata in vigore il successivo 1° marzo.
Attesa l'importanza, soprattutto pratica, della nuova legge, sembra opportuno ricordare l'iter di elaborazione del testo, ed offrire qualche considerazione sui contenuti del testo medesimo.

Il 26 novembre 2000 ed il 1° ottobre 2008 furono promulgate, rispettivamente da Giovanni Paolo II e dall'attuale Sommo Pontefice, la nuova legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano e la nuova legge sulle fonti del diritto, in sostituzione delle precedenti omonime leggi, entrambe in data 7 giugno 1929. Dopo l'emanazione di tali importanti disposizioni, è sembrato importante procedere anche alla revisione della legge sulla cittadinanza e il soggiorno, 7 giugno 1929, n. III.

A nessuno sfugge l'opportunità di adeguare le leggi vaticane all'attuale situazione, tenendo conto dei profondi mutamenti che si sono verificati dal 1929 ad oggi; in tal senso, va ricordata anche la legge sul governo dello Stato della Città del Vaticano, che è stata emanata il 16 luglio 2002.
La legge sulla cittadinanza e il soggiorno del 7 giugno 1929 risultava ampiamente superata sotto molti aspetti.

Era intervenuta, ad esempio, una disposizione di Pio XII, del 6 luglio 1940, ai sensi della quale al personale delle rappresentanze pontificie (nunziature, internunziature, delegazioni apostoliche) era conferita durante munere la cittadinanza vaticana. In tale materia, la condizione delle persone di cittadinanza italiana facenti parte delle suddette rappresentanze aveva costituito l'oggetto di uno scambio di note tra la Santa Sede e l'Italia, in date 23 luglio/17 agosto 1940.

Anche per l'accesso e il soggiorno e per l'accesso con veicoli (capitoli II e III) le situazioni si presentavano profondamente cambiate, soprattutto a livello pratico.
Pertanto, il Santo Padre Benedetto XVI ha deciso l'istituzione di una commissione, incaricata di preparare il progetto della nuova legge.
Chi scrive queste righe è stato chiamato a presiedere la commissione, della quale hanno fatto parte i monsignori Ettore Balestrero e Sergio Felice Aumenta, e i signori Claudio Ceresa, Vincenzo Mauriello, Carlo Carrieri, Raffele Ottaviano e Costanzo Alessandrini. Monsignor Balestrero, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati, è subentrato al suo predecessore in tale carica, Monsignor Pietro Parolin, che è stato nominato nunzio apostolico in Venezuela.

La commissione iniziò i lavori il 23 aprile 2009; il successivo 1° luglio, dopo quattro adunanze plenarie e cinque riunioni di un gruppo ristretto, costituito all'interno della commissione medesima, risultò elaborata una prima bozza dell'intero testo normativo.
La bozza fu sottoposta all'esame di esperti in materie giuridiche, che fecero pervenire i loro suggerimenti; nell'ottobre 2009 furono ripresi i lavori, e, dopo nove riunioni plenarie, risultò elaborato il progetto definitivo, che fu trasmesso il 16 giugno 2010 al cardinale segretario di Stato. Tale testo è stato approvato dal Santo Padre.

Sembra ora opportuno sottolineare alcuni dati relativi al contenuto della nuova disposizione.
Anzitutto, il titolo è Legge sulla cittadinanza, la residenza e l'accesso, mentre quello del testo normativo del 1929 era Legge sulla cittadinanza e il soggiorno.
Deve essere rilevato, al riguardo, che la figura del "residente" ha acquistato importanza sempre maggiore nella realtà vaticana; nel corso degli anni, molte persone abitanti nello Stato hanno preferito, pur avendone i requisiti, non assumere la condizione di cittadino, che, nella legge del 1929, era considerata la situazione normale di quanti vivevano nella Città del Vaticano.

Nel preambolo, è sottolineato che la nuova legge viene ad inserirsi nell'adeguamento normativo che è attualmente in corso di elaborazione; sono ricordate, in tal senso, la legge fondamentale e la legge sulle fonti del diritto, e viene richiamata la particolare natura dello Stato e della realtà di fatto ivi esistente. La precedente legge era suddivisa in tre capitoli, ai quali si aggiungeva la rubrica Disposizioni generali e transitorie; nel complesso, gli articoli erano in numero di 33.

La nuova legge è suddivisa in quattro capitoli, dedicati, rispettivamente, a Cittadinanza (artt. 1-5); Residenza (artt. 6-8); Accesso alla Città del Vaticano (artt. 9-13); Disposizioni generali (artt. 14-16). Gli articoli sono dunque soltanto 16, e, in effetti, il testo ha subito una notevole semplificazione; in alcuni casi, la legge opera un rinvio a determinazioni lasciate all'attività regolamentare. Del resto, anche la nuova legge sulle fonti del diritto è composta di 13 articoli, mentre la precedente ne comprendeva 25. A seguito della citata disposizione di Pio XII del 6 luglio 1940 e dello scambio di note del 23 luglio - 17 agosto 1940 è stata prevista, nella nuova legge, l'attribuzione della cittadinanza vaticana al personale diplomatico della Santa Sede.

Nel capitolo I, all'art. 1 (Acquisto della cittadinanza) viene precisato che sono cittadini dello Stato della Città del Vaticano i cardinali residenti nella Città del Vaticano o in Roma; viene così inserita nella legge una disposizione prevista nell'art. 21 del Trattato Lateranense. Sono anche cittadini vaticani, come già si è accennato, i diplomatici della Santa Sede, e coloro che risiedono nella Città del Vaticano in quanto vi sono tenuti in ragione della carica o del servizio.
L'articolo indica poi quali persone, pur non essendo cittadini di diritto, possono chiedere la cittadinanza vaticana; si tratta, in ogni caso, di persone residenti nello Stato.
Gli artt. 2 e 3 sono dedicati all'autorizzazione a risiedere ed alla perdita della cittadinanza; il 4 e 5 regolano la tenuta del registro dei cittadini ed il rilascio della carta d'identità.

Nel capitolo II, l'art. 6 regola la condizione di residente, e le relative autorizzazioni; gli artt. 7 e 8 sono relativi a due argomenti che riguardano i residenti non cittadini: il registro di anagrafe ed il rilascio della tessera di riconoscimento.
Nel capitolo III, l'art. 9 ha per oggetto il titolo di accesso, cioè il permesso di cui deve munirsi chi, non essendo cittadino o residente, ha qualche motivo per accedere alla Città del Vaticano. Nella parte iniziale dell'articolo, è ricordato che esiste una parte del territorio vaticano nella quale è consentito il libero accesso. In concreto, la piazza San Pietro, parte integrante del territorio dello Stato, è ordinariamente accessibile a tutti, senza alcuna formalità, non diversamente da qualsiasi piazza di Roma.

Discorso analogo deve farsi per la basilica di San Pietro, anche se, dopo l'acuirsi dei pericoli del terrorismo internazionale, la prudenza esige una serie di controlli, prima non praticati. Anche l'accesso ai Musei Vaticani non comporta formalità diverse da quelle esistenti per gli altri musei; ampi spazi del territorio vaticano, quindi, sono accessibili senza speciali autorizzazioni.

I successivi articoli sono dedicati alle tessere di accesso e permessi permanenti (art. 10), ai soggetti non tenuti al permesso (art. 11) ed al divieto di accesso in presenza di giusti motivi (art. 12); il divieto temporaneo di accesso può essere disposto per decreto del Giudice Unico, come si evince dal richiamo alla legge 14 dicembre 1994, n. CCXXVII, con la quale si è proceduto a semplificare la legislazione penale. Ai sensi dell'art. 13, i veicoli condotti da chi non è cittadino o residente possono entrare nella Città del Vaticano previa autorizzazione, la circolazione dei veicoli all'interno dello Stato è disciplinata da apposita normativa.
Nel capitolo IV, gli artt. 14 e 15 riguardano gli alloggi. L'art. 16, relativo alle sanzioni da applicare in caso di violazione delle disposizioni della legge che stiamo esaminando, si limita ad indicare che tali sanzioni sono stabilite con legge o regolamento.

Come sempre, il sistema migliore per conoscere in modo adeguato la nuova disposizione è quello della lettura diretta e attenta; le considerazioni qui formulate hanno voluto offrire uno sguardo d'insieme, ma non danno certo la possibilità di una conoscenza completa del provvedimento normativo Ci si augura, comunque, che queste brevi note abbiano permesso di cogliere i contenuti essenziali del testo, e la sua rispondenza alle situazioni ed alle esigenze relative alle materie che in esso sono disciplinate.

(L'Osservatore Romano - 2 marzo 2011)


[Modificato da Caterina63 01/03/2011 18:17]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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            Pope Benedict XVI walks in a procession from Sant'Anselmo basilica to Santa Sabina basilica before leading the Ash Wednesday service on March 9, 2011 in Rome. Ash Wednesday opens the liturgical 40 day period of Lent.ROME, ITALY - MARCH 9: Pope Benedict XVI leads the Ash Wednesday service at the Santa Sabina Basilica on March 9, 2011 in Rome, Italy. Ash Wednesday opens the liturgical 40-day period of Lent, a period of prayer, fasting, penitence and alms giving leading up to Easter.


Esercizi spirituali in Vaticano

Un percorso iniziato nel 1925

Nel 1983 li guidò Ratzinger

L’ istituzione degli esercizi spirituali in Vaticano per il Papa e i suoi più stretti collaboratori risale al 1925 con Pio XI, che poi nel 1929, con l’enciclica Mens nostra, stabilisce si svolgano puntualmente ogni anno. Si tratta di un appuntamento inizialmente fissato nel periodo dell’Avvento ma che, dal 1964, viene spostato nella prima settimana di Quaresima. I predicatori chiamati a guidarli con Pio XI sono soprattutto gesuiti, ma anche oblati di Rho, cappuccini e redentoristi.

Pio XII sceglie di nominare solo padri gesuiti con l’eccezione del 1941.
Giovanni XXIII sceglie un gesuita, il vescovo Angrisani, il parroco romano Scavizzi e il predicatore apostolico padre Ilarino.
Paolo VI inaugura le sue scelte – nel 1964 – con il redentorista tedesco Häring, rompendo così la consuetudine che aveva visto finora nell’elenco solo ecclesiastici italiani.
Il primo cardinale chiamato a predicare gli esercizi è stato Karol Wojtyla nel 1976, due anni prima di diventare Giovanni Paolo II. Non pochi hanno ricevuto la porpora dopo aver predicato (ricordando solo i viventi: Martini, Cottier, Tonini, Medina Estevez, Schoenborn, Comastri).
 
Benedetto XVI nei primi anni di pontificato ha scelto cardinali, per così dire, a «fine carriera» (Cè, Biffi, Vanhoye e Arinze). Lo scorso anno, in occasione dell’Anno Sacerdotale, è stato nominato un prete, il salesiano don Enrico dal Covolo, che nel frattempo è diventato vescovo dopo essere nominato rettore della Pontificia Università Lateranense.
Quest’anno è toccato al carmelitano scalzo Francois-Marie Lethel.

Una curiosità riguardante l’attuale Pontefice. In una
intervista concessa al mensile 30 Giorni da cardinale ha rivelato che alcuni anni prima della sua nomina ad arcivescovo di Monaco del 1977, «forse nel 1975», Paolo VI lo «aveva invitato a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano».
«Ma – aggiunge Ratzinger – non mi sentivo sufficientemente sicuro né del mio italiano né del mio francese per preparare e osare una tale avventura e così avevo detto di no». Ma fu un «no» provvisorio. Nel 1983 dopo essere stato chiamato a Roma da Giovanni Paolo II il cardinale Ratzinger viene chiamato a predicare gli esercizi. E accetta. 

Avvenire, 12 marzo 2011


SI LEGGA ANCHE:

Mens Nostra Lettera Enciclica di Pio XI sull'importanza degli ESERCIZI SPIRITUALI

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A colloquio con il vescovo Vittorio Lanzani, delegato della Fabbrica

Gli operai di San Pietro


di NICOLA GORI

I "sanpietrini". Un nome, una professione. Fuori Roma in molti si domanderanno chi sono: pochissimi, li conoscono. Ma nella Città eterna di loro si sente parlare sin dal Settecento. In Vaticano sono di casa. Falegnami, muratori, fabbri, stuccatori, verniciatori, idraulici, elettricisti, marmisti, decoratori, pontaroli, addetti alla sorveglianza: una piccola truppa di un'ottantina di operai specializzati che hanno il compito di mantenere intatto lo splendore della basilica Vaticana. Ecco, sono loro, i "sanpietrini", inseriti in quella realtà altrettanto famosa - almeno nei confini romani - che si chiama Fabbrica di San Pietro. Si occupano quotidianamente di tutto quanto è necessario per rendere agevole e perfettamente fruibile la visita di quanti, per devozione o per semplice curiosità turistica, si avvicinano alla tomba di Pietro. Abbiamo chiesto al vescovo Vittorio Lanzani, delegato della Fabbrica di San Pietro, di spiegarci l'attività dei sanpietrini e di condurci alla scoperta della Fabbrica.

Come mai è stato mantenuto il nome di "Fabbrica di San Pietro" nonostante siano passati più di cinquecento anni dalla posa della prima pietra della basilica?

È l'istituzione che storicamente si è occupata della ricostruzione prima, e della conservazione poi, della grande basilica di San Pietro. Le sue origini risalgono al 18 aprile del 1506, quando Giulio II Della Rovere pose la prima pietra per la riedificazione del "nuovo tempio Vaticano", nel luogo dell'attuale pilone di Santa Veronica, che all'epoca si trovava all'esterno dell'antica basilica, quella edificata dall'imperatore Costantino sulla sepoltura del principe degli apostoli. La nuova basilica - consacrata il 18 novembre 1626 - è il risultato di una lunga e complessa vicenda costruttiva, alimentata dai sentimenti di profonda devozione che in ogni epoca ispirarono l'opera dei successori dell'apostolo. Ancora oggi la Fabbrica di San Pietro continua a provvedere, autonomamente, alla conservazione e alla manutenzione del più grande tempio della cristianità.

Chi sono i sanpietrini?

In ogni angolo di San Pietro e dietro ogni opera d'arte si nasconde l'impegno di tutto il personale della Fabbrica e delle maestranze conosciute con il nome di sanpietrini: uomini che con il loro quotidiano lavoro rendono possibile la visita e, in un certo modo, la vita della Basilica, le cui straordinarie dimensioni - oltre 20.000 metri quadrati di superficie coperta - e l'incessante afflusso quotidiano di fedeli e visitatori provenienti da ogni parte del mondo, richiedono premurose attenzioni e costanti lavori di manutenzione di ogni tipo. A questo provvedono i sanpietrini. Non va inoltre dimenticata la loro azione di oculata custodia e attenta sorveglianza per il rispetto del luogo sacro e delle opere d'arte. In questo sono affiancati dagli ispettori della Fabbrica di San Pietro, dai volontari dell'Associazione dei Santi Pietro e Paolo e da giovani studenti ausiliari, chiamati saltuariamente a collaborare con il personale della Fabbrica al servizio d'ordine in basilica. Fanno capo all'Ufficio tecnico della Fabbrica. Un architetto - coadiuvato per i sopralluoghi, le verifiche e le relazioni tecniche da un geometra - si occupa tra l'altro di quanto attiene la sicurezza sul lavoro, secondo le normative vigenti in Vaticano. Vi è poi un soprastante, che, in collaborazione con l'architetto e il geometra, coordina e assiste concretamente le attività dei sanpietrini. Qualsiasi lavoro nella basilica - dalle opere di ordinaria manutenzione ai restauri affidati a personale esterno specializzato - viene seguito in ogni sua fase dai superiori della Fabbrica di San Pietro, che, in periodiche riunioni settimanali, valutano con il capo ufficio, il personale dell'Ufficio tecnico e il soprastante dei sanpietrini le problematiche dei lavori in corso d'opera e da eseguire. Di ogni lavoro un incaricato della Fabbrica provvede alla realizzazione della necessaria documentazione fotografica.

Quali sono le origini dei sanpietrini e chi fu il fondatore?

La formazione del gruppo dei sanpietrini risale agli inizi del Settecento, quando la Fabbrica si trovò a dover rispondere con sollecitudine alle esigenze pratiche di una basilica, che, oltre ai sempre più impegnativi lavori di manutenzione, si arricchiva di nuovi monumenti e decorazioni. Fu Nicola Zabaglia, manovale con innate capacità tecniche, a costituire, di fatto, l'elemento galvanizzante per la costituzione del gruppo dei sanpietrini. Zabaglia e gli altri manovali al servizio della Fabbrica diedero avvio a nuove sperimentazioni e realizzazioni: vennero allora ideati e costruiti arditi e ingegnosi ponteggi per lavorare celermente e in sicurezza. La straordinaria inventiva e le non comuni capacità organizzative di Nicola Zabaglia destarono l'ammirazione dei contemporanei e il ricordo dei posteri: le sue opere sono commentate e illustrate nel grande volume Castelli e Ponti di Maestro Niccola Zabaglia, edito a Roma nel 1743 e ristampato nel 1824. In tale contesto Zabaglia riuscì a scuotere gli altri manovali della Fabbrica, infondendo in loro l'orgoglio di lavorare in un luogo ineguagliabile e favorendo la costituzione di uno spirito di corpo. Segnale evidente di un desiderio di distinzione e di un chiaro sentimento di appartenenza, fu la richiesta nel 1757, da parte di tutti i manovali della Fabbrica, di ottenere una divisa che li differenziasse dai pellegrini e li facesse riconoscere come preposti alla cura della basilica. Ed è proprio in questo momento che le maestranze al servizio della Fabbrica di San Pietro, fino ad allora indicate con il termine generico di manuali, assunsero il titolo di sanpietrini. Il senso di appartenenza a una istituzione simile a una grande famiglia, che ha saputo tramandare alle nuove generazioni l'esperienza maturata in cinque secoli di continui lavori, si coglie in particolare nel fiero e commosso ricordo di alcuni sanpietrini, ora in pensione, che hanno partecipato all'illuminazione della basilica. Si calarono dai costoloni della cupola e dagli aggetti architettonici della facciata per posizionare prima e accendere poi, simultaneamente, migliaia di fiaccole mentre le campane di San Pietro suonavano a distesa.

Se dovesse citare una mansione particolarmente delicata che essi svolgono, su quale si soffermerebbe?

La cura della basilica è continua e comunque impegnativa. Ci sono locali, attrezzature, oper d'arte che richiedono una cura tutta particolare, apparecchiature, macchinari che richiedono interventi di precisione: per esempio, quelli che azionano il movimento delle campane e degli orologi. E poi ci sono le grandi celebrazioni da preparare, come la Pasqua, il Natale del Signore, la festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Tra i lavori più impegnativi e appariscenti, condotti negli ultimi anni dai sanpietrini, si ricorda la collocazione delle grandi statue di santi fondatori di ordini religiosi sulle nicchie esterne della basilica. Infine, non di rado ci si imbatte in sanpietrini intenti alla preparazione degli altari - collocazione di artistici paliotti, trasporto e posizionamento dei candelieri - o a portare enormi e pregevoli tappeti per l'ornamento della Confessione, o a collocare più di cento candele di cera sul monumento del Bernini per la Cattedra di San Pietro nella ricorrenza liturgica del Natale Petri de cathedra, il 22 febbraio. Un altro compito affidato ai sanpietrini è la preparazione della basilica per le beatificazioni e le canonizzazioni: in occasione di queste cerimonie, i sanpietrini trasportano e collocano sulle logge della facciata gli arazzi con le immagini dei servi di Dio che saranno proclamati beati e santi di fronte alla moltitudine dei fedeli raccolta in Piazza San Pietro. E poi sono tra i primi a entrare nella basilica e tra gli ultimi a uscire. Provvedono infatti ad aprire le porte di San Pietro al mattino e a chiuderle la sera, dopo aver effettuato - in collaborazione con la Gendarmeria vaticana - un'accurata ispezione a cominciare dalla cupola fino alle Grotte Vaticane e alla necropoli.

La Basilica è un cantiere in continua attività. Quali sono attualmente le opere di restauro?

Nel linguaggio di ogni giorno per indicare un lavoro che sembra non avere mai termine si usa, soprattutto a Roma, l'espressione "Fabbrica di San Pietro". Il confronto è certamente appropriato perché nella basilica Vaticana i lavori non finiscono mai a causa della vita stessa della basilica, delle straordinarie dimensioni dell'edificio e delle opere d'arte in esso presenti: statue, mosaici, stucchi, affreschi, dipinti su tela e su tavola, sculture in bronzo e marmoree, opere in legno, tessuti, documenti cartacei. Così ai lavori e alle opere di ordinaria e straordinaria manutenzione, si aggiunge la predisposizione di sofisticati sistemi di controllo e verifica ambientale, statica e microclimatica che richiedono l'intervento di diverse figure professionali, chiamate, di volta in volta, a collaborare con la Fabbrica di San Pietro. Similmente per le diverse opere di restauro ci si avvale del parere di qualificati consulenti e di personale esterno altamente specializzato e di comprovata esperienza. Così in questo periodo, sotto la direzione tecnica e scientifica della Fabbrica di San Pietro, una squadra di restauratori con specifiche competenze nel restauro di superfici lapidee, è impegnata nella delicata pulitura di un settore del prospetto esterno sud della basilica, oltre 4.000 metri quadri. Contemporaneamente altre persone, altamente specializzate in interventi conservativi in ambiente ipogeo, procedono con la paziente opera di restauro delle decorazioni pittoriche del mausoleo Phi nella necropoli romana, sotto il pavimento delle sacre Grotte, mentre, in basilica, altri validi restauratori intervengono sul celebre monumento funebre in bronzo di Innocenzo VIII. Vanno infine ricordati i restauri di singole opere d'arte custodite in vari locali della basilica Vaticana, opere che sempre più spesso vengono presentate in mostre internazionali alle quali la Fabbrica di San Pietro partecipa volentieri offrendo il necessario sostegno scientifico, al fine di condividere con un più vasto pubblico la fruizione di beni storici e artistici altrimenti difficilmente accessibili.

Sono possibili visite alla necropoli, alle grotte e alla cupola?

La Fabbrica di San Pietro provvede con un proprio Ufficio scavi e con il personale in esso impiegato, alla gestione e alla organizzazione di visite guidate nella necropoli romana esistente sotto il pavimento delle Grotte Vaticane, in corrispondenza della navata centrale della basilica. Sono più di 200 le persone che giornalmente accedono agli scavi vaticani, suddivise in gruppi di circa 12 visitatori, che, accompagnati da guide specializzate, risalgono l'antico sentiero del Colle Vaticano per giungere alla venerata sepoltura di San Pietro. La visita agli scavi si conclude nelle Grotte, dove ogni giorno, dall'anno 2005, transitano migliaia di fedeli per sostare in preghiera davanti alla tomba di Giovanni Paolo II. Il personale della Fabbrica di San Pietro provvede inoltre all'organizzazione delle visite alla cupola Vaticana, alla quale accedono ogni anno migliaia di persone.

Che ruolo svolge l'Archivio Storico Generale?

Si tratta di uno dei luoghi più importanti e suggestivi della Fabbrica di San Pietro. Custodisce la memoria storica della ricostruzione della nuova basilica Vaticana, dai primi anni del XVI secolo fino ai giorni nostri. Qui le firme del Sangallo, di Michelangelo, di Bernini, di Maderno, di Vanvitelli - solo per citare i nomi più illustri - si alternano a quelle di tutte quelle persone dimenticate dalla grande storia, ma che hanno dedicato la loro vita alla ricostruzione, decorazione e manutenzione del più grande tempio della cristianità. L'archivio è composto da circa 9.000 unità archivistiche distribuite in 100 armadi e dispone di vari strumenti di ricerca. Il personale si occupa dello studio, della catalogazione e conservazione dei preziosi documenti in esso custoditi. Svolge inoltre, per l'Ufficio tecnico e scientifico della medesima Fabbrica, le necessarie ricerche archivistiche preliminari a ogni intervento di restauro su monumenti e opere d'arte della basilica. Fornisce infine il necessario sostegno per le ricerche condotte da studiosi provenienti da ogni parte del mondo su diversi aspetti legati alla storia della basilica petriana.

Anche lo Studio del Mosaico Vaticano fa parte della Fabbrica?

È annesso alla Fabbrica di San Pietro e risale alla seconda metà del 1500, al tempo del pontificato di Gregorio XIII, che per primo diede il via alla decorazione musiva della basilica di San Pietro. L'origine e il carattere dello Studio derivarono dall'esigenza di provvedere appunto alla decorazione musiva del massimo tempio della cristianità e, successivamente, alla conservazione dei mosaici ivi realizzati. Configurato ufficialmente nel 1727, continua ancora oggi la cura dell'apparato iconografico e ornamentale della basilica Vaticana. Attualmente il suo compito non è solo quello di conservare e restaurare il patrimonio musivo della basilica, ma anche quello di creare immagini nuove destinate al servizio del Papa e ad abbellire chiese e altri luoghi. Una caratteristica dello Studio è anche quella di realizzare soggetti di diverso stile figurativo, dall'antichità al moderno, con la prevalenza dei soggetti religiosi che hanno segnato la tradizione cristiana. È presieduto dal delegato della medesima Fabbrica.

La Fabbrica comprende anche una parte amministrativa e altre attività?

La complessità e l'entità dei lavori a cui si è accennato, e la molteplicità delle attività connesse alla vita della basilica, richiedono un'attenta e non facile organizzazione amministrativa per la gestione finanziaria. Altrettanto fondamentale è il ruolo ricoperto dall'Ufficio del personale, che segue l'attività di un organico effettivo di circa centoventi persone. Va poi ricordata la funzione svolta dalla Fabbrica con un proprio incaricato a sostegno dell'attività di ricerca di numerosi studiosi italiani e stranieri, favorendo la realizzazione di materiali illustrativi per pubblicazioni scientifiche, per conferenze e convegni internazionali. Un impiegato della Fabbrica fornisce, in accordo e in collaborazione con il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, il sostegno per la realizzazione di documentari o filmati a tema storico e religioso. La Fabbrica da oltre vent'anni, cura inoltre la pubblicazione di un proprio notiziario mensile dal titolo La Basilica di S. Pietro, per portare, a quanti lo desiderano, l'eco delle attività svolte nella basilica, unitamente a notizie storiche e a riflessioni spirituali sulle diverse opere d'arte e fede in essa custodite. Per quanto riguarda l'aspetto liturgico e devozionale, l'Ufficio delle celebrazioni del Vicariato vaticano presso la Fabbrica coordina le richieste di celebrazioni e di preghiera nella basilica, curando l'accoglienza delle migliaia di fedeli che, sia singolarmente sia in gruppi guidati da vescovi diocesani, parroci e assistenti spirituali, giungono da ogni parte del mondo in devoto pellegrinaggio alla tomba del principe degli apostoli.



(©L'Osservatore Romano 19 marzo 2011)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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04/04/2011 00:34
 
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Un libro di Stefano e Roberto Calvigioni. Sport all'ombra del Cupolone. Il testo della prefazione di Mons. Georg Gänswein (O.R.)

Un libro di Stefano e Roberto Calvigioni

Sport all'ombra del Cupolone

Viene presentato lunedì pomeriggio, 4 aprile, presso la Radio vaticana, il volume di Stefano e Roberto Calvigioni Lo sport in Vaticano (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011, pagine 184, euro 16). Ne pubblichiamo la prefazione scritta dal segretario particolare di Benedetto XVI.

di mons.Georg Gänswein

Il libro Lo sport in Vaticano è un'opera straordinaria e, oserei dire, sensazionale, nella sua unicità. Straordinaria perché, se sono ben informato, è la prima volta che un testo letterario viene dedicato espressamente alla realtà dello sport nel più piccolo Stato del mondo. Unica, perché con la combinazione di testi magisteriali, testimonianze personali, immagini e fotografie, riesce a far immergere il lettore in una realtà ampiamente sconosciuta della vita quotidiana del Vaticano.

Diviso in 10 capitoli, lo scritto riassume, da una parte, una sintesi dell'autorevole voce dei Papi riguardo allo sport e sviluppa, dall'altra, in modo cronologico, il magistero pontificio su questo argomento. Si potrebbe rimanere felicemente sorpresi per quante volte i Romani Pontefici si siano espressi circa lo scopo, la meta, la natura e l'esercizio dello sport. In numerosi messaggi, udienze, discorsi, viene esposta proprio la linea del magistero pontificio relativa a questa materia.

Fu Papa Leone XIII che inserì lo sport tra i nuovi strumenti di comunicazione di massa e i movimenti cattolici italiani dettero vita, nei primi anni del ventesimo secolo, a una propria organizzazione che ebbe in Papa Pio X un convinto assertore ed uno strenuo sostenitore. Il suo discorso ai giovani italiani l'8 ottobre 1905 lo potremmo quasi considerare una magna charta: «... ammiro e benedico di cuore tutti i vostri giochi e passatempi, la ginnastica, il ciclismo, l'alpinismo, la nautica, il podismo, le passeggiate, i concorsi e le accademie, alle quali vi dedicate; perché gli esercizi materiali del corpo influiscono mirabilmente sugli esercizi dello spirito; perché questi trattenimenti richiedono pur lavoro, vi toglieranno dall'ozio che è padre dei vizi; e perché finalmente le stesse gare amichevoli saranno in voi una immagine dell'emulazione dell'esercizio della virtù».

Durante il pontificato successivo di Pio XI, il Papa alpinista e scalatore, furono molti gli incontri del Pontefice con il mondo dello sport. Analogamente si può dire di Papa Pacelli che durante un incontro con gli sportivi romani nel maggio 1945 sottolineava: «Ora qual è, in primo luogo, l'ufficio e lo scopo dello sport, sanamente e cristianamente inteso, se non appunto di coltivare la dignità e l'armonia del corpo umano, di sviluppare la salute, il vigore, l'agilità e la grazia?». Rappresentano un suggestivo ricordo della memoria storica le fotografie di Papa Pio XII con alcuni sportivi, famosi e meno famosi.

Anche i Papi Giovanni XXIII e Paolo VI hanno rivolto la loro voce al mondo dello sport ed hanno incontrato i protagonisti di questa realtà tante volte in Vaticano.
Con Papa Giovanni Paolo II comincia una novità assoluta: il Papa è sportivo nel duplice significato di appassionato e di praticante. Numerose fotografie danno testimonianza visibile di questa nuova realtà. Tutti noi ricordiamo Papa Wojtyła come sciatore.

Il Pontefice ha inoltre incontrato atleti famosi e non famosi, ricchi e poveri, squadre calcistiche, tennisti, nuotatori, ciclisti, organizzazioni e dirigenti sportivi. In uno dei suoi numerosi interventi Papa Wojtyła disse: «La giusta pratica dello sport deve essere accompagnata dalla temperanza e dall'educazione alla rinuncia; con molta frequenza essa richiede altresì un buono spirito di squadra, atteggiamenti di rispetto, apprezzamento delle altrui qualità, onestà nel gioco e umiltà per riconoscere i propri limiti...» (Pentecoste 2004).

Ricordiamo ben 120 discorsi e messaggi di questo Papa sullo sport nel corso del suo lungo pontificato.
Anche l'attuale Papa Benedetto XVI presta molta attenzione ai valori del mondo sportivo. Ricorda che il gioco insegna disciplina e rigore offrendo la possibilità di vincere e di ricevere libertà. Come gioco di squadra poi, porta l'uomo ad una convivenza disciplinata.

In modo dettagliato e metodologico vengono poi descritti i diversi tipi di sport praticati attualmente nella Città del Vaticano: il tiro a volo, il judo, il gioco del calcio, il gioco del tennis e il ciclismo. Nell'ultima parte troviamo delle significative riflessioni sulle prospettive future della pratica sportiva nella città del Vaticano e, infine, preziose osservazioni sui mass media del Vaticano e lo sport.

Mentre vogliamo sottolineare che il libro merita un'attenta ed appassionata lettura, agli autori va riconosciuto il vanto di essersi occupati per primo di un lato del Vaticano finora quasi sconosciuto. Per tal motivo essi meritano una significativa lode, sincero rispetto e riconoscimento per aver dedicato parte del proprio tempo a questa materia interessante ed importante per la vita quotidiana nella Città del Vaticano.

(©L'Osservatore Romano 3 aprile 2011)



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18/04/2011 21:16
 
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L'archeologa Hermine Speier venne chiamata da Pio XI per riordinare l'archivio fotografico dei Musei Vaticani

E nel 1934 il Papa assunse un'ebrea tedesca


È sepolta in quel "nido di rondini all'ombra del Cupolone" che è il Campo Santo Teutonico
di PAOLO VIAN

Su "Il foglio" del 16 aprile Paolo Rodari ha rievocato in un articolo brillante e documentato la figura di Hermine Speier, l'archeologa ebrea tedesca nata nel 1898, a Roma dal 1928, che nel 1934 Pio XI volle introdurre in Vaticano "per riordinare l'archivio fotografico dei nostri musei": quei Musei Vaticani ai quali la Speier avrebbe dedicato il primo volume della fondamentale "Guida alle raccolte pubbliche di arte classica di Roma" (Führer durch die offentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom), da lei curata in quattro volumi fra il 1963 e il 1972 come quarta edizione di una fortunata opera di Wolfgang Helbig (1891, 1899) già rifatta nel 1912-1913 da Walther Amelung, Emil Reisch e Fritz Weege.

Attingendo alla puntuale ricostruzione di Gudrun Sailer, giornalista della sezione tedesca della Radio Vaticana che della Speier ha parlato nel documentario sul "Vaticano segreto" andato in onda domenica sera sul National Geographic Channel, raccogliendo ancora i ricordi di quanti l'hanno conosciuta personalmente (come Oriol Schädel, per molti anni direttore della Libreria Herder a piazza Montecitorio), Rodari delinea un ritratto a tutto tondo di questa "donna piena di vita e insieme di vitalità", figura nuova e atipica in un mondo come quello Vaticano allora chiuso alle presenze femminili.

La Speier ha lasciato un segno nella memorialistica romana del Novecento, dai Römische Memoiren di Ludwig Pollak (Roma, L'Erma di Bretschneider, 1994) alla Storia della mia vita di Hubert Jedin (Brescia, Morcelliana, 1987), il grande storico del concilio di Trento che la conobbe proprio a Roma, ove i suoi amici tedeschi più vicini erano appunto Ludwig Curtius (1874-1954) e la Speier.

Dopo la destituzione dalla direzione dell'Istituto Archeologico Germanico (a causa delle sue relazioni con persone non ariane), "Curtius - ricorda Jedin - era potuto rimanere a Roma come vero ambasciatore dello spirito tedesco più autentico. Hermine Speier, sua ex allieva originaria di Francoforte, era stata licenziata, a causa delle sue origini, dal servizio che svolgeva all'Istituto, dove aveva diretto il dipartimento fotografico, che era straordinariamente ampio. Su raccomandazione di Curtius era stata assunta dal direttore generale dei Musei Vaticani, [Bartolomeo] Nogara, per l'istituzione e la sistemazione di un settore fotografico nei Musei Vaticani, in un primo tempo senza un rapporto di lavoro fisso bensì, come lei stessa raccontava, a "paga giornaliera". Essa ha riordinato in maniera esemplare il caos delle migliaia di fotografie di pezzi di museo, antichi e non antichi, che nel corso di decenni si erano accumulate; era però costretta a procurarsi altro denaro per vivere, impartendo lezioni e leggendo ad alta voce presso lo studioso di storia antica Gaetano De Sanctis, che era diventato cieco. In quegli anni essa fu per me un'amica comprensiva e cara, alla quale potevo confidare ogni mia preoccupazione. Dalla terrazza sopra il suo appartamento, vicino a Sant'Onofrio sul Gianicolo, si godeva una vista meravigliosa sulla città di Roma".

Quando nell'ottobre 1943 la ferocia nazista si accanì contro la comunità ebraica dell'Urbe per Jedin fu un sollievo sapere che la Speier era al sicuro, presso le suore delle Catacombe di Priscilla sulla via Salaria: "aveva provveduto a sistemarla lì il direttore della casa, mons. [Giulio] Belvederi, nipote del cerimoniere pontificio Respighi. Il nascondiglio era estremamente sicuro, poiché in caso di perquisizione lei e gli altri "imboscati" potevano dileguarsi, passando per un accesso segreto nella vicina catacomba, che in questo modo aveva una funzione analoga a quella avuta all'epoca delle persecuzioni dei cristiani".


Ma un momento solenne e indimenticabile si avvicinava. Il 13 dicembre 1944 Curtius compì settant'anni. "Insieme alla signorina Speier - ricorda Jedin -, a [Bruno] Wüstenberg e a [Paul Georg] Berndorff andai da lui già di buon mattino, alle 8; il "circolo delle memorie" (il gruppo di persone al quale egli leggeva a capitoli le sue memorie pubblicate più tardi) gli aveva preparato a mo' di sorpresa un concerto per flauto di Mozart, che lo commosse fino alle lacrime; la musica, disse alla fine, è l'armonia che non si realizza nella natura. Alle 11 lo accompagnai all'udienza del papa, dalla quale uscì molto soddisfatto, dopo circa venti minuti; nel pomeriggio alle 15, il direttore dell'Istituto svedese, [Erik] Sjoqvist, diede in suo onore un ricevimento, al quale parteciparono circa 120 persone di sedici nazioni diverse.

In quell'occasione parlarono il direttore generale dei Musei Vaticani Nogara, il signor [Jean Rodolphe] von Salis per la Croce Rossa, [Paolino] Mingazzini per gli italiani, la signorina Speier a nome dei suoi studenti". E Curtius ringraziò con il motto dei Templari tratto dal salmo 115, "Non nobis", ricordando "tutti coloro ai quali doveva la sua vita spirituale, il suo "essere così". In quell'istante storico la festa di Curtius fu molto più di un omaggio alla singola persona: fu un atto di riconoscimento dello spirito tedesco, al di là di tutte le atrocità compiute da Hitler e dai suoi uomini".
Finita la guerra e terminata la persecuzione, Spinnie - il nomignolo con cui la Speier veniva chiamata dagli amici tedeschi - si converte al cattolicesimo; la famiglia, dispersa fra Inghilterra e Stati Uniti, rompe i rapporti con lei ma nel suo salotto, dove si legge Dante e si discute di Johann Joachim Winckelmann, continua a confluire "il meglio della presenza tedesca a Roma", "notabili, artisti, diplomatici, politici, uomini di varia cultura.

E anche diversi vescovi e cardinali". Un mondo che, implacabilmente assottigliato, l'accompagna nel 1989 alla sua ultima dimora, nel Campo Santo Teutonico, in quel "nido di rondini all'ombra del Cupolone" (come Anton de Waal definiva il Campo Santo Teutonico), ove i Teutones in pace attendono la resurrezione. La storia della Speier può essere letta in modi diversi e sotto molteplici prospettive, come una pagina dell'emigrazione intellettuale ebraica dalla Germania, come un passo saliente nell'affermazione della presenza femminile in Vaticano, come un momento importante in quell'opera di aiuto e sostegno a minoranze perseguitate che la Santa Sede perseguì fra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso (come non ricordare quanto negli stessi anni faceva Giovanni Mercati in Biblioteca Vaticana accogliendo e aiutando, sotto gli occhi e col consenso di Papa Ratti, studiosi ebrei ostracizzati dai loro Paesi?).

Ma la vicenda dell'archeologa appare più in profondità come una parabola ricca di significati: un'ebrea tedesca, studiosa della classicità, trova rifugio nella notte buia della barbarie novecentesca in Vaticano e scopre proprio all'ombra di San Pietro il luogo in cui serbare e testimoniare il senso di quell'umanesimo che è l'eredità più alta dello "spirito tedesco più autentico". Al di là di ogni comoda semplificazione, questo incontro fra umanesimo tedesco, ebraismo e cristianesimo fa riflettere e meditare.



(©L'Osservatore Romano 18-19 aprile 2011)

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23/04/2011 09:08
 
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Tradizione cristiana
e comunicazione


Dimensione centrale nel cristianesimo, la tradizione - termine e concetto teologico non a caso spesso incompreso da prospettive estreme tra loro opposte - include ovviamente anche la trasmissione comunicativa della fede. "Bisogna sapere essere antichi e moderni, parlare secondo la tradizione ma anche conformemente alla nostra sensibilità. Cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?" diceva già nel 1950 monsignor Montini a Jean Guitton.

La riflessione del futuro Paolo VI era in realtà perfettamente in linea con una storia di lunghissimo periodo, che inizia con il proselitismo cristiano dei primi secoli, creativo e sostenuto da una intensa circolazione di testi. Anche da questo punto di vista, insomma, nonostante radicati stereotipi, costantemente la Chiesa si è preoccupata di trasmettere con efficacia la notizia più rivoluzionaria, sintetizzata dall'augurio pasquale dei cristiani orientali: "Cristo è risorto. Sì, è davvero risorto".

Di fronte alla modernità comunicativa la Chiesa di Roma e i Papi si sono dimostrati all'avanguardia.
 
Dall'intervista di Leone XIII pubblicata in prima pagina su "Le Figaro" del 4 agosto 1892 - la prima di un Romano Pontefice, concessa tra l'altro a una giornalista donna di tendenza socialista - alla sapienza pastorale di Pio X, che faceva personalmente catechismo ai ragazzi delle parrocchie romane nel cortile di San Damaso, sino alle decisioni innovative nell'ambito dei media di Pio XI e Pio XII, legati agli esordi di radio, cinema e televisione.

Anche in questo campo il Vaticano II e i Papi che l'hanno di fatto preparato, voluto e condotto - Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI - hanno significato una svolta. Nella crescente visibilità, iniziata con i viaggi montiniani nei cinque continenti e portata al culmine dall'incessante itinerario mondiale di Giovanni Paolo II, per mostrare al di là di ogni apparenza la croce di Cristo nel mutevole e drammatico panorama del mondo: stat crux dum volvitur orbis.

Da sei anni Benedetto XVI - che al servizio della verità ha dedicato la vita e proprio per questo vuole più efficaci e presenti i media vaticani - si preoccupa di spiegare la tradizione: per farsi capire da bambini e anziani, giornalisti e fedeli, intellettuali e politici. Oggi lo fa rispondendo in televisione, per la prima volta, a domande giunte da ogni parte del mondo. Per tenere insieme fede e ragione, per dimostrare amicizia verso tutti. Nella continuità della tradizione cristiana.

g. m. v.



(©L'Osservatore Romano 23 aprile 2011)

IL PAPA RISPONDE IN TV ALLE DOMANDE DEI FEDELI. LA TRASCRIZIONE DELLO STORICO EVENTO




Storia e vicissitudini dei marmi di Palazzo Rondinini a Roma

Solo trenta scudi per la Pietà di Michelangelo



di ANTONIO PAOLUCCI

Il 24 maggio a Roma, a Palazzo Rondinini, viene presentato il volume I marmi antichi del palazzo Rondinini a cura di Daniela Candilio e Marina Bertinetti (Roma, De Luca, 2011, pagine 248, euro 45). Anticipiamo l'intervento del direttore dei Musei Vaticani.

Il grande storico dell'arte Johann Joachim Winckelmann era di casa. Consigliava acquisti, forniva expertises, studiava e pubblicava le opere più importanti della collezione. Goethe che durante il soggiorno romano (1787) aveva preso alloggio in una casa ubicata quasi di fronte, vi arrivava spesso in visita accompagnato dalla sua bella amica la pittrice Angelica Kauffman.
Sto parlando del Palazzo Rondinini al Corso e dei suoi giorni felici quando ospitava una raccolta di sculture antiche e di lapidi fra le più celebri e invidiate di Roma. Proprietario del palazzo, conoscitore raffinato di archeologia classica e sagace collezionista, era il marchese Giuseppe.
Alla sua morte nel 1801, ebbe inizio l'inarrestabile declino. In assenza di eredi diretti i beni immobili finirono smembrati, la raccolta di statuaria antica andò in gran parte dispersa, il palazzo cambiò nome passando in proprietà prima al marchese di Capranica, poi al conte Roberto Sanseverino Vimercati. Nel novembre del 1946 l'edificio veniva acquistato dalla Banca Nazionale dell'Agricoltura. A seguito di fusioni e annessioni bancarie oggi è del Monte dei Paschi di Siena.

Evento memorabile nella storia novecentesca del palazzo e delle sue collezioni è stato l'acquisto, nel 1952, della Pietà di Michelangelo che dei Rondinini porta il nome e che è oggi custodita nel Museo del Castello Sforzesco di Milano.
La Pietà Rondanini - è questa, Rondanini e non Rondinini, la declinazione del nome oggi universalmente accettata - stava nel palazzo da secoli e sembrava non interessare nessuno. Nel 1904 il Ministero della Pubblica istruzione non ritenne opportuno acquistarla. Un secolo prima, nell'inventario del 1804, i periti diedero alla scultura la stima infima di 30 scudi accompagnadola con questa motivazione: "Un gruppo moderno abbozzato che si dice opera di Michelangelo Buonarroti, ma si conosce essere stato un equivoco".
Così vanno le cose nel mondo dell'arte. L'errore di attribuzione è sempre possibile. Le stime economiche possono cambiare anche radicalmente nel mutare della critica e del gusto. Basti pensare che quando, all'inizio del Novecento, lo stato italiano acquistò dal principe Borghese la celebre Galleria per trasformarla in pubblico museo, nell'inventario ufficiale un dipinto del Sassoferrato veniva valutato tre volte la Buona Ventura di Caravaggio.
Ma torniamo a Palazzo Rondinini. Oggi non ci sono più i colti aristocratici che, come il marchese Giuseppe, collezionavano i tesori di arte antica. Ci sono però, per nostra grande fortuna, le banche. Ai nostri giorni sono loro a praticare il mecenatismo culturale, un tempo privilegio delle élites.
Il Monte dei Paschi di Siena ha voluto che il palazzo ora di sua proprietà venisse integralmente e minuziosamente studiato: nelle sue vicende costruttive, nelle molte opere di interesse artistico archeologico e documentario che ancora conserva, nella sua storia abitativa, patrimoniale e, soprattutto, collezionistica.
Il risultato è un libro di rigoroso impianto storico e di impeccabile filologia. Nasce dall'alleanza fra la Banca e la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Donatella Capresi, funzionario del Monte dei Paschi ma anche apprezzata storica dell'arte, ha coordinato e portato a felice conclusione l'impresa.

Abbiamo detto della grande dispersione subita dai marmi Rondinini dopo la morte del marchese Giuseppe. I pezzi più celebri (la Medusa copia romana di un originale greco ammirata da Goethe, l'Alessandro il Grande che Winckelmann considerava la rappresentazione più bella di quel sovrano, il rilievo bucolico con bovini al pascolo, il ritratto di Bruto il tirannicida) furono acquistati da Ludwig di Baviera e si conservano oggi nel Museo di Monaco. Altri pezzi finirono a San Pietroburgo nelle collezioni dello Zar, altri ancora nei Musei Vaticani. Di molti, entrati nei labirinti dell'antiquariato internazionale, si sono perse le tracce.
Il farsi e il disfarsi di una collezione d'arte è sempre una affascinante avventura. Chi legge nel libro il bel saggio di Brigitte Kuhn-Forte (Formazione e dispersione della raccolta dei marmi Rondinini) può capirlo.
La scienza e il denaro, l'erudizione e la passione, le ragioni del mercato e l'occhio del conoscitore, gli appetiti degli eredi e gli interessi di antiquari, mediatori, restauratori, critici, si tengono insieme e si bilanciano in un confronto incessante. Le collezioni crescono, si trasformano e declinano insieme alle famiglie che le hanno volute e possedute.
La fortuna sociale e la ricchezza collezionistica dei Rondinini aumenta per più di due secoli, prima nella residenza di Campo Marzio poi nel palazzo del Corso edificato e ornato nel Settecento dagli architetti Gabriele Valvassori e Alessandro Dori. Nel giro di pochi anni, all'inizio del XIX secolo, la collezione si dissolve. Nel 1827 Antonio Nibby non può che registrare i "resti di una superba raccolta un tempo celebre".

Tuttavia i "resti" sopravvissuti a vendite e a dispersioni sono ancora numerosi e spesso di rilevante interesse artistico e archeologico. È merito del libro averli studiati e pubblicati tutti: lapidi, iscrizioni, busti, rilievi scolpiti, statue a figura intera per un totale di oltre duecentocinquanta numeri di catalogo. Soprattutto importante è la raccolta epigrafica studiata, nel libro, da Marisa Bertinetti. Sono circa cento pezzi, iscrizioni sepolcrali in gran parte, solo di rado di certificata provenienza. Parlano di liberti imperiali, di mercanti come nella nota iscrizione dedicata a Licinius Nepos, di militari, eques singulares o pretoriani come il Sarmatius originario della Tracia romana. Sono elogi funebri come la Laudatio Murdiae di età augustea che piaceva a Winckelmann. È un insieme prezioso, formatosi fra XVII e XVIII secolo in base a criteri che privilegiavano l'onomastica rara e le iscrizioni particolari.



(©L'Osservatore Romano 23-24 maggio 2011)


[Modificato da Caterina63 23/05/2011 18:43]
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22/06/2011 00:09
 
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Il Laboratorio di restauro arazzi in Vaticano: Quando trama e ordito creano un'opera d'arte (Gori)


Il Laboratorio di restauro arazzi in Vaticano

Quando trama e ordito creano un'opera d'arte

di Nicola Gori

Trama e ordito: due elementi ormai entrati anche nella letteratura con significati simbolici diversi. Riportandoli alla loro origine, richiamano l'abilità e la maestria degli artigiani che danno vita ai tessuti. Se vi aggiungiamo lo stile e la creatività degli artisti e le imponenti dimensioni, otteniamo gli arazzi. Al loro restauro, nel solco di una tradizione che risale al 1710 - quando Clemente XI fondò l'arazzeria romana di San Michele - provvede un particolare Laboratorio istituito presso i Musei Vaticani.
Il nome "arazzo" deriva dalla città francese di Arras, famosa nel Medioevo per la loro produzione. Si tratta di un particolare tessuto destinato a ornare le pareti e utilizzato per l'arredamento. Vista la loro destinazione, questi capolavori d'arte hanno avuto nel corso dei secoli i soggetti più diversi. Dalle scene di vita quotidiana, ai riferimenti della mitologia classica, agli episodi biblici, sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento. Ma gli agenti atmosferici e l'usura danneggiano senza tregua queste enormi stoffe di lusso, che richiedono anni per essere portate a termine e necessitano di interventi successivi per mantenere intatta la bellezza.

Ridonare vita e splendore a quei tessuti ormai consunti ma carichi di storia e di significati è appunto lo scopo del Laboratorio di restauro arazzi e tessuti dei Musei Vaticani. La responsabile del settore arazzi e tessuti dei Musei Vaticani Anna Maria De Strobel ci ha accompagnato alla scoperta di questa struttura, che si pone all'avanguardia nel mondo per la sua funzione di recupero e di salvaguardia di questa tipologia di tessuti.
La loro caratteristica principale è data dal fatto che l'ordito, base della tessitura, rimane completamente coperto dai fili di trama, composta da filati di lana, di seta e metallici. La tessitura è effettuata seguendo un "cartone", che è la trasposizione in scala reale del progetto dell'artista realizzato originariamente su un bozzetto di piccole dimensioni. Si era soliti utilizzare più volte gli stessi "cartoni": per esempio i celebri arazzi degli Atti degli Apostoli di Raffaello presenti nei Musei Vaticani sono i primi esemplari di una serie ripetuta più volte nel corso dei secoli XVI e XVII.
Per comprendere come si è arrivati all'apertura del Laboratorio di restauro dobbiamo fare un passo indietro e tornare al XVIII secolo, quando Clemente XI affidò all'arazzeria romana di San Michele - per venire incontro alle esigenze della corte pontificia senza dover ricorrere agli artigiani del nord Europa - non solo il compito di produrre arazzi, ma anche di provvedere alla conservazione della notevole collezione vaticana. Un suo successore, Benedetto XIII, istituì uno specifico incarico tra gli ufficiali minori palatini, attribuendo al direttore della tappezzeria anche la custodia di tutti gli arazzi esposti all'interno dei sacri palazzi. Con il 1870 l'arazzeria fu costretta a passare sotto il controllo del governo italiano. A causa di ciò, nel 1871 Pietro Gentili, figlio di Eraclito, direttore della manifattura, venne licenziato. Motivo principale della estromissione fu essenzialmente la sua simpatia per il Pontefice. Per interessamento di Pio IX, il Gentili venne chiamato in Vaticano per installarvi una nuova tappezzeria.

Così l'arte e la maestria che il direttore aveva appreso per esperienza e per capacità personali vennero trasferite nella nuova manifattura. Furono costruiti telai simili a quelli esistenti nell'opificio di San Michele e iniziò così la produzione di arazzi. Leone XIII nel 1887 si spinse più in là e con un Motu Proprio, promosse l'apertura di una scuola di arazzi con lo scopo di conservare in Roma l'antica tradizione. Si dovette però attendere il 1915 per vedere la fattiva apertura dell'istituto, quando Benedetto XV incaricò l'anziano Gentili di occuparsene. Fu infine nel 1916 che nel fabbricato della Zecca venne finalmente resa operante la scuola, sotto la direzione tecnica del Gentili e la direzione artistica di Luigi Cavenaghi, direttore delle pitture dei Musei Vaticani. In questo modo, iniziò quella dipendenza della scuola-fabbrica dai Musei Vaticani che continua anche ai nostri giorni. A questa sede venne affiancato un laboratorio di restauro affidato nel 1926 alle suore francescane missionarie di Maria. Il laboratorio trovò ospitalità presso la casa generalizia delle religiose, in via Giusti. Due destini diversi ebbero la scuola-fabbrica, chiusa nel 1927, e il laboratorio, che invece continuò la sua attività dal 1930 all'interno delle mura vaticane, con sede in via del Pellegrino. Si trattò di una scelta che impresse un nuovo indirizzo: fine principale della struttura non fu più la realizzazione degli arazzi, ma la conservazione e il restauro di quelli esistenti nei palazzi pontifici.

Nel 1963 la scuola-fabbrica venne riaperta per formare sia persone in grado di restaurare, sia capaci di tessere. Ma eccoci giunti all'attualità: la scuola si è trasformata in un vero e proprio laboratorio di restauro che ha affiancato, agli interventi sugli arazzi, anche la possibilità di operare sulle stoffe. Da qui l'aggiunta di "tessuti" alla dicitura del laboratorio originario. La struttura consta attualmente di due sedi: una all'interno dei Musei Vaticani dove vengono ospitati l'archivio, il deposito, la vasca dei lavaggi, la tintoria e una zona riservata al restauro dei tessuti, e l'altra in via del Pellegrino dove, data l'ampiezza dei locali, vengono restaurati gli arazzi di grandi dimensioni. Vi si trovano anche una tintoria e il deposito dei filati. Riguardo alle tecniche adottate per i restauri, partendo dalla ricca tradizione, esse sono state aggiornate nel corso degli anni. Agli inizi, gli interventi sugli arazzi prevedevano dei "rammendi", cioè ricostruzioni a telaio delle parti mancanti o perfino inserimento di antiche porzioni per tappare le parti danneggiate. Pietro Gentili rivoluzionò il metodo di restauro e ideò un approccio meno invasivo, chiamato "a rete". Si tratta di creare un reticolo con dei fili di lana o di cotone monocromi per sostenere le parti scoperte dove manca la trama. Questo metodo risultò innovativo ma poco solido, vista la mancanza di un supporto su cui agganciarvi i punti di fermatura.

Con lo sviluppo delle tecniche, negli anni Trenta, il metodo "a rete" venne a poco a poco sostituito con l'intervento "integrativo" o "ricostruttivo". Alla base di questa tecnica è la chiusura delle parti scoperte dell'arazzo con nuovi orditi, reinseriti nel tessuto originale per poi ritessere di nuovo la trama nelle zone mancanti. Il vantaggio di questa tecnica è principalmente la ricostruzione della parte danneggiata, che conferisce all'arazzo un aspetto simile all'originale. Esistono però alcuni rischi nel suo utilizzo, primo fra tutti una ricostruzione delle parti mancanti non conforme alle tinte e al disegno primitivo. Altri rischi possibili sono l'indebolimento o il danneggiamento delle parti originali vicine all'intervento, qualora si voglia asportare il restauro. Questo metodo rende anche problematica la lettura delle parti antiche, difficili da distinguere dal restauro. Vista l'evoluzione delle tecniche e dopo attenti studi, il laboratorio ha scelto di adottare criteri di restauro che privilegiano la conservazione del manufatto, attenendosi a tre principi fondamentali: la non invasività, la riconoscibilità e la reversibilità.

Questo metodo è stato impiegato per la prima volta durante la preparazione degli arazzi per la mostra "Raffaello in Vaticano" del 1984. Si è passati procedendo a tappe dal restauro "integrativo" all'impiego esclusivo di quello "conservativo". Come ci spiega la De Strobel, l'intervento consiste nella fermatura a "cucito alternato" degli orditi originali scoperti su un supporto. Sia il supporto, sia il filo vengono tinti in modo da riprodurre e di avvicinarsi il più possibile al colore originario. Questa metodologia è assimilabile a quella utilizzata nel restauro dei dipinti, chiamata "rigatino" o "astrazione cromatica". Considerando che, talvolta, le lacune sull'arazzo non sono ovviabili con l'inserimento del supporto, viene impiegato un particolare metodo. Si tratta di fissare nella parte mancante al sostegno, applicata dal retro, una nuova orditura della stessa natura dell'originale, che viene poi tagliata alle estremità in modo da far coincidere i suoi lembi con quelli dell'originale senza inserirli l'uno sull'altro. Questo restauro ha il vantaggio di essere completamente reversibile perché agganciato solo sul supporto.

Il restauro in quanto tale è sempre preceduto da una serie di operazioni, tra le quali un accurato esame e un servizio fotografico sul tessuto in oggetto. Vengono predisposti dei grafici in scala informatizzati ed elaborati al computer, che classificano i materiali, descrivono le condizioni prima del restauro e controllano le varie fasi dell'intervento. Sull'arazzo viene poi eseguita una documentazione fotografica ad infrarosso e con fluorescenza indotta da ultravioletti, per una migliore valutazione dello stato di conservazione. In questo modo è possibile riconoscere le zone che hanno già subito anni prima dei restauri e delle integrazioni. L'esame preliminare è utile anche per individuare le differenze cromatiche dei colori, grazie alla differente risposta delle sostanze coloranti alla fluorescenza. In questo modo, si riconosce l'uso nella tintura dei filati originali di coloranti diversi. Altro elemento fornito dalle indagini previe sul recto e sul verso, è il riconoscimento del processo di fotodegradazione dei coloranti. Questo compito è affidato al Gabinetto ricerche scientifiche dei Musei Vaticani. Vengono poi prelevati dal verso dei filati che il Gabinetto ricerche scientifiche analizza per il riconoscimento merceologico delle fibre, per stabilire il loro stato di conservazione e per valutare il grado d'inquinamento.

Questa operazione è fondamentale per procedere alla successiva fase di lavaggio, in quanto permette di valutare il numero delle particelle solide presenti nelle differenti tipologie di filati e per accertarsi del degrado delle fibre. Dopo la documentazione fotografica sull'arazzo, viene eseguita la disinfestazione, chiudendo i tessuti in una "busta di trattamento" dove viene inserito azoto. Il trattamento dura all'incirca dai venti ai quaranta giorni. Si passa poi al lavaggio in una vasca dotata di una griglia mobile tramite motore elettrico, per permettere all'opera di essere mossa nelle fasi di risciacquo e asciugatura. Dopo le fasi di indagine e di lavaggio, gli arazzi vengono nuovamente esaminati per decidere il tipo di intervento ottimale da effettuare.

(L'Osservatore Romano - 24 luglio 2009)


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Quando Papa Sisto IV donò la Lupa Capitolina al popolo romano


http://xoomer.virgilio.it/learn_italian/lupa_capitolina.jpg



Come Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa ho il raro piacere di poter oggi salutare una mostra che non riguarda soltanto una istituzione vaticana, sia pur essa prestigiosa, come l’Archivio Segreto Vaticano, ma anche un’istituzione cittadina romana di altrettanto prestigio, i Musei Capitolini, presso i quali avrà sede per circa sette mesi l’esp osizione.
Documenti pontifici assai antichi e preziosi, così come significative carte della vita della Chiesa nel
mondo escono per la prima volta dall’ambito Vaticano e si aprono alla visione dei visitatori sul Colle
Capitolino, sede tradizionale del governo di Roma.
Quella sede però, a ben vedere, non è estranea alla Santa Sede e al Pontefice Romano, com’è ben noto; anzi essa si collega, almeno idealmente, anche con lo stesso Archivio Segreto Vaticano nel nome del grande Pontefice Francesco della Rovere, Sisto IV, mecenate rinascimentale che impresse nell’Urbe la sua impronta tuttora visibile.

Fu proprio Sisto IV a donare nel 1471 — nel suo vasto programma culturale per la rinascita di Roma classica — la Lupa bronzea e altri tesori archeologici al popolo romano, comandando che si collocassero nel Palazzo dei Conservatori al Campidoglio: quello fu il nucleo fondativo ob immensam benignitatem del Pontefice (come recita l’iscrizione coeva posta in Campidoglio) degli attuali Musei Capitolini.
Ma Sisto IV fu anche il grande mecenate della Biblioteca Apostolica Vaticana, cui nel 1475 volle conferire un carattere di «pubblica utilità», aprendola agli eruditi, sempre Ad decorem militantis Ecclesiae. In alcune sale della vasta biblioteca, dette secretae (cioè private), o Bibliotheca
secreta, Sisto IV fece depositare diplomi, privilegi e molti registri dei Pontefici suoi predecessori (quindi un nucleo d’archivio), ordinando poco dopo che i diplomi più preziosi fossero trasportati nello Scrinium Ferratum di Castel Sant’Angelo, dopo però che il famoso Platina e Urbano Fieschi ne avessero tratta copia autentica
.

Come si vede alla base del progetto della mostra vaticana al Campidoglio vi sono legami storici e di
idealità. L’Archivio si rivela — re c i t a il sottotitolo — e si rivela al centro dell’Urbe, a tutti gli appassionati e anche ai curiosi; si rivela per quello che è, tramite uno spaccato esemplificativo
della sua ricchissima documentazione. Si rivela senza remore o timori, anzi con l’orgoglio di un servizio alla Chiesa e alla cultura prestato per ben quattro secoli con indefesso lavoro di custodia, di censimento, di cura, di progresso della ricerca sempre più avanzata.
Si rivela come ambito culturale, come richiamo affascinante alla memoria del nostro passato, del passato della Chiesa, di imperi, di regni, di ducati, di repubbliche.
Sprone a innalzare il livello della conoscenza oltre il vuoto stereotipo a cui purtroppo conduce, se non erro, molta della cosiddetta cultura di massa corrente.
Sulla mostra interverrà il prefetto dell’Archivio, cui va il merito di aver voluto questa manifestazione, ma ancor più quello di guidare da circa sedici anni l’Archivio Vaticano  verso un servizio alla cultura sempre più aperto, qualificato e professionale.
I risultati di stima e apprezzamento che l’Archivio Pontificio ha raggiunto nel consesso culturale
internazionale si devono anche alla capacità di lavoro, di studio, di coordinamento e — posso ben dirlo — alla passione culturale che anima gli Officiali dell’Archivio Segreto e tutto il personale.



[Modificato da Caterina63 05/07/2011 21:14]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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21/07/2011 19:08
 
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A colloquio con monsignor Enrico Radice sul Preseminario San Pio X in Vaticano

I chierichetti del Papa

 

di NICOLA GORI

Una palestra per conoscersi, stare insieme, ma soprattutto per capire se si è chiamati al sacerdozio. Un luogo per riflettere alla luce degli insegnamenti evangelici. Un tempo di allenamento e di preparazione per affrontare la vita secondo una scala di valori. Ma anche un servizio alla basilica di San Pietro, in particolare nel campo dell'animazione liturgica. Si potrebbe definire così l'esperienza del Preseminario San Pio X in Vaticano. Si tratta di un'istituzione che dal 1956 vive all'ombra del cupolone. In quest'intervista al nostro giornale il rettore, monsignor Enrico Radice, ce ne spiega le finalità e le caratteristiche.

Che cos'è il Preseminario San Pio X?


È un'istituzione di orientamento vocazionale voluta da Pio XII nel 1956 e affidata a don Giovanni Folci, un sacerdote della diocesi di Como, che aveva fondato un'opera per il servizio alle vocazioni. Questa iniziativa trovò ampia accoglienza da parte del Capitolo Vaticano. Il Preseminario ospita ragazzi della scuola media e del ginnasio-liceo che vogliono riflettere sul loro futuro alla luce della Parola di Dio. Durante il soggiorno viene portato avanti un cammino di crescita umana e cristiana che aiuti i ragazzi a comprendere se il Signore li chiama al sacerdozio o alla vita consacrata. Compito specifico degli alunni è quello di prestare servizio liturgico come ministranti nella basilica di San Pietro.

Chi era il fondatore?


Don Folci è stato cappellano militare durante la prima guerra mondiale. Venne fatto prigioniero e condotto in Germania, dove si prodigò nell'assistenza ai compagni di prigionia, stando particolarmente vicino a quanti erano in fin di vita. Terminate le ostilità e rientrato in Italia, volle fondare un'Opera che ricordasse i prigionieri caduti in guerra. Nel 1926 eresse un santuario dedicato al Divin Prigioniero, nella parrocchia di Valle Colorina, in provincia di Sondrio e in diocesi di Como, dove era parroco. Accanto a questo santuario, volle fondare anche un istituto che si prendesse cura delle vocazioni sacerdotali "dall'alba al tramonto", come spesso amava esprimersi. La sua idea era quella di occuparsi dei ragazzi in ricerca della propria vocazione e quindi prepararli a entrare in seminario. Un'altra sua occupazione fu quella di assistere i sacerdoti anziani che avevano lasciato il ministero, per malattia o per età. Accoglieva anche i preti che si trovavano in difficoltà e che volevano fare una "sosta" per riflettere, aiutandoli a reinserirsi nella vita pastorale. Ai primi collaboratori, chiamati col nome di sacerdoti di Gesù Crocifisso, affiancò anche le suore, le ancelle di Gesù Crocifisso. Alla morte del fondatore nel 1963, l'opera venne costituita in associazione sacerdotale diocesana, vincolata alla diocesi di Como.

Come si arrivò alla fondazione del Preseminario?


Nel 1955 don Folci ottenne un'udienza privata da Pio XII, al quale espose le finalità della sua opera. Sapeva che a Papa Pacelli stava a cuore la preparazione dei fanciulli in vista della formazione sacerdotale. Il Pontefice gli propose di portare la sua attività in Vaticano, per un servizio più decoroso e stabile alla basilica di San Pietro. Don Folci accettò volentieri e il 26 gennaio 1956 giunse a Roma con i primi trenta ragazzi da Valle Colorina. Cominciarono anche le trattative con il Capitolo della basilica di San Pietro. Questi giovani provenivano dalle parrocchie della diocesi di Como e dalla provincia di Sondrio. I primi sei mesi abitarono in via Garibaldi, al Gianicolo, presso il convento delle suore agostiniane. Nel giugno del 1956 venne messo a loro disposizione il terzo piano nel palazzo dei canonici di San Pietro. Si trattava di tre appartamenti tenuti liberi appositamente per ospitare i ragazzi, i sacerdoti, gli educatori e le suore che li accudivano. Cominciò così questa nuova attività nella basilica. Per diversi anni quella fu la dimora del Preseminario, fino a quando Paolo VI, informato dal suo segretario monsignor Pasquale Macchi - che era stato tra gli alunni che frequentavano il Preseminario di Valle Colorina - volle visitare questa dimora. Venne per ben tre volte nelle vacanze di Natale. Il Papa rimase colpito dalle ristrettezze dell'ambiente: basti pensare che lo spazio per la ricreazione era ridotto al solo terrazzo e ai due corridoi che collegano la sacrestia alla Basilica, tanto che i ragazzi si divertivano andando con i pattini lungo questi terrazzi. Tra i primi alunni giunti nel 1956 c'era anche monsignor Enrico Viganò, ora cerimoniere pontificio. Personalmente sono arrivato nel 1960 come chierichetto e vi sono tornato da sacerdote. Poi, dal 1979 al 1989, ho avuto l'incarico di economo e collaboratore. Quando monsignor Maggiolini divenne vescovo di Como, mi chiamò alla sua segreteria. Sono tornato nel Preseminario nel 2002 come responsabile della comunità.

Attualmente dove si trova la sede?


Nel 1970 Paolo VI trovò un ambiente idoneo presso il palazzo San Carlo come residenza definitiva per i ragazzi. I locali furono adattati alle esigenze della vita di comunità, perché fino allora avevano ospitato un magazzino-deposito della Fabbrica di San Pietro. Venne creato un grande cortile per la ricreazione e lo sport. Il Preseminario si trasferì nel palazzo nel 1971. Da allora diverse generazioni di ragazzi si sono succedute: penso che siano passati almeno un paio di migliaia di alunni. All'inizio del 1958, la comunità era molto numerosa e contava tra i 45 e i 50 alunni. In questi anni recenti il numero varia dai 15 ai 20 alunni, l'età media è dagli 11 ai 18 anni. Nell'arco di questi 56 anni, 75 ragazzi sono diventati sacerdoti. Pur tenendo conto che negli ultimi tempi le classi si sono assottigliate di numero, si può dire che ogni anno qualcuno è entrato nel seminario maggiore.

Durante le vacanze estive chi presta servizio in basilica?


Per il periodo estivo abbiamo dato vita a un'iniziativa che permette a ragazzi e adolescenti di fare un'esperienza in basilica come ministranti. Durante le vacanze si alternano gruppi di 25 ragazzi per un periodo di 20 giorni circa. Provengono da parrocchie di varie diocesi d'Italia, in età compresa tra gli 11 e i 14 anni. Appena terminato l'anno scolastico, arriva il primo gruppo, dal 13 al 30 giugno. Il secondo gruppo presta servizio dal 1° al 20 luglio, l'ultimo dal 20 luglio al 10 agosto. Per circa un mese, dal 10 agosto al 10 settembre, il servizio liturgico è svolto dai ministranti di Malta. Con la ripresa dell'anno scolastico rientrano i nostri ragazzi. In questi anni, abbiamo stretto legami con varie associazioni giovanili e conosciuto parroci che desiderano inviare adolescenti e ragazzi nei quali intravedono motivi di vocazione. Ci sono diverse iniziative in cantiere.

Come è strutturata la formazione scolastica?


Inizialmente e fino al 1995 c'era una scuola interna, con alunni di età piuttosto omogenea. Le lezioni venivano svolte in forma di scuola privata dai nostri educatori. A fine anno venivano dati gli esami in un istituto pubblico per conseguire il diploma. Il primo è stato l'Oratorio di San Pietro come scuola riconosciuta legalmente. Attualmente, gran parte degli alunni compiono il ciclo di formazione completa. Frequentano l'istituto Sant'Apollinare, scuola cattolica del Vicariato di Roma, che ha sede nel seminario romano minore. In questo modo, i nostri ragazzi seguono le lezioni insieme con i seminaristi e con altri alunni. Frequentano sia il liceo classico, sia il liceo scientifico. A questo proposito, vorrei raccontare un aneddoto: per il servizio liturgico negli anni tra il 1970 e il 1990, anche durante le lezioni scolastiche, ogni volta che un sacerdote veniva a celebrare in San Pietro c'era un tocco di campanello come segnale per scendere in sacrestia per il servizio della messa. Era considerata una priorità.

Qual è l'orario tipo della giornata?


La nostra vita è legata alla basilica e quindi tutto ruota intorno all'orario delle celebrazioni. La sveglia è alle 6.20; seguono le preghiere nella cappella. Subito dopo, alcuni scendono per accendere le luci degli altari e preparare le Grotte della basilica. Per le 7 tutto è pronto, perché appena apre la sacrestia i sacerdoti cominciano ad arrivare. Ogni alunno serve una messa quotidiana in modo da poter ricevere l'Eucaristia. Ne seguono altre e i ragazzi accompagnano il sacerdote all'altare. Alle 8 lasciano il servizio, salgono al terzo piano della canonica, fanno colazione e alle 8.15 partono con il pulmino per andare alla scuola Sant'Apollinare. La lezioni durano fino alle 13.30. Poi rientrano a casa, pranzano e fanno un'ora di ricreazione. Dalle 15.30 alle 16.30 si studia. Pausa per la merenda, quindi fino alle 19 studio. Segue un momento di preghiera in cappella. A orario stabilito il padre spirituale don Marco Granoli si mette a loro disposizione. Alle 19.15 c'è la cena. Fino alle 21.15 c'è del tempo libero, a cui segue la compieta. Due volte alla settimana è permesso di vedere la televisione consentita. La domenica i ragazzi seguono questo orario a turno: si alzano a gruppetti di tre per preparare il servizio della basilica, mentre gli altri riposano fino alla 7.30. Hanno luogo le funzioni capitolari con la celebrazione delle lodi con i canonici in coro alle 9.45 e la messa solenne alle 10.30 all'altare della Cattedra. Nel pomeriggio i ragazzi partecipano alla messa delle 16 e ai vespri alle 17, e una volta al mese al rito della confermazione.

Quale formazione ricevono gli alunni?


I ragazzi che trascorrono il periodo di formazione nel Preseminario vivono il periodo dell'adolescenza e della giovinezza, con i vari problemi legati alla vita e alla crescita umana, con gli stessi interrogativi e drammi come chiunque altro della loro età. In questi anni cerchiamo di farli riflettere, di educarli a un comportamento conforme ai valori evangelici e di sensibilizzarli a un giudizio critico nei confronti di certi stili di vita che non coincidono con il Vangelo e che invece vedono adottati in maniera sbagliata da tanti loro coetanei. È importante che i ragazzi crescano con un giudizio critico che permetta loro di avere un comportamento equilibrato anche a livello affettivo. Devono saper scegliere seriamente i valori della vita. Li si aiuta con la ragione e la libertà d'espressione a individuare il vero bene di fronte alle difficoltà che incontrano. Da qui nasce, in piena libertà, la prospettiva e la scelta del proprio futuro. Durante l'anno scolastico, con il servizio e lo studio, non mancano le gite-pellegrinaggio. In questi anni abbiamo visitato Lourdes, Ars, ci siamo recati a Torino per venerare la Sindone, siamo stati anche in Polonia. Ci auguriamo che la chiamata al sacerdozio costituisca sempre l'aspetto principale della vita del Preseminario San Pio X. Un auspicio e un'esortazione venute costantemente dai diversi Pontefici, ai quali da sempre è stato molto caro il Preseminario San Pio X in Vaticano.



(©L'Osservatore Romano 22 luglio 2011)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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30/08/2011 20:18
 
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La ricca collezione scientifica di monsignor Giulio Cicioni il naturalista di Papa Pecci

Orsi e gazzelle nello zoo di Leone XIII

di ISABELLA FARINELLI

"Solo non si vedono i due liocorni"; forse si aspettavano di veder comparire anche quelli - come nell'arca di Noè musicata da Roberto Grotti - le scolaresche che fino a pochi anni fa visitavano, al primo piano della residenza vescovile perugina, il Museo di Storia naturale di monsignor Giulio Cicioni, insegnante nel locale seminario dalla seconda metà dell'Ottocento, quando Papa Leone XIII era ancora il vescovo Gioacchino Pecci.

L'originale artefice e primo curatore della raccolta, nato a Cerqueto - tra Marsciano e Perugia - nel 1844, si dilettò sin da ragazzo, anche prima di entrare in seminario, a raccogliere e conservare in modo sistematico fiori, piante e piccole collezioni di animali, specialmente insetti. Non sappiamo quanto, all'inizio, don Giulio fosse consapevole di condividere un entusiasmo naturalistico diffuso in tutta Europa, con risvolti letterari e artistici, filosofici e scientifici, non necessariamente in contrasto o in alternativa; basti pensare al suo quasi contemporaneo, l'agostiniano Gregor Johann Mendel - morto a Brünn in Moravia nel 1884 - infaticabile ricercatore in parte incompreso dai contemporanei, al quale la regista Liana Marabini ha recentemente dedicato un pensoso e delicato film (The Gardener of God), sinora non apparso nelle sale italiane.


Se nel film Pio IX rassicura Mendel (Christopher Lambert) sull'armonia tra fede e scienza, senz'altro non sfuggì la peculiare vocazione di Giulio Cicioni al futuro Leone XIII, che persino nella poesia, come nella pastorale, manifestò costante interesse per l'evoluzione del pensiero scientifico e della tecnologia, specie nel campo della comunicazione - dall'ars photographica al fonografo - tanto da imprimere una svolta sin da vescovo alla formazione dei futuri preti. Ordinato nel 1867 da Pecci, del quale diverrà segretario prima di essere inviato in una parrocchia di campagna, don Cicioni inizia quasi in contemporanea, partendo dalla "scuola di aritmetica", l'insegnamento delle materie scientifiche in seminario, dove trasporterà la sua nutrita collezione di esemplari per servirsene a scopo didattico.

Nel 1886 si poteva già parlare di un erbario, nel quale - secondo "Il Paese", il giornale voluto dieci anni prima da Pecci - erano rappresentate quasi tutte le famiglie della flora italiana. Né si arrestò qui la passione dell'enfant terrible. "A furia di perseguitare - parola del suo allievo Pietro Pizzoni - suore e missionari dell'America, dell'Asia e dell'Africa, a furia di cambi coi principali botanici, si procurò esemplari di vegetali da tutto il mondo; ed accanto al magnifico erbario locale ne formò un altro mondiale".

Nel frattempo si formano raccolte di fossili, minerali e reperti faunistici, questi ultimi con un insperato arricchimento nel 1888, dopo il solenne Giubileo sacerdotale di Leone XIII. In quella occasione, il mondo intero aveva fatto convergere intorno al Papa una collezione di doni, reperti e manufatti altamente rappresentativi che era andata a costituire una vera Esposizione universale, ospitata in Vaticano non senza qualche difficoltà di spazio. Particolarmente cara al Santo Padre la galleria, organizzata dal meteorologo e astronomo barnabita Francesco Denza - poi chiamato a dirigere la Specola Vaticana - degli strumenti scientifici progettati da membri del clero italiano, tra cui i sismografi di Filippo Cecchi e di Ignazio Galli, il tromometro di Timoteo Bertelli (cui aveva collaborato il geofisico Michele Stefano de Rossi) e l'anemoietografo dello stesso Denza.

A parte i non pochi esemplari viventi, portati subito nei Giardini Vaticani - come la gazzella proveniente da un'oasi sahariana al cui collo era stata posta una placca d'argento con un distico del cardinale Charles Martial Allemand Lavigerie, arcivescovo di Algeri e di Cartagine, Qui saevos fugio mea per deserta leones / Hic me pacifero fidentem trado Leoni - alla conclusione dell'evento corse voce che il Papa intendesse cedere il copioso materiale d'interesse scientifico e naturalistico a istituti romani. Cicioni accorse e implorò il Papa di provvedere anche a quello che stava diventando un museo perugino di storia naturale.

Il Pontefice acconsentì volentieri e don Giulio, si narra, preparò con le proprie mani le casse e ne curò la spedizione a Perugia. Da qui, nel settembre 1888, si recò a Firenze, invitato come relatore, al primo convegno della Società botanica italiana, che proprio in quell'anno si stava riorganizzando, e di cui Cicioni fu poi sempre membro attivissimo e ascoltato, a giudicare dai "Bollettini". Nell'agosto 1893, il suo "gabinetto scientifico del Seminario" fu decisivo a far eleggere Perugia come sede del Congresso botanico di quell'anno, seguito a quello internazionale tenutosi a Genova l'anno precedente. La competenza acquisita gli valse, nel 1896, il diploma di socio effettivo dell'Accademia dei Lincei.

Dal materiale raccolto tra i monti umbri "armato della sua vanghetta e della sua marra" a quello scambiato con la comunità scientifica - da Théodore Caruel a Giovanni Arcangeli, da Pietro Romualdo Pirotta a Emilio Chiovenda - sino ai reperti inviati da Papa Leone anche dopo l'Esposizione Vaticana (tuttora siglati E.V.), quale valore vi annettesse don Giulio fu chiaro quando, ottantenne, ne offrì simbolicamente alcuni esemplari, al posto degli abituali versi d'occasione, all'ingresso in Perugia del figlio spirituale di san Pio X, il vescovo Giovanni Battista Rosa: il quale tuttavia vi colse "la poesia più bella e più fresca". La simbiosi tra conoscenza e amore - evocata anche da Giovanni Paolo II nel primo centenario della morte di Mendel - non sarebbe sfuggita, decenni dopo, agli occhi dei visitatori d'ogni età, sia quando sfilavano dalla labradorite alla lazurite con oro, sia quando si arrestavano davanti all'imponente ursus maritimus donato a Leone XIII da Oscar II, il re di Svezia e di Norvegia appassionato a sua volta di scienze e arti. "Il Paese" segnala il sostegno del sovrano alle missioni di esplorazione artica e narra la sua visita al Santo Padre, nell'aprile 1888, preceduta da una lunga sosta tra le gallerie dell'Esposizione. Ma don Cicioni, che per tutta la vita preferì raccogliere esemplari per sottoporli all'autorità degli accademici prima che alla propria, gradiva ogni contributo: anche da un qualsiasi "don Leone" e da altri parroci di campagna, che molto incrementarono il salone ornitologico.

Colto da malore mentre faceva lezione di mineralogia, don Giulio morì nel 1923, lasciando alla diocesi e al seminario il museo nel quale dichiarava di aver racchiuso "tutto il suo cuore" - insieme a una raccolta di circa 15.000 esemplari rappresentativi di oltre 7.000 specie botaniche e a migliaia di campioni tra minerali, rocce, fossili, animali e materiali etnografici provenienti dall'intero pianeta. Una prima classificazione toccò al suo successore in seminario, don Aurelio Bonaca, all'apertura ufficiale al pubblico nel 1926, avvenuta con l'intervento delle civiche istituzioni e per volere del vescovo Giovanni Battista Rosa e del vicario generale Beniamino Ubaldi (poi vescovo di Gubbio).

Nel 1992 il materiale fu riclassificato secondo criteri correnti e valutato come un campionario di biodiversità tra i maggiori in Italia. Oggi l'intero patrimonio naturalistico, di proprietà del Seminario perugino, è affidato al Centro di Ateneo per i Musei Scientifici (Cams) e in parte riallestito nella Galleria di storia naturale di Casalina; qui la vasta e articolata collezione di Giulio Cicioni è stata abbinata a quella di Orazio Antinori, naturalista e appassionato viaggiatore (1811-1882).

 

 

Nelle Ville Pontificie di Castel Gandolfo

Tutti gli animali del Papa


 

di MARIO PONZI

Un bracco fa capolino tra le reti del recinto dove altezzose galline razzolano rasserenate da quella presenza. Poco più in alto, all'ombra di un rigoglioso uliveto, pascolano libere alcune maculate vacche frisone, con le mammelle gonfie di latte. Poco discosta s'intravvede la serie di piccole arnie del frequentatissimo apiario, dove matura un miele raffinato. Su, nel cielo, due falchetti addestrati hanno il loro bel da fare per proteggere i frutteti dall'assalto combinato di decine di fameliche cornacchie.

Tra le frasche del boschetto di pini, larici e lecci, di tanto in tanto s'affaccia il muso appuntito di una volpe in agguato, in attesa di un attimo di distrazione del bracco di guardia. In questo periodo estivo, poi, c'è l'ormai familiare coppia di upupe che regolarmente sceglie gli alti lecci per trascorrervi l'estate. E si avverte uno straordinario profumo di fieno, confuso con quello delle rose, che pervade tutto il rosso villaggio che, nelle Ville pontificie di Castel Gandolfo, ospita gli animali del Papa.

La fattoria è un pezzo storico della dimora estiva dei Pontefici. Si trova nella parte estrema della residenza, proprio dietro il cancello che si apre sulla piazza di Albano. Spaziare con l'occhio su questi venti ettari di terra, è come ritrovarsi immersi in una delle tele secentesche del pittore napoletano Andrea De Lione, maestro nel raffigurare anche scene bucoliche caratterizzate da colori brillanti e da un vivace dinamismo.

Di colori sono ricchi i fiori delle serre nella zona riservata alla floricoltura, il roseto nei ruderi della villa imperiale, il parco che si confonde con l'orto e si estende sino al pergolato, coperto in questi giorni di pampini verdolini.

I tralci s'inerpicano fino alle grandi terrazze ricavate da un'arida pietraia, e trasformate in un digradare ordinato di colture orticole. E nel bel mezzo le mucche. "Una volta - ricorda Saverio Petrillo, il direttore delle Ville - abbiamo ospitato anche due cinghiali. Li aveva regalati don Zeno di Nomadelfia a Paolo VI.

Di movimento ne crearono un bel po'. Più pacifiche erano le gazzelle di Pio XI. Erano state donate al Papa dal delegato apostolico in Egitto e il Pontefice si affezionò a quelle bestiole: le andava a trovare ogni volta che si fermava a Castello. Le sue erano visite quotidiane e non andava mai a mani vuote. Si racconta che spesso prendesse tra le sue braccia la più piccolina delle due. Purtroppo fece una brutta fine: un giorno, infatti, spaventata da un gruppo di giovani esploratori ungheresi in visita al Papa, saltò il recinto, si ritrovò sulla via Appia e venne travolta da un'auto. Con grande dispiacere di Pio XI".

Ogni pietra rossa del casale, ogni ramo o pianta avrebbero qualcosa di singolare da raccontare, per il susseguirsi di frequentatori illustri passati in questa parte delle Ville. Di certo la fattoria del Papa, anche se simile a tante altre, suscita comunque curiosità. Non esiste tuttavia un'aneddotica particolare e le cronache ne parlano solo a margine di eventi ben più significativi. Tutto quello che si sa è frutto dei racconti tramandati di generazione in generazione e un po' di storia si può leggere in questa stessa pagina. Ma la fattoria del Papa merita di per sé un'attenzione particolare.

Perché, come era nelle intenzioni di Pio XI, può senz'altro essere considerata un modello nel suo genere. Intanto, per la sua caratteristica della quale vanno fieri i fattori. Nonostante sia sempre stata tenuta al passo con i tempi e dotata delle tecnologie più moderne e sofisticate, la fattoria ha infatti conservato intatto l'aspetto del rustico antico, mostrando come sia possibile che l'ordine, la pulizia e le esigenze razionali dell'agricoltura moderna, estremamente tecnologizzata, possano sempre conciliarsi con il sapore della tradizione e con il gusto del pittoresco. Così, nell'ala principale dell'antico casale si scopre una modernissima pastorizzatrice per il latte. "L'uso di materiali d'avanguardia - spiega il responsabile della fattoria Giuseppe Bellapadrona - ci consente di pastorizzare il latte a 75 gradi, in modo da non distruggere le proprietà organolettiche. Da qui esce un latte di alta qualità, con un contenuto di siero-proteine superiore a quello che normalmente si trova nel pastorizzato in commercio. Riusciamo a conservare praticamente intatte tutte le proprietà principali".

Le mucche in produzione, quelle cioè che danno il siero, sono 25 e sono sistemate in una moderna vaccheria, allestita nel 2008. Quasi per evitare che stonasse con il resto del complesso è stata allestita in una zona più defilata. "Ci siamo decisi a farlo - spiega Bellapadrona - per offrire alle mucche un ambiente salubre e confortevole in modo da non farle stressare e dunque per non compromettere la qualità del prodotto". E sarebbe un peccato perché sono bestie di ottimo lignaggio, tutte rigorosamente segnate e marcate nell'anagrafe del Libro della frisona italiana.

Con la nuova sistemazione godono di notevoli spazi di libertà anche se si trovano in un ampio capannone aperto sui quattro lati. Ognuna ha il proprio spazio per il riposo: "Sono loro stesse che si sistemano il giaciglio con la paglia". Così è per il posto alla mangiatoia, una feritoia "che si apre ad orari stabiliti". E il menù è ricco: "Si tratta - precisa il responsabile della fattoria - di un'alimentazione tipica della zona del parmigiano reggiano, tutto a secco, fieno e concentrato.

Del tutto assenti le sostanze insilate del fieno o del mais perché nella zona del parmigiano lo sconsigliano per evitare fermentazioni anomale del formaggio". Un piatto unico, insomma, preparato con un miscelatore di ultima generazione, in modo che le "mucche assumano sia la parte proteica che la fibra in un insieme di massima digeribilità e adatto al fabbisogno di ognuna di loro. Questo perché ogni animale, a seconda del latte che produce, ha bisogno di un'integrazione alimentare". Nulla dunque è lasciato al caso. Tanto meno l'igiene: spazzole automatiche provvedono più volte al giorno alla pulitura del canale tra la zona giorno e quella notte, in modo da tenere l'ambiente sempre pulito. Lo stesso vale per il canale di scorrimento utilizzato per raggiungere il reparto mungitura che è completamente meccanizzata.

Proprio grazie ai miglioramenti e soprattutto all'attenzione posta nell'assicurare agli animali il benessere di un'esistenza tranquilla e pulita, "le nostre vacche - spiega Bellapadrona - riescono a produrre grandi quantità di latte, almeno cinquanta litri al giorno ciascuna.
Tuttavia dovendo rispettare la quota di produzione che ci è stata assegnata a suo tempo, circa seicento litri al giorno, dobbiamo cercare di limitare la produzione. Per attenerci alla regola riduciamo i capi in produzione. Del resto il nostro scopo, anche se riusciamo sempre ad autofinanziare ogni attività, non è commerciale. Latte, olio, uova e poche volte la carne sono in vendita esclusivamente nello spaccio annonario del Vaticano".

C'è stato un periodo tuttavia durante il quale il "latte del Vaticano" era particolarmente ambito. "Fu nei giorni - ricorda il responsabile - immediatamente successivi al disastro nucleare di Cernobyl, quando la nube di cesio sprigionata dal reattore distrutto giunse anche sull'Italia e inquinò gran parte delle campagne e dei raccolti. Noi già molto tempo prima, avevamo l'abitudine di conservare le nostre scorte di fieno non solo al coperto ma anche avvolte in teloni impermeabili.

E quando vennero tecnici per verificare il livello di radiazioni assorbite, il risultato fu stupefacente: non c'era traccia alcuna. In quel periodo ricordo che sconsigliavano l'assunzione di latte, soprattutto da parte dei neonati. Mettemmo così a disposizione il nostro. Furono le stesse autorità sanitarie a consigliare chi ne aveva più urgenza di rivolgersi a noi".

Non meno efficiente il pollaio. Un ampio recinto nel quale circa trecento galline ovaiole sono libere di razzolare a piacimento. "Danno - dice Bellapadrona - oltre duecento uova al giorno, che restano in vendita all'annona vaticana per pochissimo tempo: sono molto ambite e terminano in un baleno". Una sessantina sono i polli da carne, anch'essi rigorosamente ruspanti e "il ricambio è assicurato da diverse nidiate di pulcini che acquistiamo direttamente da pollai di fiducia e facciamo crescere secondo rigorosi criteri di igiene".

A completare questo quadro sono un vivaio, dal quale si ricavano i fiori e le piante necessarie per adornare i Palazzi pontifici, un frutteto soprattutto di albicocchi e peschi sufficiente alle esigenze interne e un uliveto secolare che dà frutti per una discreta quantità di olio, fra i duemila e i tremilacinquecento litri. Un nettare reso pregiato dalla spremitura a freddo, oltreché dalla particolarità dell'oliva, piccola ma molto saporita come quelle di alberi secolari. Solo poche bottiglie fanno una fugace comparsa tra gli scaffali dell'annona in Vaticano. E naturalmente tutti i prodotti arrivano sulla tavola del Papa.






(©L'Osservatore Romano 31 agosto 2011)

[Modificato da Caterina63 30/08/2011 20:20]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Una piazza romana intitolata
ai Cavalieri di Colombo


 

"I Cavalieri di Colombo continuarono ad operare a Roma, attraverso l'apertura dei loro centri sportivi, anche dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, in cui gli Stati Uniti d'America e l'Italia erano avversari, e in un periodo in cui il Governo del tempo aveva abolito le attività della gioventù cattolica". Lo ha ricordato martedì 6 dicembre il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, intervenendo al concerto nella basilica di Santa Maria in Aracoeli, offerto in occasione dell'intitolazione di una piazza romana all'organizzazione americana con 15.000 sedi in 16 nazioni.

La cerimonia di inaugurazione della targa Largo Cavalieri di Colombo si è svolta alle ore 13, all'incrocio di viale delle Terme di Caracalla con via Antonina, alla presenza, tra gli altri, del cavaliere supremo Carl A. Anderson, del sindaco Gianni Alemanno e del sovraintendente ai beni culturali di Roma capitale Umberto Broccoli. Rappresenta il riconoscimento che la città tributa ai Cavalieri per la loro opera svolta da oltre novant'anni nell'Urbe, soprattutto a favore dei giovani nei cinque grandi centri sportivi di Primavalle, Valle Giulia, San Lorenzo, Flaminio e Colle del Gelsomino, con il motto "Tutti sono benvenuti. Tutto è gratuito".

Nel pomeriggio poi, alle ore 18, si è tenuto il concerto del Saint Thomas More Gospel Choir di Washington, che si è esibito a Roma per la prima volta grazie alla Fondazione dei Cavalieri di Colombo, promotrice dell'iniziativa in collaborazione con Roma capitale e Zètema Progetto Cultura. Nella storica basilica legata alla memoria di san Francesco d'Assisi, uno dei luoghi mariani più antichi della città, il cardinale Bertone ha definito l'intitolazione della piazza ai Cavalieri di Colombo "un attestato di riconoscenza" per il loro impegno e il loro amore "verso l'alma città di Roma, centro del cattolicesimo e sede del successore di Pietro".

Dopo aver salutato i presenti a nome di Benedetto XVI - che ha chiesto di rievocare il suo predecessore Benedetto XV, autore dell'invito ai Cavalieri a stabilirsi a Roma nel 1920 - il porporato ha messo in luce come "da allora, le iniziative dell'ordine sono perdurate felicemente all'insegna di una grande e proficua amicizia. Questa organizzazione americana - ha aggiunto - è meglio conosciuta dalla maggior parte dei romani per i centri sportivi presenti nella città. I Cavalieri di Colombo hanno avuto infatti un ruolo determinante nella costruzione e nell'organizzazione di impianti sportivi per i bambini della città, come pure in opere di restauro in Vaticano ed in progetti di telecomunicazione".

Ma ancor più il loro ruolo - ha spiegato il segretario di Stato - "è stato importante come canale diplomatico confidenziale prima del formale" allacciamento di relazioni formali tra Santa Sede e Stati Uniti d'America negli anni Ottanta del secolo scorso. Infatti "il conte Enrico Galeazzi, direttore dei Cavalieri a Roma, fu inviato da Pio XII negli Stati Uniti per ottenere dal presidente Roosevelt la cessazione dei bombardamenti su Roma nel 1943. E le fondamenta per le relazioni diplomatiche furono poste circa quarant'anni dopo, nel 1982, alla Convention internazionale dell'organizzazione".

Quindi ne ha rimarcato il contributo per i restauri della facciata della basilica di San Pietro, dell'atrio del Maderno, della cupola della cappella del Santissimo Sacramento, delle grotte Vaticane, e delle statue dei santi Pietro e Paolo. I Cavalieri di Colombo - ha concluso con riferimento alla visione profetica del fondatore, il venerabile padre Michael McGivney - "hanno saputo mostrare la vocazione laicale di testimonianza al Vangelo, all'interno della Chiesa e nella società, accettando quelle sfide particolari che i cattolici si trovano ad affrontare".



(©L'Osservatore Romano 7 dicembre 2011)


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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740733]Curiosità sui Papi..... da una breve ricostruzione di Vaticaninsider ..... ne posterò solo alcuni frammenti....


Leone XIII (1878-1903) Il cacciatore di anime....

Deciso a non lasciare nelle mani del marxismo la bandiera dei diritti degli operai, Pecci, Pontefice «prigioniero» del governo italiano risorgimentale, spera di far rinascere il prestigio del papato romano coinvolgendo le masse popolari e sottraendole all’influenza del socialismo. Nasce così, dopo una lunga e travagliata gestazione, la sua enciclica più famosa, Rerum Novarum, pubblicata il 15 maggio 1891. La Chiesa cattolica non può accettare né il liberalismo economico che sfrutta l’operaio in forme allora davvero disumane; né il socialismo che vuole abolire la proprietà privata e propugna la lotta di classe.

Gioacchino Pecci aveva una grande passione per il latino e la letteratura, fu l’ultimo dei Papi ad essere socio dell’Arcadia, con il nome di Neandro Ecateo, fu un ottimo poeta, capace di svegliare nel cuore della notte, per una rima mancante, l’anziano monsignor Tarozzi, Segretario delle lettere latine, che aveva voluto far alloggiare in una stanza non lontano dalla sua per averlo sempre a disposizione. Una volta, già novantenne, si era svegliato nel cuore delle notte a causa dell’insonnia e si era messo a comporre carmi. Non trovando il «piede» di un verso, Leone XIII si precipitò a bussare alla stanza di Tarozzi dicendo: «Monsignore, ci aiuti: non riusciamo a trovare un piede». Il prelato latinista, mezzo confuso, incominciò a gridare: «Oh Dio, oh Dio, il Papa ha perso un piede!»

Uomo di spirito oltre che di profonda cultura e di animo nobile, aveva chiesto a un noto pittore un ritratto da regalare ai suoi familiari. Il quadro non riuscì molto somigliante e prevedendo che i parenti non lo riconoscessero, il Papa lo accompagnò con un biglietto nel quale aggiunse di suo pugno una frase detta da Gesù agli apostoli, tratta dal Vangelo di Matteo: «Ego sum, nolite timere» («Sono io, non abbiate paura»).

Negli ultimi tempi della sua lunga esistenza era ormai immobilizzato su una poltrona. Ma non aveva perso la prontezza di spirito. Nel 1902, già novantaduenne, aveva ricvuto un vescovo americano venuto dagli Usa a fare la visita ad limina. Considerata l’età avanzata del Pontefice, il prelato aveva detto: «Dato che non ci rivedremo più su questa terra, addio Santità, addio…». E il Papa: «Eccellenza, ha forse un brutto male?».



san Pio X (1903-1914) il catechista di Dio....

Con lui per la prima volta un Papa proviene dall’ambiente popolare campagnolo, quello della provincia veneta: «Io sono nato povero – dirà – sono vissuto povero, desidero morire povero». Come prima cura d’anime ebbe la parrocchia di Tombolo, nel trevigiano, un paese di commercianti di bestiame dove si bestemmiava molto. Gli abitanti si lamentarono con il giovane prete di essere analfabeti. E lui mise in piedi una scuola serale per insegnare loro a leggere e scrivere. «Quanto ci farà pagare?», chiese la gente.
«Nulla, vi chiedo soltanto una cosa, che non bestemmiate più». È in questi anni che, facendo catechismo, don Sarto mette a punto un testo manoscritto a domanda e risposta, che sarà la base di quello che diventerà il famoso «Catechismo di San Pio X».

 Insofferente all’etichetta di corte, secondo la quale il Papa doveva mangiare da solo, come avveniva fin dai tempi di Urbano VIII, ammise a tavola prima uno e poi due segretari. Alcuni dignitari fecero notare lo strappo alla regola.
Pio X rispose: «Ho letto e riletto i Vangeli e gli Atti degli apostoli; ma non vi ho mai trovato che San Pietro mangiasse da solo». Papa Sarto fu anche ostile a qualsiasi forma di razzismo. A un proprietario terriero americano, che era andato ad annunciargli di aver costruito a proprie spese una chiesa riservata ai negri, disse: «Forse che i negri non sono figli di Dio come noi?». «Certo che lo sono», rispose l’uomo. «E allora, se sono nostri fratelli, perché fargli una chiesa separata?».

Disponibile e generoso di carattere, amabile per la sua umanità e la sua semplicità contadina, fu però intransigente nel rigore dottrinale e nel magistero ecclesiale, nonché geloso custode dei diritti della Chiesa nei confronti dello Stato. «La politica della Chiesa è di non fare politica», diceva. Proprio in quegli anni si era diffusa una corrente di pensiero meno radicato nella tradizione, che auspicava una maggiore partecipazione del laicato cattolico alla vita della Chiesa, proponeva la conciliabilità della scienza con la fede, propugnava la libertà di coscienza e la democrazia. La reazione di Pio X non si fece attendere, e con l’enciclica Pascendi Dominici gregis (1907) condannò il modernismo, richiamando i fedeli all’obbedienza e definendo i cattolici liberali dei «lupi travestiti da agnelli».

Pio X diede nuovo impulso alla liturgia e alla musica sacra, ordinò la compilazione del nuovo Codice di diritto canonico – che vide la luce soltanto dopo la sua morte, nel 1917, e porta dunque la firma del suo successore Benedetto XV – e riformò la Curia romana. Morì nel 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale. Aveva detto: «Io darei la mia vita per scongiurare l’orribile flagello», e si era rifiutato per due volte di esaudire la pressante richiesta dell’ambasciatore austriaco che lo sollecitava a impartire la sua benedizione apostolica sugli eserciti. «Io benedico la pace», aveva risposto.


 
Benedetto XV (1914-1922) il Papa della decisione...

Nella famosa Nota alle nazioni, del 1° agosto 1917, parlerà del conflitto come «inutile strage». Una posizione contrastata dalle nazioni cattoliche, al punto che Benedetto XV confida: «Vogliono condannarmi al silenzio. Non riusciranno mai a sigillare il mio labbro. Guai se il Vicario del Principe della pace fosse muto nell’ora della tempesta. La paternità spirituale universale, di cui sono investito, mi impone un dovere preciso: invitare alla pace i figli che dalle opposte barricate si trucidano a vicenda». La condanna della guerra, che per la prima volta si affaccia sulla scena dell’umanità come mondiale e capace di portare alla morte milioni di uomini, non è formulata soltanto in termini morali, ma anche teologici e biblici, che invitano a considerare gli uomini come «figli di un unico Padre che è nei cieli», dotati «di una medesima natura» e «parti tutte di una medesima società umana». E il Papa mette a punto, con il suo Segretario di Stato Pietro Gasparri, il criterio di «imparzialità»: la Santa Sede intende rimanere al di sopra delle parti, fuori dagli schieramenti, ma ciò non significa che essa sia «neutrale» rispetto a quanto sta avvenendo.

Di carattere riflessivo, poco avvezzo agli scatti d’ira, ma fermissimo, Papa Della Chiesa amava a tal punto la puntualità da regalare ai suoi collaboratori degli orologi, dicendo loro: «Tieni, prendi questo. Così non avrai più scuse per arrivare in ritardo». In un suo autografo del 1915 si trova scritto: «Un buon orologio può giovare a renderci esatti e pronti ad ogni convegno, senza perdere tempo con inutili anticipazioni, o senza apparire scortesi con ingiustificati ritardi». Proprio l’attenzione per la puntualità gli sarà fatale, all’alba del 17 novembre 1921, quando dovette attendere per qualche minuto il gendarme che gli apriva la porta che dalla Sala del Sacramento immette nella Basilica di San Pietro. Doveva andare a dire la Messa mattutina dalle suore di Santa Marta e quella breve attesa al freddo gli fece prendere un raffreddore che, diventato bronchite, lo porterà alla tomba il 22 gennaio 1922.

Abile navigatore nel mondo delle astuzie curiali, controllava ogni aspetto della vita della Santa Sede ed era solito stilare una pagella con relativi punteggi da consegnare a fine mese al direttore dell’Osservatore Romano, il conte Giuseppe Dalla Torre, e ai redattori del quotidiano vaticano. Racconterà il direttore: «Le correzioni, invece, giungevano subito. Una volta il giornale aveva segnalato presente a una cerimonia a Bologna – mentre non c’era stata affatto – la signora Augusta Nanni Costa, che il Papa aveva voluto fra i partecipanti alla Giunta direttiva; aveva assegnato all’America una certa isoletta asiatica; aveva visto ad un’altra cerimonia una nota personalità. Benedetto XV scrisse: “La signora Nanni Costa non era quel giorno a Bologna; l’isola appartiene all’Asia; la personalità è morta. Dunque l’Osservatore Romano dona l’ubiquità, trasporta da un continente all’altro le terre, risuscita i morti”».

Giacomo Della Chiesa fu anche un ottimo talent-scout, buon conoscitore delle qualità dei suoi sottoposti. Si deve alle sue decisioni l’ascesa di ben tre suoi successori: è stato Benedetto XV ad avviare alla carriera diplomatica il Prefetto della Biblioteca vaticana Achille Ratti, che diventerà nunzio in Polonia, cardinale arcivescovo di Milano per qualche mese prima di essere eletto Papa. È stato Benedetto XV a consacrare personalmente arcivescovo Eugenio Pacelli, nominandolo nunzio in Baviera, così come è stato sempre lui a chiamare a Roma da Bergamo don Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, affidandogli l’incarico di direttore dell’Opera di Propaganda Fide.

Uomo di grande carità, venne accusato di sperperare gli averi del Vaticano. «Corre voce che io dilapidi i beni della Santa Sede – dirà in un colloquio privato -. Salvo ciò che ho trovato di suo patrimonio, credo che quanto entra in questo cassetto deve puntualmente uscirne. La Provvidenza provvederà. Questo è il suo compito».

Di Benedetto XV si ricorda infine anche lo spiccato senso dell’umorismo. In un suo testo autografo, con relativa fotografia, indirizzato ai Vigili del fuoco vaticani, scrisse: «Benediciamo di cuore le “Guardie del fuoco” nel Vaticano, coll’augurio che non abbiano mai a spegnere incendi, perché Noi siamo anticipatamente persuasi del valore che nell’eventuale circostanza saprebbero dimostrare».





Pio XII (1939-1958) la sensibilità del Pastor Angelicus

Oltre che un uomo di grande sensibilità, è stato anche un grande Papa. Il Pontefice più citato dal Concilio Vaticano II (un’idea, quella del Concilio, che lui stesso aveva preso in esame ma che decise di abbandonare perché non si potevano tenere i vescovi troppo tempo fuori dalle loro diocesi nell’epoca difficile della ricostruzione postbellica), il Papa che ha iniziato la riforma liturgica e proclamato l’ultimo nuovo dogma della Chiesa cattolica, quello dell’Assunzione di Maria (1950). Che ha iniziato a pronunciare discorsi ad hoc per le varie categorie professionali, inaugurando un stile che sarà fatto proprio dai suoi successori, in particolare da Giovanni Paolo II: rimane ancora famoso e citatissimo quello alle ostetriche.



Giovanni XXIII (1958-1963) buono, ma non sprovveduto...

Giovanni XXIII è stato purtroppo vittima di due interpretazioni a loro modo riduttive. La prima è quella che lo dipinge soltanto come «Papa buono», fermandosi soltanto ai fioretti e all’abbondante e non sempre veritiera aneddotica. La seconda, portata avanti dalla scuola bolognese del professor Giuseppe Alberigo, lo dipinge come un vero e proprio «rivoluzionario», attribuendo a lui tutte le decisioni innovative indubbiamente prese, e alla Curia romana «frenante» tutte quelle di segno opposto. In realtà Roncalli non è mai stato un rivoluzionario.

Anzi, è stato piuttosto un Papa tradizionalista, che ha fatto celebrare un Sinodo romano con prescrizioni così severe per i sacerdoti da apparire decisamente anacronistiche. È risaputo che avrebbe voluto che il Concilio si concludesse in tre mesi. Imbevuto di sapienza contadina, sapeva usare tutte le «armi» per far breccia nell’interlocutore, come dimostrano i messaggi a Kruscev, in occasione della crisi dei missili cubani, o la storica udienza ad Adjubej, genero del presidente del Comitato centrale dell’Urss. La sua distinzione fra l’errore e l’errante - il primo è comunque da condannare, mentre il secondo è da perdonare e da accogliere - segnerà la vita della Chiesa, ma anche della politica italiana, con le timide aperture al centrosinistra dopo anni di rigide prese di posizioni vaticane.
Ma far passare il suo «aggiornamento» per rivoluzione senza ritorno significa creare un’immagine fittizia del Papa bergamasco.

Scriverà l’arcivescovo inglese John Carmel Heenan: «Papa Giovanni non era un innovatore... Il Papa che ho conosciuto non somigliava per niente al Giovanni mitico. Il mio Papa Giovanni somigliava più a un parroco di campagna, pieno di bontà». Pieno di bontà, santo, ma anche sufficientemente furbo, in grado di far «digerire» ai potenti cardinali curiali quell’aggiornamento di cui necessitava la Chiesa e al tempo stesso di tenere a bada con decisione quelle spinte in avanti che giudicava inopportune o pericolose.

 Paolo VI (1963-1978)il Papa dell'umanità inquieta  


«Forse il Signore mi ha chiamato e mi tiene a questo servizio - scriverà ilgorno dopo la chiusura del Concilio - non tanto perché io vi abbia qualche attitudine, o affinché io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che Egli, non altri, la guida e la salva».
Così descriveva il suo stato d’animo: «La mia posizione è unica. Vale  adire che mi costituisce in un’estrema solitudine. Era già grande prima, ora è totale e tremenda. Dà le vertigini. Come una statua sopra una guglia, anzi una persona viva, quale io sono... Anche Gesù fu solo sulla Croce... Non devo avere paura, non devo cercare appoggio esteriore che mi esoneri dal mio dovere. E soffrire solo... Io e Dio».

Soltanto dopo la sua morte, il segretario Macchi rivelerà che il Papa spesso indossava il cilicio, la cintura ruvida con nodi che si porta a contatto con la pelle per mortificare il corpo.

I suoi puntuali e personali interventi nei lavori del Concilio dimostrano come abbia saputo andare contro le opinioni e desideri dei suoi stessi amici che lo avevano eletto, così come accadde con la promulgazione dell’enciclica Humanae vitae (1968), l’ultima da lui scritta, che segnerà il momento di maggior isolamento di Papa Montini, ferocemente attaccato e criticato anche all’interno della Chiesa per non aver liberalizzato i contraccettivi dichiarandoli leciti: «Non abbiamo mai sentito come in questa congiuntura il peso del nostro ufficio. Abbiamo studiato, letto, discusso quanto potevamo; e abbiamo anche molto pregato...». Proprio in quell’anno, nel mezzo della bufera post-conciliare che squassa la Chiesa cattolica, Paolo VI sente la necessità di fissare nel Credo del popolo di Dio i contenuti inderogabili della fede cattolica.

Fedele al nome che si è scelto, quello dell’Apostolo delle genti, il Papa inaugura i viaggi all’estero che costituiranno una delle caratteristiche del suo successore Giovanni Paolo II. Visita la Terra Santa (Giordania e Israele),  l’India, gli Stati Uniti, il Portogallo, la Turchia, la Colombia, la Svizzera, l’Uganda e - nell’ultimo lungo viaggio del 1970 - l’Iran, il Pakistan, le Filippine, le Isole Samoa, l’Australia, l’Indonesia, Hong Kong e lo Sri Lanka. Durante questa trasferta, subisce a Manila un attentato da parte di uno squilibrato che lo accoltella con un kriss, il pugnale dalla lama ondulata che penetra nel collo e nel  petto del Pontefice. La ferite appaiono «serie», ma il Paolo VI non vuole che si sappia e decide di continuare il viaggio.


 
   Giovanni Paolo I (1978) il Papa ...parroco...

È passato come un soffio, appena 33 giorni, tanti quanti gli anni di Gesù. È stato dimenticato dai dotti, dai sapienti, dagli ambienti ecclesiastici che contano, quasi schiacciato tra due grandi Pontefici e due grandi pontificati, quello del predecessore Paolo VI e quello del successore Giovanni Paolo II. Eppure Papa Albino Luciani, l’umile montanaro figlio di un operaio socialista, è rimasto nel cuore della gente semplice. Di tanti fedeli rimasti commossi e affascinati da quel sorriso grato che Giovanni Paolo I ha mostrato al mondo nel suo brevissimo regno.

Era stato il suo parroco a spiegargli che l’omelia deve essere capita anche dalla vecchietta che non è mai andata a scuola, e sta in fondo alla chiesa mentre assiste alla Messa. Così, fin dall’inizio della sua missione, Albino Luciani imparerà a fare quella che definirà «catechetica in briciole», insegnando le verità di fede in modo semplice, diretto, comprensibile a tutti. Con lo stesso affetto di una madre che si china a spezzare il pane per i suoi numerosi figli affamati.

«Io ho una persuasione - scriverà -: che ogni predicazione, anche agli adulti, anche ai laureati, tanto più efficace quanto più è “catechistica”, cioè quanto più si ferma, per il contenuto, alle verità fondamentali e quanto più nella forma, è piana, familiare, lontana da ogni retorica, ricca di esemplificazioni. Per me la semente scelta, buona, ottima è il catechismo...». In questo, Giovanni Paolo I seguirà l’esempio e le orme di un altro patriarca di Venezia e poi Papa nato in Veneto, San Pio X, autore del famoso catechismo a domanda e risposta, che aveva continuato a insegnare la dottrina ai bambini anche durante il suo pontificato.

Il 23 settembre, durante la sua unica uscita dal Vaticano dopo l’elezione per la presa di possesso della Basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale del vescovo di Roma, rispondendo al saluto del sindaco di Roma Giulio Carlo Argan, Giovanni Paolo I dice: «Alcune delle sue parole mi hanno fatto venire in mente una delle preghiere che fanciullo, recitavo con la mamma. Suonava così: “I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio sono... opprimere i poveri, defraudare la giusta mercede agli operai”: A sua volta, il parroco che mi interrogava alla scuola di catechismo: “I peccati, che gridano vendetta al cospetto di Dio, perché sono dei più gravi e funesti?”. E io rispondevo col Catechismo di Pio X: “... perché direttamente contrari al bene dell’umanità e odiosissimi tanto che provocano, più degli altri, i castighi di Dio”. Roma sarà una vera comunità cristiana, se Dio vi sarà onorato non solo con l’affluenza dei fedeli alle chiese, non solo con la vita privata vissuta morigeratamente, ma anche con l’amore ai poveri. Questi - diceva il diacono romano Lorenzo - sono i veri tesori della Chiesa; vanno pertanto aiutati, da chi può, ad avere e ad essere di più senza venire umiliati e offesi con ricchezze ostentate, con denaro sperperato in cose futili e non investito - quando possibile - in imprese di comune vantaggio».

[SM=g1740771]


[SM=g1740717] Un gatto nero sulla strada del Papa. Niente paura, è il suo amico Ciccio...(Rodari)



Un gatto nero sulla strada del Papa Niente paura, è il suo amico Ciccio...


di Paolo Rodari


Joseph Ratzinger non ha mai avuto un gatto. Non ce l'aveva quando da cardinale prefetto dell'ex Sant'Uffizio abitava in piazza della Città Leonina, a ridosso delle mura leonine.
E non ce l'ha nemmeno oggi che, per volere del collegio cardinalizio che lo ha eletto al soglio di Pietro nell'ormai lontano 19 aprile del 2005, abita le stanze del terzo piano del palazzo apostolico.
Che non abbia un gatto non significa tuttavia che non li ami. Lo sanno bene i suoi collaboratori e lo sanno soprattutto i responsabili per la Tutela della fauna del Vaticano, il professor Klaus Friedrich e Giulia Artizzu i quali, sotto la supervisione del numero due del Governatorato, monsignor Giuseppe Sciacca, hanno allestito nei giardini vaticani una cassetta per il ricovero di un gatto speciale: Ciccio, noto oltre il Tevere come «il gatto del Museo». «Si tratta di un gattone nero molto socievole e sicuro del proprio fascino» scrive la Artizzu in All'ombra del cupolone, un foglio informale distribuito tra i dipendenti del Governatorato. Ciccio è conosciuto da tutti gli abituali frequentatori dei giardini, anche da Papa Benedetto XVI che il pomeriggio, prima di ritirarsi per la preghiera dei vesperi, ama passeggiare fino alla grotta dedicata alla Madonna della Guardia, in cima ai giardini, recitando con il suo segretario particolare la preghiera del rosario. [SM=g1740738]

Beninteso, di gatti nei giardini Ratzinger ne incrocia parecchi: il polmone verde che si apre dietro la basilica di San Pietro ha da sempre una fauna variegata - dai pappagalli ai colibrì fino alle raganelle, senza dimenticare tritoni e orbettini - ma sembra che soltanto Ciccio sia riuscito a entrare nel cuore degli abitanti del Vaticano tanto che di fatto è riuscito a farsi adottare.

Appena Ratzinger venne eletto Pontefice, fu il cardinale Tarcisio Bertone, allora ancora arcivescovo di Genova ma per anni numero due della Congregazione per la dottrina della fede, a svelare in un'intervista rilasciata a Famiglia Cristiana l'amore di Ratzinger per i gatti. Disse: «Ratzinger ai tempi dell'ex Sant'Uffizio parlava con i gatti, si fermava e diceva qualcosa in tedesco, probabilmente in dialetto bavarese; portava sempre qualcosa da mangiare ai gatti e se li tirava dietro nel cortile della Congregazione». Furono queste parole ad alimentare quella che si è poi rivelata essere soltanto una leggenda: come Paolo VI che una volta eletto portò in Vaticano il suo bel gattone, come Pio XII che portò nel palazzo apostolico i suoi due cardellini, anche Benedetto XVI secondo la vulgata doveva aver portato al terzo piano del palazzo il suo amato gatto.

Nessun gatto nell'Appartamento, dunque, seppure la passione del Pontefice per i gatti sia reale: fonti vaticane rivelano che, nelle settimane che hanno preceduto l'elezione, Ratzinger avrebbe offerto un gatto in dono a un amico cardinale un po' giù di morale. Nelle ore che sono seguite all'elezione si scatenò anche una caccia ai felini tanto cari al nuovo Pontefice. Venne immortalato un bel soriano di nome Chico che accese le fantasie di molti quotidiani internazionali. «Di gatti ne abbiamo due, ma sono di porcellana», tagliò però corto Ingrid Stampa, per anni fedele «governante» di Ratzinger e oggi officiale della Segreteria di Stato addetta ai testi del Pontefice in lingua tedesca. Era lei che dopo i pasti del cardinale scendeva a Borgo Pio per distribuire ai felini gli avanzi.
Recentemente sul Papa e i gatti ha detto la sua il segretario in seconda dell'Appartamento, il maltese don Alfred Xuereb. 53 anni, lavora accanto al Papa dal 2007. Don Xuereb si è recato recentemente in una parrocchia di Nichelino: una toccata e fuga, per ricordare il quinto anniversario della morte del suo amico e conterraneo don Joe Galea. Qui ha parlato dei suoi giorni accanto a Benedetto XVI e soprattutto di quel gatto che il Papa non ha mai avuto. Ha detto: «Intanto non è vero che in casa abbiamo un gatto, anche se Papa Benedetto ama molto gli animali.

Si narra che da cardinale ogni tanto si fermasse per strada per rivolgersi a qualche gatto. Qualcuno chiedeva: Scusi eminenza, ai gatti parla in tedesco o in italiano? “Loro non capiscono le lingue, ma il tono di voce sì”, obiettava lui. Senz'altro il Papa è appassionato di musica; è un eccellente pianista. Qualche volta dopo cena sentiamo che suona il pianoforte. E poi sicuramente ci sono i libri: il suo studio ne è pieno. È uno studio arredato in modo molto semplice; gli scaffali e la scrivania sono gli stessi di quando era professore all'università di Tubinga».
Insomma, nessun gatto nell'Appartamento seppure da pochi giorni un gatto abiti i giardini del Papa: Ciccio, il «gatto del Museo», per lui un piccolo appartamento in uno dei luoghi più esclusivi del mondo.


 Copyright Il Giornale, 29 aprile 2012

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[Modificato da Caterina63 29/04/2012 11:03]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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25/12/2011 02:00
 
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Inaugurato presepe in piazza S. Pietro in Vaticano

Pomeriggio di musica e preghiera quello di oggi in Piazza San Pietro. Alle 16.45 è iniziata la cerimonia di inaugurazione del Presepe, una tradizione iniziata nel 1982 per volere di Papa Wojtyla e affidata al Governatorato della Città del Vaticano. Nell’anno della Beatificazione di Giovanni Paolo II, il Papa del “Totus Tuus”, la grande Natività, nei suoi quadri laterali, si ispira in particolare alla vita di Maria. La cerimonia si è conclusa con una preghiera guidata dal cardinale Angelo Comastri e alle 18.00 con l’accensione, da parte del Papa, del lume della pace posto sul davanzale della finestra del suo studio privato. Ad animare la cerimonia è stato anche l’omaggio musicale, intitolato “La Chiarastella”, offerto dall’Orchestra popolare dell’Auditorium Parco della musica di Roma diretta dal maestro Ambrogio Sparagna. Oltre 100 voci, tra cui 60 bambini, accompagnate da strumenti tradizionali d’Italia e del mondo in una rassegna di melodie popolari natalizie. Gabriella Ceraso ne ha parlato con il maestro Sparagna:
R. – Io ho pensato ad un presepe cantato, qualcosa che raccogliesse l’animo semplice e fortemente devoto del popolo italiano e non solo.

D. – I canti ricostruiscono il senso religioso del Natale, a prescindere dai lustrini e dalla frenesia che ci circonda. Cosa raccontano?
R. – Tutto questo grande repertorio è ascrivibile a Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che pensava di porgere il Vangelo attraverso le canzoni. Raccontano questa volontà di fare festa insieme a Gesù Bambino, nella semplicità del racconto ed anche della fede. Queste sono affermazioni di fede, non si tratta soltanto di un esercizio melodico o creativo: questo grande repertorio sta in piedi perché la gente ci crede davvero. Gli zampognari, quando cantano queste cose, sono fortemente compresi in questa loro funzione, sono in qualche modo i predestinati, quelli che hanno capito per primi la stella ed hanno seguito la sua luce. Noi chiamiamo lo spettacolo “La Chiarastella” proprio per questo motivo. E’ questo il segno che vogliamo dare: la semplicità del messaggio che il mistero dell’Incarnazione ci offre, oggi più che mai. Perciò ho affidato due canti ai bambini, che sono entrambi di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori: “Ninna nanna” e “Questo bambino mio bellissimo”.

D. – Ha citato il vescovo e Santo Alfonso Maria de’ Liguori. I suoi canti, della metà del ‘700, sono ancora vivi fino al 2011. Com’è possibile?
R. – E’ possibile perché erano canti che servivano fondamentalmente a raccontare uno spirito di sincera adesione al mistero dell’Incarnazione. Sono canti che creano unione, che creano identità ed hanno una forza straordinaria. Certo, bisogna rileggerli in una logica di musica viva, pulsante. Quando si canta davanti a Gesù Bambino si deve fare festa! Così ci insegna Sant’Alfonso, non lo sto dicendo io. Lui diceva “Bambino mio bellissimo, tu m’hai rubato il cuore. Bambino mio dolcissimo, per te ardo d’amore”. Il Natale è questa gioia, questo stare insieme. E’ bellissimo, poi, stare insieme a tante storie, a tante culture diverse e a tanti mondi diversi.

D. – Un canto bavarese per il Papa, c'è anche questa sorpresa in programma...
R. – Sì, nell’area bavarese si tratta di una tradizione che conosco, in un certo senso è l’equivalente del nostro “Tu scendi dalle stelle”.

D. – E il Papa conosce questo canto ...
R. – Penso proprio di sì. (vv)

fonte: RadioVaticana

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I Giardini Vaticani nel presepe del Papa. Originale rappresentazione della Natività nell'appartamento privato (O.R.)

Originale rappresentazione della Natività nell'appartamento privato

I Giardini Vaticani nel presepe del Papa

Ha un'atmosfera familiare quest'anno il presepe allestito nell'appartamento privato di Benedetto XVI. È stata riprodotta in scala la zona dei Giardini Vaticani dove il Pontefice passeggia ogni giorno. Si scorgono così la grotta di Lourdes, la torre di San Giovanni, il torrino, l'edicola di Santa Teresa di Lisieux, il passetto e parte del piazzale che va verso gli edifici di Radio Vaticana. Lo hanno preparato le maestranze della Floreria in collaborazione con gli elettricisti dei Servizi Tecnici del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano.

(©L'Osservatore Romano 25 dicembre 2011)

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[Modificato da Caterina63 27/12/2011 13:14]
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Luigi Lilio: l'inventore del calendario


Un libro racconta le vicende di un uomo tanto geniale quanto sconosciuto


 

di Antonio Gaspari

ROMA, sabato, 7 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Contiamo i giorni e gli anni del calendario secondo la riforma da lui ideata. E’ stato un medico, astronomo e matematico di grande genio. Il papa Gregorio XIII, cardinali e scienziati lo hanno ringraziato pubblicamente. Un cratere della Luna ed un asteroide portano il suo nome. Il volto e la figura di suo fratello sono incisi in un bassorilievo che si trova nella Basilica di san Pietro, ma il suo nome e la sua opera sono sconosciute ai più.

Stiamo parlando di Luigi Lilio, un medico, astronomo e matematico nato a Cirò in provincia di Crotone nel 1510, geniale ideatore della riforma del calendario gregoriano.

Per far conoscere la storia, le vicende, i meriti di Luigi Lilio, lo storico Egidio Mezzi e il ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche Francesco Vizza, hanno scritto per “Laruffa editore” il libro “Luigi Lilio –medico astronomo e matematico di Cirò- ideatore della riforma del calendario gregoriano”.

Il calendario, la conoscenza e la tecnica per calcolare ore, giorni, settimane, mesi, anni è una ricerca che attraversa tutta la storia dell’umanità.

Con lo sguardo rivolto al cielo, l’uomo ha cercato di misurare e calcolare i passaggi di luna sole, astri, al fine di calcolare precisamente il susseguirsi delle variazioni stagionali.

Disporre di un calendario quanto mai esatto è stato importantissimo per regolare le attività umane e prevedere quelle della natura. Per la Chiesa cattolica, il calendario ha assunto un significato più grande nel momento in cui ha dovuto calcolare esattamente il giorno in cui celebrare la Pasqua.

Nel 325 d.C: al primo Concilio di Nicea.si discusse del ritardo del calendario per fissare la festa di Pasqua, che nella tradizione e per evitare sovrapposizione con altre feste fu fissata all’equinozio di primavera, cioè 21 marzo. Ma il calendario giuliano era sempre più in ritardo così la Pasqua si svolgeva sempre più tardi.

Per ristabilire il giusto calcolo della Pasqua si discusse la riforma del calendario anche nel Concilio di Costanza (1414 – 1418). Se ne discusse al Concilio di Basilea, e in quello al Laterano (1512 – 1517) . Papa Leone X istituì una commissione, ma non si arrivò a conclusione. Diversi papi ci provarono senza esito: Eleuterio, Vittore I , Giovanni I , Clemente IV, Clemente VI, Sisto IV.

Al Concilio di Trento (1545-1563) si decise di demandare al Papa la soluzione della riforma del calendario, così Gregorio XIII istituì una commissione nel 1572, i cui lavori si conclusero nel 1580.

Nel 1582, con la bolla papale “Inter gravissimas”, il pontefice Gregorio XIII sancì la nascita e l’utilizzo del calendario tuttora in voga della maggior parte dei paesi del mondo.

Si tratta di un calendario solare, basato sul ciclo delle stagioni. L'anno si compone di 12 mesi di durate diverse (da 28 a 31 giorni), per un totale di 365 o 366 giorni. Gli anni di 366 giorni sono detti bisestili: è bisestile un anno ogni quattro, con alcune eccezioni come il 2200 che non sarà bisestile mentre saranno bisestili gli anni 2400 e 2800.

In quanto allo spostamento dell’equinozio di primavera dovuto al calendario giuliano, Lilio, propose di eliminare dieci giorni; Fu il gesuita tedesco Cristoforo Clavio che sulla base delle proposte di Lilio, suggerì di passare dal 4 al 15 ottobre 1582.

Il libro di Mezzi e Vizza, svolge un indagine accurata sul contesto culturale, scientifico e storico di quegli anni. Racconta delle buone relazioni che si svilupparono in un gruppo di eccellenti umanisti, cardinali e scienziati.

Da questa indagine emerge chiaramente che Luigi Lilio, latinizzato in Aloysius Lilius, fu il vero ideatore della riforma del Calendario gregoriano.

Scrisse nel 1582 il più noto padre gesuita Cristoforo Clavio, matematico e astronomo, membro della commissione istituita da Gregorio XIII per studiare la riforma del calendario: “E magari fosse ancora vivo Aloysius Lilius Hypsichronaeus uomo più che degno di immortalità, che fu il principale autore di una correzione tanto valida e risplendette sugli altri grazie alle cose da lui scoperte.”

Luigi non visse abbastanza per vedere la sua riforma approvata dal Papa né tantomeno per vederla pubblicata. Chi portò avanti il suo progetto fu il fratello minore Antonio, che si trova scolpito anche nel bassorilievo del mausoleo di Gregorio XIII, situato della Basilica Vaticana, dove, genuflesso, porge al pontefice il libro del nuovo calendario.

E’ Antonio Lilio che si trova anche tra i nove membri della commissione pontificia preposta a svolgere il lavoro.

Antonio Lilio era l’unico membro laico della commissione.

Ma il lavoro di Luigi Lilio era stato così importante nei calcolare e stabilire l’esattezza del Calendario che papa Gregorio XIII scrisse il tre aprile del 1582 “desideriamo favorire con speciale grazia lo stesso Antonio alfin di rimeritarlo di grandi e laboriosi studi sostenuti nell’esame e compilazione della riforma ideata dal fratello Luigi”.

Per ingraziare il lavoro di Luigi Lilio il Papa concesse ad Antonio Lilio il diritto esclusivo di pubblicare il calendario riformato per un periodo di dieci anni.

Nonostante le vicissitudine che hanno fatto perdere le tracce di Luigi, la sua opera era nota tanto è che nel 1651 l’astronomo ferrarese Giovanni Battista Riccioli autore insieme al padre gesuita Francesco Grimaldi di un antica mappa lunare, diede ad un cratere della luna il nome di Luigi Lilio.

Il nome di Lilio fu dato anche all’asteroide n.2346 della fascia principale scoperto da Karl Wilhelm Reinmuth. E sono almeno cinque i ritratti che ritraggono Luigi Lilio.

In conclusione al volume Egidio Mezzi e Francesco Vizza hanno scritto che “Lilio fu l’unico dopo secoli che riuscì a elaborare un calendario che accordando i diversi movimenti della terra, creò con la più vicina approssimazione possibile al numero dei giorni, che riproduce l’inclinazione esatta dell’asse terrestre rispetto al sole”.

“Alla Chiesa e alla comunità scientifica – hanno aggiunto - il compito di onorarlo come merita affinché il suo nome sfugga all’oblio e sopravviva nel grande libro della scienza”.

 

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24/04/2012 17:29
 
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Quel prelato col revolver che diventò Papa

Card. Domenico Calcagno

Ieri mattina diversi quotidiani hanno scritto del Card. Domenico Calcagno, 68 anni, presidente dell’APSA, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, e della sua passione per le armi (tra cui un revolver, leggo “degno dell’Ispettore Callaghan”), per la caccia e per il tiro a segno.


Il porporato è iscritto al tiro a segno nazionale dal 2003, vive in Vaticano con un segugio e tiene in casa chiuse in un armadio diverse armi (molte da collezione). Possiamo star tranquilli: quello del Card. Calcagno non è un arsenale atomico e questa passione non farà innervosire, né imbarazzare il Vaticano. Non è infatti la prima volta che un alto prelato tenga in casa o addirittura in ufficio una o più pistole. Calcagno ha un predecessore d’eccezione: nientemeno che Papa Pio XI!

Quando era ancora vescovo, Achille Ratti, teneva sempre a portata di mano un revolver con tanto di munizioni: nel 1907, Ratti era prefetto della Biblioteca Ambrosiana a Milano e teneva l’arma in un cassetto per impaurire eventuali malintenzionati (sapevano dell’esistenza del revolver soltanto lui e l’addetto di biblioteca, Virginio Ripamonti).

Poi nel 1914, quando fu nominato prefetto della Biblioteca Apostolica, Ratti portò il revolver con sé in Vaticano. In seguito, nel 1918, lo portò sempre con sé anche a Varsavia, quando Papa Benedetto XV lo nominò visitatore apostolico e poi nunzio in Polonia. Ed è proprio di questo periodo un promemoria scritto dall’allora Mons. Ratti in cui si parla della pistola. Si tratta di precise istruzioni sul materiale da spedire in Polonia

“Tutte le carte che stanno nelle due scrivanie in casa (…). Mettere tutte le dette carte nella valigia comperata a Milano, e portare a Varsavia – come anche il piccolo revolver e munizioni.”

Non è chiaro che fine abbia fatto quell’arma dopo il periodo trascorso nell’Europa dell’Est (non si hanno notizie del revolver durante il periodo in cui Ratti fu Arcivescovo di Milano, ma sicuramente lo riportò con sè in Italia). Di certo non sapremo mai se qualche anno dopo, quando diventò Papa col nome di Pio XI, il neo Pontefice nascose quel revolver in qualche cassetto del Palazzo Apostolico.

 

[SM=g1740733]

 

 “Io, sediario pontificio”: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/thumb/b/b4/Giovanni_XXIIIsedia.jpg/300px-Giovanni_XXIIIsedia.jpg

 

in un libro il racconto di un antico servizio ai Papi

È stato presentato, ieri presso la Sala Marconi della nostra emittente, il libro di Massimo Sansolini “Io, sediario pontificio”, edito dalla Libreria Editrice Vaticana. Il volume, che fa seguito a un altro scritto dall’autore, a servizio del Papa dal 1964, si concentra in particolare sul lavoro svolto in occasione dei funerali di Giovanni Paolo II e sulle occasioni di incontro con i malati del Beato Karol Wojtyla e del suo successore Benedetto XVI. Il servizio di Roberta Barbi:

Emozioni, ricordi, piccoli attimi colti nell’immenso, frammenti di Pontificato filtrati attraverso il cuore. È un’opera intima e personale, ma che al tempo stesso racconta molto di atti e cerimonie secolari, quella di Massimo Sansolini, il sediario pontificio forse più noto, che presta servizio presso il Palazzo Apostolico da 48 anni. È uno sguardo interiore, il suo, incantato e partecipe, che sa tradursi in parole intense e partecipate, mentre racconta un’esperienza certamente unica e originale, per alcuni tratti simile a quella degli Apostoli nel Vangelo:

“Il Signore ha voluto che io - parlo di me, sediario pontificio - noi, vivessimo l’esperienza degli Apostoli. Ci sono stati momenti molto belli, ai quali io ripenso con tanta serenità. Me ne accorgo adesso: è come guardarsi in un caleidoscopio, qualcosa che è più ampio di quello che è sembrata la realtà in quel momento. Sull’eco del ‘noi’ usato dai Pontefici, anche un sediario, deve parlare con il ‘noi’; ma non per alterigia, ma perché Massimo Sansolini e anche tutti gli altri, nel grande onore di sostenere il Vicario di Cristo, siamo sempre stati in dodici. Noi sediari, come il Papa, moriamo in servizio”.

Da 34 anni i sediari non portano più la sedia gestatoria del Papa, ma hanno altri compiti. L’autore si sofferma su quello, triste e onorevole, del trasporto del feretro di Giovanni Paolo II dall’appartamento Pontificio in piazza San Pietro e poi nella Basilica Vaticana per le esequie. Ma oggi i sediari si occupano anche di accudire i malati che partecipano alle udienze generali: più di tutti sono accanto a questi fratelli provati nel corpo e nello spirito, che l’autore definisce “tutti Cristo, tutti piccoli vicari sofferenti”, ringraziando il Signore di avere la possibilità di dedicarsi a loro:

“Fortunatamente queste persone, in particolare, i malati danno una certezza che c’è l’amore, che c’è la bontà tra noi. E quando, alle volte, ho timore di essere eccessivo nel fare una carezza ad una di queste persone, anche adulta… qualsiasi altro vicino aspetta la carezza”.

Il ruolo del sediario pontificio ha alle spalle una grande tradizione: sono tra coloro più vicini al Papa, che vivono con il Pontefice quasi quotidianamente, come ricorda mons. Paolo De Nicolò, reggente della Casa Pontificia:

“Chi sono i sediari? Non c’è più la sedia gestatoria. Ma nonostante i sediari pontifici di numero e soprannumero, non portino più a spalla, non significa che non rimanga una specie di 'mistica della sedia'. I sediari pontifici hanno un contatto quotidiano con il Santo Padre. Questo stabilisce una specie di 'cognatio spiritualis', una sorta di parentela spirituale”.

Fedeltà al proprio dovere e un grande amore per l’istituzione del Papato, è ciò che emerge dal libro, capace, però, anche di suscitare nel lettore immagini, ricordi ed emozioni comuni, nonché di ravvivare la fede personale nel mistero pasquale di Cristo morto e Risorto, come non manca di sottolineare mons. Piero Marini, presidente del Comitato per i Congressi eucaristici internazionali:

“La lettura di questo libro ha suscitato in me tanti ricordi. A un anno dalla Beatificazione di Giovanni Paolo II, ho ancora negli occhi, la folla immensa di fedeli che partecipava, l’immagine di questo velo bianco che si alzava sull’immagine di Giovanni Paolo II, l’applauso immenso, le parole di Papa Benedetto: “Ecco, il giorno atteso è arrivato presto, perché così è piaciuto al Signore. Giovanni Paolo II è Beato”. Ma soprattutto, questo libro ha suscitato in me, le immagini della sofferenza, perché Massimo ci ha fatto, in qualche modo, rivivere il momento dei funerali di Papa Giovanni Paolo II”.

 Radio Vaticana

[SM=g1740771]

 

[Modificato da Caterina63 24/04/2012 17:37]
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05/07/2012 15:19
 
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Le novità che Benedetto XVI vedrà nella residenza estiva di Castel Gandolfo (O.R.)


L'arrivo nel tardo pomeriggio di martedì 3 luglio


La comunità di Castel Gandolfo ha accolto Benedetto XVI


Per il secondo anno consecutivo Benedetto XVI trascorrerà l'intero periodo estivo nella residenza delle Ville Pontificie a Castel Gandolfo, dove è giunto intorno alle 18 di ieri, martedì 3 luglio. Decisione in un certo senso annunciata già lo scorso anno proprio quando, al momento del suo arrivo, spiegò la sua predilezione per la cittadina laziale, dove il Papa è certo di poter trovare tutto ciò di cui ha bisogno per trascorrere un periodo di riposo immerso nella quiete e circondato da una natura rigogliosa -- «montagna, lago e vedo persino il mare» disse in quell'occasione -- accanto a una «bella chiesa» e tra «gente buona».

Tanti «cari amici», come ha salutato i suoi “temporanei” compaesani appena giunto tra di loro. La prima cosa che ha fatto è stata proprio comunicare la sua gioia. Si è affacciato infatti al balcone esterno del Palazzo Pontificio e a coloro che si sono radunati sulla piazzetta prospiciente per dargli il benvenuto ha confidato la sua felicità «per essere arrivato qui per le mie ferie. Auguro a tutti un buon riposo» ha detto aggiungendo anche l'auspicio che tutti possano godere della frescura che offre Castel Gandolfo. «Speriamo -- ha poi proseguito -- che possiamo rinnovarci spiritualmente e fisicamente in questa bella, piccola città circondata dalla bellezza della creazione». Infine ha ringraziato i presenti e ha rinnovato il suo augurio di buone vacanze per tutti.

Il Pontefice era giunto dalla Città del Vaticano in elicottero, accompagnato dal prefetto della Casa Pontificia, l'arcivescovo James Michael Harvey, dal reggente, il vescovo Paolo De Nicolò, dai monsignori Georg Gänswein, suo segretario particolare, e Alfred Xuereb, della segreteria particolare.
All'eliporto delle Ville Pontificie lo hanno accolto il cardinale Giuseppe Bertello, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, con il segretario generale, il vescovo Giuseppe Sciacca, il vescovo di Albano, Marcello Semeraro, padre Josef Mai, vice direttore della Specola Vaticana, don Pietro Diletti, parroco della parrocchia pontificia di San Tommaso da Villanova, e il direttore delle Ville Pontificie, Saverio Petrillo, il quale come sempre ha portato al Papa il primo saluto della comunità.
La popolazione della ridente cittadina laziale è stata rappresentata dal neo sindaco Silvia Monachesi. Il resto del Consiglio comunale ha applaudito al Papa dai balconi del municipio che si affacciano proprio sul lato destro del Palazzo Pontificio.

Come già annunciato, per tutto il mese di luglio restano sospese le udienze, mentre è confermato l'appuntamento domenicale per la recita dell'Angelus. Confermate anche le due uscite già programmate. Lunedì 9 luglio Benedetto XVI si recherà nel Centro Ad gentes dei padri Verbiti a Nemi. Incontrerà i religiosi riuniti per il capitolo generale, ma per il Papa sarà anche occasione per rivivere il ricordo di una sua precedente permanenza in quella casa. Era il 1964, e Joseph Ratzinger partecipava ai lavori del Vaticano II in qualità di perito. Con alcuni colleghi teologi trascorse alcuni giorni proprio nel convento di Nemi per lavorare su alcuni temi conciliari.

L'altra uscita riguarda la visita a Frascati, dove celebrerà la messa domenica 15 luglio. Confermato infine il concerto che sarà offerto dalla West-Eastern Divan Orchestra, diretta dal maestro Daniel Barenboim, nel pomeriggio di mercoledì 11 luglio, nel Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo.
Da segnalare, infine, alcune novità che Benedetto XVI vedrà nella residenza estiva. Si tratta innanzitutto della ristrutturazione dell'ala del Palazzo situata al fianco del lago. Dove prima c'erano i locali occupati dalla Specola Vaticana -- trasferita nel 2009, come è noto, nell'ex monastero delle monache basiliane ai confini con la piazza di Albano -- sono state allestite, al primo piano, nuove sale per le udienze e, nel sottostante piano rialzato, sono stati ricavati alcuni locali per la Guardia Svizzera e un ulteriore punto di pronto soccorso, modernamente attrezzato, al servizio dei pellegrini che raggiungeranno il Palazzo in occasione di udienze e di altri eventi aperti al pubblico.

Lavori di restauro anche per la parrocchia di San Tommaso da Villanova. Conclusi quelli relativi alla facciata, stanno ormai arrivando al termine anche quelli all'interno. Obiettivo è restituire al tempio il tratto berniniano originario.

Infine un paio di novità anche nella fattoria pontificia. «Abbiamo impiantato -- ci ha spiegato il direttore Petrillo -- due piccoli vitigni, uno di uva rossa e uno di uva bianca. Il Papa avrà certamente occasione di vederli, magari durante una delle sue passeggiate domenicali, solitamente più lunghe di quelle che fa nei giorni feriali che per lui, anche qui a Castello, sono comunque giorni di lavoro, di studio e di riflessione. Ho piacere di mostrarglieli perché per noi hanno assunto un simbolismo particolare. Abbiamo collocato l'impianto proprio ai piedi della statua del Buon Pastore. Cosicché qui in Villa lo abbiamo battezzato “La vigna del Buon Pastore”.

E chissà forse il Papa, durante una delle sue passeggiate quotidiane, incontrerà anche gli ultimi abitanti della fattoria, i due asinelli recentemente donati alle Ville e gelosamente allevati da tutta la comunità».



(L'Osservatore Romano 5 luglio 2012)

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Vogliamo  arricchire queste cronache con quanto riportato dalle fonti Domenicane, a cura di mon. Ludovico Ferretti e  padre Tito Centi O.P. - Firenze 1956 - in "Vocazioni Domenicane".


Il futuro Papa Benedetto XI, anche sotto altri aspetti, si presenta a noi come l'antitesi perfetta del suo grande confratello Tommaso d'Aquino.
San Tommaso era nato nobile e potente, ma detestò per tutta la vita le cariche per la sua persona, riuscendo ad evitare per tutta la vita ogni incarico di governo nel suo stesso istituto. Niccolò Boccasino invece nacque da modesti genitori, il padre era notaio del comune e morendo quando Niccolò era ancora bambino e lasciando la moglie con un altro figlio da mantenere, naturalmente la famiglia si ritrovò ben presto in forti ristrettezze economiche.


La sua fortuna, se di questa povertà dignitosa vogliamo parlare, somiglia molto a quella del suo grande conterraneo del nostro secolo, cioè a quella del grande Pontefice San Pio X.


Per fortuna piuttosto che la madre di Niccolò era molto pia, devota e coraggiosa, una donna forte che non ebbe mai paura di dover affrontare anche le fatiche più umili, e con le sue braccia provvedeva sempre il necessario per i suoi due bambini.
Se è vero che il Signore chiude una porta per spalancare un portone, come molte storie confermano, anche in questo caso per la pia vedova si spalancò un portone, quello del convento dei Domenicani.


Avvenne che l'instancabile mamma dei due giovani, Bernarda, sempre in cerca di lavoro, bussò alla porta dei Padri Domenicani i quali furono ben lieti di affidare ad una persona così seria e coscienziosa, la loro biancheria.


Per questi suoi impegni (all'epoca i frati non erano certo pochi) capitava che Bernarda andasse sempre più spesso al convento e naturalmente portava con se i due bambini Adeletta e Niccolò, i quali ben presto dimostrarono tutta la loro gioia di poter andare spesso al convento nel quale finirono per trovarsi a proprio agio.
Gli stessi Frati rimanevano ammirati della bontà, del candore e della santa educazione che traspariva dai volti e dai comportamenti dei due bambini, sempre allegri e disponibili ad intrattenersi con loro senza mai dare segni di insofferenza o di qualche noia. L'ammirazione era tale che un novizio, di buona famiglia, pensò persino di fare testamento in loro favore.

Niccolò sapeva davvero attirarsi l'attenzione e la commozione dei Frati per la vivacità (dicevano: ben educata), ma anche per la pietà attraverso la quale dimostrava di saper conoscere la Preghiera, e poi per la fine intelligenza che dimostrava di possedere.

Ecco perchè questo novizio, di cui si parlava, nel 1246 scriveva questa curiosa clausola nel suo testamento: "... lascio alla signora Bernarda, moglie del fu Boccaccio Notaio, ad Adeletta e a Niccolò, figluioli di lui, cinquanta libbre di piccoli veneziani; a queste condizioni, che se il detto Niccolò entrerà nell'Ordine dei Frati Predicatori, a lui sia devoluta la metà del predetto legato.." si pensi che Niccolò aveva allora appena sei anni...
A noi piace vedere come le trame della Divina Provvidenza lavorino instancabilmente con gli uomini.


Dunque, l'inclinazione che il bambino sentiva per la vita religiosa, senza dubbio, fu favorita in mille modi, ma mai costretta. Man mano che cresceva non aveva più bisogno degli accompagnatori per ritrovare la via del convento dove vi andava sempre più volentieri.

Niccolò si trovava di casa, e presso quei Frati egli apprese gli elementi fondamentali della cultura, cioè le arti del trivio e del quadrivio, come allora si diceva, inoltre dimostrava attitudine nel leggere e nello scrivere.

Ciò che meravigliava di più era l'umiltà e l'atteggiamento sereno della mamma Bernarda. Questa santa donna, infatti, avrebbe potuto anche esigere dal figlio, che tutti ammiravano per l'intelligenza, le doti nell'arte e del cuore, un aiuto ed un sostegno per lei, la sorella e, perchè no, pensare anche per la sua vecchiaia, e invece no, lei si sentiva orgogliosa e felice se Niccolò avesse manifestato l'intenzione di farsi frate.
"Dio - andava ripetendo - mi ha fatto già una grande grazia nel donarmi questo figliuolo, ma me ne farebbe una ancor più grande, se si degnasse di prenderlo al suo servizio!"
Curioso è che da questo momento in poi non si parlerà più, nelle cronache, della mamma Bernarda di Niccolò, e a noi piace di pensare a queste sue parole come ad un piccolo testamento, in fondo i suoi due figli erano davvero tutto il tesoro che possedeva, e lei ridonava al Signore quanto da Lui aveva ricevuto.

Tuttavia, sulla pia Bernarda, si racconta di un episodio che la tradizione ha voluto conservare nel tempo legato alla elezione del figlio Niccolò a Sommo Pontefice, e che vogliamo raccontarvi.

Dalla nativa Treviso sarebbe giunta a Perugia per riabbracciare almeno un ultima volta il figlio e vederlo in tanta gloria. Era giunta in città con poveri vesti di popolana. Ma prima di introdurla dal Pontefice, i cortigiani la convinsero, nonostante ne fosse contrariata, di vestirsi con abiti sfarzosi e principeschi che si addicevano alla mamma di un Papa.

Benedetto XVI appena la vide entrare imbarazzata sotto quelle vesti che non le si addicevano affatto, si mostrò dispiaciuto e tanto contrariato da non volerla ricevere.
La mamma soffrì molto ma comprese di aver sbagliato, rivestì i suoi abiti di popolana e appena il figliuolo la vide, gli andò incontro abbracciandola con infinita dolcezza davanti a tutta la corte.

Non abbiamo bisogno di consultare schedari ed altro a riguardo di alcune tappe di Niccolò, perchè lui stesso mise per iscritto questa testimonianza: " A quattordici anni entrai nell'Ordine; vi studiai altri quattordici anni, per altri quattordici esercitai l'ufficio di Lettore (ciòè insegnante. Nda), e ne trascorsi altri quattordici nelle cariche dell'Ordine, prima di essere eletto Maestro Generale..."

Quando a Treviso il futuro Papa vestiva le Bianche Lane domenicane, cioè nel 1254, pensate che san Tommaso d'Aquino aveva iniziato a Parigi la sua gloriosa carriera di insegnante e si preparava al Magistero; effettivamente l'ordine di san Domenico era all'apogeo del suo splendore...


E' vero che la "carriera" di Niccolò fu tutta in salita, ma da non confondersi con gli agi e gli allori come si penserebbe oggi quando si dice "ha fatto carriera", Niccolò infatti non solo non era un ambizioso, ma non era neppure un tipo accomodante, inoltre egli vedeva questo salire come la salita del Calvario e si diceva spesso curioso di sapere fino a che punto il Signore lo avesse portato sul Golgota, e pregava la Vergine Maria di non farlo mai deviare da tal percorso e che, giunti al fine della vita, ai piedi della Croce, lo avesse aiutato ad affrontare qualsiasi sacrificio definitivo che il Signore gli avesse chiesto.

Quando Bonifacio VIII gli conferirà il cardinalato, il Boccasino nell'atto di prostrarsi dinnanzi al venerando Pontefice, non potè fare a meno di chiedere commosso: "Beatissimo Padre, perchè avete posto sulle mie povere spalle un fardello così pesante?", e il Papa gli rispose: " Non preoccupatevi, questo ve lo impongo io, ma il Signore stesso ve ne imporrà un altro ancor più pesante, fatevi trovare pronto..."

 

E profezia fu!

Fra Niccolò Boccasino, nono Maestro Generale dell'Ordine di san Domenico, sarebbe diventato successore di Bonifacio VIII. A lui, umile frate domenicano, attendeva la sorte miseranda del Pontificato Romano dopo lo schiaffo d'Anagni. In quest'ultima dolorosa circostanza accanto al Pontefice oltraggiato, vi troviamo solo due fedeli cardinali, uno di essi è il nostro Beato.

Per due lunghi e dolorosissimi giorni egli dovette assistere impotente ed inorridito alla prigionia di Bonifacio ingiustamente calunniato, e nel suo palazzo fra insulti e scherni dei suoi feroci e volgari nemici.

Non è un caso che il così detto "secolo d'oro" dell'Occidente cristiano, si eclissava sotto gli occhi di un umile frate innalzato a tanto ruolo, in una atmosfera di vera e triste tragedia.

 

Il Beato Benedetto XI avrà così come missione quella di lanciare al mondo il grido di dolore e di esecrazione per tanto delitto, che egli definirà: "un'infame scellaragine, e una scellerata infamia".

Persino Dante Alighieri, dimenticando la propria antipatia irragionevole per Bonifacio, molto più onestamente si farà eco di questa energica denunzia del suo successore, con quei versi immortali:

"... veggio in Alagna entrar lo fiordaliso

e nel Vicario suo Cristo esser catto,

veggiolo un'altra volta esser deriso;

veggio rinnovellare l'aceto e il fele,

e tra vivi ladroni esser anciso.... (Purg. 20, 86-90)


Ma Benedetto XI non si sarebbe accontentato di gridare, se il Signore gli avesse concesso "quattordici anni" ancora, di pontificato, come egli forse segretamente sperava: egli avrebbe voluto probabilmente anche condannare e punire i responsabili di tale tragedia, ma come dice il Signore: "Non enim cogitationes meae cogitationes vestrae, neque viae vestrae viae meae, dicit Dominus. / i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore". (Is.55,8), così ad un mese preciso dalla Bolla che imponeva i colpevoli a presentarsi davanti a lui, Papa Benedetto XI moriva, era il 7 luglio dell'anno 1304, il primo anno del suo Pontificato.

La sua morte improvvisa e immatura, e dentro un contesto di governo molto delicato e decisivo, destò sconcerto, dolore e meraviglia, a tal punto che si ebbe persino qualche sospetto, si parlò di veleno.

Difficile oggi trovare la verità, solo Dio la conosce, comunque sia è storicamente dimostrato che l'Ordine di san Domenico aveva avuto l'onore e la benedizione di preparare in Benedetto XI, fin dalla più tenera età, l'ultimo baluardo della civiltà occidentale, minacciata dalla riesumazione di un paganesimo e di un nazionalismo gretto, fanatico e sempre più volgare. Il mondo non era degno di lui, non era degno di un Beato così fulgido.


Da quel momento i Papi che gli succedettero si rassegnarono a dimorare in Avignone, rendendosi più o meno consenzienti , strumenti compromessi alla politica francese.
Rileggendo la storia è assai probabile che tutta questa situazione doveva purtroppo preparare lo Scisma d'Occidente, e con esso accelerare la corruzione dei costumi nel clero e nel popolo, arrivare così anche al Protestantesimo e alle sue tristi conseguenze.
Secondo alcuni studiosi e dello stesso Cesare Cantù, si può affermare che l'Ordine Domenicano ebbe il compito provvidenziale di ritardare di tre secoli il dilagare dell'eresia in Europa, il che non ci sembra poca cosa.

Ma se Benedetto XI avesse avuto la possibilità di governare la Chiesa per quei "quattordici anni", qualcuno azzarda l'ipotesi che il Protestantesimo non avrebbe avuto il successo che ebbe:


Ma la storia non si fa con i sè e con i ma, ogni supposizione è inutile, del resto leggendo la storia non è un caso che un'altra grande figlia dell'Ordine Guzmano, Santa Caterina da Siena, ebbe il compito di riportare il Papato a Roma, sua Sede naturale e divina, quasi a voler chiudere un contenzioso che Benedetto XI non riuscì a chiudere, o che forse non gli permisero di chiudere.


Non ci resta che adorare l'arcano Consiglio di Dio, la sublime Divina Provvidenza, che per i peccati degli uomini non volle concedere al mondo il protrarsi del governo di un Pontefice così umile, beato e santo.

Sia di monito a noi oggi ricordare che i Santi li dobbiamo anche meritare, e che se abbandoniamo le vie del Signore, il Signore abbandonerà noi ai nostri progetti che se sono malvagi e perversi non faranno altro che condurci alla rovina.
Certo, il Signore è fedele e proteggerà sempre la Chiesa: Et ego dico tibi: Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam; et portae inferi non praevalebunt adversum eam. /  E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. (Mt.16,18), questo non significa però, che le ingiustizie e le cattive azioni non troveranno spazio, al contrario, la promessa di fedeltà del Signore è stata pronunciata proprio per metterci in guardia dal fatto che solo la Chiesa sarà preservata dalle tenebre, il mondo no.




poichè l'operaio è degno della sua mercede, vi preghiamo di riportare la fonte, quando voleste riportare il testo altrove, e senza estrapolarlo. Grazie!
[Modificato da Caterina63 13/07/2012 21:40]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740758]dal blog dell'amico Mastino.....
lug 29, 2012 - Mastinate Quotidiane  

Mentre le chiese protestanti vietavano l’ingresso ai negri, il papa li faceva cardinali

 

Ho visto il film  The Help. E’ stato certamente un bellissimo film. Cattivo, cattivissimo, ma anche comico e pieno di speranza.
Un film sul Mississippi segregazionista. Sulle domestiche e le balie negre a servizio nella case dei ricchi bianchi, puritani e protestanti. Sarebbe più giusto dire sulle schiave negre, “ereditate” persino per via testamentaria, come un bene immobile.
Negre destinate ad allevare decine di figli di bianchi, e al contempo a non potersi occupare dei loro figli. Un film sulla crudele discriminazione razziale di un’America del Sud che è giunta quasi sino ai nostri giorni. Un film che, fra tante esagerazioni vittimistiche, è sostanzialmente vero.

Nella Roma cattolica invece (negli anni in cui nei paesi protestanti vigeva la segregazione razziale) le cose stavano così. Un principe dell'aristocrazia nera romana s'inginocchia davanti al primo cardinale negro: Rugambwa. Un gesto del genere in Alabama costava il carcere

Il regista non lo sa, ma io lo so. Quel cinismo senza requie e senza misericordia, quella spocchiosa cattiveria verso i negri in stato di schiavitù durato sino agli anni ’60, è figlio primigenio della Riforma, del protestantesimo e della sua degenerazione (ma in fondo sin dall’inizio fu così, specie nella versione calvinista) in puritanesimo. Della “salvezza per sola fede”. Della diseducazione alla carità e dell’abiura della comunione dei santi fra i protestanti (così cara e congeniale invece ai cattolici). Del “sola scrittura” che ha eliminato il filtro e la mediazione di una Chiesa sapiente, consegnando un Libro nelle mani di laici pastori segugi di ogni moda di potere e d’establishment, sino alla barbarie. Il regista non lo sa che quel razzismo così spocchioso, dispettoso, a tratti crudele, senza misericordia, poteva essere solo figlio del protestantesimo, del suo puritanesimo. Dell’ipocrisia incivile del riformato.

 

Mentre nella protestante America del Nord i negri erano arruolati in stato di semischiavitù a servizio nelle case degli yankee, la Chiesa cattolica, negli stessi anni, faceva di quei negri non servi di altri uomini ma servi di Dio e Alter Christus... al pari di tutte le altre razze. Pastori, non bestie.

Prova ne sia che la vessazione dello stato di schiavitù, il possesso di schiavi come status symbol – sentendosi al contempo, i possessori, la coscienza apposto – sono dilagati laddove aveva trionfato la Riforma e la sua degenerazione puritana; ossia di quell’ipocrisia che spesso sfocia nella disumanità, ossessionata com’è dalle forme sociali più che appassionata di umanità: vale a dire nei paesi anglosassoni. In mondi assolutamente estranei al cattolicesimo, dunque: tutti i grandi viaggiatori, ai tempi dei gran tour d’Italie fra Sette e Ottocento, quasi sempre letterati e diplomatici nordici, antipapisti e protestanti piuttosto puritani, una cosa l’hanno sempre testimoniata nei loro diari romani, naturalmente scandalizzandosene da quegli ipocriti razzisti che erano: che a Roma c’era la disdicevole e sconvenientissima abitudine dei “Principi papalini e persino principi della Chiesa di giocare a carte con servitù e garzoni, scambiarsi tabacco, parlare alla pari, persino farsi reciproche battute: uno spettacolo veramente incivile, barbaro… cattolico” scriverà uno di questi illuminati e riformati viaggiatori.

Mentre negli stati del Sud degli Usa i naturaliter razzisti e spietati protestanti yankee vietavano l'ingresso ai negri nelle loro chiese, a Roma il capo degli esecrati (da loro) "papisti", papa Giovanni XXIII crea principe della Chiesa il primo negro: Lauriean Rugambwa

Peggio: mentre sino 40 anni fa i paesi protestanti praticavano la segregazione, la Chiesa cattolica da 150 anni consacrava preti, frati e poi vescovi negri… pari da tutti i punti di vista dei vescovi bianchi. Mentre negli Usa ancora di fatto e per legge esisteva un regime di schiavitù, che non osava dire il suo nome, ai danni dei negri, mentre agiva impunemente il KKK, mentre esisteva ancora la durissima legge razziale contro di essi, mentre persino i protestanti li bandivano dai loro edifici di culto (tanto che i negri dovettero crearsi delle chiese e dei culti ad hoc quasi per soli negri… come alla fine sono i battisti)… nella Cattolica, già alla fine degli anni ’50 papa Giovanni XXIII creava, rivestendolo di porpora e oro, i colori degli imperatori romani e del sangue dei martiri, il primo cardinale negro, e quindi, da quello stesso momento, un potenziale papa negro che al pari di bianchi, mulatti, gialli, poteva aspirare al trono di Pietro ed essere il Vicario di Cristo.


[SM=g1740733]

Fraternamente CaterinaLD

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Pio IX inventò twitter



(di Giuliano Ferrara su Il Foglio del 25-08-2012) Mi piace Pio IX. E’ l’inventore di Twitter. Sul finire del 1864 incaricò un barnabita simpatico e di mondo, Luigi Maria Bilio, di mettere insieme 82 proposizioni, ciascuna più o meno di 140 caratteri, per farne un elenco enciclopedico degli errori del secolo. Nacque il Sillabo. Una ricapitolazione, un prendere insieme cose diverse, e ’fanculo le eresie, che poi per la chiesa sono le cazzate, il mainstream, il politicamente e ideologicamente corretto.


Nella sua fantasmagorica Mirari vos, enciclica scritta con la baionetta nel 1832, il predecessore del beato Pio IX, Gregorio XVI, uno così fiero e reazionario da avere inquietato persino un Metternich, aveva alluso a una “moltitudine sterminata” di libri, giornali, scritti fuori controllo, qualcosa di molto simile a un web dell’Ottocento, che fungevano da veicolo a quel “delirio” che è la libertà di coscienza predicata per ciascun individuo. Il Sillabo mise le cose a posto. Intanto per un centinaio d’anni, fino al Concilio ecumenico Vaticano II, che non è stagione brevissima.


Ma come vedremo la sua eco apostolica e culturale, icastica, semplificatrice, asciutta, univoca, si sente ancora oggi, che lo si sappia o no, che lo si voglia riconoscere o no. Si sarà capito perché mi piace Pio IX, perché mi piace il Sillabo. Almeno superficialmente, deve essere chiaro. Tanto che vi esorto ad aiutarmi: scriviamo un nuovo Sillabo su Twitter (l’account è ferrarasillabo).


Potrà essere utile, cari lettori, al Foglio e, detto per ischerzo, al Soglio. Mi aspetto da voi, in 140 caratteri sul social network o qualcosina di più se mi scrivete al giornale, una chiara indicazione delle più inquietanti scemenze contemporanee, più o meno quello che dicono gli intellettuali laici e progressisti medi, i conservatori di serie minore, la media degli insegnanti che si sentono soldati dello stato e della sua scuola unica senza contenuti, dei redattori di Famiglia cristiana, dei politici tiepidi, di quelli arrabbiati, delle star tv, dei filosofi con il baffo di Nietzsche e la prosopopea di Heidegger, dei clericali e degli anticlericali, insomma le solite sciocchezze cui diamo la caccia da molti anni.


Io ce la metto tutta, e questo Sillabo piccolo piccolo alla fine vedrà la luce per l’8dicembre, festa dell’Immacolata e giorno anniversario della bolla di Pio, ma datemi una mano, per cortesia. La maggioranza di voi non è fatta di barnabiti come il compianto cardinal Bilio, elevato alla porpora due anni dopo la sua opera di redattore teologico del possente e modernissimo documento vaticano contro la civilizzazione recente, ma tutto fa brodo.


L’ateo devoto che non è ateo e non è devoto, ma rispetta la devozione e ammira la grande impresa della fede dogmatica nei secoli, mentre disprezza la cultura dogmatica dei falsi laici e liberali, ha bisogno di tutti.


Luigi Maria Bilio ingannò in un certo senso il Papa. Senza dirglielo, soppresse un paio di proposizioni inutili. Peccatuccio veniale spiegabile con la fretta e la disinvoltura che sempre aleggia anche nelle più alte faccende ecclesiali. Ma pare sia stato ben fermo nel confermare le ultime proposizioni, quelle decisive, in cui si definiscono e si condannano “errori che riguardano l’odierno liberalismo” banditore della libertà di culto, del relativismo o indifferentismo (relativismo? qui gatta ci cova) in materia di fede. La proposizione 80
e finale le riassume tutte, le ultime formule in cui si definisce e propone (proposizione,
appunto) l’eresia o la sciocchezza corretta per affermare negandola l’esatto contrario:
“80.

Il pontefice romano può e deve riconciliarsi e farsi amico il progresso, il liberalismo e la civiltà moderna” (“80. Romanus Pontifex potest ac debet cum progressu, cum liberalismo et cum recenti civilitate sese reconciliare et componere”). Col cavolo. Cum cavulo.

Un po’ scherzo, ovviamente, perché sono nato appena l’altro ieri, quando ero ragazzino Giovanni XXIII, che avviò la beatificazione del Papa del Sillabo, parlò contro i profeti di sventura, si accordò per un Concilio di compromesso e di riconciliadi Giuliano Ferrara zione con migliaia di vescovi e teologi, e sotto il regno del suo successore Paolo VI furono promulgate la Gaudium et spes e la Dignitatis humanae, una chiesa che sorride al mondo, sebbene senza perdere la faccia di sempre, e autorizza senza troppi infingimenti le libertà di coscienza e di culto e di opinione, che avevano trionfato da quasi due secoli ma avevano trovato una qualche sana riluttanza, segno di contraddizione e di severa inquietudine, nell’organizzazione fondata da Gesù Cristo, un ebreo piuttosto geniale.

Tanti anni dopo penso che l’aggettivo di Gregorio e di Pio apposto alla parola opinione, e alla sua libertà, non era male: mostruosa. Abbiamo ereditato l’opinion dalla Rivoluzione francese e dalla sua ghigliottina, insieme allo scandalo dell’ineguaglianza, all’umanitarismo della fraternità umana antigerarchica e alla liberté, concetto e pratica ai quali sono sommamente affezionato, tanto da aver chiamato la mia cagnetta, madre di sei cuccioli nata il 14 luglio, proprio con quel nome, Liberté. Affezionato sì, ma solo a condizione che la libertà consenta alla tradizione, alla fede esclusiva, alla liturgia, ai riti e ai canoni della chiesa cattolica di rito latino e greco, e non per tolleranza ma per intrinseco e riconosciuto bisogno, tutto lo spazio vitale che essa chiede, magari con la rinuncia a imporre in parrocchia, nei seminari e nel Concistoro le regole omologanti e supercorrette della democrazia laico-liberale.

Ho letto due bei libri, e i libri ti montano la testa e generano idee perverse, come dicevano i Papi dell’Ottocento, anche se siano scritti da cattolici di diverso orientamento e appartenenza. Uno è la biografia di Pio IX di cui è autore Roberto de Mattei (2000, Cantagalli), storico credente e tradizionalista, serio accademico, anche nel pregiudizio poetico e di fede, assai tiepido nella ricezione del metodo storicocritico (metodo autorizzato sotto certe chiare condizioni da Papa Pacelli, un altro grande Pio, con una lettera enciclica Divino afflante spiritu, redatta con l’aiuto di Agostino Bea, teologo e cardinale tedesco che fu tra gli artefici del Vaticano II).

Racconta, de Mattei, lo scontro del Vaticano con il secolo della sua espropriazione temporale, che fu solo un capitolo dell’attacco al cristianesimo d’occidente cominciato nei decenni preparatori del 1789; la storia va dalla provocatoria e sublime definizione dogmatica dell’Immacolato concepimento di Maria (1854, 8 dicembre) al Sillabo (1864, 8 dicembre). L’Immacolata fu un tributo dogmatico alla Madonna fatto di parole, concetti e gesti sublimi, e la combattente suprema delle eresie fu posta ai confini della Trinità, un’alzata di ingegno e di cuore liricamente e liturgicamente spessa, corposa, ipermaterna, dolce e celeste come i colori di Maria Vergine, capace di dare radici immortali alla devozione per la madre della chiesa e dunque della chiesa come madre (più madre che padre, come disse il simpaticissimo Giovanni Paolo I, subito scambiato per un femministo).

Storico della chiesa, ma nella chiesa e nella tradizione, nella fede solo assistita dalla ragione e dal suo metodo, de Mattei è il perfetto ritrattista di un’epoca, e il suo grand’angolo è eccentrico rispetto a quello codificato per la storiografia contemporanea; eppure vedere le cose dalla parte anche degli angeli non è meno vero magistero, e una punta abissale, che vedere le cose dalla parte degli uomini. Chiamatelo relativismo, questo mio giudizio, ma è così per un lettore adulto che non rinunci ai privilegi misteriosi del bambino.

Pio IX disse che la dolcezza stava per schiantarlo e ucciderlo, quando codificava la nuova identità dogmatica della madre di Dio in San Pietro, colpito da un raggio di luce misteriosa che per lo storico ebbe del soprannaturale. E’ una frase, riportata con le deliziose arti della compartecipazione retorica, in cui stanno ben fermi un significato e un significante. Franco Cordero la direbbe un “vaniloquio”, ma per la severità miscredente del giurista-filosofo anche san Paolo era vaniloquente. Per me e per altri no.

Il secondo libro è composto, per la cura giudiziosa e per la sintesi molto ben scritta di Luca Sandoni, del testo latino-italiano del Sillabo, di un apparato critico molto utile per ciascuna proposizione, di un saggio sulla genesi e sulla ricezione del documento, e di una introduzione di Daniele Menozzi. Sono studiosi cattolici di orientamento progressista, il curatore è del 1988, Menozzi è del 1947, ruotano intorno alla Normale di Pisa, e condividono il gusto per
la polemica pacata, senza svolazzi, aderente ai testi e alle ricostruzioni storiche di sicuro
metodo critico.

Un altro mondo rispetto a De Mattei, ma rispettabile. Tanto rispettabile che alla fine anche uno che sta fuori le mura della chiesa, come me, e che ama Ratzinger o Giacomo Biffi (di Pio IX ho già detto, è una scoperta viva e felice) mille volte di più che i cari Eco e Vattimo, e i
loro maestri vicini e lontani, può consentire senza problemi con la loro, in particolare di Menozzi, conclusione: il Sillabo può essere stato un insieme di tweet molesti e imbarazzanti per la storia della chiesa, come pensa Giulio Andreotti nel suo alto cinismo politico (“non fu un’idea brillante”) o come pensava ai tempi di Pio il magnifico conte Charles de Montalembert (1), ma quel documento è tutt’ora la storia della chiesa e della sua dottrina in compendio, nonostante le rotture codificate addirittura da un Concilio.

Menozzi tira in ballo due Ratzinger. Una sua affermazione come capo della Congregazione
per la dottrina della fede, 1982: la costituzione Gaudium et spes e la dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano II “sono una revisione del Sillabo di Pio IX, una sorta di contro-Sillabo”. Poi menziona il discorso alla curia romana del Papa Benedetto Ratzinger, il 22 dicembre del 2005, in cui è fissato il canone di una ermeneutica della continuità e non della rottura nella ricezione del Concilio pastorale voluto da Giovanni XXIII e governato da Paolo VI nei primi anni Sessanta.

La conclusione dello storico progressista è che Giovanni Paolo II fu un pontefice di contraddizione, diviso tra un ardimento pastorale e mediatico nuovista e un papocentrismo a sfondo tradizionalista (semplifico), e che suturato con la successione Ratzinger, il complesso storico giovanpaolino e benedettino ha portato a una reviviscenza addirittura
all’altezza papale dei temi e dello spirito del Sillabo. Dunque era un documento profetico,
direbbe il professor De Mattei, che pure dal suo punto di vista stenterebbe a riconoscere
negli ultimi due Papi i portatori di una congrua e coerente esigenza di restaurazione
tradizionale.

Bando all’ecclesialesimo storiografico. Andiamo al dunque. Torniamo al grande tweet dell’Ottocento, a quelle proposizioni tutte da leggere, a quella straordinaria forma retorica non discorsiva ma aforistica e tutta negativa (indicare e definire l’errore secolare per significare la necessità del suo contrario soprannaturale). Indifferentismo e relativismo non sono la stessa cosa, ma si assomigliano maledettamente.

Critici dell’uno e dell’altro sono l’Ottocento, il Novecento e il XXI secolo della chiesa
di Roma, inevitabilmente, compresa la istruzione Dominus Jesus del cardinale Ratzinger (2000, Cristo unica via di salvezza). Cambiano le sfumature, cambiano anche tutti i termini della questione, se vogliamo, perché è vero quel che Ratzinger ha predicato e insegnato, e cioè che tanto la modernità quanto il cattolicesimo sono cambiati, e la loro relazione non poteva che cambiare anch’essa di conseguenza, ma up to a point. Cambiano i termini, la
questione non cambia.

La libertà di culto è garantita dalla dichiarazione conciliare novatrice, ma l’equivalenza
delle religioni in relazione alla cultura nazionale di un paese a tradizione cattolica non piace nemmeno alla chiesa postconciliare, a questa almeno. La libertà di coscienza è acquisizione universale, ma vai a interpretarla: la chiesa moderna non ha rinunciato a una coscienza rettamente formata, la battaglia sulla libertà di educazione dei cattolici, sulla cattedra della famiglia contro l’espropriazione statalista della formazione dei ragazzi è accesa come sempre, per certi versi ancora di più nel cattolicesimo americano non concordatario.

La separazione tra chiesa e stato è un fatto, ma la “sana laicità” di cui parlano le gerarchie e il Papa è un concetto di derivazione sillabica, per così dire. E così la critica razionale allo
stato di diritto che non può trovare legittimazione autentica se non fuori di sé, nel diritto naturale e in una norma fondamentale che non è l’uomo democratico, con le sue maggioranze numeriche, a poter garantire.

I principi non negoziabili, cioè in qualche misura il Sillabo. L’unica differenza autentica è nel diritto alla forza come suffragio armato e legale del potere spirituale, garantito dai regni dell’ancien régime in cambio della legittimazione del diritto divino e di una società civile
coesa: qui è tutto decisamente cambiato con la fine del temporalismo, fatta salva però la special relationship tra autorità costituite che è comunque un residuo temporalista.

Menozzi riconosce che Pio IX coltivava la sua febbre antisecolarista e reazionaria perché secolo e Rivoluzione volevano dire annientamento della chiesa e delle sue ragioni
non solo territoriali o di dominio legale, ma di autonomia e libertà spirituale e morale. Conflitto eminentemente esistenziale. L’attacco su ogni fronte alla chiesa d’oggi, il tentativo del laicismo intransigente di riformarla a viva forza, imponendole i suoi contenuti democratici (le donne, il matrimonio dei preti, la questione gay, l’educazione indifferentista, lo scientismo avalutativo), non è poi così diverso dal furore anticlericale di due secoli fa. Non c’è più in evidenza l’anticlericalismo rituale e massonico. C’è il politicamente corretto applicato al “barbaro residuo” dei canoni della chiesa di Roma. E così anche la chiesa non è poi così diversa, et pour cause. Rileggetevi i tweet del Sillabo, alla luce della svolta ratzingeriana e giovanpaolina dopo il Concilio, e vedrete che ho ragione.
(1) Con Hugues-Félicité-Robert de Lamennais fu vero padre dei cattolici liberali, in modo
assai più radicale di quanto non lo sia stato il cardinale John Henry Newman, recente beato di Benedetto XVI; si battevano per la libertà di opinione e di culto ma in nome dell’autonomia della chiesa, e finirono con la loro fede nella libertà di coscienza per essere...


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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