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LA SEDE LITURGICA, dove va collocata? in piedi o in ginocchio? queste ed altre domande...

Ultimo Aggiornamento: 17/08/2012 19:42
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04/10/2011 22:44
 
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[SM=g1740722]ringraziando Sacris Solemniis

La cera per l'altare: dall'utilità, al simbolo


Sembra che i primi esempi di uso liturgico delle candele possano essere ricondotti al V secolo dell'era cristiana. Da quel momento in poi l'utilizzo delle medesime è ininterrotto.
Possiamo probabilmente individuare in questa pratica anche un aspetto pratico, cioè quello di illuminare la zona dell'altare, che non sempre è ben illuminato dalla luce solare (nel romanico, per esempio, l'architettura stessa porta a ridurre alquanto gli spazi finestrati, da cui la penombra che avvolgeva – prima dell'utilizzo della luce elettrica – le chiese edificate in detto stile). Questa prospettiva è oggi venuta meno; tuttavia, rimane decisiva l'importanza simbolica dell'uso delle candele. Queste, in genere, sono – o dovrebbero – essere fatte di cera (questa prescrizione è particolarmente sottolineata nella forma extra-ordinaria del rito romano, nota 1). Essa è prodotta dalle api, che sin dall'età protocristiana, sono ritenute simbolo della verginità, dato che si riteneva esse si riproducessero senza bisogno di fecondazione (nota 2). Un vago rimando è rimasto in uno dei testi più antichi della liturgia, l'Exultet della Veglia Pasquale (nota 3).

Ma approfondiamo questi aspetti simbolici affidandoci all'autorevole voce di dom Prosper Guéranger: “Secondo sant'Ivo di Chartres la cera delle candele, formata a partire dal nettare dei fiori dalle api, che l'antichità ha sempre considerato come un simbolo della verginità, significa la verginal carne del divin Bambino, il quale non ha alterato, né col concepimento né con la nascita, l'integrità di Maria. Nella fiamma del cero, il santo Vescovo ci insegna a vedere il simbolo di Cristo che è venuto a illuminare le nostre tenebre. Sant'Anselmo, nelle sue Narrazioni su san Luca ci ha detto che ci sono tre cose da tenere in considerazione nel cero: la cera, lo stoppino e la fiamma. La cera, afferma, opera dell'ape vergine, è la carne di Cristo; lo stoppino, che è posto all'interno, è la [Sua] anima, la fiamma, che brilla nella parte superiore, è la [Sua] divinità.” (nota 4)


(nota 1) Per esempio, nel De Defectibus del Missale Romanum, al cap. X tra i difetti possibili in cui può incorrere il ministro stesso, è indicato “non adsint luminaria cerea”, (non ci siano candele in cera). Il decreto 4147 del 14 dicembre 1904 della Sacra Rituum Congregatio chiarì che per “cera” si doveva intendere cera naturale di api, anche se non è richiesto che tutta la candela sia totalmente (100%) di questo materiale. Cfr. Ludovico Trimeloni, Compendio di liturgia pratica, Milano, Marietti 1820, ristampa 2007, p. 296.
(nota 2) Quest'idea è diffusa già in età romana e richiamata spesso in epoca patristica. Sant'Ambrogio afferma a proposito delle api che “Communis omnibus generatio, integritas quoque corporis virginalis omnibus communis et patrus; quoniam neque inter se sullo concubitu miscentur, nec libidine resolvuntur, nec partus quatiuntur doloribus, et subito maximum filiorum examen emittunt” (Exameron, cap. XXI, 67 in PL 14, 248). In merito, cfr. Brian Stock, The Implications of Literacy: Written Language and Models of Interpretation in the Eleventh and Twelfth Centuries, Princeton, Princeton University Press, 1987, pp. 102-103.
(nota 3) In esso si parla di “[...] ceris, quas in substantiam pretiosæ huius lampadis apis mater eduxit” (cera che l'ape feconda ha prodotto come sostanza per questo cero prezioso).
(nota 4) “Selon saint Ives de Chartres [...] la cire des cierges, formée du suc des fleurs par les abeilles, que l'antiquité a toujours considérées comme un type de la virginité, signifie la chair virginale du divin Enfant, lequel n'a point altéré, dans sa conception ni dans sa naissance, l'intégrité de Marie. Dans la flamme du cierge, le saint Evêque nous apprend à voir le symbole du Christ qui est venu illuminer nos ténèbres. Saint Anselme, dans ses Enarrations sur saint Luc [...] nous dit qu'il y a trois choses à considérer dans le Cierge : la cire, la mèche et la flamme. La cire, dit-il, ouvrage de l'abeille virginale, est la chair du Christ ; la mèche, qui est intérieure, est l'âme ; la flamme, qui brille en la partie supérieure, est la divinité.” (Dom Prosper Guéranger, L'Année liturgique, La purification de la Très Sainte Vierge)


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La cera per l'altare: candele e liturgia


L'Institutio Generalis Missalis Romani afferma: “Super ipsum [altare, ndr] vero aut iuxta ipsum duo saltem in omni celebratione, vel etiam quattuor aut sex, praesertim si agitur de Missa dominicali vel festiva de praecepto, vel, si Episcopus dioecesanus celebrat, septem candelabra cum cereis accensis ponantur.” (IGMR, 117)(nota 5).
La prima cosa che notiamo è che l'utilizzo delle candele non è affatto facoltativo, bensì obbligatorio. La seconda, che questi candelabri vanno postio sopra (super) o nei pressi (iuxta) dell'altare. Crediamo di poter deplorare, qui, l'abitudine diffusasi in alcuni luoghi, di interpretare in senso che riteniamo troppo estensivo il termine iuxta. Quest'avverbio indica vicinanza e, del resto, è del tutto evidente l'intimo legame che le rubriche presuppongono intercorrere tra altare e candele: porle ad eccessiva distanza, quindi, rende molto difficoltosa – quando non impossibile – la comprensione di questa relazione. La terza cosa che si nota la specificazione del numero dei candelabri. Devono essere, sempre, almeno due; in occasioni particolari (Santa Messa domenicale o di precetto: in senso estensivo, si può pensare ad ogni celebrazione che presenti qualche elemento di solennità) quattro oppure sei; quando celebra il Vescovo diocesano, sette. Questa disciplina si scosta ben poco, in fondo, dalle rubriche della forma straordinaria (nota 6). Anche una successiva rubrica (IGMR, 307) parla dei candelabri: in essa, tra le altre cose, si stabilisce con chiarezza che altare e candelabri siano disposti “ut totum concinne componatur” (in modo da formare un tutto armonico) – confermando quindi quando sostenuto da noi poco sopra – e che “neque fideles impediantur ab iis [candelabris, ndr] facile conspiciendis, quae super altare aguntur vel deponuntur.” (e [i candelabri] non impediscano ai fedeli di vedere comodamente ciò che si compie o viene collocato sull’altare). Quest'ultima affermazione è stata forse da alcuni strumentalizzata, al fine di escludere antichi candelabri, piuttosto grandi e di notevole valore artistico, col pretesto che avrebbero impedito ai fedeli di vedere quanto si compie sull'altare. Ora, l'esempio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice dimostra che è possibile coniugare l'uso di venerabili candelabra con questa prescrizione, semplicemente avendo cura di disporli in maniera tale che essi non ostruiscano la vista dell'assemblea. Se l'altare fosse piccolo, è pur sempre possibile porli immediatamente nei pressi dell'altare (per esempio sul pavimento del presbiterio davanti all'ara/mensa medesima). Accade infatti, talvolta, di vedere candele dozzinali o di forme particolari o comunque ben poco armonizzate coll'arredo liturgico della chiesa nel suo insieme. Per esempio, candele poste in vasi di terracotta scarsamente ornati paiono scarsamente accordarsi con le linee rinascimental-barocche di gran parte dei nostri edifici sacri. Senza contare che, come dicevamo prima, il pauperismo liturgico non è affatto sinonimo – purtroppo taluni paiono averlo considerato tale, invece – di “nobile semplicità” e mal si accorda con l'espressione dell'intima solennità della Sacra Liturgia. Del resto, nella rubrica in esame, motivando l'utilizzo dei candelabri nella celebrazione, si adduce “venerationis et festivae celebrationis causa” (in segno di venerazione e di celebrazione festiva). É evidente che la venerazione verso il Santissimo Sacrificio della Messa viene espressa con molta maggior chiarezza da candele degne e preziose, che certo non sostituiscono la devozione e l'intima partecipazione interiore, ma dovrebbero in qualche modo rappresentare lo zelo per la Casa del Signore (cfr. Sal 68, 10).
Riguardo alla materia delle candele, nelle rubriche non se ne parla. Nel 1974 (cfr. Notitiæ 10 [1974]), la Congregazione per il Culto Divino affermò che l'argomento era di competenza delle Conferenze Episcopali; era comunque da scegliersi un materiale nobile e degno, che permettesse di ottenere una fiamma viva, che non producesse fumo o odori e che non macchiasse. Per significare pienamente il simbolismo della luce e la verità delle cose, poi, si sosteneva che dovessero essere evitate le lampade di luce elettrica (nota 7). Queste caratteristiche, considerando anche la tradizione delle popolazioni europee, sembrano facilmente riscontrabili proprio nella cera d'ape.



(nota 5) “sull’altare, o accanto ad esso, si pongano almeno due candelabri con i ceri accesi, o anche quattro o sei, specialmente se si tratta della Messa domenicale o festiva di precetto; se celebra il Vescovo della diocesi, si usino sette candelabri.” (trad. italiana ufficiale CEI)
(nota 6) In essa si utilizzano due candele per la Messa letta, quattro o sei per quella cantata, sei per quella solenne e sette per quella pontificale.
(nota 7) “[...] valet pro cereis durante Missa accendendis facultas qua gaudent Conferentiæ Episcopales seligendi materias aptas pro sacra supellectile, dummodo sint nobiles ac dignæ iuxta mentem cuiusvis populi et usui sacro apte respondeant. In cereis usui liturgico destinatis conficiendis materias adhigeantur quibus obtineri possit flamma viva, non fumosa nec fætida neque tobaleæ aut stratus maculentur. Insuper ut rei veritas et plenior significatio lucis habeatur, vitandæ sunt lampades vi electrica accensæ.”



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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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