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GLI OSTACOLI NEL CAMMINO DELLA TRADIZIONE riflessioni

Ultimo Aggiornamento: 26/03/2013 12:33
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 Amici, quanto segue è un bellissimo, a mio parere, modo per approfondire gli argomenti che più toccano i problemi esplosi DOPO il Concilio e a causa della pessima interpretazione che se ne fece....
Ai seguenti testi vi ricordiamo che attraverso IL TITOLO, LINKATO,  avrete l'opportunità di seguire il dibattito del blog, molto interessante per certi versi....


buona lettura!

I tre ostacoli nel cammino della Tradizione: 1) I modernisti


"Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?
Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo."
 
Rileggevo queste parole scritte dal Papa per spiegare la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani – perché è della Fraternità S. Pio X che egli parla, naturalmente – mentre riflettevo su alcuni fatti. Voi sapete come la pensiamo; anzi come la pensa la maggioranza preponderante dei tradizionalisti (a giudicare dai nostri contatti e da quel che si legge anche su altri siti). Ossia che il tempo è venuto per riconciliare la Chiesa con la sua Tradizione e, per ciò fare, occorre unire le disperse forze tradizionaliste, saldarle con gli elementi ortodossi e vitali all’interno della Chiesa mainstream per resistere al cancro del modernismo che, benché senescente, tiene ancora moltissime leve del potere ed è capace di micidiali colpi di coda.


Benedetto XVI, che fin dal tempo del Rapporto sulla Fede (1985) non nasconde la sua preoccupazione per la deriva della Chiesa, sa bene che questa battaglia, che è, o dovrebbe essere, anche la sua - pur se le prime decisioni di questo 2011 non sono affatto esaltanti -  passa pure attraverso una riconciliazione con la forza principale del campo tradizionale: la Fraternità San Pio X. Ha detto lui stesso di perdere il sonno nella ricerca di questo obbiettivo. Ecco perché, in questo preciso momento storico, chi è veramente cum Petro, sub Petro e agisce secundum Petrum, anela a quel risultato: portare la FSSPX nella Chiesa, sanando le antiche ferite e rinforzando l’ala filotradizionale della Chiesa, in vista della battaglia contro il modernismo. Dall’interno si combatte meglio che dall’esterno, ovviamente.

A questo disegno di Benedetto XVI si oppongono tuttavia tre forze distinte; diversissime ma coincidenti nello scopo. Naturalmente, esse agiscono in modo del tutto indipendente l’una dall’altra, in forza di un’alleanza solo obbiettiva e non cercata: ogni ipotesi complottista sarebbe peregrina ed assurda. Anzi: possiamo perfino riconoscere una certa buona fede in chi gioca contro il desiderio del Papa: lo fa perché convinto che quella riconciliazione sia controproducente per la Chiesa o per la visione che si ha di essa. Senza avvedersi che questo fomentar le discordie è il metodo tipico di Colui che divide e vuole mettersi di traverso (in greco dià-bàllein, donde diàbolos).

Quali sono dunque le forze che si oppongono a questa sperata riconciliazione ed al conseguente rafforzamento del tradizionalismo? Le esamineremo in tre distinti post. Iniziamo dalla più evidente, e numerosa.

Il primo nemico della Tradizione è infatti il progressismo. Che è ancora largamente maggioritario nella Chiesa, e specie negli episcopati, e tra questi soprattutto quelli che detengono le leve del potere economico ecclesiale, ossia le indebolite ma ancor ricche chiese del Centro Europa e parecchi ‘nuovi movimenti’. Non solo: gl’intellettuali della cosiddetta generazione del Concilio, che dell’ermeneutica della rottura e della visione del Concilio come nuovo inizio della Chiesa, han fatto un habitus o una professione prima ancora che una convinzione, esercitano un’influenza smisurata pure su quell’immensa palude clericale che di idee proprie ne ha poche, o punte. Quest’amorfa pletora chiercuta, martellata da un pensiero unico, ha assorbito e ritrasmesso la semplice idea che "una volta… ora invece finalmente…"; e in questo comodo dizionario di luoghi comuni postconciliari ha riposato il cervello, sempre in altre faccende affaccendato. Sicché, non solo l’istruito teologo dissidente alla Mancuso, la suora abortista americana, il vescovo francese in giacca e cravatta o il gesuita della liberazione in pullover d’ordinanza, vedono il riavvicinamento alla FSSPX come un tradimento (del Concilio, del Vangelo, dei poveri, di Paolo VI: metteteci chi volete); ma dietro a loro, e influenzato da loro, sarà molto perplesso pure il prete sessantenne che ragiona per sentito dire; e con lui la sua perpetua, il suo sacrestano e compagnia.

A questi ultimi tipi umani il Papa cerca pazientemente di spiegare il suo intento, con la lettera ai vescovi di cui sopra; dopo aver ricevuto però, dalle teste pensanti di questo gruppo, i morsi peggiori ("Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco").

In effetti, il tradizionalismo è visto da tutti costoro come un nemico acerrimo, da combattere implacabilmente senza concedere spazio alcuno, applicando una tattica di terra bruciata per timore che il morbo si diffonda; e questo anche a costo di rinnegare apertamente concetti come tolleranza, accoglienza, dialogo, che pur son continuamente alla bocca di questo tipo umano formattato sulla base di vuoti stilemi lessicali intercambiabili a piacere. Basti pensare, e l'esempio è uno tra mille, al caso dei fedeli lefebvriani di Amiens, costretti a celebrare all'addiaccio perché il vescovo locale non concede loro nemmeno una delle cento chiese e cappelle abbandonate e deserte della sua diocesi.

Enrico
(continua...)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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 I tre ostacoli nel cammino della Tradizione. Seconda parte

La settimana scorsa (leggi qui) ci siamo occupati della prima - e più naturale - categoria di persone che cercano di impedire il ritorno della Chiesa alle sorgenti della Tradizione: i progressisti, o modernisti che dir si voglia.

Oggi, invece, tratteggiamo del secondo gruppo pervicacemente contrario al rafforzamento della Tradizione. Qui l'ostacolo è frutto non più di deliberato intento, bensì di eterogenesi dei fini: non stiamo parlando infatti di nemici dichiarati della Tradizione bensì di… tradizionalisti autolesionisti. L’ala dura, cioè, della Fraternità San Pio X, rafforzata all’esterno da quei preti, magari diocesani e che per pavidità non osano nemmeno celebrare pubblicamente nel rito che pur per loro sarebbe l’unico valido, ma che si scatenano nell’anonimato o in riunioni carbonare nel criticare indiscriminatamente il Papa, la Chiesa, mons. Fellay, che sarebbe pronto al "ralliement" ed a svendere la Tradizione e la buona battaglia, lasciandosi comprare dalla Roma apostata e conciliare. Ne conosciamo, purtroppo, anche di questi… Solo il tonitruante Williamson, per costoro, è il degno continuatore di mons. Lefebvre; la cui biografia, evidentemente, conoscono assai male. A tutti loro farebbe un gran bene leggere con attenzione il saggio di Cristina Siccardi, proprio dedicato al grande e venerato arcivescovo francese.

Purtroppo la Fraternità San Pio X non è immune al suo interno da frange che alimentano queste sbandate, che sarebbero ridicole se non avessero un aspetto di tragica chiusura fanatica. Il sottoscritto ricorda con orrore di aver letto sullo Chardonnet di due anni orsono (la rivista di St. Nicolas de Chardonnet, la più importante chiesa della Fraternità) il consiglio di evitare matrimoni misti, dove per misti si intendeva... con tradizionalisti di altre fraternità e cappelle. Viene alla mente quanto scriveva il Papa nella lettera ai vescovi del marzo 2009: "abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc."; per poi aggiungere peraltro, "per amore di verità", di avere anche ricevuto testimonianze commoventi di gratitudine.

Ecco, in questa ambivalenza degli eredi di mons. Lefebvre sappiamo bene che gli aspetti positivi sopravanzano quelli negativi e nessuno, cui stia a cuore la Tradizione della Chiesa (il che significa, in corrispondenza biunivoca: cui stia a cuore la Chiesa tout court), può nascondere il doveroso debito di gratitudine, e perfino di affetto, verso il compianto arcivescovo e verso tutta la sua Fraternità. Ma proprio per attaccamento alla sua opera non si può sottacere il male che riceviamo noi fedeli (e fin qui passi) e tutta la Chiesa da certi fanatismi come quello che abbiamo descritto. Il male, cioè, di infangare con impresentabili paralogismi la credibilità delle posizioni tradizionali e dare armi e argomenti ai modernisti, coi quali fanatici e sedevacantisti si ritrovano oggettivamente alleati.

Eccessi del genere non sono, purtroppo, isolati, né limitati a esponenti emarginati (come meriterebbero) nella Fraternità. Massimo Introvigne (link), sia pure con malcelata soddisfazione, ma purtroppo senza inventar nulla, riferisce  dell'ultima 'fatica' editoriale di mons. Tissier de Mallerais, il vescovo più ascetico della Fraternità (a giudicar dall'aspetto, ché par macerato dai digiuni come fra' Cristoforo). La cui missione terrena sembra esser quella di denunziare la (citiamo) "strana teologia" di Benedetto XVI, accusato delle peggiori eresie, di "supermodernismo" e di "allontanarsi in modo impressionante dalla teologia cattolica". Già solo per la plateale esagerazione, non sfugge al ridicolo; ma il 'teologo' de Mallerais tanto più si espone quando dal suo curriculum si apprende che tutta la sua formazione accademica consiste in una laurea in... biologia. Non in filosofia, non in diritto, non in lettere, tanto meno in teologia: in biologia. Con altrettanta legittimità vi posso ammannire io pure, dunque, lezioni di ecclesiologia....

Tissier de Mallerais non ci stupisce. In un'intervista di qualche tempo fa a The Remnant aveva perfino redarguito l'intervistatore per non avergli chiesto in merito alle eresie di Benedetto XVI, reo a suo dire di aver negato niente meno che il dogma della Redenzione.

Disputationes theologicae ci presenta invece il caso, pure inquietante, dell'abbé de Caqueray, superiore del Distretto di Francia. Il quale, nel suo fresco fresco testo di auguri del 2011, sconsiglia caldamente di frequentare le Messe... di San Pio V, se non sono celebrate da sacerdoti della Fratenità. Raccomanda quindi di non presenziare alle Messe celebrate da Istituti Ecclesia Dei, o a quelle del motu proprio (curioso: a che pro snocciolar rosari a milioni per invocare 'sto motu proprio, allora?). Leggete tutto l'articolo di Disputationes: fa male, ma è istruttivo.

Ecco: queste posizioni sono veri ostacoli, per quanto involontari, nel cammino della Tradizione. Poiché rischiano l'effetto di rinchiuderla à jamais, per sempre, nell'hortus conclusus di conventicole e ghetti; perché il loro linguaggio è sicura ricetta per allontanare e perpetuare quell'autoesclusione. E perché, tolto un manipolo di convinti pasdaran, nessun individuo, se provvisto d'un briciolo di buon senso, sente di aver nulla da spartire con opinioni del genere.

Mons. Fellay, che apprezziamo per l'essere alieno da questi eccessi, ha dunque bisogno davvero di aiuti soprannaturali per temperare gli animi; la sua posizione non è dissimile e anzi speculare, mutatis mutandis, a quella del Papa, alle prese invece con un episcopato ed un clero che in buona parte han dimenticato di essere, o di dover essere, cattolici.
 
Enrico
(continua...)


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VI RICORDIAMO DI SEGUIRE DAL LINK DEL TITOLO DELL'ARTICOLO, IL DIBATTITO SCATURITO....



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740733] Prima di inserire il "terzo" ostacolo alla Tradizione da parte di Messainlatino, farei una riflessione anche con quanto segue riportato da unFides e che invito tutti a meditare con serenità.....


Chi è, allora, che disobbedisce al Concilio ?

Pubblichiamo il testo di una conferenza tenuta dal compianto Michael Davies (1936-2004), nel 1982, a Londra, e riproposta nel numero di novembre 2010 della rivista della Latin Mass Society (Londra): Mass of Ages.
Michael Davies, insegnante inglese convertitosi al Cattolicesimo, fin da dopo la fine del Concilio Vaticano II si è distinto per la difesa della Tradizione liturgica e dottrinale della Santa Chiesa. È stato Presidente della Federazione Internazionale Una Voce dal 1995 al 2003 ed ha sviluppato una intensa attività apologetica con un gran numero di libri, di articoli e di conferenze.
La conferenza che qui presentiamo riassume una tematica che, a quasi 30 anni di distanza, conserva tutta la sua attualità. La traduzione in italiano è di un vecchio amico di Michael Davies, il Dott. Mario Seno, uno dei fondatori di Una Voce Italia che ha condotto per anni la buona battaglia per la salvaguardia della Liturgia Tradizionale.
La rivista Mass of Ages ha presentato così la pubblicazione della conferenza:
Non c’era da aspettarsi che Papa Benedetto avrebbe menzionato le “guerre di liturgia” durante la sua visita (del settembre 2010 in Gran Bretagna, ndr.).
In una famosa conferenza dei Cattolici Tradizionali al Porchester Hall di Londra nel 1982 si protestò energicamente contro la riluttanza dei membri della gerarchia “ad aprire generosamente i cuori e far posto per ogni cosa che la Fede stessa ammette” (Papa Benedetto XVI).
Questa riluttanza esiste ancora perfino dopo la pubblicazione del “Summorum Pontificum”.
Michael Davies (1936-2004) fece il seguente discorso in quella conferenza, che è ancora oggi d’attualità.


Cattolici leali e tuttavia emarginati


Vorrei rivolgere le mie osservazioni ai membri della Commissione Cattolica per la Giustizia Razziale e al suo Presidente, il vescovo ausiliare di Birmingham. Si può avere la commissione giusta e l’ausiliare sbagliato, o la commissione sbagliata e l’ausiliare giusto o entrambi possono essere sbagliati o, con un po’ di fortuna, entrambi possono essere giusti. Abbiamo così tante commissioni e così tanti vescovi ausiliari che la burocrazia della Chiesa cattolica deve essere l’unica industria in espansione nello stato britannico.

Rivolgo le mie osservazioni alla Commissione a proposito della sua dichiarazione che il Rastafarianismo è un’esperienza religiosa valida e che ai suoi fedeli dovrebbe essere dato accesso alle sedi cattoliche per adorare l’imperatore Hailè Selassiè e il defunto Duca di Gloucester, benché si sottintenda che il culto di quest’ultimo è limitato al grado di dulìa (onore o devozione dovuti propriamente ai santi).

Devo ammettere che la raccomandazione della Commissione mi ha causato l’inarcamento di un sopracciglio, probabilmente perché sono considerato un cattolico pre-conciliare. Io non sono aggiornato, riciclato, all’avanguardia, orientato alla collettività o con la mentalità ecumenica.

È naturalmente un po’ impertinente essere un cattolico pre-conciliare oggi. Benché ci fosse un tempo in cui alcuni cattolici pre-conciliari erano considerati piuttosto rispettabili : S. Pietro, S. Atanasio, S. Tommaso d’Aquino, S. John Fisher, S. Thomas More, S. Richard Gwyn, S. Teresa d’Avila, S. Bernadette, S. Pio X.

Dove sono i loro omologhi nella Chiesa post-conciliare ?

Come cattolico pre-conciliare avevo immaginato che Nostro Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio Incarnato, avesse fondato una Chiesa e solo una Chiesa, e avesse dato alla Sua Chiesa e soltanto alla Sua Chiesa, il mandato di predicare il Vangelo, di amministrare i Sacramenti e di offrire adorazione pubblica nel Suo nome. Avevo anche immaginato che fosse totalmente incompatibile con l’unicità e con il mandato divino della Chiesa, permettere a chiunque sia al di fuori della sua visibile unità di usare le sue sedi per l’adorazione dei propri culti erronei.

Ciò si applicherebbe anche ai cristiani non cattolici, la cui adorazione è almeno centrata sul vero Dio e sul Suo divino Figlio. Non avrei mai creduto che avremmo offerto le nostre sedi agli adepti di un culto grottesco, a una falsa religione se mai ce ne fu. Mi chiedo cosa hanno provato quelle devote famiglie cattoliche delle Indie Occidentali con i cuori infranti, poiché i loro figli sono stati circuiti e sono entrati in questa setta, quando sono venuti a conoscenza di quella dichiarazione.

Io spero che la Commissione Cattolica per la Giustizia Razziale e il suo Presidente episcopale siano gente in buona fede e siano perciò disposti a mettere una buona parola per un’altra minoranza incompresa, la cui esperienza religiosa è per loro - così spero – almeno altrettanto valida del Rastafarianismo, benché i suoi aderenti tendano a favorire la dolce fragranza dell’incenso piuttosto che l’odore della canapa indiana.

Parlo della Fede cattolica tradizionale e della Messa cattolica tradizionale del rito romano, la Messa nota a noi tutti come la Messa Tridentina. Non potrebbero il vescovo e la sua commissione trovare nei loro cuori la forza di ammettere che questa Messa costituisce “una valida esperienza religiosa” ?

Risalendo alle origini

Scrisse Padre Faber : “È la cosa più bella da questa parte del cielo. Proveniva dalla grande mente della Chiesa e ci innalzava oltre la terra e oltre noi stessi, avvolgendoci in una nube di mistica dolcezza, e le sublimità di una liturgia più che angelica ci purificavano e ci incantavano con fascino celestiale così che i nostri sensi medesimi sembravano trovare visione, ascolto, fragranza, gusto e tatto più di quanto si possa percepire.”

Quanti di noi possono testimoniarlo per esperienza propria !

Il termine “Messa tridentina” è, naturalmente, una denominazione impropria. Padre Adrian Fortescue, il più grande storico liturgico d’Inghilterra, scrisse: “La nostra Messa risale senza cambiamenti essenziali all’epoca quando Cesare governava il mondo e pensava di poter sradicare la Fede di Cristo e i nostri padri si riunivano prima dell’alba e cantavano un inno a Cristo come Dio… non c’è nella Cristianità un rito così venerabile come il nostro”.

Ma oggi quel rito venerabile è meno accettabile nelle sedi della Chiesa cattolica dell’adorazione dell’imperatore Hailè Selassiè.

S. Pio V non ha certamente inventato un nuovo rito della Messa. Si accontentò di codificare il messale romano vigente e di estenderne l’uso in tutte le diocesi di rito romano come baluardo contro l’eresia protestante. Le sue preghiere e i suoi rituali resero esplicite le dottrine del Sacrificio e della Presenza Reale secondo il principio lex orandi, lex credendi. La legge della preghiera è la legge della fede.

I laici cattolici hanno il diritto di rendere note le loro esigenze spirituali ai loro pastori, soprattutto al loro Supremo Pastore, il Santo Padre stesso. Certamente noi siamo autorizzati a dirgli che desideriamo esprimere la nostra fede con il rito della Messa che ha sorretto innumerevoli milioni di cattolici attraverso le nazioni e i secoli. Questa era la forma della Messa che i preti martiri d’Inghilterra e del Galles celebravano in segreto, spesso a costo delle loro vite. Era la forma della Messa che S. Francesco Saverio portò nelle Indie, che i missionari martiri del Canada portarono agli indiani a prezzo di sofferenze troppo terribili da descrivere.

È “la perla di grande valore” della Chiesa che avrebbe dovuto essere più inviolabile e più sacrosanta di qualsiasi altra cosa essa stessa possedesse. Se fosse stato proposto di distruggere la cattedrale di Chartres o la Basilica di San Pietro per rimpiazzarle con mostruosità in calcestruzzo più in linea con la “mentalità dell’uomo moderno”, non è difficile immaginare il moto di ribellione e di protesta che avrebbe pervaso tutto il mondo. Ma distruggere la Messa di S. Pio V, in verità “la cosa più bella da questa parte del cielo”, è un atto di vandalismo liturgico di tale dimensione di fronte al quale la distruzione di tutte le cattedrali d’Europa apparirebbe di poca importanza.

Ma, ci dicono, “lo ha ordinato il Concilio Vaticano Secondo”. Davvero ?

Il Concilio decretò che nulla nella Messa dovesse essere cambiato, a meno che non lo richiedesse veramente e con certezza il bene della Chiesa.

Bene, prendete in mano il vostro messale romano, guardate i cambiamenti che sono stati fatti e trovatene uno che il bene della Chiesa abbia richiesto veramente e con certezza. Trovatene uno che ci abbia reso dei cattolici migliori e più spirituali. Trovatene uno che abbia contribuito all’unità della Chiesa.

Avrebbe dovuto andarsene il “Judica me” ? Lo stupendo doppio Confiteor era una causa di atrofia spirituale ? La genuflessione al “Et incarnatus” nel Credo nuoceva alla causa dell’ortodossia dottrinale ? Quelle sublimi preghiere dell’Offertorio causavano la perdita di milioni di praticanti ? L’Ultimo Vangelo alienava la gioventù ?

Chi allora disobbedisce al Concilio ?

Il Concilio stabilì che tutti i riti esistenti fossero preservati e incoraggiati con grande cura.

Padre Joseph Gelineau, uno dei commissari liturgici responsabili dell’invenzione e dell’imposizione del nuovo rito, affermava con orgoglio che il rito romano era stato distrutto. Noi preserviamo e incoraggiamo qualche cosa distruggendola ? Certamente no !

Chi allora disobbedisce al Concilio ?

Il latino doveva rimanere la norma nel rito romano : è stato così ? Naturalmente no.

Il canto gregoriano doveva essere la norma nelle Messe cantate : è così ?

Domani passate per la vostra parrocchia, poi andate a vedere la parrocchia vicina, poi la prossima e poi la seguente ancora e vedrete quando mai il canto gregoriano è la norma.

Chi è, allora, che disobbedisce al Concilio ?

Il Concilio stabilì che i fedeli dovessero essere in grado di recitare o cantare assieme in latino le parti della Messa di loro pertinenza. Noi possiamo farlo, come si verificava quando noi cantavamo il Credo; ma che succede ai bambini nelle nostre scuole di oggi ? Anche loro dovrebbero essere in grado di farlo. È un loro diritto: un diritto acquisito con la nascita, ma essi ne sono stati privati.

Cercate sui documenti conciliari più diligentemente che potete, non troverete una parola sulla Messa rivolta al popolo, la Comunione sulla mano, i ministri laici della Comunione, la rimozione del tabernacolo dall’altare maggiore.

La rivoluzione che ci è stata imposta non ha proprio nulla a che fare con le riforme moderate proposte dal Concilio.

Il cardinale Heenan testimoniò che Papa Giovanni XXIII e i Padri conciliari non avevano alcuna idea di quello che gli esperti, che avevano redatto le bozze dei documenti, stavano progettando. Un vescovo americano affermò che i Padri conciliari vi avrebbero riso in faccia, se aveste detto loro quale sarebbe stata la riforma effettiva il giorno in cui votarono la Costituzione sulla Liturgia. Un prelato italiano disse che se ne avesse avuta la possibilità, sarebbe andato davanti a un notaio per ritirare il suo voto per la Costituzione sulla Liturgia, certificando che gli era stato ottenuto con un tranello.

“Beneficio pastorale”

Si potrebbe argomentare – e di fatto si è argomentato – che anche se questo non è ciò di cui ha dato mandato il Concilio, è stato comunque di grande beneficio pastorale.

Lo è stato davvero ?

In Olanda e in Francia la presenza alla Messa è diminuita di oltre il 60%, in Italia del 50%, negli Stati Uniti del 30% e in Inghilterra e nel Galles del 20%.

“Voi non potete provare che ciò è connesso con la riforma”, ci dicono i nostri esperti liturgici. Ma supponiamo che la presenza alla Messa fosse aumentata di più del 20% dall’epoca del Concilio: avrebbero detto allora che non era connessa con la riforma ? Naturalmente no !

Questo, tra l’altro, è sintomatico del pessimo stato odierno della Chiesa cattolica in Inghilterra e nel Galles. Lo stesso Papa Paolo VI avvertì che la Chiesa attraversa una fase di autodistruzione.

Aveva ragione. La Chiesa cattolica in Inghilterra e nel Galles, che era fiorente prima del Concilio, è ora stagnante e moribonda. Constatatelo voi stessi esaminando le statistiche dell’assistenza alla Messa, dei battesimi, delle ordinazioni, delle conversioni.

I cattolici tradizionali non stanno rigettando un rinnovamento liturgico fruttuoso.

Non c’è rinnovamento di sorta in questo Paese. È una fantasia della burocrazia.

Il recente sondaggio sui vescovi in tutto il mondo condotto dal Vaticano pretende di rivelare che praticamente nessuno desidera la Messa tridentina. Ma quando The Universe (giornale inglese, ndr.) consultò i suoi lettori per scoprire i loro sentimenti, ricevette un responso da primato in cui la maggioranza schiacciante optò per la Messa tradizionale in latino. Sondaggi d’opinione indipendenti condotti in Germania e negli Stati Uniti indicavano che il 64% e il 46% rispettivamente dei cattolici vorrebbero assistere alla Messa tridentina. Il rilevamento del Vaticano ha più o meno la stessa credibilità dell’occultamento del Watergate.

Un amico anglicano mi scrisse recentemente riguardo ad una Messa di Prima Comunione, cui assistette con la sua famiglia su invito di alcuni vicini cattolici. Ciò che ebbe luogo apparve come una discoteca per piccini piuttosto che un atto di adorazione. Il prete della parrocchia invitò ognuno a ricevere la Comunione: cattolici e protestanti allo stesso modo. I miei amici pensarono che, per essere cortesi, anch’essi avrebbero dovuto ricevere la Comunione, ma il loro bambino rifiutò. “Voi chiamate questa una funzione religiosa ?” disse, “io non prendo la Comunione qui”.

Potrei citare centinaia di esempi di simili abusi, che mi sono stati segnalati.

Nella sua lettera “Dominicae Cenae” del 24 febbraio 1980 Papa Giovanni Paolo II ci chiese scusa per tutti gli scandali e gli sconvolgimenti che abbiamo dovuto sopportare nella liturgia. Noi lo ringraziamo per le sue scuse. Ammiriamo la sua umiltà nel farlo: nessun Papa ha mai sentito il bisogno di presentare simili scuse in tutta la storia della Chiesa.

Vorremmo ricordargli le parole del suo predecessore Papa Benedetto XV, il quale scrisse :

“I Romani Pontefici non solo non hanno mai ripudiato quei sacri riti, la cui antichità dovrebbe garantire rispetto, finché essi mantengono l’obbedienza dovuta alla Santa Sede nell’unità della fede; essi hanno anche desiderato di vedere questi riti riverentemente conservati ed eseguiti comunque conformemente alle legittime disposizioni della Sede Apostolica, alla quale – sia chiaro – ogni rito deve obbedienza come al Sovrano Magistero”.

Così sia.

Io non sono secondo a nessuno nella mia devozione alla Santa Sede e sono sicuro che non c’è mai stata una riunione di cattolici più leale di quella presente oggi in questa sala. È certamente un caso fortuito che noi siamo proprio il tipo di cattolici che al Santo Padre non sarà concesso di incontrare durante la sua visita in questo Paese.

Il Cardinale Hume ha affermato che noi possiamo essere devoti figli e devote figlie della Chiesa e tuttavia praticare la contraccezione.

L’Arcivescovo Worlock sostiene che, se abbandoniamo i nostri consorti legittimamente sposati ed entriamo in un matrimonio invalido, saremmo comunque benvenuti alle balaustre dell’altare per la Santa Comunione.

Il vescovo ausiliare di Birmingham dice che ai Rastafariani dovrebbe essere permesso di usare le sedi cattoliche.

Bene, oggi sto per chiedervi di presentare un’istanza per la parità con tali individui. Perché i soli cattolici tradizionali devono essere i paria della Chiesa ?

Io mi appello a tutti quelli di voi che amano il sacro rito, la cui antichità dovrebbe garantire rispetto - un’esperienza religiosa veramente valida, “la cosa più bella da questa parte del cielo” – per sostenere la risoluzione che io vorrei proporre: Santo Padre, per il nostro beneficio spirituale e il bene di Santa Madre Chiesa, noi Vi preghiamo di togliere ogni restrizione per la celebrazione della Messa Tridentina.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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I tre ostacoli nel cammino della tradizione. Terza parte.

Ed eccoci alla terza puntata della serie. Abbiamo individuato già due categorie di persone che si pongono quali veri e propri ostacoli al cammino della Tradizione, ossia alla riappacificazione tra la Chiesa del postconcilio e i difensori della grande eredità dottrinale e liturgica, che lo sbandamento degli ultimi quarant’anni ha rischiato di dilapidare.

Dopo aver parlato dei progressisti, allergici per definizione al senso della Tradizione, e, speculari a quelli, degli estremisti che si sono costruiti la loro idea di chiesa per duri e puri e vedono eresie moderniste anche nelle istruzioni della lavastoviglie, passiamo alla terza – e per ora ultima - categoria. Piccola numericamente, ma assai influente. Sono i c.d. convervatori (da qualcuno definiti teocon). Cattolici ortodossi più papisti del Papa e difensori del suo verbo. Cosa di per sé commendevole, se non fosse che a volte le intenzioni del Papa possono anche essere in senso diverso a quelle che han loro in testa (come, appunto, nel caso del riavvicinamento con la FSSPX). La loro missione è quella di guardiani inflessibili dell’ortodossia, com’essi la intendono. Il Concilio si è autodichiarato pastorale, non dogmatico e ancor meno infallibile? Non conta: guai egualmente a chi osa mettere in dubbio iota unum di quel che il Concilio ha secreto, o la boutade di questo o quel Papa nella più informale delle occasioni. Tutto, in pratica, diviene de fide. Due affermazioni palesemente confliggenti di due papi a distanza di secoli non possono essere, come è ovvio per chiunque, semplici dichiarazioni non vincolanti, contingenti al tempo in cui furon fatte e quindi lecitamente revocabili (o successivamente ripristinabili revocando la revoca). No: entrambe le affermazioni sono, non possono che essere a priori, in perfetta armonia l’una con l’altra, sia pure secondo una sottile logica esoterica che sfugge a chiunque non riesca a condividere questo pseudodogma per cui tutto è Magistero, tutto è vincolante, tutto va introiettato con cieca obbedienza e nessuna domanda, alla 1984 di Orwell.

Il capace prof. Introvigne – che per il resto apprezziamo molto per il sincero sforzo di nobile e approfondita apologetica, e che in ogni caso continuiamo a stimare - rientra, a buon diritto, in questa categoria. Forse anche per una non risolta rottura personale con la Fraternità di mons. Lefebvre, a cui fu per molto tempo vicino, tutto quello che ad essa faccia riferimento o semplicemente possa favorirla, anàthema sit. In ciò però attualizza le parole del Papa: "E se qualcuno osa avvicinarglisi"- al gruppo lefebvriano - "perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo".

Qualche esempio. Cristina Siccardi, alcuni mesi orsono, ha pubblicato una curata e precisa biografia su mons. Lefebvre il cui principale merito è quello di aver messo in luce aspetti del tutto sconosciuti ai più, che mostrano come il cliché di vescovo ribelle, con sentimenti antiromani se non gallicani, scismatico e attaccabrighe, fosse una esagerazione creata proprio dai gruppi che abbiamo indicato nei precedenti post (ossia, dai progressisti e dall’ala oltranzista della Fraternità), mentre i dati storici mostrano un vescovo missionario, molto legato a Roma e al Papa e assai più moderato di quanto le pur sofferte scelte d’insubordinazione facciano immaginare. E’ chiaro che una biografia del genere è importantissima nel sostenere quel progetto benedettiano di riconciliazione: perché da un lato rende più ‘digeribile’ al fedele cattolico qualunque una figura di cui ha sempre sentito dire ogni male; dall’altro, sfata il mito di un Rodomonte anticonciliare, cui si appellano gli oltranzisti della FSSPX.

Ebbene: Introvigne non ha per nulla apprezzato quello studio.

Ma proseguiamo. Un teologo eminente e rispettato, Brunero Gherardini, affronta il tema del Concilio in termini problematici, che si chiudono nel più cattolico e rispettoso dei modi: con un’invocazione al Papa affinché prosegua nei suoi interventi chiarificatori del Concilio e lo riarmonizzi con la Tradizione , magari (come ha suggerito il vescovo Schneider) con un sillabo chiaro e definitorio delle interpretazioni "di rottura" da riprovare. Il saggio del teologo, edito dai Francescani dell’Immacolata e prefato dal vescovo di Albenga (già due garanzie di ortodossia) trova l’appoggio di molti che hanno coscienza della crisi della Chiesa postconciliare; ed anche della FSSPX, pur se i toni pacati e molto romani di Gherardini spiacciono ai soliti pasdaran della Fraternità, per fortuna prontamente rintuzzati nella rivista ad uso interno dei lefebvriani.

Ma il libro non piace affatto ai conservatori.
Dom Basile Valuet, monaco del Barroux, arriva all’inaudita offesa di dubitare delle facoltà intellettive del teologo chiedendosi (cito) "se mons. Gherardini, anziano professore di ecclesiologia e di ecumenismo, sia davvero l’autore del libro che esaminiamo, o se qualcuno abbia approfittato della sua età rispettabile per ingannarlo". Uno che si chiama don Basilio sa evidentemente molto bene, come l’omonimo del Barbiere di Siviglia, che la calunnia è un venticello…

Ebbene: la recensione del frate francese è ripresa ed esaltata in Italia proprio da quegli ambienti di cui parliamo.

L’ultimo testo di Gherardini sul concetto di tradizione, poi, ha suscitato una
fortissima critica 
dello stesso Introvigne: il saggio di Gherardini porterebbe a sostituire al magistero papale una dittatura di teologi…

Su de Mattei, il cui studio storico sull’evento conciliare gli allor ne sfronda, ed alle genti mostra, di che lacrime grondi e di che sangu appare niente meno che sull’Avvenire la
stroncatura, sempre di Introvigne
. Sicché i molti che non hanno letto quel testo assolutamente rispettoso e cattolico, e perfino chi l’ha letto con troppa fretta attraverso le lenti introvigniane, si è convinto a torto che si tratti d’un libro totalmente ribelle, antipapale, pericoloso. Eppure, i testi di de Mattei e Gherardini sono stati presentati un mese fa, alla presenza di vescovi e cardinali, in territorio vaticano: evidentemente non sono le tesi di Wittemberg di Martin Lutero.

In sé, è giusto difendere il concetto dell’ermeneutica della continuità: non c’è altra via concretamente praticabile per depotenziare e circoscrivere la portata fin qui eversiva dell’evento conciliare. Ma sbagliato è dipingere i testi di Gherardini e de Mattei come critiche frontali a quell’intuizione del Papa quando in realtà, mostrando le difficoltà nate dal Concilio ed invocando interventi chiarificatori e soprattutto vincolanti (l’idea del Sillabo…), essi sono nei fatti grandi alleati di quell’ermeneutica.

La forza negativa di quelle stroncature critiche non è minimamente da sottovalutare e l’effetto che produce è la ghettizzazione a priori e la quarantena preventiva di quelle opinioni e di chi le sostiene. Vedremo ad esempio se, nel maggio prossimo, al convegno sul motu proprio che organizzerà l’assai prudente Commissione Ecclesia Dei, Gherardini e de Mattei saranno invitati come relatori.

Che dire poi delle critiche non sempre benevole rivolte agl'intellettuali firmatari dell'appello al Papa per la prossima riunione ad Assisi? Avrete notato chi, oltre al gran visir dei progressisti Melloni, ha gridato alla lesa pontificia maestà...

Questo lungo e sofferto articolo si chiude – come è ormai di moda tra i tradizionalisti – con un appello. Non al Papa, stavolta, ma agli esponenti di questo terzo gruppo. Se l’astio dei progressisti è naturale e scontato; se la rigidità dell’ala dura dei lefebvriani era attesa per le ferite subite in passato e per il settarismo che la ghettizzazione e il rifiuto inevitabilmente alimentano; questo terzo ostacolo è inaspettato e fratricida. Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. La Fede vacilla e vescovi canonicamente legittimi negano dogmi fondamentali come la Risurrezione (
legga qui, chi pensa che esageriamo); non ha senso ricacciare nel ghetto, fuori del perimetro visibile della Chiesa, chi quei dogmi, quella fede, quel tesoro liturgico e dottrinale è pronto a difendere col massimo, e indispensabile, ardore.

Enrico



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Risposta ai tradizionalisti di "Remnant", in difesa di Arzillo



di p. Giovanni Cavalcoli OP




Cari amici di "Remnant",

sono un frate domenicano docente di teologia sistematica nella facoltà teologica di Bologna, studioso delle dottrine del Concilio Vaticano II da quarant’anni.

Ho letto la vostra critica all’articolo di Francesco Arzillo su www.chiesa e, dopo aver ottenuto il suo consenso, mi piace prendere cavallerescamente le sue difese, in un fraterno dibattito all’interno della nostra comune fede cattolica e volontà di obbedire al magistero della Chiesa e al papa.

Mi fermo solo su tre punti del vostro discorso che mi sembrano centrali.

Primo punto. Leggo in "Remnant":

"Che cosa intende Arzillo con la mentalità 'cartesiana' come opposta a quella 'aristotelica'? Vuol dire che questo tradizionalismo che deve essere censurato è in qualche modo dualistico? Ciò che scrive non è affatto chiaro. Coloro che intendono i cambiamenti della formulazione come cambiamenti della dottrina davvero a me non sembra, almeno a una considerazione di superficie, che siano dei dualisti cartesiani. Né pare a me dualistico, almeno a una considerazione di superficie, trattare i concetti teologici come se fossero idee chiare e distinte. Non sto dicendo che essi dovrebbero essere trattati così, ma non è specificamente cartesiano farlo in qualsiasi caso".

Confrontando Cartesio con Aristotele, Arzillo non intendeva riferirsi al dualismo di Cartesio, del quale non fa parola, ma al modo cartesiano di pensare, troppo attaccato alla chiarezza ed alla distinzione, cosa che può essere accettabile nel sapere matematico, ma non in quello teologico, che è un pensare basato più sull’analogia che sull’univocità. Ora, appunto il metodo dell’analogia è caratteristico di Aristotele e non di Cartesio.

Il pensare analogico consente di comprendere come un concetto, pur restando identico a se stesso, possa però nel contempo svilupparsi, progredire, esplicitarsi e chiarirsi. Questo è tipico di tutti fenomeni vitali, dal livello biologico a quello spirituale. Per questo giustamente il beato John Henry Newman paragonava il progresso dogmatico o teologico allo sviluppo di una pianta, la quale cresce e si sviluppa pur restando se stessa. Una quercia di due metri è sempre la stessa anche quando ha raggiunto i venti metri.

Così le dottrine del Vaticano II non vanno viste come una smentita o una rottura con quelle del magistero precedente, ma come una loro conferma ed una loro esplicitazione. In altre parole, col Vaticano II noi conosciamo meglio quelle stesse verità di fede che già conoscevamo prima.

Indubbiamente questa tesi dev’essere dimostrata, perché effettivamente essa non è sempre così evidente. Ma come cattolici, supposto che si tratti di materie di fede, possiamo supporre già a priori che il Concilio non può insegnarci il falso o qualcosa di contrario a quanto la Chiesa insegnava prima, perché questo supporrebbe che Cristo ci ha ingannati quando promise agli apostoli che lo Spirito Santo avrebbe condotto la Chiesa alla pienezza della verità e disse inoltre: “Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.

Per quanto riguarda invece le disposizioni pratico-pastorali non ci sarebbe da meravigliarsi se col Concilio la Chiesa ci offre una direzione che contrasta con direttive del preconcilio. Qui a volte non solo si può, ma si deve cambiare. Che diremmo se la Chiesa, come avveniva nel Medioevo, ci ordinasse di confessarci solo dal nostro parroco? Qui non si pone il problema: a quale magistero obbedire, quello medioevale o quello di oggi. È chiaro che dobbiamo obbedire a quello di oggi.

Inoltre in questo campo la Chiesa può anche sbagliare: può abbandonare abitudini che andrebbero conservate o introdurre leggi che alla prova dei fatti si rivelano dannose. In questo caso bisognerà adoperarsi o per ripristinare ciò che si è abbandonato o per correggere decisioni sbagliate.

Ma nel campo dogmatico, dove le nozioni sono immutabili, tutto ciò non ha senso. L’unico progresso che si può e si deve attuare non sta nel sostituire concetti, ma nell’approfondirli, nel renderli più ricchi e più chiari, ma sempre nel medesimo significato. Qui alla Chiesa non verrà mai in mente di dire, per esempio, che Cristo non è Dio o che in Dio non ci sono tre Persone, ma ce ne sono due o quattro.

E con ciò avvio la risposta anche al secondo punto. Leggo ancora in "Remnant":

"Arzillo omette del tutto il cuore dell'argomentazione tradizionalista. I tradizionalisti non sono dei disobbedienti al magistero della Chiesa, specialmente quando esso tocca le questioni dell'ecumenismo e della libertà religiosa. I tradizionalisti semplicemente evidenziano il fatto che il magistero della Chiesa ha contraddetto se stesso. Gli attuali insegnamenti del magistero ordinario della Chiesa riguardo all'ecumenismo e alla libertà religiosa sono sicuramente contrari a ciò che la Chiesa ha sempre insegnato prima del Concilio Vaticano II. Non è una questione di disobbedienza al magistero, la questione è qual è l'insegnamento magisteriale al quale obbedire. L'attuale magistero abroga l'insegnamento precedente? Se è così, perché ciò non è stato detto con chiarezza? Se non lo è, qual è il motivo delle discordanze? Come possono interpretare i fedeli questi insegnamenti del magistero che paiono così contrari tra loro?".

In base a quello che ho detto, il problema, per quanto riguarda le dottrine del Concilio, non è quello di chiedersi se dobbiamo obbedire a quelle di adesso o a quelle precedenti, perché sono le stesse: le prime esposte in una modalità più avanzata e adatta alla cultura moderna, le seconde in una fase meno sviluppata, adatta ai tempi nei quali furono enunciate. Viceversa, nelle direttive pratico-pastorali-giuridiche è evidente che dobbiamo obbedire alle disposizioni del Concilio e non a quelle precedenti.

Quello che tuttavia mi sembra da prendere in seria considerazione in ciò che "Remnant" scrive è effettivamente il fatto che il linguaggio del Concilio non è sempre chiaro, si presta ad opposte interpretazioni, persino di tipo modernistico, per cui oggi i modernisti ne approfittano come se il Concilio desse ragione a loro, mentre sono loro che falsificano le dottrine del Concilio a loro vantaggio.

D’altra parte è importante seguire le interpretazioni che del Concilio ha dato il magistero successivo, considerando anche le condanne dottrinali pronunciate dalla congregazione per la dottrina della fede, condanne che generalmente colpiscono false interpretazioni del Concilio.

Inoltre, una buona guida per capire il vero senso delle dottrine conciliari in continuità con quelle precedenti è il Catechismo della Chiesa Cattolica. Ed è molto utile anche seguire i discorsi del papa, nel quale è evidente la tendenza a proporre il Concilio in continuità con la Tradizione.

Con miei due amici teologi, don Enrico Finotti e don Piero Cantoni, sto preparando un libro nel quale ci proponiamo di dimostrare la continuità dottrinale tra il Concilio e il magistero precedente mediante un accurato confronto dei testi ufficiali della Chiesa.

Infine, per avere un modello di teologo che mostra la possibilità di una continuità fra il Vaticano II e il magistero precedente, mi permetto di indirizzarvi al padre domenicano cecoslovacco, il servo di Dio Tomas Tyn (1950-1990), della cui causa di beatificazione io sono il vicepostulatore. Padre Tomas Tyn era fiero del suo tradizionalismo, ma lo viveva nella piena comunione con la Chiesa del postconcilio. Al riguardo vi invito a visitare i siti www.studiodomenicano.com e www.arpato.org

Un terzo punto è l’interpretazione delle parole di sant’Ignazio di Loyola: "Quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica".

A tal riguardo Arzillo intende semplicemente elogiare lo spirito di obbedienza del grande santo, benchè questi si esprimesse in una forma paradossale. Non dobbiamo infatti intendere sant'Ignazio quasi fosse un irrazionalista.

Anche lui oggi, davanti alle oscurità dei testi conciliari, laddove si tratti di dottrina, li avrebbe senz’altro in linea di principio considerati in continuità col magistero precedente.

Quanto alla richiesta di un chiarimento alla Santa Sede, non sappiamo quale sarebbe stata la sua reazione, ma certamente avrebbe dato un contributo per chiarire la continuità.


Bologna, 5 maggio 2011

__________


La nota di Francesco Arzillo in www.chiesa dell'8 aprile 2011:

> I grandi delusi da papa Benedetto


La replica di "Remnant" del 18 aprile 2011:

> Traditionalist Attacked... Again. A Response to Francesco Arzillo’s Essay On Continuity


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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15/05/2011 21:32
 
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La comprensione del Vaticano II e la Tradizione. Alcuni punti fermi.

Ringraziamo l'autore per la gentile disponibilità e la attenta analisi alle nostre considerazioni.
.


La discussione sul Concilio Vaticano Secondo si fa sempre più forte e – direi – necessaria
sia Magister nel suo blog, come anche un interessante recensione di enrico del blog messainlatino, ma poi la pubblicazione ieri della Universae Ecclesiae , dal titolo significativamente eloquente, solo alcune delle spie di un dibattito che sempre più investe l’opinione pubblica della Chiesa
e allora… provo a dire la mia… ponendo dei punti fermi.

Anzitutto:
1. la Tradizione è un concetto teologico molto ampio e complesso; una realtà dinamica che investe la Chiesa dal suo nascere, dalla Croce di Gesù Cristo quando Egli “consegnò” lo Spirito (Gv 19,30: il verbo è proprio quello “tecnico” della paradosis, tradizione)… Cristo crocifisso consegna lo Spirito e la Chiesa custodisce questo suo Spirito e lo dona continuamente fino alla fine dei tempi…

2. se volessimo “definire” la Tradizione essa è il processo per cui la Chiesa, Corpo di Cristo e insieme sua Sposa, trasmette il depositum Fidei, e donandolo, di generazione in generazione, da cultura a cultura, lo comprende con sempre maggiore chiarezza e intelligenza…

3. in tal senso non ha alcun significato contrapporre un Concilio con quello che lo precede o ciò che lo segue: un Concilio è parte significativa di questo processo dinamico per cui la Chiesa sempre più chiaramente esprime e dice la sua fede… solo in un’indagine storica si può cercare di ricostruire i filoni che hanno generato questo o quel processo, un prima, un dopo, le cause, gli effetti, ma a livello teologico l’ermeneutica necessaria è quella indicata dal celeberrimo discorso del Papa sulla discontinuità/riforma-

4. un ultimo punto fermo lo prendo proprio da quel discorso: Benedetto XVI non oppone alla discontinuità una semplice continuità, ma il termine – ricco di suggestioni storiche e teologiche – di riforma e – penso – non a caso!

Sono però molto d’accordo con Enrico sul valore che possono avere queste “critiche”: scardinare quello che sembra un dogma, una visione che non si può superare o contraddire… e nella ricerca della verità questo è, spesso, un bene, una cosa importante… ogni dogmatismo è sempre un male anche se la cosa affermata è in sé buona…

La lettura che ha fatto del Concilio la scuola di Bologna è ancora l’unica davvero organica, completa e, sicuramente, imprescindibile. E mette in evidenza alcuni dati storici inoppugnabili ed essenziali. Possiamo dire: non sono gli unici! Possiamo dire: non bastano a cosrtuire una “teologia” del Concilio Vaticano secondo! Ma quei dati sono veri e necessari. Attendiamo altre letture che possano mettere in luce altri aspetti e, quindi, offrire anche altre visioni e considerazioni teologiche. In questo sia Marchetto, che De Mattei non mi pare che siano ciò che possiamo attenderci.

Forse quello che manca è una vera e propria lettura teologica del Concilio Vaticano Secondo; una lettura, cioé, che considerando anche i dati storici, metta in evidenza il ruolo di questo “evento” (possiamo usare questo termine senza essere tacciati di essere “modernisti”?) della Chiesa del XX secolo nel cammino della tradizione ecclesiale. E in tal senso il dibattito che si sta instaurando mi pare che offra qualche elemento in tle direzione che andrebbe considerato.
solo intraprendendo questa esegesi globale dei testi del Concilio si può davvero comprenderne la portata teologica e l’importanza per la Chiesa di oggi e forse contribuire a sanare le contrapposizioni all’interno della Chiesa.

Posti questi punti fermi, pur vedendo con interesse la critica alla visione storiografica della scuola di Bologna (che, giova ricordare, è una lettura storiografica, appunto e non teologica… il problema non è la scuola di Bologna, ma chi da lì parte per una lettura teologica dell’insegnamento conciliare), tuttavia tale critica non mi pare di grande “qualità”. Sia Marchetto che De Mattei sono troppo “contro” per poter davvero offrire una vera alternativa possibile. Mi piace di più considerare alcuni teologi un po’ nascosti come Leo Schyeffczyk, ad esempio…

Dice giustamente Enrico che la replica di Introvigne pecca di un eccessivo peso posto sul “Magistero”. E sono d’accordo. La Tradizione non è il Magistero, ma è l’insieme delle componenti che la “fanno” la Rivelazione e la DV ne indica tre: la Bibbia, la Tradizione e il Magistero, appunto. Ed è vero che uno delle pecche contro cui il provvidenziale pontificato di Benedetto XVI si muove è quello di una assolutizzazione del magistero. Se non si comprende questo l’insegnamento del Papa non si comprende a fondo. Mentre questo è un punto importante! il Magistero è a servizio della Parola e della Tradizione e non le sostituisce. O, per dirla in termini “benedittiani” (aaarrrrrggghhhh che brutto neologismo!), la Verità è la realtà ultima da ricercare. Perciò Egli può contrastare anche la maggioranza dei Vescovi, può non essere succube dello “scisma” tradizionalista e può con autorità e autorevolezza affermare qualcosa: perché si pone a servizio della Verità. Solo a questa condizione il Magistero è autentico e offre un servizio alla Chiesa. Sotto questa luce, forse, andrebbe anche riletta tutto l’atteggiamento di Benedetto XVI verso la pedofilia del clero: proprio nell’ottica di un “ridimensionare” il ruolo, a volte eccessivo e segnato dalla volontà di dominio, del Magistero nei suoi diversi livelli.

Ma interessante è anche la critica a Rhonheimer, che Enrico accusa di dissolvere, di fatto, la visione di Chiesa in un indistinto già detto. E forse è vero perché mette in evidenza che se non è accettabile una semplicistica traduzione teologica del dato storico messo in evidenza dalla Scuola Bolognese (il Concilio Vaticano Secondo è stato un evento), come se la fede della Chiesa possa distinguersi in un prima e dopo del Concilio; d’altro lato non si può far finta che questo Concilio, siccome fu “pastorale” è stato ininfluente nella tradizione ecclesiale e nella comprensione della fede. La strada per la comprensione del Concilio Vaticano Secondo, come ha autorevolmente insegnato Benedetto è quella che passa per l’ermeneutica della riforma. Un concetto chiave, mi pare. Non assimilabile né alle ermeneutiche della rottura (progressista o tradizionalista), né a quella della semplice continuità. Diciamo con uno slogan: qualcosa è successo. Nulla di sostanziale è mutato nella fede della Chiesa così come nulla mutò con Trento o col Lateranense IV, ma qualcosa è successo. Una sconfessione? Una rivoluzione abortita? Mi pare né l’uno, né l’altro. Piuttosto un cammino di “compimento”, una voce dello Spirito da comprendere e da approfondire per poterla vivere.

In questo senso mi pare che una parola, spesso usata ai tempi del Concilio, e poi abbandonata possa esprimere l’intento espresso dal Papa: aggiornamento. Io aggiorno un programma, un applet non perché voglio sconvolgerla, non perché ne carico un’altra, ma perché voglio “migliorarla”, renderla più prestante… fa sempre la stessa cosa, ma meglio. Sia il Beato Giovanni XXIII che il servo di Dio Paolo VI hanno inteso questo termine con due accezioni unite: fedeltà al depositum Fidei e sua riproposizione nelle rinnovate situazioni storiche. In questo dinamismo di “tradizione” il Concilio è stato pensato e vissuto dai pontefici. Stranamente il termine “aggiornamento” non compare più nel linguaggio ecclesiale dopo le prime sessioni. Ai padri del Coetus internationalis sembrava troppo pericoloso; alla “maggioranza” rinnovatrice pareva troppo tiepido. Io lo rispolvererei per poter avere una chiave di lettura teologica dei documenti conciliari, che superi la tradizionale (e anche qui forse diventata un po’ dogmatica) opera di Acerbi sulle due ecclesiologie del Concilio. Brevemente per chi non conosce la tesi essa – semplificata al massimo – dice che nei testi del Concilio Vaticano Secondo si trovano due visioni di Chiesa, due “teologie” contrapposte e contrarie che non si sono amalgamate tra di loro.
L’opera è del 1975 e ha guidato di fatto tutta l’esegesi più comune dei testi conciliari fino ad oggi… potremmo vederla come una sorta di corrispettivo del metodo storico critico applicato ai testi conciliari… la mia tesi è: e se non fosse proprio così? se invece leggessimo i testi non soltanto nel loro “farsi”, ma nel loro essere consegnati alla tradizione ecclesiale? perché invece di studiare come i testi si sono prodotti o che cosa avrebbero potuto dire non si leggono all’interno della fede della Chiesa? qui l’idea di aggiornamento trova la sua importanza… sono testi che non vogliono offrire definizioni dogmatiche, ma vogliono rinnovare il linguaggio ecclesiale… e, chiaramente, con questo anche donare alla Chiesa, con l’autorità propria di un Concilio Ecumenico, alcune precisazioni teologiche, a volte anche delle vere e proprie esplicitazioni… “aggiornare” la fede per renderla capace di essere trasmessa in condizione storiche totalmente rinnovate: ecco la chiave di lettura propria dei testi conciliari, la “pastoralità” che essi intendono avere (si veda, ad esempio, un testo chiave pochissimo citato: la prima nota della Gaudium et Spes)…

Questa lettura è ancora tutta da fare… sia il continuo richiamo del Beato Giovanni Paolo II, che l’insegnamento di Benedetto XVI, mi pare che offrano non pochi motivi per dirigersi verso questa opera necessaria e preziosa per l’annuncio della fede e per la sua tradizione.
di F. G.


Fraternamente CaterinaLD

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Santa Messa

Il Summorum Pontificum è salvo

da Rinascimento Sacro

A volte sembra che le parole del Papa siano coperte sempre troppo corte. Finisce che, a tirare dalla propria parte, ogni volta qualcuno ci lascia fuori i piedi e si lagna. Adesso nei Suoi confronti siamo addirittura alla protesta preventiva, quella che si fa per portarsi avanti.

Non sapendo che pensare un amico mi ha scritto alcune considerazioni che ho trovato illuminanti.

“[...]
1) Prima di lamentarti aspetta almeno di sapere perché.

2) Comunque, quand’anche ne avessi motivo, non lamentarti, oportet ut scandala eveniant. Ma poichè nessuno sa mai dove stia esattamente il vero motivo di scandalo, non provarci nemmeno a fare baruffa: potresti trovarti fregato ancora al “E però io…”. E guai a colui attraverso il quale gli scandali arrivano, giusto?

2) Il Summorum Pontificum non é politica: non serve a litigare ma a pacificare. Perciò solo quando una Messa porta pace allora si onora il senso di una Messa e del SP. Vero è che spesso la pace è un seme che ha da germogliare, perciò pensa a zappare.

3) Il cristianesimo è dei martiri, e la pazienza è un martirio spirituale. Perchè vuoi scappare da quest’ottima occasione?

4) Il SP non é per pochi eletti (o pochi “disgraziati”, a seconda) ma è per tutti i fedeli di buona volontà. Va da sé che la buona volontà non è di tutti. Tu pensa alla tua.

5) Il SP è un coraggioso atto della riforma della Chiesa, ma non è la Riforma della Chiesa. Diciamo piuttosto un buon inizio: cammina perchè non sei ancora arrivato.

6) La riforma della Chiesa è sempre e comunque opera dello Spirito Santo, anche quando soffia attraverso del parole del Papa. Tu per primo lo devi lasciar agire: i tuoi buoni consigli lo impicciano.

7) Se un cuore è sordo, è sordo. Con chi non vuol sentire non serve urlare. Prega piuttosto che Dio gli doni orecchi e sussurri le parole che solo Lui sa. Di questi tempi potresti ritrovarti “padre” nella fede di numerosa prole. Non sei felice?

8 ) Davanti al rifiuto continua a cantare le lodi a Dio. C’è chi si è commosso per questa mite insistenza.

9) Un documento interpretativo è l’interpretazione della norma, non è la contraddizione della norma; e talvolta quello che crediamo essere “restrizione” della norma è semplice “discrezione”. Perciò dormi tranquillo, perché tanto la tua comunione frequente e il tuo Rosario quotidiano non vengono toccati.

10) Come ordinano i preti e cosa facciano a Milano sono faccende che riguardano i preti e chi abita a Milano. Lascia che chi deve decidere decida, perché non capiti di arrogarti diritti che non hai, e ancor peggio, di violare diritti che altri hanno. E poi, per risolvere certe faccende, converrai bisognerebbe rivedere la Ministeria Quaedam. Non si può fare tutto insieme.

11) Le norme non sono cannoni, l’Istruzione non è una mitragliatrice, l’Ecclesia Dei non è il Quartier Generale della battaglia finale. Dovresti aspirare a metterti in testa un’aureola, non un elmetto.

12) Il SP è salvo perché è nelle mani di questo meraviglioso Papa. Lo è sempre stato e lo sarà sempre. Quindi sta sereno, prosegui umile e confida in Dio. L’Istruzione che non ti cambierà la vita è pronta. Tu, piuttosto, sei pronto?


***********************************


UN MONITO AI MODERNISTI E AI TRADIZIONALISTI CHE ATTACCANO IL SANTO PADRE:

Istruzione sul motu proprio: i modernisti sclerano

RISPONDE DON CAMILLO:

Dobbiamo con calma a bocce ferme, guardare questa realtà del Motu Proprio che era, che è e che rimane un mostro giuridico, con l'aggravante dell'Istruzione che è ancora peggio!  
 
perchè:  
 
1. B16 da dell'incompetente ed inetto a P6 (e quindi ai sig.ri beati G23 e GP2) per iscritto, perchè secondo il Motu Proprio P6 non avrebbe abrogato il vecchio Rito, quando l'HA ABROGATO!!! (infatti concede ai vecchi preti indulti, non deroghe ma questo lo dico da anni) siccome io non sono sedevacantista, a me da fastidio quando un papa proclama vacante una sede in un dato momento storico, guarda caso nel momento della firma della C O S T I T U Z I O N E A P O S T O L I C A Missale Romanum, 3 aprile 1969.  
 
2. La vigenza di due riti, per giunta nella medesima Chiesa latina, è folle, ha ragione Grillo (ma ne ho parlato ampiamente).  
 
3. Si sperava che si facesse una Istruzione affinchè la Messa tornasse a casa sua NELLA TRADIZIONALISSIMA PARROCCHIA, invece i parroci ora sono assolutamente protetti 1. perchè con la scusa che "non è dignitosa" una messa con due persone, li possono sbolognare nelle parrocchie personali o nelle cappelle al centro storico, due perchè il concetto di parrocchia come comunità residenziale è assolutamente saltato, con la trovata di gruppi interdiocesani.  
 
4. ho (abbiamo) fatto una guerra ai neometecat perchè si fanno un triduo per conto loro, e ora perchè si può binare il triduo in parrocchia con pizzi e merletti, siete tutti contenti?  
 
5. B16 (quello che ha detto che la setta NC è dono dello Spirito Santo, quello che ha indetto Assisi 3, quello che ha detto che il profilattico si può mettere, quello che ha beatificato il beato in corsia preferenziale: MOLTO PREFERENZIALE, quello che ha detto che il CVII ha raccolto le meglio istanze dell'illuminismo e di Lutero, ecc. ecc.) ha di nuovo propinato un antiacido quando invece cresce un tumore all'intestino.  
 
SVEGLIA FEDELI! C'è la CRISI, e questo Papa l'ha sta acuendo in un modo assolutamente impressionante! In questi tempi di lotte tra Papi, Cardinali Vescovi e presbiteri e frati, l'unica àncora di salvezza è la RAGIONE! LA Chiesa Cattolica è Tradizione, per rimanere cattolici oggi come oggi è necessario essere legati alla Tradizione, per cui le riforme liturgiche a partire dal 1954 in poi, con la teologia ed ecclesiologia e relativo magistero non vincolante postconciliare DEVE necessariamente essere rivisto alla luce della stessa TRADIZIONE! E questo solo il prossimo Papa lo potrà fare! A noi il compito di attendere fedeli!

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la mia risposta:

Don Camì, siamo sempre lì: "quello che IO avrei voluto che fosse"....ed è ovvio che permane la delusione....prova a leggere cosa VUOLE LA PROVVIDENZA.... Laughing  
 
vediamo, ci provo numerando i tuoi stessi punti:  
 
1. Sai meglio di me che quella abrogazione NON fu mai avanzata con un Atto Ufficiale o con un MP.... e senza dubbio il MP di Benedetto XVI RIMETTE A POSTO un abuso avanzato da Paolo VI.... se al di là di ogni ragione plausibile da te paventata, si guardasse però alla PRUDENZA usata da Benedetto XVI che con il MP ha solo mosso i primi passi facendo invertire la rotta del liturgismo modernista, bè, io ci vedo tranquillamente anche la mano della PROVVIDENZA.... diversamente dovresti ammettere che lo Spirito Santo se ne è andato in vacanza già DA PRIMA DI PIO XII, lasciando la Sede Vacante...visto che Bugnini è stata una sua eredità.... e dunque, consegualmente, dovresti costruirti una Chiesa tutta tua.... Laughing  si tratta di coerenza ovviemente, non di mera provocazione....  
 
2. Proviamo a fare lo sforzo di non parlare di DUE RITI, MA DI UN SOLO RITO IN DUE FORME DIVERSE.... Wink  di questo parla il SP...  
che poi l'abusivismo, l'ambiguità del NOM aiutano alla creatività di tanti PICCOLI RITI  attraverso i quali molti parroci SI INVENTANO, questo è un altro problema che mi pare il Papa stia affrontando.... il punto è che lo affronta COME LUI RITIENE OPPORTUNO FARE ED AFFRONTARLO.... ma lo Spirito Santo ha nominato LUI a Pontefice o ha nominato il Grillo parlante o il Don Camillo, ottimo sacerdote, che ho amato a conoscere? Laughing  Urbano VI fu difeso ad oltranza da santa Caterina da Siena, ma non fece, tal Papa, ciò la Senese chiedeva andasse fatto.... hai mai sentito santa Caterina da Siena condannare Urbano VI? Laughing  
 
3. Si sperava che.... ma caro Don Camillo, nel Salmo leggiamo che i nostri pensieri spesso NON sono quelli di Dio..... ciò che noi dobbiamo sperare è IL RICONGIUNGIMENTO, intanto alla normalizzazione della Messa di sempre... e questo stiamo vivendo OGGI, un passo alla volta, ad ogni giorno basta la sua pena, domani Dio vede e provvede, oppure hai perduto la fede? Embarassed  
 
4. Sei incontentabile!!! Prima ti lamenti che nelle Parrocchie la Messa di sempre non possa essere detta, ora ti lamenti perchè viene data la possibilità, NELLE PARROCCHIE, di abbinare e celebrare il Triduo nella forma di sempre.... insomma, il Papa come fa sbaglia! a meno che non faccia tutto quello che dici tu.... Embarassed  Come fai a paragonate il triduo neocat con quello della Liturgia di sempre? semmai questo passo del Documento andrebbe appoggiato e sostenuto, più aumenteranno gruppi che si dedicheranno alla Forma di sempre, più i neocat si dilegueranno.... ora dipende da NOI, non dal Papa....  
 
5. Benedetto XVI NON è il Salvatore.... Laughing  ci sono momenti dove sopravaluti il suo ruolo, in altri dove lo sottovaluti.... rischi di farti un Papa su misura e a seconda delle tue necessità.... Ci sono momenti della vita dei giovani o di coppie che sono talmente mal ridotte che in extremis non esiterei di dire loro: CERCATEVI UN GRUPPO NELLA CHIESA che vi possa aiutare.... io non so se VOI vivete ESCLUSIVAMENTE di Messa antica, nel mondo ci sono migliaia di quei problemi che Famiglie e giovani ne subiscono il tracollo... e se è vero che DALLA LITURGIA che noi ci alimentiamo, è anche vero che la situazione in cui oggi viviamo necessita di APPROCCI ALLA LITURGIA stessa anche provenienti da gruppi che possono, a torto o a ragione, NON piacerci....  
l'apostolo ci rammenta di non avere fretta a rigettare TUTTO, ma di esser capaci di discernere CIO' CHE E' BUONO e di trattenere a noi ciò che è buono....  
Pietro Valdo fu ritenuto nella Chiesa per ben 40 anni prima che il Concilio lateranense lo rigettò come eretico.... Wink  sai meglio di me che non poche comunità francescane di quel tempo ne assorbirono il meglio.... e come vedi i Valdesi non sono scomparsi....quando si GENERA LA ZIZZANIA, CRISTO CI VIETA DI SRADICARLA.... Pietro deve ripulire dove può (non è onnipotente) e noi dobbiamo imparere  A CONVIVERCI.... questo sta facendo oggi Benedetto XVI, il resto e il discernimento spetta anche a noi aiutando Pietro a mettere in pratica quanto sta chiedendo... e se invece di attaccarlo ci attivassimo affinchè nelle Diocesi i gruppi del SP si moltiplichino.... molta zizzania morirebbe da sola, perchè non più alimentata...  
 
Don Camì....ABBI FEDE!!! Laughing



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per il documento sull'applicazione al MP andate a questo Thread:


ATTENZIONE: ISTRUZIONE SULLA LITURGIA UNIVERSAE ECCLESIAE per applicazione Summorum Pontificum

 

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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30/07/2011 12:08
 
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E’ lecito oggi, nella chiesa, dirsi "tradizionalisti" ?



Dal benemerito Centro Cattolico di Documentazione di Pisa alcuni stralci di un articolo sul termine "tradizionalista". Per l'intero aricolo vedi qui.

Inter alia, invitiamo i nostri lettori ad iscriversi alla mailing list del Centro


1. Introduzione
«Dubitare del progresso è l'unico progresso», asseriva provocatoriamente il grande pensatore colombiano Nicolàs Gòmez Devila (1). Il progresso delle conoscenze e del sapere, che si è avuto negli ultimi 2-3 secoli, è reale, ma non comporta affatto una automatica elevazione morale o civile dell'umanità: il tema, assai complesso, richiederebbe, per darne davvero conto, tutta una storia e un'accurata analisi, che qui è impossibile e perfino inutile.

La moltiplicazione delle conoscenze ha, tra l'altro, moltiplicato i lemmi del vocabolario, o almeno li ha diversificati: mentre se ne sono aggiunti di nuovi, tanti altri tendono a invecchiare e quasi a sparire sia nell'uso che nelle scritture dotte.

Certe parole poi, certe espressioni e certe etichette, atte a designare qualcosa o qualche idea, in positivo e in negativo, sono diventate strumenti della battaglia politica e ideologica, già da vari decenni, e questo lo sappiamo tutti. La mass-medio-crazia, che è una conseguenza scontata della tecnocrazia contemporanea (2), ha ampliato il fenomeno, mostrando il lato oscuro dell'aumento delle conoscenze sopra ricordato: l'aumento, paradossalmente parallelo, del semplicismo, della retorica di bassa lega e degli slogan da mandare a memoria e poi usare "al momento giusto". Cioè l'aumento - direttamente proporzionale all'indubitabile aumento del sapere popolare avutosi in epoca moderna e contemporanea (con il tramonto dell'analfabetismo, per esempio) - dell'ignoranza sotto la forma inedita di confusionismo, di relativismo antropologico ed etico, di sincretismo epistemologico, o di puro caos mentale.

L'ambito religioso non ha fatto eccezione a questa situazione binaria di approfondimento persino parossistico da un lato (si pensi a certa esegesi scientifica o a certe tesi ultra-specialistiche di teologia su un solo versetto biblico!) e dall'altro la marea, anzi l'oceano sconfinato di ignoranza religiosa dei cristiani, così caratteristica del nostro tempo. Molti, tra cui ci pare di ricordare anche l'eminentissimo cardinal Siri, hanno giustamente lamentato il fatto che mai la Bibbia sia stata così letta come oggi, o almeno così acquistata, e mai d'altro canto sia stata così negletta, cioè poco praticata. Ma se è poco praticata e poco vissuta, significa che la sola lettura della sola Scrittura non basta a diventare più "biblici" o "evangelici"...

Nell'ambito strettamente teologico, l'incidenza del “progresso” linguistico e culturale si è fatta sentire con la nascita dell'ecclesialese e di espressioni "teologicamente corrette" (ma religiosamente vane, ambigue o eterodosse) (3). Spiegarne il potenziale di ambiguità significherebbe abusare della pazienza del lettore, limitiamoci dunque a citare alcune espressioni più note: apertura al mondo, tolleranza, dialogo, pluralismo, aggiornamento, liberazione, pastorale, partecipazione attiva, etc.

Sull'uso scorretto e inibente delle parole, nell'ambito della teologia contemporanea, notava tempo fa l'ottimo domenicano, padre Cavalcoli: «In un ambiente inquinato dall'eresia (...) facilmente sono gli ortodossi che possono far la figura dei devianti; magari non si arriva al punto di spudoratezza di chiamarli “eretici”, ma eventualmente con nomignoli infamanti, nell'inventare i quali i buonisti mostrano una fertile fantasia, come per esempio “fondamentalista”, “conservatore”, “reazionario”, “interista”, “tradizionalista”, “intransigente”, “preconciliare”, “destrorso”, ecc.» (4).

Di questi termini si potrebbe fare una microstoria e ad essi si potrebbero aggiungere, nello stesso senso, gli ormai desueti, “bigotto”, “guelfo”, “papista”, “papalino”, “codino” ed altri ancora. Il termine che qui interessa è uno solo, e coincide con quello, a nostro avviso, di maggior spessore teologico, storico e concettuale tra tutti: quello di tradizionalista.2. Concetto cattolico di TradizioneSul concetto di Tradizione ci limitiamo per brevità ad alcuni cenni. Secondo una testo sempre autorevole, la Tradizione «con la Bibbia è una delle due fonti della Rivelazione divina e può essere definita: "La predicazione o trasmissione orale di tutte le verità (rivelate da Cristo agli Apostoli o lor suggerite dallo Spirito Santo), mediante il magistero sempre vivo e infallibile della Chiesa, assistita dallo Spirito di verità"» (5). Importante in proposito è la chiarificazione, in funzione anti-ereticale, apportata ormai quasi mezzo secolo fa dal Concilio: «È chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non poter indipendentemente sussistere» (DV 10).

Il libro che parla meglio della Tradizione, tra i più recenti, è senza dubbio quello di don Bernard Lucien (6) a cui ci ispiriamo per le righe seguenti. Scrive il Lucien che «secondo l'istituzione divina tre elementi legati tra loro o piuttosto correlati e però distinti intervengono nella trasmissione del deposito rivelato: la Tradizione, la Sacra Scrittura, il Magistero della Chiesa» (7). L'autore nota giustamente che «se è (...) facile precisare, in un primo approccio, ciò che è la Sacra Scrittura e ciò che è il Magistero, è molto più difficile dire cos'è la Tradizione divina, perché questo vocabolo, anche entro il solo perimetro dell'uso cattolico, comporta molte accezioni» (8). All'interno di un capitolo accuratamente argomentato, il Lucien arriva a dare una definizione della Tradizione, come si usava con le "tesi" proposte dai teologi di una volta. Eccola: «La Tradizione divina nel senso più stretto, e intesa attivamente, è la conservazione e la trasmissione continue e divine della Rivelazione, a partire dagli Apostoli, attraverso la predicazione orale e la fede della Chiesa, cioè con un mezzo distinto dalla Sacra Scrittura» (9). Il Lucien nelle pagine seguenti spiegherà il senso e la portata del dogma della uguale autorità della Scrittura e della Tradizione - contro il biblicismo sempre rinascente e contro l'idea luterana che la lettura della Bibbia sia indispensabile per tutti per una vita di fede - mostrando poi che «la Tradizione possiede una certa priorità sulla Sacra Scrittura, dal punto di vista dell'inter-pretazione» (10).

Il tradizionalismo di cui parliamo, dunque, pur se rimanda, e a giusto titolo, all'idea tutta cattolica di Tradizione, non ne è un semplice derivato culturalmente neutro, ma si colora al giorno d'oggi di valenze identitarie, spirituali, teologiche e soprattutto liturgiche che gli provengono dalla storia recente e dall'uso che ne è stato fatto da parte di alcuni cattolici nel periodo post-conciliare. Uso, come vorrebbe dimostrare questo scritto - che ha questo chiarimento quale sua causa finale -pienamente legittimo e in nulla contrario alla verità, cioè alla Tradizione, alla Scrittura e al Magistero della Chiesa.


[…]

4. Uso del termine nel magistero da san Pio X ad oggiPapa S. Pio X, per la sua condanna solenne del modernismo e per la sua fulgida santità - oggi vilmente attaccata da autori legati al neo-modernismo - costituisce indubbiamente un punto di riferimento per tutti i veri cattolici. Per noi tradizionalisti lo è in modo speciale (17). La battaglia della sua vita, e il momento più luminoso della sua virtù eroica, si ebbe proprio nella lotta epocale contro il modernismo "cattolico". Ancora a pochi mesi dalla morte, a vari anni dalla Pascendi, scriveva: «Un altro dolor piuttosto, che mi turba ed angustia, è il diffondersi spaventoso del modernismo, specialmente nel clero secolare e regolare; un modernismo teorico in pochi, ma nei più pratico, che però trascina alle medesime conseguenze del primo, all'indebolimento e alla perdita totale della fede, In questo è l'avversario terribile che affigge la Chiesa e il papa e contro il quale devono combattere i buoni per mantenere intatto il deposito della fede e salvare tante anime che corrono alla rovina» (18).

Nella dimenticata Lettera Notre charge apostolique (19) circa «la dottrina sociale del Sillon e il miraggio di una falsa democrazia» (20) del 25 agosto 1910, Papa Sarto, verso la fine del mirabile testo afferma: «Siano persuasi [i sacerdoti] che la questione sociale e la scienza sociale non sono nate ieri; che in ogni tempo la Chiesa e lo Stato felicemente d'accordo hanno suscitato a questo fine feconde organizzazioni; che la Chiesa, la quale non ha mai tradito il benessere del popolo con alleanze compromettenti, non ha da staccarsi dal passato e che basta riprendere con l'aiuto dei veri operai della restaurazione sociale le organizzazioni sciolte dalla Rivoluzione e adattarle, nello stesso spirito cristiano che le ha ispirate, al nuovo ambiente creato dall'evoluzione materiale della società: perché i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né innovatori, ma tradizionalisti».

Questa frase non ha bisogno di lunghi commenti. Secondo il grande pastore, ci sono degli amici del popolo dichiarati ma solo apparenti e ci sono al contrario dei veri amici del popolo, che forse sono meno apparenti o appariscenti, ma hanno in questa vera amicizia molta più consistenza dei primi. Tra i falsi amici vi sono i rivoluzionari e gli innovatori, tra i veri amici i tradizionalisti. È chiaro che chi ama il popolo veramente, da vero amico, è anche per forza di cose amico di Dio, e chi non ama Dio non sarà mai vero amico del popolo, cioè dei fratelli in umanità.

Nei Pontificati successivi, da Benedetto XV a Giovanni Paolo II, l'uso del termine tradizionalista, salvo meliori judicio, non risulta. Almeno non risulta nel senso culturalmente forte e pregnante in cui lo utilizzò Papa Sarto.

In tempi recentissimi, invece, a oltre 40 anni dalla chiusura del Concilio il termine è ritornato in uso, collegato specialmente con il motu proprio Summorum Pontificum (7.7.07) e con il movimento che difende la legittimità e la priorità dogmatica, anche dopo la riforma liturgica del 1969-70, della liturgia tradizionale (21). Nel Decreto di erezione della parrocchia della SS. Trinità dei Pellegrini, firmato dall'allora cardinal Vicario dell'Urbe e presidente della Cei, Camillo Ruini, il termine compare due volte (22). Dopo aver citato il motu proprio, si asserisce che: «il Santo Padre ha disposto che nel Centro della Diocesi di Roma (...) fosse eretta una parrocchia personale atta ad assicurare un'adeguata assistenza religiosa per l'intera comunità dei fedeli Tradizionalisti residenti nella stessa Diocesi». Curioso l'uso della maiuscola, che si ripete poco dopo: «Pertanto, col presente Decreto, in virtù delle facoltà ordinarie riconosciutemi dal Santo Padre, erigo la parrocchia personale per la comunità dei fedeli Tradizionalisti, in onore di Dio Onnipotente», ecc.

Se ai fedeli tradizionalisti, viene offerta una parrocchia nel centro di Roma, per volontà esplicita del Santo Padre e in onore di Dio Onnipotente, è il segno che i tradizionalisti... esistono! Anzi essi formano una "comunità", la comunità dei fedeli tradizionalisti. Nessuno mi pare che abbia notato la cosa in sé importante del riconoscimento di uno spirito, di un carisma che è legato ad un preciso rito liturgico e che viene identificato con quel sostantivo. D'altra parte noi crediamo che non la sola preferenza liturgica distingua questa comunità dalle altre della diocesi e nell'intera Chiesa. La liturgia, di importanza fondamentale ne è solo l'espressione esterna e pubblica; il cuore di questa comunità spirituale, o di questo movimento o "famiglia di anime", è l'attaccamento toto corde all'integrale patrimonio della bimillenaria Tradizione cattolica - da cui il nome di tradizionalisti (che dunque tutti i cattolici dovrebbero far proprio e a nessuno dovrebbe dar fastidio...) - in tutta la sua estensione, in tutta la sua profondità e in tutte le sue virtualità dottrinali, ascetiche, morali, liturgiche, sociali e politiche5. Conclusione: legittimità per i cattolici militanti di oggi di dirsi tradizionalistiSecondo l'eccellente filosofo stimmatino padre Cornelio Fabro, «il pericolo del modernismo non è mai completamente debellato perché è insita nella ragione umana, corrotta dal peccato, la tendenza a erigersi a criterio assoluto di verità per assoggettarsi a sé la fede» (23).

Con la svolta conciliare però si assiste ad una nuova ed inattesa diffusione dello spirito del modernismo in seno alla compagine ecclesiastica, tanto che un autore ha potuto scrivere tali calibrate parole: «Di solito il Magistero cattolico brillava per chiarezza concettuale e rigore terminologico, per evitare possibili fraintendimenti e aberrazioni. Nel Vaticano II, invece, s'è voluto appositamente usare un linguaggio meno preciso, a motivo della sua natura pastorale, con l'intento per sé lodevole di raggiungere il maggior numero di uomini di buona volontà, ma col risultato de facto che ognuno vi ha potuto dedurre tutto ed il contrario di tutto, a proprio uso e consumo» (24).

Oggi dunque dato che «dopo il Concilio Vaticano II il mondo cattolico, sgomento, si trovò modernista» (25) e che «mai, infatti, all'interno della Chiesa cattolica, è stato così diffuso l'errore nel campo della fede» (26), è bene usare neologismi o veterologismi che aiutino a farsi capire meglio da tutti, nella Chiesa e fuori di essa. L'uso della definizione di cattolici-tradizionalisti - come un tempo i più docili seguaci di s. Pio X nella lotta anti-modernista usarono quella di cattolici-integrali (27), o come sotto Pio IX e Leone XIII i cattolici fedeli a Roma e anti-liberali si chiamarono cattolici-intransigenti (28) - ci pare assolutamente lecito, spesso doveroso, non raramente e anzi sempre più frequentemente strettamente necessario.


6. Appendice sulla nozione di "Tradizione vivente

"A scanso di equivoci, e ammessa la legittimità di definirsi tradizionalisti, è opportuno precisare che siffatto tradizionalismo non coincide col il fissismo dogmatico assoluto, che consisterebbe nella posizione erronea di rigettare qualunque progresso dottrinale omogeneo con il patrimonio della Rivelazione.

L'abbé Lucien, nel testo da noi citato, parlava della spinosa questione, con riferimento alla cosiddetta "Tradizione vivente". Lo studioso nota che a partire almeno da «Johann Adam Mòhler, faro della Scuola di Tubinga nel secondo quarto del XIX secolo, questa espressione è in effetti servita più di una volta a veicolare idee assai contestabili» (30). Quali? Per esempio «la riduzione della Tradizione al Magistero attuale» (31) oppure «la negazione del compimento della Rivelazione con la morte dell'ultimo apostolo» (32). «È questo secondo errore, continua don Lucien, che spesso nel prolungamento del relativismo e dello storicismo modernisti, si presenta come particolarmente virulento oggi» (33).

In estrema sintesi, e per non allungare troppo questa breve nota sul tradizionalismo, concludiamo col Lucien, notando che «in definitiva, ed avendo cura di evitare gli errori relativisti e evoluzionisti, si deve riconoscere la tripla legittimità della nozione di Tradizione vivente:

1) perché il deposito rivelato, oggettivamente concluso, si trasmette esplicitandosi
2) perché questo deposito è trasmesso attraverso degli atti umani di predicazione e di fede
3) perché questa trasmissione è divinamente assicurata, nel corso dei secoli, attraverso l'azione viva e trascendente di Cristo e dello Spirito Santo» (34).


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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08/07/2012 23:54
 
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La vetrina e la bottega - I

ovvero il filtro di Congar «terribilis ut castrorum acies ordinata» (Ct 6,3 vg.)

 

Cominciamo con un percorso - cf alla fine la ragione della scelta - attraverso i diari di Congar (Sedan 13 aprile 1904 - Parigi 22 giugno 1995), genere letterario al quale giovanissimo fu avviato dalla madre, che già verso i 10 anni lo esortò a scrivere un diario di guerra: Journal de la guerre 1914-1918, pubblicato nel 1997 dalle Ed. du Cerf.

Yves Congar, entrato nell’Ordine nella Provincia di Francia nel 1925, fu ordinato presbitero nel 1930; nel 1932 iniziò ad insegnare; nel 1940-1945 fu prigioniero di guerra a Colditz. Cf sotto una processione organizzata con i compagni di detenzione.

Gli anni dal 1946 al 1956 furono carichi di avvenimenti e di tensioni e costituirono l’oggetto di un diario - Journal d’un théologien 1946-1956 - per ora solo in francese. Successivamente Congar scrisse un diario della sua presenza al Vaticano II - Diario del Concilio - disponibile in italiano in due volumi.

La presente malizia esamina soprattutto il Diario prima del Concilio, ma non senza qualche incursione nel successivo Diario conciliare.

Nel decennio 1946-1956 Congar nel maggio 1946 effettuò un viaggio a Roma per parlare della situazione francese; * ebbe successivi incontri con i Maestri dell’Ordine Martino Stanislao Gillet († 1951), Emanuele Suarez († 1954) e Michele Browne († 1971) per difficoltà inerenti ai suoi scritti e alla sua attività; * il 1954 fu l’anno della “grande purga” a Saulchoir, Congar fu sospeso dall’insegnamento, trascorse un breve periodo a Gerusalemme e dovette sostenere un interrogatorio al S. Ufficio da parte del domenicano Gagnebet; * la Pasqua del 1955 lo vide definitore al Capitolo generale di Roma dove fu eletto Browne; * trascorse “in esilio” il 1956 a Cambridge rientrando a fine anno a Strasburgo ma senza insegnamento.

Il diario risente di tutti questi avvenimenti.

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Le citazione dei diari avvengono con una sigla che indica il volume e il numero della pagina:

F = Yves Congar, Journal d’un théologien 1946-1956. Ed du Cerf, Parigi 2001, pp. 464.

I = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 - I. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 540.

II = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 - II. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 526.

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Il campo di battaglia: «terribilis ut castrorum acies ordinata» (Ct 6,3 vg.)

«Da quindici secoli Roma lavora per impadronirsi - sì, per impadronirsi, per accaparrarsi - di tutti gli aspetti di direzione e di controllo. C’è riuscita. Si può dire che dopo il 1950 il lavoro era compiuto. Ma ora arriva un papa che minaccia di togliere loro alcuni posizioni. La Chiesa sta per avere la parola» (I,68). Queste parole, scritte già nei preparativi del Vaticano II, sono coerenti con quanto Congar scrisse alla madre in una famosa lettera del 10.9.1956:

«Conosco la storia (...). Mi è evidente che Roma non ha mai cercato e non cerca che una cosa: l’affermazione della propria autorità. Il resto non l’interessa che come materia sulla quale esercitare questa autorità (...). Ad esempio, se Roma si interessa al movimento liturgico con 90 anni di ritardo su tale movimento, è perché questo non esista senza di Roma e perché non sfugga al suo controllo» (F 426).

Una reazione che continuerà anche durante il Concilio. Ad esempio, quando era in previsione il documento Sacram liturgiam di Paolo VI che rivendicava alla Santa Sede l’approvazione delle traduzioni liturgiche, «si parla del motu proprio del Papa sulla liturgia. Questo documento toglie praticamente al Concilio ciò che il Concilio aveva deciso» (II,8).

L’altra riserva di fondo, più esistenziale, è sul barocco, sul rinascimentale, sul “monarchico” nella Chiesa. Nella tarda estate del 1932, all’inizio dell’insegnamento «io e Chenu parlammo a cuore aperto e con freschezza delle mie prime scoperte e percezioni. Ci trovammo profondamente d’accordo. E su questa missione, sulla necessità di “liquidare” la “teologia barocca”» (F 24).

Non solo la teologia, anche un’udienza di Giovanni XXIII «è l’espressione sfarzosa di un potere monarchico» (I,85). Neppure l’inaugurazione del Vaticano II l’11 ottobre 1962 sfugge a tale insofferenza sino a impedire a Congar di restarvi sino alla conclusione. Ecco alcune riflessioni scritte nel pomeriggio del fatidico giorno:

«gusto decorativo un po’ teatrale, barocco» (I,146) * «(...) questo avvenimento della vita della Chiesa, che io amo, ma che vorrei meno “Rinascimento”, meno costantiniana» (I,146) * «dopo l’epistola lascio la tribuna. Non ne posso più. E, poi, sono oppresso da questo apparato feudale e rinascimentale (...). Cerco di uscire dalla basilica» (I,147).

Qualsiasi maestro dei novizi avrebbe “bacchettato” un novizio che molto prima della conclusione si fosse assentato da una celebrazione così solenne. Ma c’è di mezzo Congar e tutto va bene... e qualcuno avrà concluso o concluderà che “in fondo si è trattato di un gesto profetico”!

Ecco, il campo di battaglia è delimitato: chi è insofferente al barocco, al rinascimento, al feudale, al “monarchismo” ecclesiastico, a un certo modo di governare “romano” ecc. è dalla parte di Congar, amico, aperto all’avvenire e al soffio dello Spirito ecc. Chi invece sta dall’altra parte è l’esercito nemico da “cristianamente” combattere e vincere.

Ciò che vorremmo chiarire con qualche catalogo di esempi, persone e ambienti è che l’esercito “dall’altra parte” non è costituito solo da ultramontanisti francotedeschi e da curiali romani, ma conta anche un buon numero di... frati domenicani. Ciò che in genere non si mette in evidenza, ma che, posto in evidenza, solleva una grossa domanda di fondo (cioè al fondo di questa e della prossima malizia).

 

L’esercito combattente, cioè i personaggi positivi

Il personaggio domenicano positivo per eccellenza è il domenicano Marie Dominique Chenu († 1990):

«Che uomo magnifico! Quando, attraversando un leggero strato di timidezza, si incontrava in lui il fratello, il fratello luminoso e generoso (...), allora si incontrava in lui un maestro, un amico, un fratello incomparabile. Il P. Chenu, mi diceva una volta Gilson, è come Dio: si comunica in partecipazione. E in effetti il P. Chenu era incessantemente nello sforzo di comprendere l’altro (...), di incoraggiare e di alimentarne il lavoro» (F 58).

Chenu aveva anche qualche limite e «il più evidente era un orrore per tutto ciò che è organizzazione: tutto ciò che è comitato, presidenza, nastri, carte ufficiali. Tanto credeva alle équipes, quanto poco credeva alle organizzazioni e, se fosse andato sino in fondo su questo punto, sarebbe arrivato all’anarchia» (F 61).

C’è poi tutta una schiera di simpatizzanti O.P.: Jacques Marie Vosté († 1949), Girolamo Hamer († 1996), Pierre-Marie Gy († 2004), in parte Paul Philippe († 1984) ecc. L’amico “del cuore” e “dell’intelletto” è però P. Henri-Marie Féret († 1992) o confidenzialmente “Milou”, con il quale Congar intraprese il primo viaggio a Roma nel 1946 e con il quale si fece fotografare sui tetti di S. Pietro, in una famosa foto con il cupolone di sfondo.

 

L’esercito da sconfiggere, cioè i personaggi “romani”

Il personaggio domenicano negativo e speculare a Chenu è P. Reginaldo Garrigou-Lagrange († 1964), conosciuto dal quasi adolescente Congar quando predicava un ritiro al Circolo Tomista «poiché, il solo tra i domenicani francesi, era stimato di essere totalmente, verginalmente fedele a San Tommaso e come depositario della grazia di un tomismo integrale» (F 35-36). Nel 1946 nella sua prima visita a Roma Congar scriveva:

«Per quanto riguarda il P. Garrigou-Lagrange, io dico: 1) Da 40 anni quest’uomo combatte ciò che io credo vero come metodo di considerare e abbordare la verità. Dai fatti di Saulchoir 1905-1907, senza dubbio inconsciamente, ha creato un’atmosfera nella quale le critiche e i sospetti più gravi contro di noi hanno preso corpo e si sono sviluppati. 2) Nel segreto contro natura che circonda tutti i nostri affari, ogni volta che ho potuto seguire una traccia e trovare un nome, ho incontrato il P. Garrigou-Lagrange (...). 4) Il P. Garrigou-Lagrange, e il P. Thomas Philippe al suo seguito e da lui dipendente, hanno aggiunto alla sanzione del S. Ufficio, della quale erano esecutori, dei pesi di ordine dottrinale estremamente gravi, odiosi, ingiusti, e che sono una loro propria interpretazione» (F 112-113).

Parole dure anche per P. Thomas Philippe († 1993) perché ha accettato di fare il visitatore a Saulchoir sostituendo il Garrigou-Lagrange impedito in una missione «che egli non avrebbe dovuto accettare, e che nessuno gli avrebbe mai chiesto se egli non fosse l’uomo che avrebbe dovuto essere, perché vi sono cose che a certe persone non si domandano» (F 54). Si noti che entrambi erano della Provincia di Francia, come Congar.

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P. Mario Ismaele Castellano († 2007) segretario del S. Ufficio al 1953 e frate della Provincia italiana di S. Pietro Martire «si è lamentato in modo amaro e denigrante in quanto gli pare che in Francia non si sia sottomessi. Il mio nome è stato pronunciato tra quelli che sono sospettati e mal sottomessi. Quando e dove e in che cosa io non sono stato sottomesso?» (F 227).

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Una sorte più mite ma non esente da valutazione negativa spetta a P. Mariano Cordovani († 1950), Maestro del Sacro Palazzo e incontrato a Roma il 21 maggio 1946: «piuttosto simpatico, rusticus et montanus, dice egli stesso ed è vero. Si percepisce un fondo eccellente (...), considerevoli possibilità di apertura. Se fosse stato formato in un ambiente aperto, sarebbe considerevole. Ma, visibilmente, è legato a un’epoca e a dei limiti che non corrispondono al mondo di oggi». A fronte della lamentela di Congar e Féret che a Saulchoir non c’è più una équipe e una comunità di lavoro, Cordovani reagisce scandalosamente come un domenicano italiano medio: «Ride. Non ha mai incontrato una comunità di lavoro (...) non è necessaria. E, con un realismo senza amarezza, ci dice che nell’Ordine si vive da soli, si lavora da soli; che i religiosi influenti con doti oratorie e soprattutto con una clientela ricca sono considerati, gli altri...» (F 109).

Cordovani muore poco dopo e Congar, ospite a Roma nella nostra Curia generalizia, a cena deve sorbirsi la lettura di un libro di Spiazzi su Cordovani, che ne decreta la valutazione negativa e con lui dei domenicani italiani:

«Comincia con un capitolo con le testimonianze di ammirazione dopo la morte. Sembra che un giorno il mondo sia rimasto stupefatto di conoscere che questa immensa luce si era spenta. A leggere tutto questo, ci si domanda come possano ancora esserci degli increduli nel mondo, tanto la verità è evidente, tanto questo genio ha illuminato il mondo... “in uno speciale culto della verità posseduta e diffusa, amata e predicata”. Non cercata? (...) Mi ricordo di quanto diceva il P. Gillet delle province italiane dell’Ordine: il loro lavoro consiste a glorificarsi delle glorie del passato con pellegrinaggi, feste ecc.» (F 344).

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P. Rosario Gagnebet († 1983), frate della Provincia di Tolosa e docente all’Angelicum, ha tratti umani e di apertura verso Congar, ma ha un difetto di fondo incancellabile: è l’uomo di fiducia del S. Ufficio e dunque “il nemico”. Secondo un confratello al quale Congar dà credito, Gagnebet gioca «un ruolo di inquisitore. Era consigliere del Maestro dell’Ordine Suarez per le questioni dello studio ed era incaricato di leggere tutti i libri pubblicati in francese. Prendeva molto sul serio questo ruolo di censore e praticamente non faceva altro» (F 301-302). Il 14.12.1954 Gagnebet è il delegato del S. Ufficio per una conversazione ufficiale con Congar che sarà poi verbalizzata. Poco prima «P. Gagnebet al telefono (...) mi dice che avrebbe voluto vedermi per dirmi in quale spirito fraterno farà ciò, e che da parte sua farà di tutto per facilitare le cose e addolcire la procedura in ciò che ha di penoso. Mi dice tutto questo con un tono di commossa condoglianza» (F 302; cf 311). Comunque prima di incontrare Gagnebet Congar formula alcune decisive valutazioni tra la posizione sua e quella romana, che sono una chiave importantissima per comprendere tante reazioni. Cf il resto nell’Allegato al fondo della presente “malizia”.

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Il Maestro dell’Ordine Emanuele Suarez († 1954) gioca un ruolo fondamentale nel Diario - e nella vita! -, ma anch’egli, dopo molte oscillazioni di benevolenza, finisce catalogato tra i “romani” e tra quelli che non capiscono né affrontano i problemi veri. Ma andiamo con ordine.

L’8 febbraio 1954 è il giorno della “grande purga” a Saulchoir: i provinciali di Francia dimessi e alcuni docenti allontanati. Suarez è severo, ma si intuisce un suo stare dalla parte dei francesi, nel senso di intervenire personalmente per evitare il peggio. Quanto a Congar, «sono ricevuto dal Padre Generale. Mi dice che dovrò smettere l’insegnamento e abbandonare Saulchoir. Molto di più, si voleva proibirmi di scrivere. Di nuovo il P. Generale ha ottenuto di evitare questa misura, prendendo su di lui la censura dei miei libri. Dovrò dunque sottomettere i miei scritti a Roma» (F 234).

Si dice che Suarez sia “pressato” dal S. Ufficio. È vero, ma non è completamente vero. Suarez è pressato anche da autorevoli frati domenicani che non condividono la linea francese e di Congar:

«Il P. Omez mi lascia capire che al Capitolo generale elettivo del settembre scorso (1946) molti capitolari (dei quali, se mi ricordo bene, un francese) hanno espresso le loro inquietudini e i loro sospetti sulle tendenze intellettuali della Provincia di Francia e su Saulchoir, chiedendo di inviarci un commissario o un visitatore. Il Rev.mo P. Suarez ha preso la difesa della Provincia (...), ha chiesto di concedergli fiducia, che aggiusterebbe tutto lui “fraternamente”» (F 135-136).

Ma per Congar questa fiducia si rompe il 18-19 marzo 1952: «Sino ad ora avevo verso di lui (Suarez) la confidenza filiale più assoluta. Devo invece riconoscere da certi segni (...) che: 1) ha interpretato delle parole che gli ho detto con abbandono e confidenza e ne ha abusato (...), ha tirato prudenzialmente, canonicamente, curialmente le conseguenze e sono vicino a pensare che le misure attuali in parte vengono da lui o in parte sono da lui ispirate; 2) ha creduto alle menzogne che sembrano essere alla radice dell’affare attuale (...). Ormai mi è impossibile parlargli se non a denti stretti, non con il cuore come sino adesso, ma con la ragione fredda di un uomo interrogato, di un uomo davanti al giudice» (F 189-190).

Con la morte di Suarez a causa di un incidente d’auto il giudizio si attenua: «È sempre stato totalmente rispettoso dei miei impegni e integerrimamente votato a sostenermi, proteggermi, aiutarmi. Evidentemente io non ho mai conosciuto il fondo degli affari a causa di un cosiddetto segreto antiumano e anticristiano» (F 274). Qualche riga dopo però Suarez viene definitivamente liquidato come un “galoppino” del S. Ufficio: «non è mai andato a Gerusalemme, mentre è venuto una dozzina di volte a Parigi. Ma sono sicuro che se fosse stato implicato dal S. Ufficio a proposito di un padre, di un miserabile affare di millenarismo o di una questione simile, avrebbe preso l’aereo per Gerusalemme» (F 275).

 

Santa Sabina ovvero la mediocre romanità dell’Ordine

Che i frati domenicani non stiano tutti dalla parte di Congar - e della Chiesa a venire e da rimodellare - non è solo una questione di persone, ma di ambienti o gruppi di persone, ad esempio i curiali della Curia generalizia di S. Sabina. Trovandosi lì nel 1954 e avendo ricevuto osservazioni allarmate per certe parole usate in un articolo, Congar ricorda ai curiali che la verità o la falsità non sono nelle parole ma nei giudizi. Sennonché, dopo tanto nobile e logico ragionamento, continua con una constatazione tra il comico e il penoso:

«Questo spiega il livello della Curia O.P. Una delle cose che mi hanno letteralmente fatto ammalare. Brava gente, molto pii, buoni e degni. Ma, nella vita civile, sarebbero come impiegati o contabili in una piccola casa di confezioni di abiti. Non alla testa dell’Ordine dei Predicatori Pugiles fidei!!! Che cosa sanno del combattimento della fede? In che cosa sono impegnati?» (F 342-343).

 

Anche la Madonna è tirata di mezzo e che pena di nuovo a S. Sabina!

A farlo apposta, non si sarebbe potuto fare di peggio! Il 9 maggio 1946 Congar arriva a Milano alla sera per proseguire l’indomani per Roma. Siamo in piena campagna elettorale per il referendum monarchia/repubblica. Nel recarsi al convento domenicano di Santa Maria delle Grazie non può non vedere

«Ai muri i manifesti della campagna elettorale. Su uno di essi, molto riprodotto, una Vergine con dodici stelle emerge dalla bandiera italiana. Con questo testo: “La Madonna ha sempre protetto Milano: votate per la lista della Madonna”» (F 65).

Arrivato a Roma, si trova nel pieno dell’anno mariano, che gli provoca il senso di distaccato rifiuto:

«I muri delle chiese di Roma sono coperti di manifesti di feste, saluti sermoni su Maria Santissima, Immacolata, non si parla che del suo cuore immacolato. Tutti a questa chiesa per la Madre del Divino Amore, per la Madonna del popolo romano (...). Si direbbe che è quella la religione. E allora è un’altra da quella di S. Paolo e di tutta la rivelazione biblica. Io non voglio entrare là dentro» (F 295).

Di nuovo, la nostra Curia generalizia è solidale con questa romanità mariana agli occhi di Congar tanto meschina e che di nuovo provoca un giudizio pesante:

«La sera a S. Sabina ufficio bizzarro per la chiusura dell’anno mariano: saluto con preghiera composta dal papa. Ufficio della notte all’una: mattutino, Lodi cantate davanti al SS. Sacramento esposto, un saluto alla Madonna per finire. E domani ancora un saluto per terminare la recitazione del rosario davanti al SS. Sacramento. Si potrà così fare un bel rapporto al Card. Vicario che ha imposto queste veglie (...). Verità di tutto questo? Nessuna! Valore di risposta ai problemi e ai bisogni degli uomini? Niente! È il “ronron” della macchina che gira dolcemente sotto il segno della doppia e unica devozione al papa e alla Madonna» (F 294).

Più tardi parlerà di “mariolatria”, e cioè che al cristianesimo si sostituisce «un mariano-cristianesimo (...) ho pensato che la questione mariologica fosse lo spartiacque tra due tipi di uomini. In effetti, i mariolatri sono da un lato e i cristiani dall’altro» (I,43).

 

I tentacoli di Roma sul Capitolo di Roma e la prima scivolata di Browne

Pur essendo nell’occhio del ciclone e forse proprio grazie a questo, Congar è eletto definitore al Capitolo generale elettivo di Roma del 1955.

Nelle conversazioni scarta P. Paul Philippe (della sua stessa Provincia di Francia) come possibile Maestro dell’Ordine: «mi pare che non sia qualificato per altra cosa che per la sua docilità verso il sistema e i suoi riferimenti mariologici, nonché per la sua “riuscita” in un certo numero di visite canoniche» (F 380) (in barba a questi giudizi, Paul Philippe diventerà cardinale e prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali!).

Il Capitolo è rovente. Il Papa ha inviato il card. Adeodato Giovanni Piazza († 1957), carmelitano, a presiedere il Capitolo, affiancandogli come segretario il domenicano P. Michele Browne Maestro del Sacro Palazzo. Evidentemente Roma non si fida non dei domenicani, ma di alcuni domenicani filofrancesi che potrebbero rovinare il Capitolo. Comunque alla fine viene eletto il P. Michele Browne († 1971), irlandese e “filoromano”, che da questo momento diventa il bersaglio delle frecce di Congar, che pure gli ha dato il voto (cf F 386). A cominciare proprio dal primo discorso:

(Lunedì 11 aprile 1955) «Il P. Browne è dunque eletto (...). Dopo aver prestato giuramento, è condotto al suo stallo e fa un piccolo discorso, insistendo quasi unicamente sull’obbedienza al magistero del Sovrano Pontefice episcopus universalis, vicarius Dei; obbedirgli, è obbedire a Dio. Non un cenno alla Parola di Dio della quale noi siamo ministri - consacrati» (F 387).

Fino a che punto qui Congar ha un’accezione di “parola di Dio” cattolica o protestante? Deus scit! Le cose si guastano ulteriormente. Browne deve trasmettere un monito del S. Ufficio (F 365) e soprattutto di suo produce alcune “piacevolezze teologiche” poco piacevoli: il soggetto della fede «è unicamente l’intelletto, poiché la teologia scolastica ha precisato adeguatamente e una volta per tutte il senso della rivelazione (biblica)» (F 405); «noi siamo domenicani e facciamo l’apostolato per la nostra propria perfezione; lo scopo è di salvare delle anime individuali» (F 405). Ci torneremo nella prossima puntata.

 

Anche nell’Ordine c’è solitudine e incapacità di comprendere

Se molti domenicani non militano nell’esercito nemico, vivono in ogni caso in una spiacevole neutralità, che provoca intorno a Congar l’amarezza della solitudine.

Come capita nel breve periodo a Gerusalemme nel 1954: «Mercoledì santo 14 aprile 1954, sera. Prima giornata a Santo Stefano. Malgrado la gentilezza dei Padri, avverto fortemente la solitudine per non dire l’isolamento. C’è la preghiera e il pasto in comune e anche la ricreazione, ma, al di fuori di questo, passo il giorno intero senza vedere nessuno, senza incontrare nessuno» (F 272).

Stessa e peggiore scena l’anno dopo (1955) a Cambridge, ove Congar è assegnato da Browne: «Rientro a Cambridge, provando un insondabile sentimento di vuoto e di assenza (...): nessuno che sia veramente un amico, nessuno con cui comunicare» (F 419). «I miei rari confratelli - uno solo perché gli altri stanno rientrando dalle vacanze - sono gentili. Ma, a parte l’ostacolo terribile della lingua, non si interessano quasi nulla di ciò che mi interessa; sono loro riconoscente per più di una cosa, ma sento che non saranno mai miei amici» (F 428).

 

Le sorti si rovesciano, ma è vero o è una vetrina?

Il 20 luglio 1960 Congar è nominato consultore della Commissione teologica preparatoria insieme a Henri de Lubac.

Le sorti sembrano rovesciarsi, ma Congar non si fa illusioni:

«È Roma che fa le nomine, e si salva la coscienza e la reputazione ampliando il ventaglio dei nomi, ma solo perché ha già preso le sue precauzioni, e le ha presse in modo efficace, per evitare ogni pericolo. Lubac e io siamo stati nominati per essere messi in mostra. Nella Chiesa c’è sempre una vetrina - attraente - e una bottega. La vetrina mostra Lubac, ma in bottega lavora Gagnebet. Mi sento proprio avvilito» (I,75).

 

Un anticipo della malizia

La presente malizia, comportando un discorso un po’ lungo, occuperà questo e il mese seguente. Pensata all’inizio più o meno come “Al Vaticano II non c’erano solo Congar e Chenu”, si è poi evoluta nell’attuale titolo più criptico della vetrina e della bottega, il cui riferimento è il testo citato poco sopra.

Infatti non solo Roma al 1960, ma spesso noi oggi attraverso Congar/Chenu e figli e nipoti e pronipoti si allestisce una vetrina: i domenicani al Vaticano II e il senso del nostro Ordine, il ruolo della nostra teologia, quello che possiamo “umilmente” offrire alla Chiesa ecc. Ma quel’è il senso di questa operazione? E soprattutto: quale è la ragione di essere e di vivere per chi non è in vetrina? E chi non è in vetrina è ancora un buon domenicano o è un domenicano per caso? La risposta arriverà alla prossima puntata con un’analisi un poco più sottile.

Fra Riccardo Barile o.p.

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ALLEGATO

Valutazione di fondo e presa di distanza al 1954 sul “sistema romano”: ecclesiologia, mariologia, antropologia, rapporto con le altre confessioni cristiane (pp. 302-304). Testo redatto prima dell’incontro con Gagnebet al S. Ufficio.

APRI

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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La tradizione è un tesoro: lo si perde a causa di qualche sciocca disputa doganale (da A. Buckenmaier)

Scritto da Redazione de Gliscritti: 01 /08 /2012 - 09:28 am | Segnala questo articolo:
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dalla relazione Alcune annotazioni sul “ruolo pubblico” della Chiesa a partire dall’Enciclica Caritas in veritate, tenuta da A. Buckenmaier in Polonia, a Bydgoszcz, il 12 giugno 2012

«È un peccato, semplicemente un peccato per la Tradizione andata a marcire. Sì, essa marcisce là fuori davanti alla porta come un carico di prezioso nutrimento, a cui la popolazione deve rinunciare a causa di qualche disputa doganale. La Tradizione va a morire davanti alle barriere di una presuntuosa sopravvalutazione della contemporaneità».

Gentili Signore e Signori, nell'anno 1993 lo scrittore tedesco Botho Strauβ[1] esprimeva in questa maniera la sua preoccupazione per la perdita della Tradizione, per una sua interruzione; la sua preoccupazione che quanto di valido hanno radunato intere generazioni prima di noi, hanno purificato e reso utilizzabile, vada a marcire, se ne stia lì inutilizzato. Questo pericolo non è certamente diminuito negli ultimi vent'anni, in cui con le grandi innovazioni tecniche della comunicazione, con Internet, le E-mail, le Video-conferenze, twitter, facebook e altro, la rete sincronica, la comunicazione trasmessa in contemporaneità è divenuta senza confini.

Botho Strauβ dice: Essa viene sovrastimata, se non viene integrata con una comunicazione diacronica, uno scambio di corrispondenza con il "carico" della storia e - possiamo aggiungere - non viene vagliata, esaminata con esso.

Nel suo primo discorso di Natale davanti alla Curia Romana nel dicembre 2005, Benedetto XVI descriveva la Chiesa come «un Soggetto che con il tempo cresce e si sviluppa, ma in ciò rimane sempre se stesso, il Popolo di Dio come l'unico soggetto sul suo cammino». Questa regola ermeneutica, che nell'attuale communio della Chiesa sincronicamente e nella Tradizione del popolo di Dio per così dire diacronicamente cerca le risposte alle questioni di oggi, corrisponde all'autocomprensione della Chiesa.

Note al testo

[1] Botho Strauβ, Anschwellender Bocksgegang, in “Der Spiegel”, n. 6, 1993, 2007.


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Un sacerdote risponde

Quattro risposte ad un visitatore filolefebvriano e contrario al Concilio Vaticano II

1. Cari Domenicani,
vorrei porvi una domanda alla quale finora non ho avuto nessuna risposta convincente .
E' innegabile che molte affermazioni del Sillabo e della Quanta Cura e molte affermazioni del Concilio Vaticano II siano inconciliabili. Se La Quanta Cura ha tutti i crismi dell'infallibilità, come sembra, in che conto tenere le affermazioni del Vaticano II, anche se Concilio pastorale e non dogmatico.
Spero in una risposta chiara, come vostra prassi
un fraterno saluto
Michele

Caro Michele,
1. esordisci dicendo che è innegabile.
Se le proposizioni vengono prese e intese solo materialmente ti dò ragione. 
Ma se guardi a ciò che intendono dire nel contesto storico in cui sono state espresse, ti accorgerai che non è così.

2. Il Concilio Vaticano II era perfettamente al corrente di quanto aveva insegnato Pio IX. E sapeva benissimo che le proposizioni di Pio IX avevano valore vincolante.
Se si è espresso in termini diversi, non era per fare uno strappo alla dottrina precedente (cosa che non si può mai fare), ma perché si trattava di un altro contesto.
È questa l'ermeneutica della continuità alla quale si riferisce Benedetto XVI.

Ti saluto, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo

***

2. Caro P. Angelo,
purtroppo le devo dire che la sua risposta non è chiara e, mi scusi, la trovo sfuggente.
Cercherò di essere più diretto e spero sinceramente in risposte chiare.
Le proposizioni di Pio IX avevano valore vincolante solo per l'epoca e nel contesto storico o erano irreformabili?
Se l'infallibilità è legata al tempo o all'epoca o al contesto che infallibilità è?
So che il Concilio Vaticano II era al corrente di quanto aveva insegnato Pio IX con valore vincolante, ma si è espresso in termini non diversi, ma contrari .
So di non essere molto ferrato , per questo mi attendo risposte da Lei, ma credevo che l'ermeneutica della continuità fosse legata alla non contraddizione ma ad aspetti diversi in apparente contraddizione (vedi Discorso Di Sua Santità Benedetto XVI Alla Curia Romana Giovedì, 22 Dicembre 2005)
In attesa di un suo insegnamento per chiarire le mie perplessità le chiedo un ricordo nelle sue preghiere.
Cordialmente
Michele

Caro Michele,
1. ti ripeto la medesima risposta di prima. 
Aggiungo che le proposizioni del Magistero sono vincolanti per sempre, e questo il Vaticano II lo sapeva.
Ma il significato della proposizione va letto nel contesto storico.
Ad es.: la libertà di coscienza a quei tempi era intesa come libertà dalla verità. E questo era sbagliato ieri come è sbagliato oggi.
La libertà di coscienza di cui parlano Pio XII e il Concilio Vaticano II è la libertà dall'autorità. E questa è altra cosa.

2. Inoltre se riconosci che "il Concilio Vaticano II era al corrente di quanto aveva insegnato Pio IX con valore vincolante, ma si è espresso in termini non diversi, ma contrari" vuol dire che il Vaticano II ha agito in mala fede e il suo insegnamento è erroneo.
Senonché arbitro dell'ortodossia non sei tu, come del resto neanche io, ma lo è il Magistero.
Se non ritieni questo, a priori è impossibile ogni dialogo.
Perché il dialogo nella fede parte dal presupposto della Divina Rivelazione interpretata dal Magistero della Chiesa.
Diversamente è più corretto dichiararsi protestanti, sebbene di banda opposta.

Ti assicuro volentieri la mia preghiera e la mia benedizione.
Padre Angelo

***

3. Caro p. Angelo,
Non sono certo protestante visto che i miei dubbi li hanno espressi laici, sacerdoti, vescovi e alcuni cardinali che mi risulta siano cattolici .
Inoltre se esiste un magistero infallibile come lei dice, esisterà anche un magistero fallibile con il quale un cattolico, dopo aver pesato adeguatamente l'autorità della Chiesa , può anche non concordare . E' possibile che questo sia il caso di cui parliamo?
Perchè dire che il Vaticano II ha agito in mala fede? Io non l'ho affermato, ho espresso il dubbio che un suo insegnamento possa essere erroneo. Inoltre se esiste una possibilità di un magistero non infallibile, come può questo magistero essere interprete dell'ortodossia? Non concordo con la sua spiegazione sulla libertà di coscienza in quanto se la libertà di coscienza  fosse stata intesa quale " libertà dalla verità " non vi sarebbe scritto che è "dannosa per la Chiesa cattolica e per la salute delle anime, dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio , cioè "la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo che si deve proclamare e stabilire per legge in ogni ben ordinata società ed i cittadini avere diritto ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità ecclesiastica o civile, in forza della quale possano palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti, quali che siano, sia con la parola, sia con la stampa, sia in altra maniera".
Come vede si condanna la libertà dall'autorità, cioè non vi un diritto a manifestare la propria convinzione.
Spero di ricevere una sua risposta, assicurandole che credo nella Chiesa e nel suo Magistero, altrimenti non le avrei scritto, ma non credo ad una "obbedienza pronta, cieca ed assoluta" di guareschiana memoria.
Spero che abbia voglia di rispondermi e dimostrarmi dove sbaglio
sinceramente
Michele

Caro Michele,
1. Circa vescovi e cardinali: il criterio della fede non è il pensiero di singoli, per quanto vescovi o cardinali.

2. Non esiste e non è mai esistito e non esisterà mai un magistero fallibile in materia di fede e di morale!!!
Gesù su questo ha garantito la sua Chiesa.
Questo punto è una coordinata fondamentale della fede cattolica.

3. Accettare che il Concilio Vaticano II conoscesse il pensiero precedente e lo abbia contraddetto, sapendo che la dottrina non si può mutare, non sarebbe agire in mala fede?

4. Nel testo che mi hai citato “la libertà di coscienza e dei culti”è intesa in senso oggettivo (e cioè libertà dalla verità) e non soggettivo.
Infatti i Papi non hanno mai insegnato che le autorità islamiche devono proibire il culto della religione islamica ai loro sudditi.
Questo non lo hanno né detto né fatto.
Da questo non puoi concludere che Pio IX sia entrato in contraddizione con il suo stesso Magistero.

5. Non giudico la tua fede, ma le idee che esprimi sul magistero sono sbagliate.
Insinuando l'errore nel magistero, ognuno poi si fa arbitro (ecco il protestantesimo!) di ciò che è giusto ed è sbagliato.
Togliendo l'infallibilità al Magistero, la si dà solo a se stessi, facendosi arbitri ultimi.
Ma questo arbitrato non è garantito da Cristo.
Mentre l'altro Arbitrato (quello del Papa e del Concilio) è garantito da Cristo.

***

4. Caro Padre Angelo,
comunque da quanto mi dice dovrei ritenere che i sacerdoti della Fraternità di S. Pio X  sono fuori dalla Chiesa (protestanti?) in quanto "mancano di coordinate fondamentali della fede cattolica" non accettando il Concilio.
Ma credo che il Papa e la Chiesa non la pensino così.
Allora qual'è il Magistero? E' possibile essere cattolici senza accettare integralmente il Concilio Vaticano II?
Spero abbia la pazienza di rispondermi.
Cordialmente,
Michele

Caro Michele,
1. sì, a tutt'oggi i lefebvriani sono scismatici, anche se sono state tolte le scomuniche.
Le scomuniche sono state tolte non perché siano sulla strada giusta, ma per cominciare il dialogo.
Il Papa e la Chiesa la pensano così, come è stato ribadito anche di recente ricordando che è proibito partecipare alle loro liturgie.

2. Se sia possibile essere cattolici senza accettare il Vaticano II, la risposta è netta: no, non è possibile.
Come si può essere cattolici e non accettare il Magistero straordinario della Chiesa?
Come può un credente dire che il Concilio nel suo insegnamento, garantito dallo Spirito Santo, si sia sbagliato?
È vero che il Concilio Vaticano II ha avuto carattere pastorale, ma questo non significa che non abbia espresso un alto insegnamento in materia di fede e di morale.
Quando si dice che ha avuto carattere pastorale s’intende dire che nei suoi intendimenti non vi erano dogmi da definire o condanne da sancire.

3. Quando si nega autorevolezza al Magistero garantito da Dio, si finisce per fare del proprio arbitrio il criterio dell'ortodossia della fede.
Mai un Tommaso o un Agostino avrebbero messo in discussione il Magistero, preferendo addirittura mettersi fuori della Chiesa ed essere scomunicati con la più pesante delle scomuniche (riservata alla Sede Apostolica).

Mi auguro di essere stato chiaro.
Non ho altro da aggiungere.
Ti ricordo cordialmente nella preghiera perché vedo che sei in grave pericolo.
Ti saluto e ti benedico.
Padre Angelo


Pubblicato 07.08.2012

[SM=g1740758]




[Modificato da Caterina63 27/08/2012 13:41]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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La vetrina e la bottega - II

ovvero come, allestendo in un certo modo la vetrina, è giocoforza vergognarsi di qualcuno

 

La presente “malizia” fa tutt’uno con la precedente. Prenderà in esame il Diario conciliare di Congar (edito in italiano in due volumi), che si riferisce ad avvenimenti tra il 1960 e il 1966 (ma non senza qualche incursione del Diario precedente), per sfociare poi in considerazioni conclusive che saranno la vera “malizia”.

Il punto di vista è analogo alla malizia precedente: porre in evidenza i domenicani “non in linea” con Congar, con qualche digressione in più. Anche il modo di citare è lo stesso: le sigle dei tre volumi seguite dal numero della pagina:

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Le citazione dei Diari avvengono con una sigla che indica il volume e il numero della pagina:

F = Yves Congar, Journal d’un théologien 1946-1956. Ed du Cerf, Parigi 2001, pp. 464.

I = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 - I. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 540.

II = Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963 - II. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, pp. 526.

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Il Concilio: quasi una schizofrenia di atteggiamenti

Congar visse il Concilio con atteggiamenti esemplari, in primis con «un’etica teologale, anche nei minimi dettagli. Ho adottato come norma pratica di fare solo quanto mi è richiesto dai vescovi. Il Concilio sono loro» (I,199). A Concilio concluso riconoscerà che l’opposizione della minoranza «ha dato un contributo che nel complesso si è rivelato felice e positivo. Anche se a volte è stata irritante, ha obbligato a scavare in profondità, a sfumare o a precisare meglio, ad accettare altri aspetti» (II,50).

Invece c’è qualcosa che non convince in atteggiamenti rivendicativi dell’inizio: «mi sono impegnato a smuovere l’opinione pubblica perché si aspetti e chieda molto. Ho ripetuto di continuo, dappertutto: forse otterremo il 5% di quanto chiediamo. Una ragione di più per chiedere molto» (I,66).

 

Ombre sui Papi

Non del tutto allineati con Congar c’erano Papi e Cardinali, per cui in questo e nel successivo paragrafo spenderò una breve parola su di essi, perché - è straevidente - molti domenicani avevano le stesse “ombre” che Congar percepiva in loro.

San Pio V - ci mancherebbe - «non riesco ad amarlo e il suo ufficio è troppo ampolloso. Il Rinascimento ha segnato Roma e la Curia! E le istituzioni conservano il segno della loro origine! Il papato moderno è davvero tridentino e post tridentino» (II,309).

Ancora peggio il beato Pio IX, che proprio l’11 ottobre 1962, giorno di apertura del Vaticano II, torna alla mente come uno «che del procedere della storia non aveva compreso nulla (...) sventurato, che non sapeva cosa fosse né l’Ecclesia né la Tradizione, e che ha spinto la Chiesa a essere sempre del mondo e non ancora per il mondo» (I,148).

All’inizio Pio XII sembra salvarsi. Negli appunti serali dopo l’udienza del 26.5.1946, Congar riconosce che «davanti a lui non ci si sente bloccati da nulla di artificiale» (F 122), l’udienza non è stata banale e «il Santo Padre dà l’impressione di una grande semplicità. Non dice “Noi”, ma “io”. Si ha l’impressione che in lui l’uomo spirituale o semplicemente l’uomo è superiore alla funzione e la domina. Appare desideroso di piegarsi verso gli uomini che sono davanti a lui, di essere aperto con loro, di mettersi al loro servizio» (F 124). Ma, una volta morto, contrariamente a quanto accade - si sa che tutti i bambini sono belli e tutti i morti sono buoni -, la memoria su Pacelli peggiora: «il regime soffocante di Pio XII» (I,66), l’«insopportabile satrapismo di Pio XII» (I,67), la necessità odierna di convertirsi «a non pretendere di dettar legge su tutto: una volontà che sotto Pio XII ha assunto dimensioni mai raggiunte prima e ha condotto a un paternalismo e a una imbecillità senza limiti» (I,27-28).

In realtà papa Pacelli patisce il confronto con il beato Giovanni XXIII, che - questa volta tutti i morti sono buoni - ha un necrologio più che positivo: con lui «la Chiesa, ma anche il mondo, ha fatto un’esperienza straordinaria (...) ci si è accorti che aveva trasformato la visione religiosa e anche umana del mondo: restando semplicemente quello che era (...) non si tratta di pretendere e di rivendicare con arroganza di essere il vicario di Cristo, ma di ESSERLO veramente» (I,361-362). Peccato che in vita «le sue decisioni e la sua azione di governo smentivano in gran parte tutto quello che aveva suscitato speranze» (I,67), un suo discorso «mi pare molto banale» (I,84) e, peggio, per la festa di san Tommaso all’Angelicum il 7.3.1963: «lungo discorso del pontefice, che sostiene di non aver preparato niente (...) il papa, molto stanco, non mostra alcun slancio oratorio» (I,329).

Subito dopo, Paolo VI «è uomo di intelligenza superiore e ben informato. Suscita una profonda impressione di santità». Continuerà Giovanni XXIII ma «sarà molto più romano, più tipo Pio XII: vorrà, come Pio XII, stabilire le cose partendo dalle idee, e non semplicemente lasciandole crescere da sole partendo da qualche apertura prodotta da un moto del cuore. Amerà anche lui il mondo, ma su una linea di sollecitudine» (I,362). Poi però con il tempo «il Papa fa grandi gesti simbolici, ma dietro di essi non vi sono né la teologia né il senso concreto delle cose che quei gesti esigerebbero» (II,233).

 

Ombre su alcuni Cardinali

Il card. Alfredo Ottaviani «pare essersi costruita una sintesi, coerente e priva di dubbi, degli errori di cui mi crede complice, errori che attacca come in un sogno ad occhi aperti. Uccide la tarasca (N.d.R.: animale leggendario e dunque inesistente)» (I,89-90).

Mons. Pietro Parente, poi Cardinale è «l’uomo della condanna di padre Chenu, il fascista, il monofisita» (I,67; Congar in parte si ricrederà su di lui).

Il card. Giuseppe Pizzardo, avendo proibito la pubblicazione di un manuale destinato ai seminari, compie un «miserabile abuso di potere. In nome di che cosa Pizzardo, che è un imbecille ritenuto tale da tutti, fa queste minacce?» (I,101).

 

Gli ambienti domenicani italiani

Milano è il primo convento italiano visitato nel primo viaggio italiano. Il 9.5.1946 Congar e Feret a Milano incontrano P. Giuseppe Riboldi († 1966) (a sinistra nella foto) «che sente come noi i grandi problemi dei tempi moderni e della Chiesa nei tempi moderni. Ma ha avuto delle difficoltà e quasi ha l’interdizione di predicare e di confessare» (F 65-66).

Ma dopo, nei viaggi durante il Concilio, non sarà più così. A Milano, al posto dell’impegnato Riboldi, Congar vede «grossi domenicani dal ventre prominente mentre scendono le scale» (I,407). Il priore (Giordano Ghini † 1983) e altri sembrano fare buona impressione, ma «ho saputo da altri, sono al di fuori della grande corrente. Svolgono il ministero classico di chiesa e di predicazione occasionale; non sono inseriti nella vita di questa città universitaria (2 università e 2 grandi Istituti tecnici di livello universitario). San Domenico aveva scelto le città universitarie e anzitutto Parigi e Bologna, i due emisferi intellettuali del mondo cristiano (...) ritengo che i miei confratelli non capiscano bene quanto di notevolmente nuovo o rinnovato rechino i grandi testi Lumen gentium, De divina Revelatione ecc.» (II,407-408).

 

Dalla penna di Congar Bologna non esce bene. Prima del Vaticano II nel 1950 «alle 16,20 arrivo a Bologna (...). Alla sera a ricreazione i Padri parlano dell’enciclica Humani generis e mi dicono che prima ancora che apparisse alcuni giornali italiani hanno annunciato che questo documento atteso avrebbe condannato la teologia di P. de Lubac e l’ecumenismo di P. Congar. Bisogna lasciare che i cani facciano la pipì al portone» (F 169).

Durante il Concilio Congar tornerà a Bologna ma per incontrare Alberigo e Lercaro e non i frati, né si degnerà di alloggiare in convento. Però una visita all’Arca di san Domenico è d’obbligo:

«Vado sino al sepolcro di san Domenico. Crollo su un banco, privo di forze, ma prego tuttavia come se avessi molta forza. Alle 18 si celebra una messa. Vi assisto in raccoglimento. Passano molti Padri o confratelli. Andatura da monaci che escono dalla loro quiete separata e protetta, per fare un giro fra gli uomini che frequentano il loro santuario. Antropologicamente, un’impressione mediocre» (I,343).

Santo cielo! Ma chi si crede di essere, Congar, per elaborare in un attimo questi giudizi?

 

In compenso a Napoli (1962), dove Congar è stato invitato, tutto fila più che liscio. I frati

«stanno conducendo un’interessantissima esperienza di lavoro domenicano per sostenere la predicazione del clero. Desideravo aiutarli. Ritengo che QUANTO SARÀ FATTO PER CONVERTIRE L’ITALIA DALL’ULTRAMONTANISMO POLITICO, ECCLESIOLOGICO E DEVOZIONALE AL VANGELO, sarà un guadagno anche per la Chiesa universale» (I,302).

Nei sogni di Congar i frati italiani (o almeno alcuni)

«nei prossimi trent’anni saranno in grado di FARE PER L’ITALIA CIÒ CHE NOI ABBIAMO FATTO PER LA FRANCIA: animare ideologicamente un rinnovamento della Chiesa attraverso un autentico ritorno alle fonti» (I,198-199).

A parte la constatazione che la storia successiva dei domenicani italiani non si è evoluta in questo senso, qualsiasi mediocre lettore intuisce subito che gli italiani si riscatteranno se saranno come i francesi versione Congar. Neppure il sospetto che ci sia una “via italiana” verso il rinnovamento, diversa dalla Francia.

 

Le istituzioni dell’Ordine in Italia

L’Angelicum è un «ambiente piuttosto pesante, anche se piacevole, ed estraneo al Concilio; i pasti, che sono normalmente il momento in cui “si parla” (del Concilio), qui avvengono senza parlarne» (I,173). Tra alcuni lavori richiesti nella preparazione del Concilio, «quello dell’Angelico è di un’opprimente povertà, negatività e misero particolarismo» (I,119).

Nella Curia domenicana di S. Sabina «si ha l’impressione di conservazione, di staticità, in un’incantevole fraternità d’altri tempi» (II,304). È un convento regolare e tranquillo, ma «la casa non è toccata dai problemi del mondo più di quanto non lo sia dal rumore del mondo. Talvolta mi chiedo: dove siamo? Sotto Pio IX, sotto Benedetto XIV? Chi è il generale: padre Cormier? Affascinante, ma terribile... La Curia sembra partecipare a questa atemporalità, a questa immunità dai problemi del tempo, che sono anche i problemi degli uomini» (II,321).

 

P. Ciappi «una mente povera e ristretta» (II,238)

Il domenicano P. Mario Luigi Ciappi († 1996), Maestro del Sacro Palazzo e poi Cardinale, è deprezzato perché cita lo Zigliara (Tommaso Zigliara † 1893, domenicano e cardinale) (I,98). È «ultraprudente, ultracuriale, ultrapapista» (I,341).

Per completare, è anche ultramontanista: «Ho letto l’articolo del P. L. Ciappi, Unico Pastore e unico Fondamento della Chiesa universale O.R. 29.1.1964. È la tesi ultramontana secondo la quale: 1) tutta l’ecclesiologia si riduce al Papa o si deduce dai suoi poteri; 2) solo il Papa ha potere sulla Chiesa universale: il collegio dei vescovi non è citato, ma è escluso» (II,18).

 

«Dio ci guardi da Browne! Preferisco Ottaviani...» (I,310)

Il domenicano P. Michele Browne († 1971) è incontrato da Congar prima come Maestro dell’Ordine e poi come Cardinale.

Cominciamo da Maestro dell’Ordine, al cui riguardo Congar accetta la valutazione di alcuni frati:

«Incontro con padre Trémel. socius di Lione al Capitolo generale. Mi dice che il Capitolo è stato penoso e che padre Browne è “un rimbambito”; con padre Gomez e i socii, così mi dice, fanno cinque “rimbambiti”. È il vuoto, il nulla (...). Ha avuto la sensazione che le province sulla nostra linea siano un’infima minoranza in un mondo tutto italiano, spagnolo, americano molto diverso» (I,119).

Browne è creato Cardinale: «Pover’uomo, completamente prigioniero del sistema. So da buona fonte che la sua nomina a cardinale (...) è venuta dai vescovi della Commissione centrale, che vorrebbero avere un teologo fra loro!!!» (I,134-135).

Di conseguenza Browne ha un certo rilievo nei lavori del Concilio, ma «un melo produce mele, e un pero pere», per cui Browne «non può fare una relazione adeguata ai nostri tempi» (I,223), anche perché

«il ritorno alle fonti non lo ha scosso di un micron. Per lui, oggi come vent’anni fa, il Papa è episcopus universalis: questa è tutta la sua ecclesiologia (...) tutto ciò che afferma la sottomissione è bene, tutto ciò che parla a favore della libertà è da limitare e, se possibile, da escludere. Non perde occasione per parlare a favore di questi principi miserabili (...). Quando ci sono le parole “amore”, “esperienza”, sicuramente trova una difficoltà. Mentre se verrà affermato per la ventinovesima volta che tutto si svolge sub Petro e che bisogna reverenter oboedire, andrà tutto bene» (II,192).

È criticato perché vuole il prete definito dall’eucaristia (II,192-193; 403) e mette il Papa «non nella Chiesa ma al di sopra della Chiesa (...). È l’ecclesiologia che renderebbe definitivamente impossibile l’unione con gli ortodossi» II,73). Appartiene a un gruppo conservatore (cardinali Ruffini, Siri, Browne, Larraona, Santo) (II,157), che ha proposto dei modi contrari alla collegialità: «Si tratta proprio dell’odio verso ogni apertura “democratica” e l’espressione dell’integrismo» (II,197).

Unico cenno positivo e al fondo ironico: in una riunione è andato tutto bene perché «il cardinale Browne è stato molto cordiale, leale, pacificatore. È in gran parte merito suo se le cose sono andate per il verso giusto. Ci ha anche divertito, sostenendo, per due volte, che Abramo aveva, nelle intenzioni, osservato la castità più di molti vergini, pur avendo avuto sei mogli» (I,360).

 

Fernandez «spaventosamente meschino e senza ampie vedute» (II,109)

Come mai un giudizio simile su P. Aniceto Alonso Fernandez († 1981), che come Maestro dell’Ordine successe a Browne? Perché incontrando Congar lo rimproverò di mettere troppo le sue vicende in pubblico, mentre

«se il Sant’Ufficio fosse altrettanto indiscreto e proponesse un racconto vero dal suo punto di vista, forse non ne uscirei troppo glorioso. Il padre Generale dice che dovrei, in un prossimo articolo, fare gli elogi del Sant’Ufficio e dei servizi che ha reso e rende alla Chiesa»;

questo è troppo e Congar conclude: «Trovo tutto questo miserabile. Ritengo il padre Generale spaventosamente meschino e senza ampie vedute» (II,109). Va precisato che il povero Fernandez troverà il suo momento di riscatto quando... in riparazione elogerà Congar (I,371).

Stando alle confidenze di un suo collaboratore, P. Fernandez «parla solo di sicurezze e precauzioni da prendere e vive sotto l’incubo di ciò che si dice al Sant’Ufficio: sempre il medesimo cancro che rode il cuore evangelico della Chiesa!» (I,357); nelle commissioni «fa sempre delle dissertazioni ogni volta che parla; mi porgono le condoglianze» (I,445).

Fernandez vive e vibra «nel clima ispanico di anticomunismo e di trionfo del tomismo» (II,36) e sostiene posizioni insostenibili sulla libertà religiosa, tanto che «Padre Gy mi conferma ciò che pensavo: volutamente il padre Generale non ha preso la parola durante la discussione sulla libertà religiosa. Ha saputo che gli viene rimproverato di non rappresentare completamente l’Ordine. Ha voluto dare questo segno di buona volontà» (II,342).

Nel già citato viaggio a Milano, il 26.11.1965 Congar in refettorio deve sorbirsi la lettura del «discorso di apertura dell’ultimo capitolo generale tenuto da padre Fernandez: una scolastica tutta astratta e analitica, con distinzione netta tra naturale e soprannaturale e l’invito ai motivi e mezzi “soprannaturali”. Una cosa del tutto indigesta e piuttosto inutile. Perché non parlare la lingua del Vangelo e di san Paolo? È molto più virile e più vera!» (II,407).

In parallelo alla conclusione su Browne, concludiamo con un momento in cui Fernandez fa ridere tutti: 8.3.1963 «a proposti della conoscenza di Dio in certe popolazioni primitive, il Padre generale racconta di aver visitato alcune regioni dell’Amazzonia dove uomini e donne vivono nudi. Fa ridere tutti quando aggiunge di avere delle fotografie» (I,329).

 

Qualcosa sugli altri

C’è qualche piccolo riscatto, ma non totale, di Gagnebt (I,115.129).

P. Giacinto Bosco († 1996), assistente del Maestro dell’Ordine per l’Italia, che ha coinvolto Congar in una poco utile commissione dell’Ordine sul ministero, incassa una benevola neutralità (I,358); invece P. Raimondo Spiazzi († 2002) migliora rispetto alla “malizia” precedente in quanto nella predetta commissione ha sintetizzato un testo di Congar (II,310). Nella stessa commissione si scontrano con Congar due domenicani spagnoli che forse difendono (troppo) il Rosario: «Sancho e Reeves soprattutto contestano ciò che dico sulle devozioni e il Rosario; mi spiego e mi difendo, esponendo con calore la necessità di riprendere (contestare) gli elementi di “religione” istintiva nella “fede”» (II,310).

Le diverse tendenze intellettuali ma non solo si manifestano in un congresso degli ecclesiologi domenicani in Spagna nel marzo 1964: «Ci sono i sostenitori del concettualismo e ci sono quelli che vogliono un approccio più storico ed esistenziale. E tra questi ultimi ci sono quelli che hanno avuto la loro formazione prima di Heidegger e delle esigenze di oggi e quelli che partono proprio da queste esigenze: due generazioni. Io sento il problema attuale dei giovani per i quali la tradizione non è un valore assoluto» (II,438).

Qui Congar incontra Schillebeeckx († 2009), il quale, unitamente ad altri confratelli olandesi, lo informa che il reggente degli studi ha rassegnato le dimissioni perché

«non può prendersi la responsabilità dell’insegnamento di 5 o 6 docenti che, mi dice Schillebeeckx, riconducono il cristianesimo a un puro umanesimo e sposano radicalmente le tesi bultmaniane o quelle di Honest to God. Sono dispiaciuto per quello che mi dicono» (II,439).

Tutto si conclude con un fraterno e nobile “dispiacere”, mentre - lo si può legittimamente pensare senza pensar male - se ci fossero stati di mezzo Pizzardo, Browne, Fernandez, Garrigou Lagrange ecc. sarebbero volati degli “imbecilli”, delle “nullità”, degli “incapaci di comprendere” ecc. Insomma, a un livello diverso vale anche per Congar la constatazione e il consiglio di Giovanni Giolitti († 1928): le leggi con i nemici si applicano e con gli amici si interpretano.

 

E giunti a questo punto facciamo il punto sulla vetrina: per Congar

Può essere utile ritornare all’immagine della vetrina e della retrostante bottega. Abbastanza in fretta con il Concilio e nel dopo Concilio è cambiata la posizione dei personaggi: quelli che erano solo in vetrina sono entrati nella bottega a confezionare testi autorevoli e anche a governare la Chiesa, compreso ovviamente Congar.

Il quale però nel giro di pochissimi anni con la contestazione del ’68 da parte dei giovani frati si trovò ad essere annoverato tra i “tradizionalisti” o comunque tra quelli “con troppe certezze”: «Un giovane frate domenicano mi diceva un giorno: “Lei sta benissimo nella sua pelle; noi invece ne siamo fuori”. È vero, io sto bene nella mia pelle (...) talvolta mi dico: ho troppe certezze». Poi, dopo una serie di considerazioni, Congar pronunciò una frase tanto bella e profonda da fargli perdonare tutte le altre infelici sin qui riportate:

«Nell’incertezza in cui sembrano compiacersi molti giovani, c’è una ricchezza d’apertura della quale io mancherei un poco? Mi capita di domandarmelo. Ma il mio ruolo, se un ruolo c’è, sarà senza dubbio di essere un testimone della Tradizione in mezzo al cambiamento; essendo la Tradizione tutt’altra cosa che un’affermazione meccanica e ripetitiva del passato: essa è la presenza attiva di un principio a tutta la sua storia» (Jean Puyo, J. Puyo interroge le Père Congar. Le Centurion, Parigi 1975, pp. 238-9).

 

Nel dopo contestazione e con la svolta di Giovanni Paolo II, Congar tornò flebilmente su posizioni simili ma non identiche a quelle dei Diari. Così, in un’intervista del 1989 «accennando alle posizioni del moralista Häring, fortemente osteggiate dalla Santa Sede, disse: “Penso che a Roma si trattino allo stesso modo problemi che non hanno la stessa importanza. È evidente che l’aborto è un crimine, ma la masturbazione...”. Se la prese con il “giuramento di fedeltà”, dal 1° marzo dell’89 esteso a più categorie di persone: “Non bisogna abusare dei giuramenti. L’ha detto Gesù nel Vangelo”».

Sull’inferno commentò: «È molto difficile parlarne. Lei, ci crede veramente, dico veramente, all’inferno, al purgatorio? A quale inferno lei crede? Sta qui il problema. C’è un inferno al quale io non credo affatto. L’inferno del castigo eterno non è possibile, perché Dio si è rivelato come amore. Dunque, se c’è un inferno, di che inferno si tratta?» (Francesco Stazzari, Yves Congar. «Non sono disorientato» in Il Regno 14/1995, p. 433).

 

E giunti a questo punto facciamo il punto sulla vetrina: per noi oggi

Capita oggi di allestire una vetrina, quella dei domenicani al Concilio e di fronte alla Chiesa quando ne parliamo tra di noi o agli altri, mettendoci Congar, Chenu e figli e nipoti e pronipoti e mettendo non nella bottega ma fuori dalla vetrina quelli dell’altra parte, cioè i vari Garrigou Lagrange, Cordovani, Browne, Fernandez e i loro figli e nipoti e pronipoti.

L’operazione può essere giusta o ingiusta, legittima o illegittima.

Se si afferma di preferire questa teologia perché è la più adatta al mondo di oggi o semplicemente perché la storia attuale l’ha valutata come quella più spendibile, nulla da eccepire.

Ma se si afferma che questa è “la” teologia domenicana, allora l’affermazione è scorretta e grave da più punti di vista.

Dal punto di vista della verità e della teologia come tale, la verità è sinfonica e nasce dalla sinergia e dal dibattito delle varie tendenze, per cui gli oppositori hanno sempre un senso. Inoltre la verità nasce dal confronto con l’insegnamento “autorevole”, quali che siano le tendenze attuali. Congar ha detto e scritto cose pregevoli e per le quali non lo benediremo mai abbastanza, ma se il Vaticano II fosse stato fatto solo da lui, che cosa ne sarebbe risultato?

Dal punto di vista della storia e dell’appartenenza: i teologi domenicani e i frati alternativi a Congar/Chenu sono tutti appartenuti all’ordine domenicano e, se hanno fatto teologia, la loro è la teologia dell’Ordine né più né meno della teologia di Chenu/Congar. Sembra infatti più corretto verificare che la teologia dell’Ordine è quella che l’Ordine nella sua storia ha prodotto - dunque anche quella di Reginaldo Garrigou Lagrange -, che non scegliere un certo tipo di teologia e affermare: “questa è la teologia dell’Ordine”. Così facendo bisogna non solo togliere qualcuno dalla vetrina, ma anche vergognarsi di lui.

Ricordo che in un recente Capitolo generale a livello di commissione stava per uscire un testo affermante che la teologia domenicana è quella di san Tommaso d’Aquino e di Marie-Joseph Lagrange († 1938) - da non confondersi con Reginaldo Garrigou Lagrange! - non solo per il loro apporto innovativo nella speculazione e nelle scienze bibliche, ma anche perché entrambi... erano stati condannati! Fortunatamente dopo un serrato confronto il testo fu interamente rielaborato, ma a livello di altre affermazioni meno controllate non sempre così capita...

In conclusione, è del tutto legittimo distinguere e scegliere secondo le proprie preferenze, ma è illegittimo separare o addirittura escludere, un po’ come, si licet parva componere magnis, Calcedonia esigeva per le due nature di Cristo: «inseparabiliter agnoscendum» ma senza togliere la «differentia naturarum» (D 302). Così Congar non è Reginaldo Garrigou Lagrange, ma tutti e due sono domenicani, la teologia di entrambi è domenicana e non si può ridurre la teologia nell’Ordine all’uno o all’altro. D’altra parte è solo questione di tempo: la storia mostrerà che anche gli idoli attuali hanno delle crepe...

Fra Riccardo Barile o.p.




http://www.domenicani.it/priore%20provinciale/2012%2008%20Agosto.html

[SM=g1740771]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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04/02/2013 16:59
 
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[SM=g1740758] "La tradizione è più pastorale del Concilio" da “Radicati nella fede”

 
 
LA TRADIZIONE E’ PIU’
PASTORALE DEL CONCILIO
da Radicati nella fede, anno VI n. 2/2013

radicati nella fede


Si è così insistito sul Concilio pastorale in questi cinquant'anni, che a molti, nati dopo il Concilio, sarà venuto il dubbio che prima, nel passato, la Chiesa non abbia fatto veramente pastorale. In verità, la dizione “Concilio pastorale” nasconde un cambiamento così profondo che si potrebbe esprimere meglio con la frase “un Concilio per cambiare la pastorale”. Invece di dire “Concilio pastorale”, dovremmo forse dire che dopo il Concilio è cambiata la pastorale della Chiesa così tanto da non riconoscerla quasi più.
Ma certo che si faceva pastorale prima del Concilio Vaticano II, e con che risultati splendidi!: il nostro mondo era diventato tutto cristiano! E nelle terre di missione quante conversioni e che opere! E quante vocazioni! E che famiglie cristiane!

E si parlava con chiarezza e si agiva di conseguenza!

Dopo il Concilio, il Modernismo pratico ha complicato tutto e falsificato tutto: ci si è persi in logorroici discorsi fumosi, con interminabili analisi sulla società moderna, degni dei congressi dei partiti politici, ma non della Sposa di Cristo. E questo deriva dalla reiterpretazione delle verità di fede operata dal modernismo e dal neo-modernismo: si salvano apparentemente le verità del credo, ma le si svuota di contenuto dall'interno, così che non vogliono dire più nulla.

Anni fa sentimmo dire, alla festa dell'Assunta, che la Madonna non era “salita in Cielo” come si intendeva con semplicità una volta, ma era “entrata nella realtà più vera”, “aveva preso coscienza fino in fondo della realtà più vera e che quindi compito dei cristiani era “coscientizzare il mondo sul valore della vita”. Qualche fedele alla fine della messa domandò con semplicità : “...ma per voi c'è ancora il Cielo?” Qualcun altro brontolò: “Speriamo che il prossimo anno si faccia davvero la festa dell'Assunta!”.

E' proprio così: questa terribile predicazione che vuole rendere interessanti i dogmi alla modernità, ha prodotto lo scandalo, la perdita della fede e in ultimo una noia mortale.

Il cristianesimo, quello vero, che accoglie con intelligente ubbidienza la verità rivelata da Dio e trasmessa dalla Santa Chiesa, quello che non vuole rendere alla moda i dogmi, ha prodotto invece una predicazione e una cura d'anime sommamente efficace, che non ha bisogno di adattarsi ai tempi, perché converte i tempi. È tutto un apostolato che parla di verità eterne, di quelle verità che l'uomo di tutti i tempi cerca assetato. È un apostolato che non invecchia perché nasce dalla fede e si nutre della grazia soprannaturale. È un apostolato in cui si permette a Dio di agire nelle anime.

Ci siamo imbattuti in un bella predica di un santo vescovo, mons. Aurelio Bacciarini di Lugano. Una delle tante prediche fatte da questo instancabile Pastore, in visita pastorale in una delle tante parrocchie della sua diocesi.

La predicazione di questo santo vescovo era eminentemente pratica: “Più volte, predicando, come adesso predico, all'ingresso della Visita, mi è capitato di vedere alla porta della chiesa gruppi di uomini che si affacciavano a sentire; poi appena io accennavo alla confessione ed alla comunione, li vedevo ritirarsi uno dopo l'altro e sparire. Certamente quegli uomini ragionavano così: “Ma come? Noi pensavamo di venire a sentire un discorso speciale e solenne, un discorso da Vescovo, ed ecco che viene a dirci la più vecchia e più comune cosa: viene a dirci di andare a confessarci ed a comunicarci! Se è così, tant'è che ritorniamo a casa nostra perfettamente delusi!”

“Miei cari: se io non dovessi morire, e se anche voi non doveste morire, e se né io né voi non avessimo un'anima da salvare, e se non esistesse né un paradiso da conquistare, né un inferno da evitare; allora, sì, invece di esortarvi alla Confessione e alla Comunione vi terrei ben altro discorso, che meglio accarezzi l'orecchio, e meglio soddisfi la umana curiosità. Anzi, allora, sapete che farei? Me ne starei tranquillamente nella residenza vescovile e non mi darei neppure la pena di pellegrinare di parrocchia in parrocchia, e lascerei che ognuno viva a proprio talento.

“Ma invece, miei cari: ho il dovere di salvare l'anima mia non solo, ma anche le anime vostre. Guai a me, se al tribunale di Dio non potrò dire di aver fatto tutto per condurre a salvezza le anime di tutti voi! Per conseguenza io devo, anzitutto, indicare al mio popolo le vie della salvezza che sono i Sacramenti di Dio: la Confessione, la S. Comunione.”

Forse che questa non era pastorale? Anzi, questa è la sola vera, perché parte dalla questione della salvezza delle anime.

Non lasciamoci ingannare: chi pensa che la Chiesa abbia iniziato a fare pastorale con il Concilio, ha voluto in verità cambiare la pastorale cattolica, perché fosse adatta alle nuove ereticali idee che hanno invaso la Chiesa. Non hanno più ricordato le verità eterne agli uomini... e non hanno più insegnato la via della grazia e dei sacramenti.
Hanno iniziato la rivoluzione dicendo che la pastorale non era fatta per salvare le anime, perché quelle le salva Dio, anzi sono già salvate! Hanno detto e fatto l'esatto contrario di quello che la Chiesa ha detto e fatto per diciannove secoli... ma... con quale autorità?
E il mondo e la Chiesa si sono intristiti, perché invasi dalle sciocchezze degli uomini.
Ma di tutto questo la Chiesa e il mondo sono ormai stanchi.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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[SM=g1740758] http://www.domenicani.it/priore%20provinciale/2012%2011%20Novembre.html


IL DISCORSO ALLA CURIA MA SU QUALE COLLE?

ovvero di un discorso che il Papa ha fatto ma che noi non abbiamo ancora fatto

C’è stato il Concilio - C’è stato River Forest

“C’é stato” e non “ci fu” il Concilio Vaticano II: infatti l’uso del passato prossimo sta ad indicare che l’avvenimento, giuridicamente concluso, non è ancora concluso come definitiva attuazione e recezione, anche se molto è stato fatto.
Dopo il Concilio e quasi in parallelo, Paolo VI con il Motu proprio Ecclesiae Sanctae del 6.8.1966 richiese ad ogni istituto religioso un lavoro della durata dai due ai tre anni per realizzare, all’interno dell’Istituto, ciò che l’intera Chiesa aveva realizzato con il Concilio e cioè riandare alle fonti del proprio carisma, riesprimerlo con maggior purezza e pienezza, lasciar cadere certe determinazioni storiche desuete, ripensare il carisma alla luce dei tempi nuovi secondo le esigenze della Chiesa e del mondo, secondo la maturazione attuale dello spirito cristiano e anche secondo la maturazione dell’antropologia, poiché all’uomo del XX secolo non si potevano più prescrivere comportamenti legati ad un mondo passato.
Prima di arrivare alla conclusione si potevano anche mettere in opera delle «esperienze contrarie al diritto comune», che, se «fatte con prudenza», sarebbero state, «secondo l’opportunità, autorizzate volentieri dalla Santa Sede» (n. 6). Il tutto infine doveva essere espresso sia in termini “spirituali” sia in termini “giuridici”.
L’Ordine domenicano diede corso alla disposizione di cui sopra attraverso il Capitolo generale di River Forest dal 30 agosto al 24 ottobre 1968.
River Forest (il fiume della foresta) fa venire in mente immagini bucoliche del folk americano: in realtà si trattava di un grandioso edificio dall’apparenza esterna neomedievale alle porte di Chicago, oggi dismesso.
Il Capitolo fu preparato da un ampio questionario inviato a tutti i frati, durò eccezionalmente quasi due mesi e produsse una nuova elaborazione redazionale delle Costituzioni editate e presentate dal Maestro dell’Ordine P. Aniceto Alonso Fernández in data 1.11.1968 e che restano alla base degli sviluppi sino ad oggi.
 

 

 

 

Poi c’è stato il discorso di Papa Ratzinger alla Curia

A poco più di sei mesi dalla sua elezione, Benedetto XVI colse l’occasione degli auguri alla Curia per un discorso che esponesse una valutazione sul Vaticano II e soprattutto sugli anni che seguirono.
È il famoso discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, di cui ancora si parla. Per ora basti un cenno allo schema di fondo, riservando più oltre alcune citazioni.
Benedetto XVI parte dalla constatazione che spesso il postconcilio è stato difficile se non deviante. Non certo a causa del Concilio, ma di un modo errato di interpretazione. Si è data infatti una ermeneutica della rottura e un’altra della riforma o continuità, la prima che ha letto il Concilio come un elemento assolutamente nuovo e da portare avanti nella ispirazione che non sempre compare dai testi, l’altra che ha letto e attuato il Concilio a partire dai testi e in continuità con la tradizione passata. Certi atteggiamenti e linguaggi, oggi diversi rispetto alle reazioni anti illuministiche o anti ottocentesche, in realtà presentano una continuità profonda dei principi. In ogni caso il Concilio non poteva essere una costituente che vara una nuova costituzione (del cristianesimo e della Chiesa).
Nonostante voci critiche, tutto il discorso è per affermare la validità e la positività del Vaticano II.
Oltre all’illustrazione dei contenuti, il discorso conseguì un risultato metodologico di cui ancora oggi beneficiamo: lo sdoganamento della problematica della mala interpretazione e attuazione del Vaticano II. Poiché il Papa l’ha detto, ora se ne parla con libertà e lo scorso 8 ottobre 2012 il card. Donald William Wuerl, Arcivescovo di Washington (USA), nella relazione introduttiva al Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazioneha potuto parlare dell’ermeneutica della discontinuità postconciliare come di uno “tsunami”. Un’affermazione così sarebbe stata impensabile senza il discorso di Benedetto XVI:

«La situazione attuale affonda le sue radici proprio negli sconvolgimenti degli anni ‘70 e ’80 (...). Abbiamo affrontato l’ermeneutica della discontinuità che ha permeato gran parte degli ambienti dei centri di istruzione superiore e che ha avuto anche riflessi in aberrazioni nella pratica della liturgia. Intere generazioni si sono dissociate dai sistemi di sostegno che facilitavano la trasmissione della fede. È stato come se uno tsunami di influenza secolare scardinasse tutto il paesaggio culturale» (Relatio ante disceptationem).

 

 

 

Proviamo ad analizzare River Forest e il dopo con l’ermeneutica ratzingeriana,

cioè proviamo a sdoganare le valutazioni su River Forest e sul dopo

Se River Forest è per l’Ordine un po’ come il Concilio, nell’Ordine non c’è stato un serio e autorevole discorso sui limiti di quanto è avvenuto dopo, come il citato discorso di Benedetto XVI. Cioè le valutazioni e le perplessità sul dopo River Forest non sono mai state sdoganate. Forse perché da noi non hanno mai avuto luogo attuazioni discutibili? Ma via, siamo seri! Questa tuttavia è una constatazione e non un addebito mosso a chi di dovere, poiché ognuno si rende ben conto che un superiore a qualsiasi livello in un ordine religioso a suo modo “democratico” non può né dire né fare ciò che il Papa dice e fa per tutta la Chiesa.
Ma a livello personale questo discorso può essere sdoganato. E allora proviamo a sdoganarlo.

 

 

 

River Forest: Un valore e un’eccellenza

«Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa» (Benedetto XVI, Alla Curia il 22.12.2005).

La stessa considerazione può applicarsi all’Ordine riguardo a River Forest.

Un frate che c’era stato - un altro tra poco si esprimerà diversamente! - scrisse che «I padri capitolari, pur provenendo da ambienti socio-culturali molto differenti e con mentalità diverse, dopo ampie e libere discussioni, si trovano concordi su ciò che meglio definisce lo spirito dell’Ordine e su quelle norme che meglio possono guidare i frati predicatori nella realizzazione della propria vocazione apostolica. Per la prima volta viene formulata anche una Costituzione fondamentale, che per sua natura è sostanzialmente immutabile. Ha infatti una connaturale e intrinseca immutabilità, in quanto le sue prescrizioni si riferiscono all’essenza, alla finalità specifica e ai valori fondamentali dell’Ordine» (Alfonso DAmato, L’Ordine dei Frati Predicatori. Istituto Storico Domenicano, Roma 1983, p. 217).

La Costituzione fondamentale è veramente un testo ispirato, un gioiello, come lo è quella poco conosciuta delle Costituzioni delle monache.

Per queste ragioni il Maestro dell’Ordine Aniceto Alonso Fernández, presentando le Costituzioni anzitutto ne garantiva la legittimità: «Ecco le nostre leggi, o nuove o di nuova formulazione / novae vel noviter formulatae / (...) e tutte approvate dal capitolo generale». Tutti ormai, a cominciare dai postulanti, «sappiano che l’Ordine ha una sua propria caratteristica rispetto alle altre forme di vita religiosa suscitate dallo Spirito Santo». Infine sulle (nuove) Costituzioni e sulla vita del santo padre Domenico «i frati si misurino / probent seipsos fratres / per riconoscersi suoi figli».

 

«(...) due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti (...) c’è l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino» (Benedetto XVI, Alla Curia il 22.12.2005).

Per l’Ordine si può dire lo stesso: silenziosamente alcuni conventi, alcune province dopo River Forest hanno portato frutti, ma “silenziosamente” rispetto agli strumenti dell’informazione.

 

 

River Forest: Una discontinuità e una rottura

«(la memoria del Concilio) suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile (...). Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare ermeneutica della discontinuità e della rottura; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna» (Benedetto XVI, Alla Curia il 22.12.2005).

Idem per l’Ordine dopo River Forest, anche se non per tutti e da per tutto.

Al riguardo, dopo quella di P. Alfonso D’Amato, è preziosa e complementare la testimonianza di P. Enrico Rossetti (1915-1974), presente a River Forest in qualità di perito e che documenta come lo sviamento venuto dopo era già presente negli inizi. Ad esempio:

«Si profila una netta divisione, quasi una spaccatura. Si cozzano due mentalità, due ideologie. Sui paragrafi della “Costituzione fondamentale” avviene il primo drammatico scontro» (P. Enrico Rossetti, Diario 1949-1973. A cura di V. Alce e A. Piagno. ESD, Bologna 1994, p. 100);

«Il processo di secolarizzazione, di demitizzazione, di mondanizzazione ha qui delle punte di una virulenza impressionante. La critica al Papa è aperta, amara, orgogliosa, irrispettosa. Mi sconvolge. Qualcuno dei nostri si associa. Che tristezza!» (p. 102).

 

In compenso «Ho lottato con forza per un bel testo riguardante il rosario. La Madonna mi ha aiutato: questo testo è “costituzionale”» (ivi, p. 101), ma sarà una vittoria di Pirro e il povero P. Rossetti, poi priore provinciale, quattro anni più tardi nel 1972 in una visita in Brasile toccherà con mano che il rosario è in disuso: «La giornata si chiude col rosario in comune (...). Da tempo non si diceva il rosario insieme, mi dicono» (p. 140).

Due anni prima si era recato a Tolosa per il centenario della nascita di san Domenico aspettando invano che P. Dominique Chenu nel suo intervento parlasse di fedeltà al Magistero (povero illuso!). Invece P. Rossetti trovò dei frati «nella sofferenza per l’indirizzo che sta prendendo l’Ordine in Francia con tutti i crismi dei superiori maggiori». E a ulteriore conferma: «L’incontro a Prouille con i provinciali delle Province del Nord Europa, presieduto dal Generale, mi lascia un senso di tristezza e di smarrimento» (p. 110).

Non si può tacere il fatto che a River Forest ci fosse anche questa atmosfera e mentalità, che poi continuò producendo discutibili realizzazioni di vita domenicana puntualmente seguite dall’aridità delle vocazioni.

 

 

 

River Forest: Alcune considerazioni

Prima considerazione

«In questo modo (il Concilio) viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e saggi” (cf Lc 12,41-48)» (Benedetto XVI, Alla Curia il 22.12.2005).

River Forest è giuridicamente ineccepibile. Ma tutti i frati presenti avevano la convinzione di dover semplicemente “rinnovare” la legislazione dell’Ordine, oppure più di uno era almeno psicologicamente nell’atteggiamento di creare una cosa nuova e ciò interpretando le presunte vere intenzioni di san Domenico? Da quel che è venuto dopo non si può che rispondere che qualcuno veramente pensava a una nuova costituzione dell’Ordine...

 

Seconda considerazione
Come fa notare il Maestro dell’Ordine Fernández nella sua presentazione, due grandi criteri o scelte hanno pervaso trasversalmente la nuova legislazione: maggiore partecipazione dei frati e maggiore decentralizzazione o autonomia delle province. Bene. Con il senno di poi si è potuto verificare che la prima scelta è avvenuta a spese di una certa continuità di governo (sempre persone nuove negli organismi di governo) e la seconda scelta ha posto in crisi più del dovuto il tasso di uniformità, considerato che la maggior autonomia è anche dei conventi e delle case all’interno delle province.

 

Terza considerazione
La presentazione Fernández non poteva non rilevare che il rinnovamento «non avrà effetto senza un profondo rinnovamento spirituale che deve dare forma a tutte le nuove strutture; quando tale vita interiore manca o è debole, le strutture migliori non producono nessun effetto; quando invece la vita interiore è presente, questa può efficacemente supplire all’imperfezione delle strutture». Bene. Ma il clima di libertà che è seguito a River Forest per via delle maggiori autonomie locali e per una certa coscienza che ormai si era liberi dal passato dal momento che le Costituzioni erano cambiate, ha di molto ridotto quella tradizione dei mezzi della vita spirituale che un convento precedente offriva, per cui fu giocoforza che il rinnovamento avvenisse senza questo tono di vita spirituale.

 

Quarta considerazione
Più si comincia a ragionare con le categorie del citato discorso di Benedetto XVI, più si tocca con mano che frasi tipo “il Concilio ha detto / ha cambiato / ha abolito” sono in gran parte destituite di fondamento e si tocca con mano che si può veramente applicare il Concilio e “riformare” nella continuità e non secondo l’ermeneutica degli anni ’70 e in parte ’80 (è infatti più o meno dal 1985 che è lentamente iniziata la svolta che ha portato al discorso di Benedetto XVI alla Curia).
Analoga considerazione vale per River Forest: la costituzione fondamentale è magnifica e le leggi - anche quelle venute dopo - non dicono necessariamente e alla lettera che bisogna continuare con la mentalità degli anni ’70 e ’80 per cui, senza contravvenire ad alcuna legge ma anzi applicandole, si può oggi organizzare una vita che non è esattamente quella che hanno insegnato i maestri (non ufficiali ma non meno indiscussi) del dopo River Forest.

 

Quinta considerazione
P. Rossetti, divenuto priore provinciale, dal 1972 al 1973 a Bologna mise in piedi un noviziato con maestro dei novizi il cecoslovacco P. Giorgio Vesely. Il risultato più simpatico dell’esperienza fu che i novizi in oggetto furono denominati “i veselidi”. Per il resto fu un disastro e proprio per la scarsa mediazione verso il nuovo. Dunque è vero che a River Forest e dopo ci fu contrapposizione, ma i tempi erano tali che i progressisti erano troppo progressisti e i tradizionalisti o “classici” spesso riproponevano il passato in proporzione eccessiva o troppo poco ripensata, o forse in una proporzione non troppo eccessiva, ma che comunque “allora” dava fastidio. Se River Forest si svolgesse adesso, forse, tenendo conto di più anni di esperienza e decantazione postconciliare, si svolgerebbe meglio - Costituzione fondamentale esclusa - e soprattutto l’applicazione sarebbe più equilibrata. Ma ahimè, è allora e con soli due o tre anni di tempo che Paolo VI aveva previsto il lavoro e la storia purtroppo non è reversibile.

 

 

 

River Forest: «Ho incontrato oggi delle anime belle, correggo un po’ le precedenti espressioni»

La citazione è del Diario già più volte citato di P. Rossetti (p. 102).
Ed è una citazione che apre alla speranza. Pur non essendo positivo come P. Alfonso D’Amato, pur non dovendo essere istituzionalmente sereno come il Maestro dell’Ordine Aniceto Fernández, P. Rossetti, dopo questa apertura alla speranza, conclude il diario americano con un inaspettato: «Qui il più è fatto. Parto abbastanza soddisfatto» (p. 103). Chi lo avrebbe mai previsto?
La ragione dell’ottimismo è che anche a River Forest ha incontrato “anime belle”. La frase è risolutiva e giusta, anche se a me non piace e preferirei dire: “buoni frati”, “santi frati”, “frati onesti” ecc. Comunque la realtà non cambia: la giusta analisi di percorsi in salita e in discesa, in fervore e in decadenza, non deve far dimenticare che sempre è possibile incontrare all’interno dell’Ordine dei buoni frati e, aggiungo, delle buone monache. Attraverso di loro si tocca con mano che Dio agisce in ogni situazione e si tocca con mano che san Domenico continua a pregare per tutti: «O spem miram quam dedisti mortis hora te flentibus, dum post mortem promisisti te profuturum fratribus: imple, pater, quod dixisti, nos tuis iuvans precibus».
 

 

 

Fra Riccardo Barile o.p.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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