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La Carità....intellettuale.... l'ateismo non esiste, esiste una grave scelta contro Dio

Ultimo Aggiornamento: 02/07/2016 14:01
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Introduzione a “La Carità intellettuale”


Di monsignor Lorenzo Leuzzi


ROMA, lunedì, 16 aprile 2007 (ZENIT.org).- In occasione della serata culturale in onore di Benedetto XVI promossa dai giovani universitari dei Collegi di Roma, che avrà luogo giovedì 19 aprile, presso il Teatro Argentina alle ore 20.30, sarà consegnato al Cardinale Tarcisio Bertone, Segreterio di Stato, un volume di scritti sul tema: “La Carità intellettuale. Percorsi culturali per un nuovo umanesimo”.

Hanno offerto il loro contributo 54 docenti universitari romani, nati nel 1955, associati e ordinari di diverse discipline accademiche.

I contributi sono suddivisi in tre grandi sezioni: carità intellettuale e ricerca della verità; carità intellettuale e vita universitaria; carità intellettuale e prospettive di impegno.

La presentazione è del Cardinale Vicario Camillo Ruini. Il volume è edito dalla Libreria Vaticana.

Monsignor Lorenzo Leuzzi, Direttore dell’Ufficio per la Pastorale Universitaria della Diocesi di Roma, ha curato l’Introduzione di cui anticipiamo il testo.

* * *


INTRODUZIONE
Lorenzo Leuzzi



"Forse dovrei scrivere un nuovo capitolo dell'Enciclica Deus caritas est sulla carità intellettuale"[1]. Con queste parole, fuori programma, Benedetto XVI ha manifestato la condivisione del tema della carità intellettuale che ha animato l’itinerario formativo degli universitari di Roma, così come la veglia mariana in occasione della V Giornata europea degli universitari.

Ascoltando, con stupore e profonda emozione queste parole del Papa, il mio pensiero è ritornato a quanto avevo scritto in un mio piccolo libretto nel capitolo Eucaristia e carità intellettuale: “Il tema della carità intellettuale è certamente uno degli argomenti più desueti del vocabolario teologico contemporaneo, nonostante gli sforzi compiuti da Paolo VI e da Giovanni Paolo II”[2].

E’ difficile, se non impossibile, comprendere le motivazioni che hanno spinto il Santo Padre a manifestare questo suo desiderio. Tuttavia, non sarà lontano dal vero affermare che il cammino della Chiesa di Roma, con la sua attenzione al tema della carità intellettuale, ha messo in evidenza la lunga e consolidata assenza di questa categoria (la carità intellettuale) nei circuiti culturali e pastorali, che si è manifestata ancor più nella difficoltà della teologia nel recepire le novità della Sua prima Enciclica.

L’affermazione che Dio è Amore è risuonata, come sempre, inusitata e sorprendete per “i piccoli”, oggetto della preghiera di lode di Gesù [3], ma vecchia e ripetitiva per i sapienti e gli intelligenti. Gli stessi sapienti e intelligenti che per tanto tempo hanno favorito il consolidarsi del “sospetto” verso questo annuncio, producendo quel sentimento anticulturale che si è sempre più diffuso nella comunità cristiana, relegando l’esperienza cristiana a semplice esperienza “mistico-spirituale”.

E’ il pregiudizio anticulturale la vera barriera che separa la comunità cristiana dall’Enciclica Deus caritas est. Se mi è lecito un ricordo personale, quando ero assistente spirituale alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica, scrissi una breve relazione sul futuro di un’istituzione universitaria cattolica. Mi sforzavo di presentare una mia convinzione: un’istituzione universitaria cattolica potrà svolgere la sua missione se avrà il coraggio di por mano al superamento del pregiudizio anticulturale. Dava forza al mio semplice ragionare un’affermazione del teologo Josef Ratzinger nel suo libro Introduzione al cristianesimo: “Non si è cristiani perché soltanto i cristiani giungono a salvarsi, ma si è cristiani perché la diakonia cristiana è significativa e necessaria nei confronti della storia”[4].

Questa affermazione del teologo Ratzinger mi ha accompagnato in tutti questi anni, e sabato 10 marzo 2007 ha trovato la sua meta: la carità intellettuale è la forma nuova della presenza cristiana nella storia.

Questa nuova forma di carità ha la stessa origine nel mistero di Dio, in quel mistero che ha spinto Benedetto XVI a far sua, nella famosa Lectio magistralis all’Università di Ratisbona, l’affermazione dell’Imperatore Manuele II: “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”, [5]e a proclamare che nel mistero della Croce l’amore di Dio per l’umanità arriva al punto tale che Dio non osa rifiutare di “rivolgersi contro se stesso”[6].

Questa sintesi di ragione e di amore è la carità intellettuale, dono che il Risorto fa ai suoi discepoli nel loro cammino nella storia, formando autentici operatori della carità intellettuale, capaci di interpretare e orientare la comunità degli uomini.

E’ il nuovo contesto storico, illuminato dall’intento di Benedetto XVI di allargare gli spazi della razionalità [7], a rendere il dono della carità intellettuale da fenomeno “isolato”, e talvolta elitario, a “tessuto vitale della comunità cristiana”.

Infatti la proposta di Benedetto XVI non è riducibile ad un ritorno alle questioni teologiche e scientifiche di natura galileiana, certamente sempre di grande rilevanza, ma ormai prive di efficacia storica. L’apertura degli spazi della razionalità è sinonimo di superamento della fase “etica” della presenza del cristianesimo per un decisivo ingresso nella sua fase “costruttiva”. Il cristianesimo è per sua natura una realtà da costruire. E per costruire occorre possedere una bagaglio culturale senza il quale è impossibile ogni costruzione, a cominciare dalla stessa vita ecclesiale.

E’ la grande scelta che sta davanti al cristianesimo: fermarsi al semplice livello della religiosità, il cui vertice è la formazione etica dell’uomo, o servire l’uomo per trasformarlo da semplice spettatore in un protagonista della storia. E’ la diakonia significativa e necessaria che auspicava il teologo Ratzinger..

Lette in questa prospettiva, l’Enciclica Deus caritas est e la Lectio magistralis di Ratisbona sono due pilastri su cui ripensare e rilanciare la questione storica del cristianesimo, da cui dipende il destino dell’umanità. Il rapporto ragione e amore non è un rapporto “estetico” o “formale”: esso è un rapporto vitale per afferrare in profondità la realtà, a cominciare da quella concreta e storica realtà che è la Chiesa.

Il progetto di “allargare gli orizzonti della razionalità” non può essere relegato ad alcuni strati della comunità cristiana e della società, ma deve diventare programma di ricerca e di elaborazione, per far scoprire e far crescere la capacità costruttrice delle nuove generazioni.

L’Università rappresenta il luogo per eccellenza dove questa nuova sfida viene accolta per elaborare linee di progettualità e formare uomini e donne capaci di aiutare la Chiesa e la società a costruirsi secondo parametri e obiettivi, che rendono l’uomo autentico protagonista della storia.

E’ nell’Università che la carità intellettuale si manifesta nella sua pienezza di forza animatrice e plasmatrice della elaborazione culturale. Senza di essa le attese della società possono orientarsi verso forme che rendono l’uomo storicamente “usurato” e privo di quella dimensione spirituale che lo rende “signore del cosmo”. E’ la grande responsabilità che incombe sull’istituzione universitaria!

Non è casuale che Benedetto XVI abbia rivolto il suo “amorevole” e “autorevole” richiamo al cristianesimo e, quindi alla Chiesa cattolica, in una Università. Nell’Università, infatti, il cristianesimo da sempre si sente a suo agio, e in essa ha la possibilità di aprire orizzonti nuovi per tutta l’umanità.

E non è casuale che sia stata un’assemblea di giovani universitari l’occasione per Benedetto XVI di manifestare l’opportunità di immaginare un nuovo capitolo dell’Enciclica Deus Caritas est.

Tra la Lectio magistralis di Ratisbona e il Discorso ai giovani universitari si colloca l’idea di scrivere un volume in onore di Benedetto XVI per il suo 80° genetliaco sul tema della “carità intellettuale”.

I protagonisti del dono sono docenti universitari romani, associati e ordinari, di quasi tutte le discipline accademiche, la cui data biografica si colloca dal 1955 in poi.

E’ un gesto di filiale devozione, di grande significato culturale. A me il compito di testimoniarlo con profonda gratitudine. Ai lettori la gioia di condividere la nuova avventura della carità intellettuale.



****************

[1] Cf. Vatican Information Service (VIS) del 12.03.2007 – Anno XVII – Num. 50 su www.vatican.va
[2] L. Leuzzi, Eucaristia e carità intellettuale, in Chiesa di Dio non temere! Fede e Ragione dopo Ratisbona, Soneria Mannelli, 2006, p. 57.Sul tema della carità intellettuale in Paolo VI si può consultare il volume di G. M. Vian (a cura di) Carità intellettuale. Temi scelti (1921-1978), Milano 2005.
[3] Mt. 11, 25
[4] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, 1996, p.2000
[5] Benedetto XVI, Discorso all’Università di Ratisbona, 13 settembre 206
[6] Benedetto XVI, Enciclica Deus Cariats est, n. 12
[7] Cf. Benedetto XVI, Discorso all’Università Cattolica del Sacro Cuore, 25 novembre 2005.


*************************************************************************



"LA PRIMA MISERICORDIA DI CUI ABBIAMO BISOGNO E' LA LUCE IMPIETOSA DELLA VERITA'"
(card. G. Biffi in Pecore e Pastori)

Perchè........

GIOVANNI PAOLO II scrisse una:
Lettera Apostolica data Motu Proprio
AD TUENDAM FIDEM,

con la quale vengono inserite alcune norme nel
Codice di Diritto Canonico

dove leggiamo:

PER DIFENDERE LA FEDE della Chiesa Cattolica contro gli errori che insorgono da parte di alcuni fedeli, soprattutto di quelli che si dedicano di proposito alle discipline della sacra teologia, è sembrato assolutamente necessario a Noi, il cui compito precipuo è confermare i fratelli nella fede (cf Lc 22, 32), che nei testi vigenti del Codice di Diritto Canonico e del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali vengano aggiunte norme con le quali espressamente sia imposto il dovere di osservare le verità proposte in modo definitivo dal Magistero della Chiesa, facendo anche menzione delle sanzioni canoniche riguardanti la stessa materia.

Can. 750 - § 1. Per fede divina e cattolica sono da credere tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o tramandata, vale a dire nell'unico deposito della fede affidato alla Chiesa, e che insieme sono proposte come divinamente rivelate, sia dal magistero solenne della Chiesa, sia dal suo magistero ordinario e universale, ossia quello che è manifestato dalla comune adesione dei fedeli sotto la guida del sacro magistero; di conseguenza tutti sono tenuti a evitare qualsiasi dottrina ad esse contraria.

§ 2. Si devono pure fermamente accogliere e ritenere anche tutte e singole le cose che vengono proposte definitivamente dal magistero della Chiesa circa la fede e i costumi, quelle cioè che sono richieste per custodire santamente ed esporre fedelmente lo stesso deposito della fede; si oppone dunque alla dottrina della Chiesa cattolica chi rifiuta le medesime proposizioni da tenersi definitivamente.



ed infine perchè....

«Questa è la fede cattolica; chi non la crede fedelmente e fermamente non potrà essere salvo»(28); o si professa intero, o non si professa assolutamente. Non vi è dunque necessità di aggiungere epiteti alla professione del cattolicesimo; a ciascuno basti dire così: «Cristiano è il mio nome, e cattolico il mio cognome»; soltanto, si studi di essere veramente tale, quale si denomina.

"AD BEATISSIMI APOSTOLORUM" di Papa Benedetto XV
www.vatican.va/holy_father/benedict_xv/encyclicals/documents/hf_ben-xv_enc_01111914_ad-beatissimi-apostolorum...

                  







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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"NEL CORTILE DEI GENTILI" (quello in cui non cresce l'ortica!)


di Don Matteo De Meo

Il Pontefice Benedetto XVI, nel suo discusso intervento a Ratisbona, nel settembre del 2006, si chiese se fosse necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione, ponendo le condizioni di una vera e propria sfida per ritrovare un’unità del sapere come condizione di dialogo, non solo per la filosofia e la teologia, ma anche per fornire all’uomo di oggi risposte alle domande di senso e di verità che inevitabilmente e in molti modi si pone, anche in una società frammentata come la nostra. “Non abbandonare la questione su Dio dell’uomo di oggi” è propriamente la sfida contenuta nella immagine biblica del “Cortile dei Gentili”. Ovvero, bisogna ricentrare lo sguardo sul nostro umano; come una questione teorica, meramente filosofica o peggio ancora, psicologica o sociale, ma innanzitutto come un dato di esperienza.

Una delle intelligenze filosoficamente più logiche della modernità, Kierkegaard, diceva: “Non si diventa sensibili al Cristianesimo affrontando le grandi questioni filosofiche, cosmologiche o sociali, ma acuendo il senso della propria esistenza” (una frase citata moltissimo da De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo). Per cui non avremo mai una comprensione adeguata e autentica del cristianesimo stesso, se non recuperiamo il fondo della questione. L’evento cristiano si riferisce all’uomo, nella sua concretezza, nella sua storicità, in tutta la verità della sua piena dimensione. Non all’uomo astratto, ma all’uomo concreto storico: l’uomo nella sua irripetibile realtà dell’essere e dell’agire, dell’intelletto e della volontà, dell’intelligenza e del cuore; l’uomo che ha una sua storia, la storia della sua vita, l’uomo che insieme a tanti bisogni di natura corporale e temporale ha un fondamentale bisogno, quello della verità. L’uomo è ricerca della verità, domanda di verità, cioè di senso ultimo dell’esistenza: perchè esisto?

Sono rimaste scolpite nella mia mente le parole di un giovane padre di famiglia che, colpito da una grave malattia, mi disse piangendo, sentendo ormai la sua morte imminente: “..io ho un infinito desiderio di vivere e di essere felice, dimmi allora...perchè devo morire?...” Qual’è allora il senso profondo del mio vivere, del mio amare, del mio soffrire, del mio nascere, del mio morire? La verità è un forte grido che l’uomo sente dentro il suo cuore, che ritrova ogni momento nel suo cuore e che lo porta già oltre sè. La domanda stessa che nasce è irresistibile, è drammatica, e costituisce il tessuto profondo della vita. L’uomo non ha bisogno di verità, è il bisogno di verità; l’uomo non ha un senso religioso ma è il suo senso religioso. L’esistenza della domanda dimostra che l’uomo non ha in sè le risorse per rispondere a questa domanda. Questa domanda lo porta oltre sè, è una “inquietudine del cuore”, come dice s. Agostino.
 
L’uomo che si stupisce di fronte alla realtà, di fronte al suo umano seriamente considerato, riconosce originalmente il bisogno di capire da dove viene, qual’è l’origine della sua vita e dove va, qual’è il senso profondo della sua esistenza, alla luce del quale può accettare se stesso e aprire la sua esistenza all’accoglienza degli uomini e delle cose.

Ho ricevuto una lettera, in questi giorni, di un amico biologo naturalista presso il CNR. Lo invitai qualche anno fa ad un incontro su tali questioni, come uomo di scienza e non “credente”. Vi leggo, col suo permesso, alcuni stralci:

“...Carissimo io credo che la nostra desueta amicizia (non sono mai riuscito ad intrattenere un rapporto duraturo con uomini di fede dopo un pò mi hanno sempre caritatevolmente scaricato) sia per me quel “cortile dei Gentili” di cui parli nel tuo saggio. Non solo un immagine, quindi, ma una realtà, un luogo umano...! E di questo ti sono grato! ... Anch’io non condivido molto delle posizioni di quel mio collega che tu citi spesso nel tuo saggio ma in un suo scritto mi ci ritrovo molto e, in un certo senso, il suo contenuto è emblematico del nostro rapporto: “.... Sdraiato sull’erba con il mento appoggiato sulle mani, all’improvviso il bambino percepì il groviglio di gambi e radici, una foresta in miniatura, un mondo trasfigurato di formiche, coleotteri…..La microforesta d’erba parve dilatarsi e diventare tutt’uno con l’universo e con la mente. Il bambino sentì quella bellezza come un’emanazione di Dio e per questo alla fine abbraccio il sacerdozio. In un’altra epoca in un altro luogo un bambino contemplava le stelle, Orione, Cassiopea e l’Orsa maggiore,si fa commuovere dalla musica inaudita della Via Lattea, inebriare dal profumo notturno delle campanule, di un giardino africano. Il bambino sentì quella bellezza e divenne biologo. -Richard Dawkins conclude- Come mai le stesse emozioni hanno condotto il cappellano in una direzione e me in un’altra? Non è facile rispondere alla domanda”...

Quanto espresso in queste poche righe da Dawkins (in The God Delusion), mi fa riflettere sul perché e cosa muove un uomo a fare delle scelte di questo tipo. Sono poi così diverse le due scelte? Molto probabilmente il confine umano che separa un uomo di fede come te, da un uomo di scienza come me che ha continuamente a che fare con fenomeni naturali (ecologia, biologia, fisica, ecc.) è molto meno lontano di quanto si pensi. Infatti, credo che abbiamo qualcosa in comune, nonostante le apparenti differenze, un grande senso religioso.

Io ho scelto la seconda strada, ma non sono in grado di dare una risposta del perché, della mia scelta. Sicuramente a condizionare la scelta è stata soprattutto la passione per le scienze naturali, e per tutto ciò che vive, per questo “misterioso” palesarsi dell’essere. Passione che ho avuto fin da quando ero bambino, tanto da diventare il mio lavoro da adulto.

L’armonioso ordine che sprigiona la natura con i suoi fenomeni, mi rinvia ad grande sacralità di ogni forma di vita, dalla più semplice alla più complessa, e ciò mi riempie sempre di stupore... L’osservazione della natura, delle sue leggi, della sua vita, presuppone un atteggiamento profondamente religioso.

Giovanni Paolo II nella lettera enciclica circa i rapporti tra fede e ragione scriveva:

“La fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità”.

Io spesso, per lavoro devo osservare e studiare animali, dalla forma strana come ostriche, cozze, vongole, molto lontano dall’immagine stereotipata, che abbiamo degli animali; osservandoli mi meraviglio stupito, che questi sono creature che respirano, mangiano, e si riproducono. Un’analoga riflessione la faccio osservando una grande quercia, un albero da frutta, o un banale filo d’erba, che, anche se apparentemente immobili, sono vitali e pieni di energia. Tutte le forme di vita, dalla più semplice alla più complessa, sono legate da un filo comune. Vi è un ordine dietro tutto ciò, che io vedo e osservo e che mette davanti un inesplicabile mistero...

Senza dubbio l’uomo moderno, nel senso di uomo tecnologico, è sempre più distratto dal desiderio di possedere, di consumare, estendendo questo concetto anche ai rapporti umani e sociali. Possedere, manipolare, è in fondo come un allontanarsi dal dato, come un’ultima forma di superbia dell’uomo, del suo egoismo che lo rende cieco; smette di osservare e confonde il dato con le sue idee...! Ma guardando la realtà come dato, senza pretesa di possederla, (ed è quello che faccio ogni giorno nel mio laboratorio ma anche quando guardo giocare i miei figli e abbraccio mia moglie) mi chiedo da dove venga tutto ciò, ....l’essere e il suo mistero.

Sull’argomento credo che l’uomo da sempre fin dalla notte dei tempi si è interrogato. Ieri, e mi riferisco a qualche secolo addietro, l’uomo coltivava maggiormente questa riflessione. Sant’Agostino nelle sue “Confessioni” esortava gli uomini ad avere più attenzione al proprio umano <>. Oggi interrogarsi sull’uomo, sul senso del suo essere è come parlare di cose che non hanno nessun valore ed interesse, e noto con tristezza come questa distrazione dilaghi anche fra molti che si dicono credenti. Molto più interessati a ciò che sentono che a ciò che vedono. Dicono, ragionano ma hanno smesso di guardare, di osservare. Una fede che pretende di reggersi sulla forza dei ragionamenti dimenticando i fatti e l’osservazione della realtà francamente non mi interessa...è irragionevole e consentimi molto pericolosa... é irragionevole credere senza vedere ed è veramente pericolosa se non insidiosa una fede senza la ragione.
 
E credo che sia altrettanto pericolosa una ragione che non si lasci sfidare dalla fede... Purtroppo fino a prima di incontrarti mi avevano sempre detto che la fede è questa...e molti vivono una fede così...E sinceramente non sò come si faccia a vivere una fede così. Come può esserci una connessione fra ciò che non vedo accadere, l’esperienza, e la fede. Non si può affidare la vita a qualcosa che non c’è, il cui esserci non mi si palesa. Ma dopo quanto mi hai scritto l’ultima volta, e leggendo il tuo “Cortile dei Gentili”, le cose iniziano ad assumere un contorno diverso... Ora sto iniziando a guardare ciò che ho sempre visto...Un’altro passo dentro il Mistero?...”

Ecco questo è l’uomo del Cortile dei Gentili, l’uomo che grida al Mistero come una grande incognita ma che non smette di cercarlo e che desidera che si palesi che si faccia vedere...!

L’uomo è un uomo religioso, non semplicemente nel senso che sente la necessità di conoscere un oggetto diverso da quelli che conosce normalmente, ma nel senso che l’uomo sente il desiderio di un incontro che lo riveli a se stesso, che gli faccia capire il senso profondo della sua esistenza. L’uomo incomincia come coscienza, perchè la coscienza dell’uomo è il punto in cui questo è recepito, è raccolto, è sentito, e perciò l’uomo si dispone a vivere la grande avventura della vita. La grande avventura della vita è la conoscenza di sè. Noi crediamo al Dio di Gesù Cristo perchè è il Dio che rivela totalmente l’uomo a se stesso, Cristo rivela all’uomo tutta la verità su di lui.

E di questo noi, credenti, siamo sfidati a dar ragione percorrendo e non “dribblando” i sentieri spesso nebbiosi e fumosi del Cortile dei Gentili.



Prefazione On. Mario Mauro
Postfazione Francesco Colafemmina
Edizioni Settecolori

€ 15,00 - P.200

Fraternamente CaterinaLD

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LA VERA CARITA' E' INVITARE ALLA CONVERSIONE...

L’incontro di un comunista con Gesù


Pietro Barcellona racconta il suo ritorno a Cristo



di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 12 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Una vita sempre alla ricerca del senso. Affascinato dalle idee di liberazione dell’ideologia comunista ne ha seguito le strade fino a diventare deputato e dirigente. Deluso ha praticato il nichilismo, l’evoluzionismo ed il relativismo finchè non ha ritrovato Gesù in un incontro passionale e commovente.

Si tratta in sintesi della vicenda umana di Pietro Barcellona, docente di Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Catania. Già membro del Consiglio Superiore della Magistratura e in seguito deputato e membro della Commissione giustizia della Camera, autore di innumerevoli pubblicazioni.

Per raccontare la sua storia e soprattutto per comunicare le ragioni di questo innamoramento, il prof. Pietro Barcellona ha pubblicato il libro “Incontro con Gesù” (edizioni Marietti).

“Ripercorrendo gli strati della mia vita in questo Incontro con Gesù - ha scritto - ho vissuto un'esperienza che non può trovare risposte né sul terreno della filosofia speculativa, né su quello della teologia e della mistica, poiché la domanda su chi sia Gesù non è mai pienamente colmabile”.

Barcellona si ritiene ancora un “materialista” nel senso di aver bisogno del contatto umano e carnale con la conoscenza, e spiega: “Quello che mi interessa, mi inquieta e mi ha condotto a queste riflessioni attuali è la figura concreta di Gesù: un Uomo che è Figlio di Dio. Mi sembra la assoluta novità del Cristianesimo, anche perché Gesù Cristo non si può pensare come dottrina e quindi come una teoria. Cristo non è una teoria. E' un'incarnazione. E se è un'incarnazione non può non essere una presenza. La teoria può essere stampata e trasmessa. La presenza deve essere percepita”.

Secondo il docente di Filosofia del Diritto, “a differenza dell'idea di Dio, che può essere in qualche modo il risultato dell'attività della ragione, io penso che con Gesù non si può avere un rapporto filosofico”.

“E' come se volessi trasformare l'amicizia in un insieme di regole per conquistarmi la simpatia di una persona – ha aggiunto –. Le regole faranno un trattatello sull'amicizia, ma non faranno l'amicizia. Essa nasce quando accade quello che accade. Un po' come l'amore”.

Il prof. Barcellona sostiene che “il terreno su cui avviene l'incontro con Gesù non è un terreno filosofico, è un terreno che ha a che vedere con la contemporaneità, con la presenza attuale”.

E questa “non è cosa né semplice, né garantita per sempre”, per questo bisogna “cercare questa presenza”.

“Perché questo incontro si produca e si ripeta – afferma Barcellona - tu ti devi mettere in mezzo alla strada perché se ti chiudi nelle tue certezze fai un'operazione di staticità incompatibile con questo movimento di Gesù. Gesù è un movimento continuo di incarnazione. Il Verbo che si fa carne nella realtà quotidiana, se lo fossilizzi ti vengono di nuovo i dubbi, perdi il contatto”.

In diversi articoli e interviste l’autore ha raccontato di come rimase affascinato dall’ideologia comunista.

“Il comunismo – ricorda Barcellona – mi appariva non solo come la riscoperta di un mondo reale, visto che io avevo fatto studi di diritto ed ero stato molto chiuso nel mio mondo, ma mi sembrava anche una risposta alla mia domanda iniziale: cioè che il proprio dell'uomo è stare insieme agli altri per costruire un futuro di salvezza. Salvezza umana, ma sempre salvezza. Alla domanda chi sono io? Rispondevo: io sono un comunista che sta lottando per una società migliore”.

Ma dopo la caduta del muro di Berlino, Barcellona racconta che “crollato il Muro sono crollato pure io. Con la fine del Pci mi è venuta una depressione grave e sono andato in analisi per questa ragione. Ma in realtà il motivo per cui io mi sono ammalato è stata la disgregazione umana dei gruppi con cui io ero abituato a vivere”.

“Avevo lavorato per molti anni a Roma con Ingrao al Centro per la Riforma dello Stato, dirigevo una rivista e avevo una relazione di amicizia con molti degli intellettuali italiani che oggi sono sulle pagine dei giornali e che parlano ai festival. Con questi avevo ritenuto di avere un rapporto di grande amicizia. Purtroppo questa specie di rottura determinò una aggressività e un attacco reciproco inaudito che mi lasciò improvvisamente nudo. Mi sono visto scomparire e rispuntare su altri fronti amici con cui condividevo idee. Questa cosa mi produsse un grande dolore personale”.

Dopo la rottura con il Pci, il prof. Barcellona si è confrontato con quelli che ha indicato come mostri: “Nichilismo, evoluzionismo e relativismo – ha scritto l’autore del libro – conducono tutti allo stesso risultato: la vita non vale niente, è un puro funzionale equivalente a qualsiasi altro fattore che si inserisca nella catena evolutiva ai fini della riproduzione della vita materiale”.

“Ho avuto il terrore – ha confessato Barcellona – che si diffondesse nel senso comune l'idea che tutto vale nulla, l'impossibilità di dare valore alle cose” ed ancora “del nichilismo temo questo risvolto pratico che si traduce in indifferenza e apatia. E condanna i giovani a una passività senza speranza”.

Il prof. Barcellona conclude affermando che “la storia umana non può essere ‘salvata’ senza che il divino innervi intimamente le vicende terrene degli uomini e delle donne in carne ed ossa. Ecco perchè sono stato affettivamente colpito dal Vangelo di Gesù Cristo. La nascita di Cristo è, infatti, una rottura epocale rispetto al tradizionale modo di vedere il rapporto tra divino e umano: il Verbo incarnato, figlio dell'uomo e figlio di Dio, nato da donna, con una maternità affettiva, rappresenta una novità assoluta nel grande dramma della storia umana”.


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E’ uscito per le edizioni Ares un libro che consiglio: Giampaolo Cottini, L’avvenimento della conoscenza. Un itinerario tra i discorsi di Benedetto XVI al mondo della cultura, dell’università, della scienza. Con un’antologia di testi del Papa.

Prefazione di mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino.

Il libro è stato pubblicato in occasione del viaggio del pontefice nella Repubblica di San Marino e non può mancare nella biblioteca di quelli che condividono lo sforzo dell’attuale papa di fondare la fede sulla ragione e additare al mondo e alle religioni l’unico denominatore comune possibile su cui basarsi per andare d’accordo: il diritto naturale.

(Antidoti di Rino Cammilleri )

 

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Il diritto secondo Benedetto XVI

La ragione è di tutti

di FRANCESCO COCCOPALMERIO

Pubblichiamo alcuni stralci della conferenza che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi ha tenuto il 17 aprile all'università di Macerata in un incontro promosso dalla stessa università insieme all'Osservatorio giuridico-legislativo della Conferenza episcopale marchigiana e alla diocesi di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia.

Mentre in altri scritti Papa Benedetto XVI si occupa del concetto di diritto trattando altri argomenti o affrontando del diritto stesso solo aspetti particolari, nel Discorso tenuto al Bundestag, il 22 settembre 2011, il Pontefice affronta il tema del diritto in modo esclusivo, anche - riconosciamolo - con toni appassionati.
Possiamo soffermarci in particolare su tre punti. Innanzitutto l'identità del diritto, per la quale, dalle espressioni usate dal Papa, si ricava l'equiparazione tra il diritto e la giustizia, tra il diritto e il bene e, per tale motivo, si ricava in definitiva l'affermazione che il diritto è la giustizia, il diritto è il bene. Quanto alla natura del diritto, poi, si nota che esso è una realtà connessa in modo essenziale con la dignità della persona umana. Per tale motivo ha la stessa dignità e la stessa consistenza proprie della persona umana. In modo particolare e determinante, come la persona umana è realtà ontologica, allo stesso modo lo è il diritto.


Il Discorso del Papa tocca anche - per quanto solo con alcuni accenni - il tema della legge o, meglio, dei rapporti correnti tra il diritto e la legge. Interessante in questo senso cogliere alcuni binomi: legge-verità, giusto-legge, cosa giusta-diritto vigente, veramente giusto-giustizia nella legislazione, fondamenti-legislazione. Ciò chiaramente significa che esistono due realtà: da una parte, c'è il giusto, c'è la verità e, quindi, c'è il diritto; dall'altra parte, c'è la legge. Queste due realtà sono tra loro distinte, anche se essenzialmente relazionate.


Sono innanzitutto realtà distinte, e ciò, ritengo, per due motivi. Il primo è che il diritto sta prima, mentre la legge viene dopo. Quindi è il giusto, ossia è il diritto, a "diventare" legge. Il secondo motivo che adduciamo per la distinzione tra diritto e legge viene esattamente da quanto detto: il diritto è realtà ontologica e, come tale, è pre-esistente al legislatore, mentre la legge è realtà intenzionale, in quanto creata dal legislatore. In ogni modo, è determinante considerare diritto e legge come realtà distinte. Tali realtà sono, peraltro, essenzialmente relazionate, per l'intuibile motivo che è il diritto - si legge nel discorso - a "diventare" legge.
Dobbiamo riconoscere che l'espressione "diventare" è pregnante. Se, infatti, è il diritto a "diventare" legge, ciò significa che le due realtà sono così relazionate che la legge null'altro è se non il diritto stesso dopo un atto di trasformazione. Per i suddetti motivi la legge dipende dal diritto, nel preciso senso che deve contenere il diritto e deve esprimerlo nelle varie circostanze e necessità. E a seconda che il diritto sia nella legge contenuto ed espresso oppure no, ci saranno leggi giuste oppure leggi ingiuste.


Diritto e legge, sono realtà distinte ma relazionate: il diritto che diventa legge; la legge che contiene il diritto dopo un atto di trasformazione. Ciò indirizza la nostra attenzione all'autore di questa attività, e cioè precisamente al legislatore, a cui riserviamo il seguito della trattazione.
Nel discorso di Benedetto XVI s'incontra un passo significativo: "In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell'uomo e dell'umanità, il principio maggioritario non basta". [SM=g1740733]


Nel suddetto passo, estremamente sintetico, sono contenuti due elementi, che ci sembra necessario enucleare: l'identità del legislatore; la natura dell'attività del legislatore. Mediante le espressioni "criterio della maggioranza" e "principio maggioritario" il Papa allude alla struttura del legislatore e al modo di attività del legislatore stesso.
Quanto alla struttura, il Papa presuppone ciò che, nella normalità dei casi, si verifica nella attuale realtà, e cioè che il legislatore non è una unica persona, ma è un insieme di persone, l'insieme delle persone che, nell'odierno sistema parlamentare, rappresenta l'insieme dei cittadini.
Quanto al modo dell'attività, per l'ovvio motivo che il legislatore è un insieme di persone, ciascuna persona componente l'insieme dichiarerà la sua volontà mediante l'espressione di un voto e la maggioranza dei voti concordi determinerà la posizione dell'insieme, cioè la volontà del legislatore e quindi la statuizione della legge.
Ci chiediamo ora: cosa precisamente è un voto? Possiamo rispondere così: il voto è un atto insieme di intelligenza e di volontà. Ma quale è, nel nostro caso, l'oggetto dell'atto di intelligenza e di volontà? Vediamo di rispondere in modo elementare.


Nella statuizione di una legge si tratta in definitiva di determinare i doveri di un soggetto nei confronti di un altro soggetto. O, detto meglio: un certo soggetto ha un diritto e un altro soggetto ha il dovere di comportarsi o di agire in modo corrispondente a quel diritto. Ad esempio: una certa persona ha il diritto di ricevere rispetto, cioè astensione da lesioni della sua vita fisica e un altro soggetto ha il dovere di astenersi dal ledere la vita fisica di quella persona; un bambino ha il diritto di essere nutrito e i genitori hanno il dovere di conferirgli il nutrimento. Ciò posto, l'atto di intelligenza consiste nel conoscere i diritti del primo soggetto e l'atto di volontà consiste nello statuire i doveri del secondo soggetto.


Importante è, a questo punto, sottolineare che, solo se il legislatore conosce, in un momento anteriore, i diritti del primo soggetto, può determinare, in un momento susseguente, i doveri del secondo soggetto. La determinazione dei doveri è in realtà la logica conseguenza della conoscenza dei diritti. Ciò che comanda l'atto di determinazione è logicamente l'atto di conoscenza. Nihil volitum quin praecognitum. Orbene, quando il diritto è una realtà ontologica o, in altre parole, come dice il testo poco sopra citato e da cui siamo partiti - "nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell'uomo e dell'umanità" - risulta necessario che l'intelligenza del legislatore conosca con verità il diritto ontologico concretamente in gioco, in modo tale che la volontà del legislatore possa statuire un dovere corrispondente al diritto ontologico in questione e quindi possa statuire una legge secondo giustizia.


Qualora l'atto della conoscenza fosse falso, di conseguenza l'atto della volontà sarebbe ingiusto. E ciò per il motivo che il diritto ontologico è una realtà previa al legislatore e alla sua volontà, una realtà pre-esistente, quindi pre-data al legislatore stesso e alle sue opzioni. Il legislatore non crea, né può creare, il diritto ontologico. Deve solo conoscerlo e accettarlo.
Quanto fin qui abbiamo esposto indirizza ora la nostra attenzione al problema cruciale della conoscenza del diritto da parte del legislatore. È tema che può ora, dopo quanto abbiamo detto, venire specificato come segue: si tratta della conoscenza del diritto ontologico da parte del legislatore e si pone come problema della possibilità di tale conoscenza.
Il Discorso al Bundestag contiene varie espressioni, che pongono la difficile domanda: come è possibile conoscere il diritto ontologico? Vediamo di procedere per punti.
Si tratta, nel caso specifico, di conoscere il diritto ontologico e quindi di conoscere una realtà non necessariamente evidente. Prendiamo l'esempio, ormai classico, dell'embrione: ha l'embrione il diritto di ricevere rispetto, cioè astensione da lesioni, quindi dall'essere soppresso? Esiste tale diritto?


Il soggetto chiamato, nel nostro caso, a conoscere il diritto è il legislatore, il quale è composto - come abbiamo ricordato - da più persone, ciascuna delle quali esprime un voto, cioè un atto di intelligenza e di volontà.
Da tali due presupposti sorge spontanea la domanda: come può il legislatore conoscere il diritto ontologico? E un'altra particolarmente intrigante: potrebbe una certa religione o potrebbero in genere le religioni offrire una loro visione, insegnare una loro dottrina a riguardo dell'ontologia in genere e del diritto ontologico in specie? La risposta appare positiva.
La religione cattolica, in modo particolare, considera parte essenziale della sua missione nel mondo, e quindi peculiare dovere del suo servizio pastorale, insegnare la dottrina evangelica a riguardo dell'essere e dell'uomo, quindi a riguardo dell'ontologia. Afferma, in specie, che l'embrione è persona umana e ha, per tale motivo, il diritto di ricevere astensione da qualsivoglia attività di soppressione.
Dal che consegue che il legislatore potrebbe chiedere a una religione, o a varie religioni, illuminazioni per la conoscenza del diritto ontologico. Il Papa però afferma, anche con una certa forza: "Il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione". Per riprendere l'esempio che abbiamo sopra utilizzato, la religione cattolica non avrebbe mai imposto, allo Stato e alla società, il diritto dell'embrione a ricevere il rispetto della sua esistenza.


Quale è, dunque, il senso delle parole del Pontefice? Mi pare sia duplice: da una parte, il Papa non nega, né potrebbe negare, che una religione possa dichiarare quale è l'ontologia, che, per esempio, la religione cattolica possa dichiarare la ontologia dell'embrione; dall'altra, il Papa richiama l'attenzione su qualcosa che non va. E ciò consiste - vogliamo ripeterlo - non nel fatto che una religione possa dichiarare l'ontologia, bensì nel fatto che non sarebbe praticabile, o sarebbe almeno problematico, in questo caso, lo strumento conoscitivo dell'ontologia stessa. Vediamo di chiarire questa affermazione davvero decisiva.


Lo strumento conoscitivo, nel caso in cui sia una religione a dichiarare l'ontologia, è e non può che essere la fede di un soggetto o, meglio, l'adesione per fede di un soggetto all'autorità della religione attestante l'ontologia. Lo rileva il Papa stesso con questa pregnate espressione: "È stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nella divinità". Dunque: "Richiesto dalla fede nella divinità".
Ora la fede e l'adesione per fede non è necessariamente di ogni soggetto nella comunità civile. E non è necessariamente del legislatore, cioè di ciascuna delle persone che compongono l'insieme legiferante.
Quanto appena affermato è una immediata conseguenza del principio della libertà religiosa e quindi della libertà di coscienza. Per i suddetti motivi, a conoscere e ad affermare il diritto ontologico è necessario arrivare attraverso altre vie, altri strumenti conoscitivi.


A questo punto il Papa rimanda "alla natura e alla ragione", "all'armonia tra ragione oggettiva e soggettiva" e qualifica tali elementi "vere fonti del diritto". Ciò significa che la ragione deve indagare la natura per trovare il diritto ontologico.
Risulta, qui, decisivo sottolineare che la ragione rappresenta lo strumento conoscitivo adeguato non solo perché - com'è ovvio - capace di indagare la natura e così di conoscere l'ontologia, ma anche perché, a differenza dell'adesione per fede, che è solo di alcuni, la ragione è di tutti.



(©L'Osservatore Romano 19 aprile 2012)

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740733] Pare che finalmente il francese Rémi Brague abbia vinto il "premio Ratzinger".

Brague è quello che coniò il termine cristianisti, di cui parla in un'intervista del 2004 su "30Giorni". I "cristianisti", politicamente combattivi, favorevoli all'ortodossia, in fondo in fondo finiscono per utilizzare le cose della fede come strumento di battaglia politica. Un tempo avrebbero idolatrato Maurras, oggi idolatrano "il Giulianone nazionale":

http://www.30giorni.it/articoli_id_4666_l1.htm

Cristiani e “cristianisti”


La civiltà dell’Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una “civiltà cristiana”. La dobbiamo a persone che credevano in Cristo, non a persone che credevano nel cristianesimo. Intervista con Rémi Brague


di Gianni Valente


La Cattedrale di Chartres. Di seguito, scene della vita di Gesù illustrate nelle vetrate della Cattedrale di Chartres, Francia (XII-XIII secolo); sotto, Gesù e i tre apostoli prediletti

La Cattedrale di Chartres. Di seguito, scene della vita di Gesù illustrate nelle vetrate della Cattedrale di Chartres, Francia (XII-XIII secolo); sotto, Gesù e i tre apostoli prediletti

A Rémi Brague, professore di Filosofia araba alla Sorbona e anche all’Università Ludwig-Maximilian di Monaco, è sempre piaciuto usare le parole con fantasia. Ma forse non pensava che uno dei suoi geniali neologismi, nascosto nelle pagine di un libro scritto già dodici anni fa, potesse fotografare con disarmante efficacia i termini del rapporto tra fede cristiana e civiltà occidentale oggi tanto dibattuti anche all’interno della Chiesa.
Il volume Europe. La voie romaine – tradotto in quindici lingue, ormai è quasi un classico – Brague lo scrisse nel ’92 per documentare con un’angolazione originale e moderna il contributo di Roma e della “romanità” alla fioritura della civiltà europea. Ma in quelle pagine, quasi en passant, il professore introdusse anche la distinzione che corre tra cristiani e “cristianisti”…

Professore, partiamo da qui. Lei definisce i cristiani come coloro che credono in Cristo. I “cristianisti”, invece, sono quelli che esaltano e difendono il cristianesimo, la civiltà cristiana…

RÉMI BRAGUE: La parola “cristianista” forse non è molto carina. Ma non mi dispiace averla proposta. Prima di tutto perché è divertente. E poi perché spinge le persone a riflettere su ciò che vogliono veramente. Quelli che difendono il valore del cristianesimo e il suo ruolo positivo nella storia mi sono di certo più simpatici di quelli che lo negano. Io non intendo certo scoraggiarli. Mi piacerebbe persino che in Francia fossero più numerosi. E questo non perché costoro siano degli “alleati oggettivi”. Ma soltanto perché quello che dicono è vero. Dunque, grazie ai “cristianisti”. Soltanto, io vorrei ricordare loro che il cristianesimo non si interessa a sé stesso. S’interessa a Cristo. E anche Cristo stesso non s’interessa del proprio io: Lui s’interessa a Dio, che chiama in un modo unico, «Padre». E all’uomo, a cui propone un nuovo accesso a Dio.

La pesca miracolosa

La pesca miracolosa

In una certa valorizzazione del cristianesimo in chiave ideologico-culturale non si riaffaccia l’approccio già manifestatosi ai tempi dell’Action française?

BRAGUE: L’Action française, dopo la Prima guerra mondiale, aveva potuto attirare dei cristiani autentici e intelligenti: Bernanos, per esempio. Ma l’ispirazione ultima del movimento era meramente nazionalista. La Francia era stata plasmata dalla Chiesa. Per questo loro si dicevano cattolici, perché si volevano francesi al cento per cento. Il loro principale pensatore, Charles Maurras, era un discepolo di Auguste Comte; ammirava la chiarezza greca e l’ordine romano. Si dichiarava ateo, ma cattolico. La Chiesa era per lui una garanzia contro «il veleno giudeo del Vangelo». Al fondo, era un’idolatria, nel suo aspetto peggiore: mettere Dio al servizio del culto di sé stessi. Che si tratti dell’individuo o della nazione, la sostanza non cambia. E agli idoli bisogna sempre sacrificare qualcosa di vivo, come la gioventù europea, massacrata a Verdun o altrove.

Alcuni rimproverano alla Chiesa una debolezza nel sostenere certi contenuti di verità. Qual è l’immagine di Chiesa che piace a loro?

BRAGUE: Per questa gente, la Chiesa deve “difendere certi valori”, e non transigere sulle regole morali. Ma loro stessi le seguono? Non sempre… Loro vogliono un’organizzazione con una linea ferma, con un “numero uno” ben stabilito. Alla fine, mi chiedo se non sognino una Chiesa fatta con lo stampo del Partito comunista dell’Unione Sovietica.
Essere “secondari” significa sapere che ciò che si trasmette non proviene da sé stessi, e che lo si possiede solo in modo fragile e provvisorio. Questo implica tra l’altro che nessuna costruzione storica ha niente di definitivo. Deve essere sempre rivista, corretta, riformata

Si discute molto delle radici cristiane dell’Europa e più in generale della civiltà occidentale. Come giudica la loro lettura di questo rapporto?

BRAGUE: Il cristianesimo non ha niente d’occidentale. È venuto da Oriente. I nostri avi sono diventati cristiani. Hanno aderito a una religione che all’inizio era per loro straniera. Le radici? Che immagine strana... Perché considerarsi come una pianta? In gergo francese, “piantarsi” vuol dire sbagliarsi, o fare un errore… Se si vogliono a ogni costo delle radici, allora diciamo con Platone: noi siamo degli alberi piantati al contrario, le nostre radici non sono sulla terra, ma in cielo. Noi siamo radicati in ciò che, come il cielo, non si può afferrare, sfugge a ogni possesso. Non si possono piantare bandiere su una nuvola. E noi siamo anche animali mobili. Il cristianesimo non è riservato agli europei. È missionario. Crede che ogni uomo abbia il diritto di conoscere il messaggio cristiano, che ogni uomo meriti di diventare cristiano.

Lei, attraverso i suoi studi e i suoi libri, ha descritto il rapporto innegabile tra il cristianesimo e la civiltà europea. Come andò veramente?

BRAGUE: La civiltà dell’Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una “civiltà cristiana”. La dobbiamo a persone che credevano in Cristo, non a persone che credevano nel cristianesimo. Pensate a papa Gregorio Magno. Ciò che lui ha creato – ad esempio il canto gregoriano – ha sfidato i secoli. Ora, lui immaginava che la fine del mondo fosse imminente. E dunque, non ci sarebbe stata alcuna “civilizzazione cristiana”, per mancanza di tempo. Lui voleva soltanto mettere un po’ d’ordine nel mondo, prima di lasciarlo. Come si rassetta la casa prima di partire per le vacanze. Cristo non è venuto per costruire una civiltà, ma per salvare gli uomini di tutte le civiltà. Quella che si chiama “civiltà cristiana” non è nient’altro che l’insieme degli effetti collaterali che la fede in Cristo ha prodotto sulle civiltà che si trovavano sul suo cammino. Quando si crede alla Sua resurrezione, e alla possibilità della resurrezione di ogni uomo in Lui, si vede tutto in maniera diversa e si agisce di conseguenza, in tutti i campi. Ma serve molto tempo per rendersene conto e per realizzare questo nei fatti. Per questo, forse, noi siamo solo all’inizio del cristianesimo.

Gesù risorto e Maria Maddalena

Gesù risorto e Maria Maddalena

Lei per descrivere il cammino della civiltà europea ha usato una formula originale, quella della “secondarietà”. Cosa intendeva suggerire con tale espressione?

BRAGUE: L’espressione è forse maldestra, ma non ne ho trovata una migliore. Nel mio libro Europe. La voie romaine io la integro con altre formule, come quella della “cultura d’inserzione”, in opposizione alle “culture di digestione”. Intendo dire soltanto che il Nuovo Testamento viene dopo l’Antico Testamento, e i Romani dopo i Greci. Non solo riguardo al tempo, ma anche nel senso che quelli che venivano dopo percepivano la propria dipendenza rispetto a ciò che li precedeva, e che costituiva un modello. I Romani hanno fatto del bene e del male, come è capitato a tutte le civiltà. Ma occorre dar loro atto che si sono riconosciuti culturalmente inferiori in rapporto ai Greci, e hanno compreso che il loro compito storico era anche di diffondere una cultura che non era la loro. Essere “secondari” significa sapere che ciò che si trasmette non proviene da sé stessi, e che lo si possiede solo in modo fragile e provvisorio. Questo implica tra l’altro che nessuna costruzione storica ha niente di definitivo. Deve essere sempre rivista, corretta, riformata.

Cristo non è venuto per costruire una civiltà, ma per salvare gli uomini di tutte le civiltà. Quella che si chiama “civiltà cristiana” non è nient’altro che l’insieme degli effetti collaterali che la fede in Cristo ha prodotto sulle civiltà che si trovavano sul suo cammino. Quando si crede alla Sua resurrezione, e alla possibilità della resurrezione di ogni uomo in Lui, si vede tutto in maniera diversa e si agisce di conseguenza, in tutti i campi

Alcuni denunciano lo “stile di vita osceno” dell’Occidente, proponendo le verità cristiane come antidoto al nichilismo e al relativismo che lo ammalano. Come giudica questi ragionamenti?

BRAGUE: Contengono una parte di vero. Se fossero totalmente falsi, nessuno li prenderebbe in considerazione. È vero che siamo malati. E i sintomi più allarmanti li si può chiamare “relativismo” e “nichilismo”, che, certo, hanno qualcosa di buono: rendono impossibile l’intolleranza (non si può né morire né uccidere in nome di qualcosa a cui non si crede che relativamente, o non si crede affatto). La seccatura è che il nichilismo non fa neanche vivere. Rousseau già l’aveva visto bene: l’ateismo non uccide gli uomini, impedisce loro di nascere. Ma non c’è bisogno del cristianesimo per combattere il relativismo e il nichilismo. In fondo, non c’è proprio bisogno di combatterli: si annullano da soli, come una pianta parassita che finisce per soffocare l’albero di cui vive, seguendolo nella morte. Il cristianesimo sarebbe l’antidoto a questi veleni? Io porrei due questioni. Una di principio. L’altra puramente pragmatica.

Le tre Marie al Sepolcro

Le tre Marie al Sepolcro

Si spieghi, professore.

BRAGUE: Innanzitutto, si ha il diritto di fare della fede uno strumento? Io mi chiedo anche se sia sempre giusto parlare di cristianesimo. Il suffisso può essere percepito, a torto, come designante una teoria, al pari di altri “ismi”: liberalismo, marxismo, eccetera. Sant’Agostino dice da qualche parte: ciò che c’è di cristiano tra i cristiani è Cristo. Essere cristiani è essere in contatto con una persona. Ora, non si può trasformare una persona in uno strumento.
La mia seconda domanda è semplice: se utilizzare la fede come strumento è permesso, è per questo fattibile? Funziona così? Io direi di sì. Ma non come certi fondamentalisti americani, che quantificano gli effetti positivi della religione sulla produttività dei manager! L’ho già scritto nel mio libro: la fede non produce effetti che là dove essa resta fede, e non calcolo.
Si ha il diritto di fare della fede uno strumento? Io mi chiedo anche se sia sempre giusto parlare di cristianesimo. Il suffisso può essere percepito, a torto, come designante una teoria, al pari di altri “ismi”: liberalismo, marxismo, eccetera. Sant’Agostino dice da qualche parte: ciò che c’è di cristiano tra i cristiani è Cristo. Essere cristiani è essere in contatto con una persona. Ora, non si può trasformare una persona in uno strumento

Nel dibattito sulle radici cristiane dell’Europa cosa l’ha colpita?

BRAGUE: Nel dibattito sulla citazione nella Costituzione europea delle radici cristiane dell’Europa, avrei voglia di non dar ragione né ai “cristianisti” né ai loro avversari. Cominciamo dai loro avversari. Direi loro: se si vuole fare della storia, allora bisogna chiamare le cose col loro nome, e dire che le due religioni che hanno segnato l’Europa sono l’ebraismo e il cristianesimo, e nessun’altra. Perché limitarsi a parlare di eredità religiosa e umanista? Un professore di storia non si accontenterebbe di tale definizione e scriverebbe in rosso, sul margine: «Troppo vago, precisate!». Ciò che mi dà fastidio è lo stato d’animo che in questo si manifesta, e cioè l’impulso tipicamente ideologico di negare la realtà e riscrivere il passato. E negare la realtà porta necessariamente a distruggerla. Allo stesso tempo, ai “cristianisti” direi: non è perché il passato è stato quello che è stato che l’avvenire gli debba necessariamente rassomigliare. La domanda giusta da porsi è se la nostra civiltà ha ancora il desiderio di vivere e di agire. E se, piuttosto che circondarla di barriere di ogni sorta, non sarebbe meglio che gli fosse ridonato questo desiderio. Per questo occorre attingere alla sorgente stessa della vita, alla Vita eterna.

Sant’Agostino, a chi gli chiedeva perché Gesù risorto non si era manifestato anche ai nemici, in modo da cancellare ogni dubbio sulla realtà della Sua resurrezione, rispondeva che per Gesù «era più importante insegnare l’umiltà ai suoi amici che sfidare con la verità i suoi nemici». Cosa suggerirebbe oggi Agostino a chi parla della testimonianza cristiana in termini di sfide?

BRAGUE: Non inganniamoci su quello che vuole il Dio di Gesù Cristo. Non è quello che noi, noi vogliamo. Ciò che vuole non è schiacciare i suoi nemici. Ma liberarli da ciò che li rende suoi nemici, cioè una falsa immagine di Lui, quella di un tiranno al quale bisogna sottomettersi. Lui, essendo libero, non si interessa che alla nostra libertà. Cerca di guarirla. Il suo problema è di montare un dispositivo che permetta di veder risanata la libertà ferita degli uomini, così da poter scegliere liberamente la vita, contro tutte le tentazioni di morte che si portano dentro. Questo dispositivo i teologi lo chiamano “economia della salvezza”. Ne fanno parte le Alleanze, la Chiesa, i sacramenti, e via dicendo. Il ruolo delle civilizzazioni è indispensabile, ma non è lo stesso. E anche i loro mezzi sono differenti. Esse devono esercitare una certa costrizione, fisica o sociale. La fede invece può solo esercitare un’attrattiva sulla libertà, per la maestà del suo oggetto. Forse si potrebbe tornare a ciò che i papi dicevano agli imperatori d’Occidente, intorno alla riforma gregoriana, nell’XI secolo: non compete a voi la salvezza delle anime, contentatevi di fare il meglio possibile il vostro mestiere. Fate regnare la pace.

[SM=g1740758]

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il grande digiunatore

 
 
"Una bestia feroce che non ha più scampo è sempre pericolosa. E Saruman possiede poteri che immagini memmeno. Attento alla sua voce!" Gandalf a Pipino (J. R. R. Tolkien. Il Signore degli Anelli, I edizione Bompiani, p. 633)

IL GRANDE DIGIUNATORE

Estratto del volume autobiografico del Cardinale Giacomo Biffi, Arcivescovo emerito di Bologna, dal titolo: "Memorie e digressioni di un italiano cardinale" (Edizioni Cantagalli, Siena, 2007, pp. 640, Euro 23,90).

 ***

XIX digressione
 
PICCOLA CONTESTAZIONE AL GRANDE DIGIUNATORE

Chi è?

Nessuno mi chieda nome e cognome del Grande Digiunatore: non è un singolo personaggio, sono in parecchi e tutti, a diverso titolo e con diversa pertinenza, entrano a dare figura concreta e situazione storica a un tipo umano generale e astratto. Il primo e più onorato tra essi è senza dubbio il Mahatma Gandhi: mahatma in sanscrito significa “grande anima”; ma poi, nell’arte del digiuno annunciato e ostentato, sono seguite “anime” di tutte le misure. Il Grande Digiunatore non si accontenta di non mangiare per suo estro, nel segreto della sua casa o addirittura in località deserta (come Gesù Cristo): egli fa del suo digiuno un manifesto di propaganda. Non si astiene dal cibo per ragioni sue, ascetiche o sanitarie o di estetica personale: mette la sua rinuncia al servizio di qualche importante causa umanitaria.

Una spontanea antipatia

Sarà perché non ho avuto il dono di un’estrazione borghese (e sono stato abituato a rispettare e a temere la fame) o perché sono incline a non fidarmi facilmente degli eroismi gratuiti, ma il Grande Digiunatore non ha mai riscosso le mie simpatie. È qualcosa di istintivo, e non è detto che gli istinti diano sempre suggerimenti encomiabili. Perciò ho cercato dentro di me quali siano i motivi razionalmente enunziabili di questo stato d’animo di ripulsa: in chi è illuminato dalla fede è normale l’abitudine di verificare se ci sia – e quale sia – la ragione oggettiva dei suoi atti e dei suoi comportamenti. Noi credenti siamo abituati a ragionare.

Le ragioni della contestazione

La prima e meno elevata causa del mio malanimo è che il Grande Digiunatore, quando decide di privarsi del suo pranzo, un poco guasta anche il mio. Su questo argomento la mia sensibilità è acuta: il solo pensiero che una creatura umana, un figlio di Dio, un mio fratello (sia pure un po’ alla lontana) si astenga a lungo da cibi che pure sono di sua facile disponibilità (e perciò istante dopo istante interpellano naturalmente la sua crescente voracità) mi sconvolge. Una volta appresa la notizia della sciagurata iniziativa, anche l’onesto piatto di tagliatelle, che stava aspettandomi con l’abituale amicizia, perde la sua bonarietà bolognese, mi guarda male, sembra colpevolizzarmi. Ma che c’entro io, nella mia pochezza, con le grandi battaglie dei superuomini? Ma c’è qualcosa di più grave. Le iniziative tipiche del Grande Digiunatore sono in fondo di natura ricattatoria: si tenta con esse di estorcere, attraverso una forma specifica di violenza psicologica e morale, un consenso, una complicità, un adeguamento comportamentale; in certi casi addirittura un provvedimento legislativo e di governo. E questo non è accettabile. L’eventuale valore della tesi, che così si vuole imporre, non attenua affatto l’odiosità del procedimento. Né il convincimento soggettivo maturato in buona fede può costituire una scusante.

Nel mondo contemporaneo il ricatto è un uso abbastanza diffuso, con una fenomenologia molteplice e disparata. Sul ricatto vive l’industria dei rapimenti e delle devastazioni minacciate; di prospettive ricattatorie si serve talvolta l’adolescente che ha deciso di farsi regalare il motorino dai genitori riluttanti; ricatta anche l’uomo politico che preannuncia un’inutile o dannosa crisi parlamentare se non vede soddisfatta una sua pretesa. E così via.

Poco o tanto, sono sempre azioni abominevoli, perché insidiano la libertà di decisione dell’uomo, che si vede se non costretto almeno sospinto a pensare, a parlare, ad agire, contro il suo parere e la sua volontà; e soprattutto contro la ragione. La terza rimostranza è ancora più intrigante. Il Grande Digiunatore non si abbassa mai a spiegare ai “piccoli”, che rapporto ci sia tra la sua “laica” penitenza e la bontà della causa che egli intende promuovere. Egli si sacrifica nobilmente a favore di qualche mèta che gli sta a cuore, ma ritiene superfluo chiarire l’intrinseca relazione tra il suo digiuno e il traguardo che intende conseguire.

La sua è dunque una richiesta di assenso e di condivisione, sollecitata non con la forza di argomentazioni ineccepibili, ma con un metodo che esula da qualsivoglia razionalità. Anzi, la pressione per convincere, esercitata sugli animi, tende a debilitare le menti attraverso la nebbia delle emozioni e della pietà. Dal Grande Digiunatore io mi sento dunque attaccato e offeso nella mia logica sostanziale. E ciò che programmaticamente va contro il dono divino della ragione non può essere tollerato.

La cosa è tanto più abnorme in quanto spesso (non sempre) il Grande Digiunatore è un devoto della conoscenza puramente naturale (e non ammette per principio che si dia altra luce); e quindi del razionalismo più rigoroso. Ma forse qui è il caso di ricordare l’osservazione di Chesterton: «Coloro che usano la ragione non la venerano, la conoscono troppo bene; coloro che la venerano non la usano».

Pubblicato da unafides


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Messaggio di Papa Francesco in occasione della XVIII Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie

2014-01-28 Radio Vaticana

Al Venerato Fratello
Cardinale GIANFRANCO RAVASI Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
e del Consiglio di Coordinamento tra Accademie Pontificie 

In occasione della XVIII Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie sono lieto di farLe pervenire il mio cordiale saluto, che volentieri estendo ai Presidenti e agli Accademici, come pure ai Cardinali, ai Vescovi, agli Ambasciatori e a tutti i partecipanti.

La sessione di quest’anno, volutamente convocata nel giorno della memoria liturgica di san Tommaso d’Aquino, è stata organizzata dalla Pontificia Accademia a lui intitolata e dalla Pontificia Accademia di Teologia, e ha come tema: “Oculata fides. Leggere la realtà con gli occhi di Cristo”. Tale tema rimanda proprio ad una espressione del Doctor Angelicus citata nella Lettera Enciclica Lumen fidei. Vi ringrazio per aver voluto proporre alla riflessione questa tematica, come anche il rapporto tra l’Enciclica e la recente Esortazione apostolica Evangelii gaudium. 

In entrambi questi Documenti, infatti, ho voluto invitare a riflettere sulla dimensione “luminosa” della fede e sulla connessione tra fede e verità, da indagare non solo con gli occhi della mente ma anche con quelli del cuore, cioè nella prospettiva dell’amore. San Paolo afferma: «Con il cuore si crede» (Rm 10,10). «È in questo intreccio della fede con l’amore che si comprende la forma di conoscenza propria della fede, la sua forza di convinzione, la sua capacità di illuminare i nostri passi. La fede conosce in quanto è legata all'amore, in quanto l'amore stesso porta una luce. La comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per vedere la realtà» (Lumen fidei, 26). All’indomani della Risurrezione di Gesù, i suoi discepoli non contemplarono una verità puramente interiore o astratta, ma una verità che si dischiudeva loro proprio nell’incontro col Risorto, nella contemplazione della sua vita, dei suoi misteri. Giustamente san Tommaso d’Aquino afferma che si tratta di una oculata fides, di una fede che vede! (cfr ibid., 30).

Di qui derivano importanti conseguenze sia per l’agire dei credenti, sia per il metodo di lavoro dei teologi: «La verità oggi è ridotta spesso ad autenticità soggettiva del singolo, valida solo per la vita individuale. Una verità comune ci fa paura, perché la identifichiamo con l’imposizione intransigente dei totalitarismi. Se però la verità è la verità dell’amore, se è la verità che si schiude nell’incontro personale con l’Altro e con gli altri, allora resta liberata dalla chiusura nel singolo e può fare parte del bene comune … Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti» (ibid., 34). 

Questa prospettiva – di una Chiesa tutta in cammino e tutta missionaria – è quella che si sviluppa nell’Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale. Il «sogno di una scelta missionaria capace di rinnovare ogni cosa» (Evangelii gaudium, 27) riguarda tutta la Chiesa ed ogni sua parte. Anche le Accademie Pontificie sono chiamate a questa trasformazione, per non far mancare al Corpo ecclesiale il contributo loro proprio. Non si tratta però di fare operazioni esteriori, “di facciata”. Si tratta piuttosto, anche per voi, di concentrarsi ancora di più «sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario» (ibid., 35). In tal modo «la proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa» (ibid.).
Per questo, cari e illustri Fratelli, domando la vostra qualificata collaborazione, al servizio della missione di tutta la Chiesa.

Proprio per incoraggiare quanti, tra i giovani studiosi di teologia, vogliono offrire il proprio contributo alla promozione e alla realizzazione di un nuovo umanesimo cristiano attraverso la loro ricerca, sono lieto di assegnare ex aequo il Premio delle Pontificie Accademie, dedicato quest’anno alla ricerca teologica e allo studio delle opere di san Tommaso d’Aquino, a due giovani studiosi: il Rev. Prof. Alessandro Clemenzia, per l’opera dal titolo Nella Trinità come Chiesa.
In dialogo con Heribert Mühlen, e la Prof.ssa Maria Silvia Vaccarezza per l’opera Le ragioni del contingente.
La saggezza pratica tra Aristotele e Tommaso d'Aquino. 
Augurando, infine, agli Accademici e a tutti i presenti un impegno fruttuoso nei rispettivi campi di ricerca, affido ciascuno alla materna protezione della Vergine Maria, Sedes Sapientiae, domando un ricordo nella preghiera per me e per il mio ministero e di cuore imparto una speciale Benedizione Apostolica.




 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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05/02/2014 08:57
 
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[SM=g1740758] L'ATEISMO E' UNA DROGA PER L'INTELLETTO!!!!

Gustatevi (e seriamente preoccupiamoci) della vera APOSTASIA che stiamo vivendo..... perchè se non "gustiamo" davvero gli interessi verso Dio, questa è la fine che faremo....
Un grande mons. Livi spiega i fatti, spiega in cosa consiste questa apostasia e di come non ci sia nulla di nuovo in questa lotta di Satana contro Cristo e la Chiesa....
... e se di fatto non c'è nulla di nuovo in questa battaglia di Satana contro Cristo e la Chiesa, di nuovo c'è il fatto che i veri seguaci di Satana stanno diventando I CRISTIANI che rinnegano il Battesimo con lo sbattezzo mons. Livi lo spiega benissimo... e non è un caso che Papa Francesco insista da mesi sul Battesimo....

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[Modificato da Caterina63 05/02/2014 08:58]
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21/07/2015 21:33
 
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  Un sacerdote risponde

Mi chiarirebbe il rapporto tra anima, corpo ed intelletto?

Quesito

Caro Padre Angelo,
ho da chiederle chiarimenti in merito alla questione dell'anima.
L'altro giorno ho avuto un' "interessante" diatriba con un mio compagno di scuola (ateo di fatto perché vive in una famiglia sostanzialmente "atea", ma per fortuna una persona che utilizza veramente la ragione) sull'aborto. Per la verità, sono riuscito a convincerlo (almeno parzialmente) della presenza "scientifica" di una vita sin dall'attimo del concepimento. Tuttavia, quando ho ampliato il discorso dalla scienza alla fede, egli mi ha posto dinnanzi al solito pensiero materialistico sulla questione dell'anima (che o la nega, o la assimila al corpo, oppure sostiene che finirà con il corpo) ed io, pur rimanendo convintissimo dell'esistenza della prima, della sua origine divina e della sua immortalità, non ho saputo proporre risposte adeguate, dal punto di vista della fede.
Mi potrebbe elencare quali sono i punti principali della dottrina cattolica dell'anima (a partire da cosa si intende, in senso pratico, per essa)?
In particolare, mi chiarirebbe il rapporto tra anima, corpo ed intelletto (visto lo scontro tra le neuroscienze e la fede), se vuole, anche da un punto di vista scientifico?
Grazie.
Enrico


Risposta del sacerdote

Caro Enrico,
1. non solo il tuo amico doveva ammettere che fin dall’istante del concepimento ci troviamo di fronte ad un essere vivo, ma anche che si tratta di un essere vivo che appartiene alla specie umana.
Il dna è quello umano.
Ciò che comincia a germogliare nel grembo di una donna non è un’erbetta o un animale, ma un essere umano.
Questo è così vero che tu puoi dire: quello ero io al momento dell’inizio della mia esistenza.
Nel dna c’erano già tutti i tratti essenziali di quello che saresti diventato sotto il profilo biologico.

2. Mi dici che quando sei passato dalla scienza alla fede e avete parlato dell’anima…
Quando si parla dell’anima non si passa alla fede, ma si rimane ancora nell’ambito della ragione.
Questo tuo amico non può assimilare l’anima al corpo perché c’è una differenza tra un corpo umano vivo e un corpo umano morto. Il primo è animato, e cioè è mosso da un’anima (principio vitale), il secondo invece è disanimato, senz’anima, è un cadavere.
Quando Aristotele scrive il De anima non era mosso dalla fede. Era infatti un pensatore pagano, vissuto nel quarto secolo avanti Cristo. Egli stesso constatava la differenza tra un essere vivo e un essere morto e diceva che nell’esser vivo c’è il principio vitale, l’anima, che invece non è più presente nel cadavere.

3. Noi conosciamo la natura dell’anima umana dal suo dinamismo.
Se quest’anima assolvesse solo a finalità vegetative, diremmo che ci si trova si fronte ad un vegetale.
Ma la persona umana, pur esplicando funzioni vegetative, non si esaurisce in esse, non è un vegetale.
Esplica infatti anche funzioni sensitive e per questo diciamo che è anche un’anima sensitiva, come quella degli animali.

4. Ma l’anima umana va al di là dei puri sensi come avviene per gli animali, perché esplica attività spirituali, come sono quelle del pensare, del progettare, del trascendere il tempo, della stessa capacità di esprimere e progettare valori spirituali come la pace, la concordia, la solidarietà, il concetto di bene comune, di diritto, di dovere, di giustizia, di sussidiarietà, ecc…
La stessa capacità di formulare i pensieri attraverso suoni variamente combinati e comunicati ad altri manifesta chiaramente la trascendenza dell’uomo sulla materia.

5. Sì, l’uomo è un essere materiale. Ma non esaurisce tutta la sua vita nella materia perché è capace di trascenderla e di fatto la trascende.
L’uomo è vincolato alla materia e ai suoi meccanismi.
E tuttavia, a differenza degli animali, in parte ne è svincolato a motivo della libertà, che è il segno più alto della trascendenza e della spiritualità dell’uomo.

6. Certo un bambino nel grembo della madre non è ancora capace di pensare, come del resto non è ancora capace di tante altre attività anche materiali. Un bambino di un anno non può fare l’orafo o il giornalista. 
Ma è un essere umano?
Indubbiamente sì.
Allora bisogna distinguere tra ciò che si è in atto primo e ciò che si è in atto secondo.
La persona umana è un essere intelligente. Lo è sempre, anche quando non pensa, anche quando è in coma o ha perso i sensi.
In questo caso è un essere intelligente sempre, ma in atto primo.
È invece un essere intelligente in atto secondo chi attualmente pensa.
Un bambino dentro il grembo della madre o appena nato è un essere intelligente in atto primo.

7. Pertanto è chiaro (senza toccare la fede) che la persona umana è un  essere composto di corpo e di anima razionale, che è quanto dire spirituale e immortale.
Ed è anche chiaro che le facoltà spirituali, come quelle del pensiero, non coincidono con la materia, ma sono facoltà che ineriscono direttamente nell’anima spirituale.

8. In conclusione: l’uomo è un essere composto di materia e di spirito.
Nella sua parte materiale è dotato di sensi esterni (i cinque sensi) e di sensi interni (quelli presenti nel cervello). Si tratta di sensi che sono comuni anche agli animali.
Ma l’uomo sovrabbonda su di essi per altre facoltà come l’intelletto (capacità di pensare ed elaborare concetti) e la volontà, la cui massima caratteristica è la volontà.
Queste due facoltà (intelletto e volontà) ineriscono direttamente nell’anima spirituale, e rimangono in essa anche dopo la scioglimento dell’unione dell’anima e del corpo che avviene con la morte.
Tutto questo ragionamento, come vedi, si fa senza scomodare la Divina Rivelazione e cioè la fede. Ogni uomo lo può capire con le forze della ragione.
Aristotele, per fare solo un esempio, lo sottoscriverebbe in pieno.

Ti ringrazio per la paziente attesa alla mia risposta.
Ti auguro ogni bene per il tuo futuro, ti ricordo al Signore e ti benedico. 
Padre Angelo




Parolin all’Ucsi: giornalismo dia voce a chi non ce l'ha

Il cardinale Pietro Parolin - REUTERS

Il cardinale Pietro Parolin - REUTERS

05/03/2016 

Superando slogan e ideologie, mettere sempre la persona al centro delle notizie. E’ quanto affermato dal cardinale Pietro Parolin intervenuto a Matera al 19.mo Congresso dell’Ucsi, l’Unione Cattolica Stampa Italiana – incentrato sul tema "Le sfide del giornalismo ai tempi di Francesco" – che domani eleggerà il suo nuovo presidente. Il segretario di Stato vaticano ha sottolineato che una buona informazione può fare molto per la democrazia ed ha chiesto ai giornalisti cattolici di dare voce a chi non ne ha ed essere al servizio di tutti i cittadini. Il servizio di Alessandro Gisotti:

Servite la verità dei fatti e “le persone che non hanno voce”. E’ l’esortazione del cardinale Pietro Parolin all’Ucsi e, in un orizzonte più ampio, a tutti i comunicatori cattolici. Quando si disconosce la verità, ha osservato il segretario di Stato vaticano, “si finisce col dissolvere la stessa notizia. E’ vera la notizia che mette al centro la persona”. Il porporato ha quindi messo in guardia dagli slogan e dalle ideologie osservando che “c’è una ricerca da compiere nello spazio pubblico per difendere ciò è umano e denunciare ciò che invece è disumano”. Le parole, ha annotato, “non sono mai neutre, orientano la comprensione e dunque influiscono sui nostri atteggiamenti”.

Missione del giornalismo è dare voce a chi non ne ha
La più “nobile missione del giornalismo – ha ripreso – è quella di dar voce a chi non l’ha, perché la credibilità si fonda sull’integrità, l’affidabilità, l’onestà e la coerenza del giornalista”. Per la cura della democrazia, ne è convinto il cardinale Parolin, “una buona informazione può fare molto: serve a creare luoghi per ascoltarsi e garantire il pluralismo”. E sottolinea che “un’informazione libera da interessi parziali ha il compito di costruire giorno dopo giorno sentieri di integrazione”. Di qui la richiesta di approfondire gli aspetti antropologici del giornalismo, la definizione di “servizio pubblico”, il rapporto tra democrazia e comunicazione.

Giornalisti laici proseguano dialogo voluto dal Concilio Vaticano II
Il cardinale Parolin ha quindi citato gli insegnamenti di Benedetto XVI e Papa Francesco sulla comunicazione al tempo dei social network ed ha affermato che “nell’era del web il compito del giornalista non è più arrivare primo maarrivare meglio”. Ed ha soggiunto che “nella comunicazione prima di portare un’idea, si è chiamati a comunicare se stessi”. Il porporato ha dunque rammentato il “ruolo sociale” che l’Ucsi ha svolto nella sua storia basandosi sempre “sui principi di laicità e di cittadinanza” e portando avanti “come laici impegnati soprattutto in testate laiche, il dialogo Chiesa-mondo voluto dal Concilio Vaticano II”.

Offrire una rinnovata visione cristiana sulla comunicazione
“La vostra professione e le vostre competenze – ha proseguito il cardinale Parolin all’Ucsi – siano un servizio ecclesiale al servizio di tutti i cittadini”. Questo nuovo impegno, ha detto, “valorizzerà la vostra laicità e la vostra indipendenza”. Ed ha affermato che “la garanzia per creare sinergie, sia all’interno del mondo ecclesiale, sia in quello sociale è ripartire da un investimento nella formazione culturale”. “Insieme ai gesuiti di oggi dellaCiviltà Cattolica – a cui siete storicamente legati e che vi hanno accompagnato attraverso figure come il cardinale Roberto Tucci, il padre Bartolomeo Sorge, il padre Pasquale Borgomeo – e a quanti hanno a cuore il tema della comunicazione come servizio pubblico – ha concluso – avete i mezzi per entrare nel dibattito pubblico con una rinnovata visione cristiana sui temi della comunicazione”.





[Modificato da Caterina63 05/03/2016 14:20]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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02/07/2016 14:01
 
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  Surrexit Christus spes mea


Brani tratti dalle omelie e dai discorsi di papa Benedetto XVI per la celebrazione della Santa Pasqua


di papa Benedetto XVI - 2012




Gesù risorto e Maria Maddalena, Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova

Gesù risorto e Maria Maddalena, Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova

Il linguaggio di Colui che è veramente bambino

«I discepoli, la cui vicinanza Gesù cercò in quell’ora di estremo travaglio come elemento di sostegno umano, si addormentarono presto. Sentirono tuttavia alcuni frammenti delle parole di preghiera di Gesù e osservarono il suo atteggiamento. Ambedue le cose si impressero profondamente nel loro animo ed essi le trasmisero ai cristiani per sempre. Gesù chiama Dio “Abbà”. Ciò significa – come essi aggiungono – “Padre”. Non è, però, la forma usuale per la parola “padre”, bensì una parola del linguaggio dei bambini – una parola affettuosa con cui non si osava rivolgersi a Dio. È il linguaggio di Colui che è veramente “bambino”, Figlio del Padre, di Colui che si trova nella comunione con Dio, nella più profonda unità con Lui».

Omelia del Giovedì Santo, messa in Coena Domini, 5 aprile

 

I cristiani con il loro inginocchiarsi entrano nella preghiera di Gesù

«Luca, invece, ci dice che Gesù pregava in ginocchio. Negli Atti degli Apostoli, egli parla della preghiera in ginocchio da parte dei santi: Stefano durante la sua lapidazione, Pietro nel contesto della risurrezione di un morto, Paolo sulla via verso il martirio. Così Luca ha tracciato una piccola storia della preghiera in ginocchio nella Chiesa nascente. I cristiani, con il loro inginocchiarsi, entrano nella preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Nella minaccia da parte del potere del male, essi, in quanto inginocchiati, sono dritti di fronte al mondo, ma, in quanto figli, sono in ginocchio davanti al Padre. Davanti alla gloria di Dio, noi cristiani ci inginocchiamo e riconosciamo la sua divinità, ma esprimiamo in questo gesto anche la nostra fiducia che Egli vinca».

Omelia del Giovedì Santo, messa in Coena Domini, 5 aprile

 

La luce rende possibile la vita. Rende possibile l’incontro

«Che cosa intende dire con ciò il racconto della creazione? La luce rende possibile la vita. Rende possibile l’incontro. Rende possibile la comunicazione. Rende possibile la conoscenza, l’accesso alla realtà, alla verità. E rendendo possibile la conoscenza, rende possibile la libertà e il progresso. Il male si nasconde. La luce pertanto è anche espressione del bene che è luminosità e crea luminosità. È giorno in cui possiamo operare. Il fatto che Dio abbia creato la luce significa che Dio ha creato il mondo come spazio di conoscenza e di verità, spazio di incontro e di libertà, spazio del bene e dell’amore. La materia prima del mondo è buona, l’essere stesso è buono. E il male non proviene dall’essere che è creato da Dio, ma esiste solo in virtù della negazione. È il “no”».

Omelia della Veglia pasquale, Sabato Santo, 7 aprile

 

Surrexit Christus, spes mea

«“Surrexit Christus, spes mea / Cristo, mia speranza, è risorto” (Sequenza pasquale).

Giunga a tutti voi la voce esultante della Chiesa, con le parole che l’antico inno pone sulle labbra di Maria Maddalena, la prima a incontrare Gesù risorto il mattino di Pasqua. Ella corse dagli altri discepoli e, col cuore in gola, annunciò loro: “Ho visto il Signore!” (Gv 20, 18). Anche noi, che abbiamo attraversato il deserto della Quaresima e i giorni dolorosi della Passione, oggi diamo spazio al grido di vittoria: “È risorto! È veramente risorto!”».

Messaggio Urbi et orbi, Santa Pasqua, 8 aprile

 

Benedetto XVI [© Osservatore Romano]

 

Con Lui posso sperare che la mia vita sia piena

«Ogni cristiano rivive l’esperienza di Maria di Magdala. È un incontro che cambia la vita: l’incontro con un Uomo unico, che ci fa sperimentare tutta la bontà e la verità di Dio, che ci libera dal male non in modo superficiale, momentaneo, ma ce ne libera radicalmente, ci guarisce del tutto e ci restituisce la nostra dignità. Ecco perché la Maddalena chiama Gesù “mia speranza”: perché è stato Lui a farla rinascere, a donarle un futuro nuovo, un’esistenza buona, libera dal male. “Cristo mia speranza” significa che ogni mio desiderio di bene trova in Lui una possibilità reale: con Lui posso sperare che la mia vita sia buona e sia piena, eterna, perché è Dio stesso che si è fatto vicino fino a entrare nella nostra umanità».

Messaggio Urbi et orbi, Santa Pasqua, 8 aprile

 

Nel cuore della Vergine Maria, la madre di Gesù, la fiammella è rimasta accesa in modo vivo anche nel buio della notte

«Con la morte di Gesù, sembrava fallire la speranza di quanti confidavano in Lui. Ma quella fede non venne mai meno del tutto: soprattutto nel cuore della Vergine Maria, la madre di Gesù, la fiammella è rimasta accesa in modo vivo anche nel buio della notte».

Messaggio Urbi et orbi, Santa Pasqua, 8 aprile

 

Allora Lui, Gesù, è qualcuno di cui ci possiamo fidare in modo assoluto, e non soltanto confidare nel suo messaggio, ma proprio in Lui

«Cari fratelli e sorelle! Se Gesù è risorto, allora – e solo allora – è avvenuto qualcosa di veramente nuovo, che cambia la condizione dell’uomo e del mondo. Allora Lui, Gesù, è qualcuno di cui ci possiamo fidare in modo assoluto, e non soltanto confidare nel suo messaggio, ma proprio in Lui, perché il Risorto non appartiene al passato, ma è presente oggi, vivo».

Messaggio Urbi et orbi, Santa Pasqua, 8 aprile

 

Se Cristo non è risorto, vuota è anche la vostra fede

«Cari fratelli e sorelle!

Buona giornata a voi tutti! Il lunedì dopo Pasqua è in molti Paesi una giornata di vacanza, in cui fare una passeggiata in mezzo alla natura, oppure andare a visitare parenti un po’ lontani per ritrovarsi insieme in famiglia. Ma vorrei che fosse sempre presente nella mente e nel cuore dei cristiani il motivo di questa vacanza, cioè la Risurrezione di Gesù, il mistero decisivo della nostra fede. Infatti, come scrive san Paolo ai Corinzi, “se Cristo non è risorto, vuota è allora la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1Cor 15, 14). Perciò in questi giorni è importante rileggere le narrazioni della risurrezione di Cristo che troviamo nei quattro Vangeli, e leggerle con il nostro cuore. Si tratta di racconti che, in modi diversi, presentano gli incontri dei discepoli con Gesù risorto, e ci permettono così di meditare su questo evento stupendo che ha trasformato la storia e dà senso all’esistenza di ogni uomo, di ognuno di noi».

Lunedì dell’Angelo, dopo il Regina Coeli, 9 aprile




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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