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LA SEDE LITURGICA, dove va collocata? in piedi o in ginocchio? queste ed altre domande...

Ultimo Aggiornamento: 17/08/2012 19:42
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19/09/2011 14:32
 
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L'abside, la speranza nella parusia

Feltre, l'abside della Cattedrale

di Luigi Codemo (per La Bussola Quotidina)

L’abside di una chiesa è la parete che non chiude. È il monte abbassato. Il burrone riempito. Il sentiero raddrizzato. È lo spazio aperto da Cristo, dall’avvento di «colui che è, che era e che viene» (Ap 1,8). Quelle pietre che a semicerchio fuoriescono dalle mura squadrate ricordano che ogni celebrazione della liturgia è cammino verso il ritorno di Cristo. Attestano la speranza nella parusia.
Cristo, infatti, è il veniente per eccellenza, o erchòmenos, colui che è in atto di venire (Mc 11,9). Anche ora, in questo momento. Ci sarà il momento in cui tutto sarà palese, quando il cosmo intero sarà giunto al traguardo e si aprirà il tempo della nuova terra e del nuovo cielo, il tempo della nuova Gerusalemme, della città che non ha più bisogno né del sole né della luna, perché la gloria di Dio stesso la illumina (Ap 21,23). Ma tutto questo non è ancora. Anche se è già visibile agli occhi della fede. Perché in Cristo «tutto è compiuto» (Gv 19,30). E nei sacramenti l’eschaton, ciò che sarà, è già presente e in atto. «Se uno è in Cristo – scrive San Paolo – è una creazione nuova: il mondo vecchio è passato, ecco tutto si è fatto nuovo» (2Cor 5,17).

Viviamo nel tempo del "già e non ancora". Per spiegarlo, Gregorio Magno utilizza l’immagine dell’aurora: il sole ha cominciato a sorgere, ma le tenebre cercano di stringersi ancora alle cose del mondo, spalancano le fauci e sbattono la coda, perché sanno che resta loro poco tempo (Ap 12,12). Per questo l’abside è costruito volto ad oriente, per accogliere i primi raggi del sole che sorge e vince le tenebre. L’abside è il segno esteriore della fede che, vivendo del mistero pasquale, ovvero di Cristo risorto, si rivolge piena di speranza all’incontro definitivo, non più velato, con Cristo.

La fine non è, quindi, attesa di uno spegnimento, di un fiaccarsi dei tempi, di uno sprofondare nell’inerzia della notte. Cristo ha distrutto le potenze della morte in vista dell’incorruttibilità. Per dirla con Clemente Alessandrino «Cristo ha mutato il tramonto in Oriente».
Quando si vede la croce del presbiterio inscritta nell’abside o rappresentata, come per esempio nel mosaico di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, torna alla mante che Cristo nel giorno della Parusia porterà sul corpo i segni della croce. È questo un mistero che lascia ammirati. Il corpo umano, con tutte le sue ferite, è dentro il mistero della Trinità! Certo, un corpo trasfigurato, ma che comunque non ha abolito le ferite.

Anche i dipinti che ritraggono Cristo “Giudice dei vivi e dei morti” ne mostrano le stimmate. Egli, nella sua onnipotenza, non scuote via da sé, come se fosse pulviscolo, la propria umanità. Non lo ha fatto sul Golgota e non lo ha fatto ascendendo al cielo. Egli è uomo e Dio. Per questo è giudice: perché è la misura assoluta del rapporto tra l’umano e il divino. Egli lo ha testimoniato nella sua verità. Alla verità a cui ciascun uomo è chiamato. La distanza dal suo esempio sarà oggetto del giudizio dell’ultimo giorno.

E su questo tema del giudizio è ancora l’abside che ci può aiutare, ricordandoci la misericordia di Dio. L’abside infatti, con la sua forma che esorbita, segna come un sovrappiù. Indica il tempo della pazienza di Dio. «Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Il Signore è misericordioso e quindi attende: lascia tempo affinché gli uomini si convertano e coloro che si convertono si perfezionino.
testo da La Bussola Quotidiana



La cera per l'altare: la Sacra Scrittura


Entriamo in una delle ancor numerose chiese cattoliche che ricoprono, come un candido manto (per riprendere una celebre espressione di Rodolfo il Glabro), la superficie dell'orbe cattolico. C'avviciniamo all'acquasantiera, intingiamo le dita e, inginocchiati verso il tabernacolo del Santissimo Sacramento, ci facciamo devotamente un segno di croce, chiedendo perdono delle nostre colpe. Se non conosciamo l'edificio, cominciamo allora a guardarci attorno, un po' curiosi. Tra le strutture che per prime attirano la nostra attenzione c'è il tabernacolo, c'è l'altare. Nei pressi di entrambi notiamo in genere qualcosa di particolare: le candele. Vicino alla custodia che contiene il Sacratissimo Corpo del Nostro Redentore, infatti, arde continuamente una lampada, per ricordare ai fedeli che là è realmente presente il Re dei Re. Sull'altare, poi, troviamo in genere un paio di candele, che al di fuori delle celebrazioni liturgiche sono spente. Non di rado può accadere di scorgere, sul vecchio altar maggiore, alti e preziosi candelabri raramente utilizzati, mentre quelli presenti sull'altare sono piccolini e, diciamolo pure, anche un pochino miseri.

La mentalità moderna, chiusa nel suo immanentismo e talvolta incapace di guardare al di là di un misero pragmatismo, potrebbe obiettare che le chiese sono piene di luci: a che servono dunque le candele? Rimasugli di Medioevo? Attaccamento romantico sentimentalistico ad usi passati? Può anche essere – ma speriamo non sia così – che simili pensieri si accavallino pure nelle menti dei fedeli e persino dei sacerdoti stessi. Certo, le norme liturgiche sono chiare: le candele sono necessarie, non facoltative. Prima di toccare quest'aspetto, propriamente giuridico, può essere però utile indagare un po' la storia e le funzioni delle candele nella Sacra Liturgia.

Nella Sacra Scrittura troviamo numerosi riferimenti ai candelabri: quello dorato con sette lampade che Dio ordina a Mosè di fabbricare (Es 25, 31-40) e di collocare nella Tenda (Es 26, 35; 40, 4; 40, 24); esso veniva alimentato con puro olio d'oliva e doveva perennemente ardere durante la notte (Es 27, 20; Lv 24, 2-4); doveva poi essere unto con l'olio per l'unzione sacra (Es 30, 27) per consacrarlo. Fu modellato da Bezaleel, (Es 31, 2. 8) assieme ad Ooliab (Es 31, 6. 8) ed altri artisti (Es 35, 10. 14), cui il Signore aveva infuso saggezza (Es 31, 6) affinché eseguissero bene i lavori loro richiesti. Il modello stesso era stato mostrato dal Signore a Mosé (Nm 8, 4); né Mosè mostrò alcuna tirchieria, nonostante il popolo errante nel deserto non dovesse certo traboccare di ricchezze: impiegò infatti per realizzarlo un talento d'oro puro (Es 37, 24), cioè circa 30-35 chili. Durante gli spostamenti, in segno d'onore e di rispetto, esso veniva coperto con un drappo di porpora viola e avvolto in pelli di tasso (Nm 4, 10-11) prima di trasportarlo in portantina.

Nel tempio di Gerusalemme, invece, Salomone fece realizzare dieci candelabri d'oro da porsi nell'aula di fronte al Sancta Sanctorum: cinque sul lato settentrionale e cinque sul lato meridionale (1 Re 7, 49; 2 Cr 4, 7)). L'oro necessario era già stato messo da parte da Davide (1 Cr 28, 15).

Si potrà obiettare che la predicazione di Cristo abbia cancellato tutto questo. Ora, è senz'altro vero che la Chiesa “crede fermamente, conferma e insegna che le prescrizioni legali dell'antico Testamento, cioè della legge mosaica, che si dividono in cerimonie, santi sacrifici e sacramenti proprio perché istituite per significare qualche cosa di futuro, benché fossero adeguate al culto divino in quella età, venuto, però, Nostro Signore Gesù Cristo, da esse significato, sono cessate e sono cominciata i sacramenti della nuova alleanza.” (Concilio di Basilea-Ferrara-Firenze, Sessione XI del febbraio 1442, trad. da qui: http://www.totustuustools.net/concili/basilea.htm) Tuttavia, il significato profondo di quelle cerimonie non viene meno: esse volevano rendere visibile l'amore e l'attenzione che il popolo d'Israele riponeva verso il culto divino. Il fatto che Nostro Signore abbia richiamato, con la Sua predicazione, la necessità e la priorità del culto interno, che proviene dall'anima, non significa che Egli abbia tolto qualsiasi validità agli atti esterni di culto. Scorrendo i Vangeli, niente lascia presagire questo.






[Modificato da Caterina63 23/09/2011 23:31]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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