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Le Apparizioni della Vergine a Lourdes a santa Bernardette

Ultimo Aggiornamento: 13/11/2017 14:37
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29/07/2012 11:36
 
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Lourdes nel canto epico di uno scrittore ebreo


Franz Werfel fece un voto: se fosse riuscito a sfuggire alla persecuzione nazista avrebbe scritto un romanzo sulla storia di Bernadette Soubirous. Trovò rifugio a Lourdes e fu esaudito
 


di Paolo Mattei


 

Franz Werfel, <I>Il canto di Bernadette</I>, Gallucci editore, Roma 2011, 728 pp.,  euro 19,00

Franz Werfel, Il canto di Bernadette, Gallucci editore, Roma 2011, 728 pp., euro 19,00

 

«Ho osato cantare la canzone di Bernadette, io che non sono cattolico ma ebreo». Così scrive, nel 1941, Franz Werfel nell’introduzione alla prima edizione del suo romanzo Il canto di Bernadette. L’anno prima, lo scrittore, poeta e drammaturgo, nato a Praga nel 1890, amico di Max Brod e Franz Kafka, si trovava, assieme a sua moglie Alma Schindler, vedova del compositore Gustav Mahler, in Francia. A giugno le truppe tedesche entravano a Parigi, e Hitler faceva visita alla capitale da sorridente e minaccioso trionfatore. I due sposi avrebbero voluto fuggire in Portogallo, ma non ottennero i visti necessari. Decisero allora di provare a far perdere le proprie tracce fra i Pirenei, mischiandole con quelle dei tanti sbandati in fuga dall’esercito invasore: «A Pau, una famiglia del luogo ci disse che Lourdes era l’unico posto dove qualche beniamino della Fortuna poteva forse trovare ancora alloggio», racconta Werfel nell’introduzione al romanzo – il cui titolo originale è Das Lied von Bernadette – pubblicato a Stoccolma nel 1941. «Poiché la famosa città era appena a trenta chilometri, ci venne consigliato di tentare e picchiare alle sue porte». Esse si aprirono ai due fuggiaschi.
La “Fortuna” fornì loro prontamente accoglienza e alloggio. «In questo modo la Provvidenza mi condusse a Lourdes, della cui storia prodigiosa non avevo fino ad allora la più superficiale nozione».

Durante le sette settimane di permanenza nella cittadina pirenaica lo scrittore ebreo ebbe però modo di conoscere la vicenda «della giovanetta Bernadette Soubirous e i fatti meravigliosi delle guarigioni di Lourdes».
«Un giorno», racconta Werfel, «tribolato com’ero, feci un voto. Se fossi uscito da quella situazione disperata e avessi raggiunto la costa americana – questo fu il voto che feci – avrei prima di ogni altro lavoro cantato la canzone di Bernadette come meglio avessi potuto».
Werfel redige l’introduzione da cui sono tratti questi scampoli di memoria a Los Angeles, la metropoli statunitense che riuscirà a raggiungere alla fine del 1941 e da dove non si sposterà più, terminandovi i propri giorni nell’agosto del 1945.

Il frutto di quel voto esaudito è, quindi, «un canto epico» che, «nel tempo nostro, non può che prendere la forma di un romanzo». Un romanzo in cui Werfel mette in campo il suo grande virtuosismo stilistico, riuscendo a far «scoccare» – tale era infatti uno dei suoi intenti – «scintille di vita dalla materia trattata»: il brano che riproduciamo in queste pagine, il primo incontro tra la ragazzina di Lourdes e Maria a Massabielle, è indizio esemplare di questo talento. E per evidenziare la valentia letteraria dello scrittore non è nemmeno necessario fare confronti con l’imparagonabile realismo e semplicità della narrazione che del medesimo avvenimento aveva fatto la stessa Bernadette.  
«Ma non è un’opera di fantasia», tiene a sottolineare Werfel: «Il lettore diffidente, di fronte ai fatti qui narrati, può chiedere con maggior diritto che per le epopee storiche: “Che cosa è vero? Che cosa è inventato?”. Io gli rispondo: tutti gli avvenimenti notevoli che formano il contenuto del libro sono in realtà accaduti. Essi si sono iniziati non più di ottant’anni fa e si svolgono quindi nella piena luce della storia; la loro verità è attestata, in fedele testimonianza, da amici, da nemici e da osservatori spassionati. Il mio racconto non altera menomamente questa verità».
Il libro di Werfel fu tradotto e dato alle stampe in italiano per la prima volta nel 1946. Nel 1944 il regista Henry King vinse quattro premi Oscar per Bernadette, il film che aveva realizzato l’anno prima prendendo spunto dall’opera di Werfel.

A febbraio di quest’anno l’editore Gallucci di Roma ha deciso di rieditarlo. Pubblichiamo ampi brani del capitolo 7 (“La Signora”, pp. 69-79), nel quale, come s’è detto, è narrato il primo incontro, presso la grotta di Massabielle, fra Bernadette e Maria.




[SM=g1740758] Il canto di Bernadette

Pubblichiamo ampi stralci del capitolo 7 (“La Signora”) de Il canto di Bernadette di Franz Werfel



La locandina del film Bernadette (titolo originale: <I>The song  of Bernadette</I>), diretto nel 1943 da Henry King. La pellicola, premiata con quattro premi Oscar, è l’adattamento cinematografico del romanzo di Franz Werfel

La locandina del film Bernadette (titolo originale: The song of Bernadette), diretto nel 1943 da Henry King. La pellicola, premiata con quattro premi Oscar, è l’adattamento cinematografico del romanzo di Franz Werfel

 

Bernadette alza lo sguardo alla cima del pioppo accanto a lei per scorgere se verso l’alto non spiri forse qualche brezza che abbia investito lo spineto di Massabielle. Ma le foglie dell’albero, tremule quasi sempre alla cima, sono immobili, come senza respiro. Ella guarda ancora la grotta che è lì a non più di dieci passi. La pianta di rose selvatiche si arrampica, immobile come sempre, alla roccia. Forse si era ingannata.

Ma ora non s’inganna. Bernadette si strofina gli occhi, li chiude, li apre, li richiude e li riapre più volte: l’immagine rimane. La luce del giorno è sempre plumbea. Soltanto nella nicchia ogivale della grotta permane un bagliore cupo, come se si fossero attardati là gli ultimi raggi dorati del sole.
In questi avanzi di una luce ondeggiante c’è qualcuno che è apparso proprio in quel punto […]. Questo qualcuno non è un fantasma indistinto, un’immagine aerea trasparente o una visione mutevole di sogno, ma una signora giovanissima, fine, delicata e gentile di aspetto, di carne e d’ossa, piccola piuttosto di statura poiché sta ritta senza sforzo nello stretto ovale della nicchia.

La giovanissima signora non è vestita in modo ordinario ma neppure porta abiti antiquati. Non è stretta nel busto né porta la crinolina di moda a Parigi, pure il taglio libero del vestito candido le delinea la vita snella.

Pochi giorni prima Bernadette ha assistito allo sposalizio della minore delle figlie di Lafite. Forse, l’unico paragone che richiama l’abbigliamento della signora è l’abito di una sposa elegante. Ha un velo prezioso che ricadendo dal capo le arriva ai malleoli. Ma pare che la signora in abito da sposa non porti una di quelle pettinature tenute su a forza di forcine e pettini che sono di moda nel gran mondo, poiché dal velo spuntano, avidi di libertà, dei ricciolini castani.

Un largo nastro azzurro, annodato lasco sotto il petto, le cade fino ai ginocchi. Ma quale tono di azzurro! Un azzurro di un fascino quasi doloroso. Neanche mademoiselle Peyret, la sarta delle ricche signore di Lourdes, potrebbe dire di che stoffa è fatto quell’abito bianco. Ora risplende come un raso o una seta preziosa; ora è opaco come un delicato velluto niveo, mai visto; ora pare di aurea batista e col giuoco delle sue pieghe rivela ogni movimento delle membra.

A un tratto Bernadette si accorge di una cosa veramente straordinaria. La giovane signora è scalza. I piedini sottili sembrano d’avorio, o meglio d’alabastro, pallidi come sono, senza la minima traccia di roseo: sono piedi intatti, che non hanno mai camminato. Fanno uno strano contrasto col resto del corpo, così pieno di vita, della leggiadra fanciulla. Quello che più stupisce sono le due rose d’oro che si vedono ai piedi della signora, poste, non si sa come, alla radice di ciascun alluce. Non si riesce a capire se siano finissimi gioielli od opera di pittura a forte rilievo.

Dapprima Bernadette prova come un senso di rapida apprensione e poi una lunga paura. Non è questa, però, la paura che ella ben conosce, la paura che obbliga a saltar in piedi e scappar via. È una dolce stretta alla fronte e al petto che si desidera duri il più a lungo possibile. Poi questa paura si muta in qualcosa che la fanciulla non sa definire. Forse si potrebbe chiamarla consolazione, conforto.

Bernadette non ha mai saputo, fino a questo istante, quanto abbia bisogno di consolazioni; non sa nemmeno quanto sia dura la vita, non sa che soffre la fame; non s’è mai resa conto che abita assieme ad altre cinque persone nell’oscuro buco di un vecchio carcere e che deve lottare per notti intere con l’affanno che le mozza il respiro. È così da tanto tempo e così continuerà, forse per sempre: le sembra del tutto naturale.
Ora però si sente sempre più avvolta da questo senso di consolazione che non ha nome, che è come un caldo flutto di pietà. Ha forse pietà di sé stessa? Sì! Ma l’intimo Io di questa fanciulla si è ora così schiuso, così dilatato, che la dolcezza della pietà penetra il suo corpo rabbrividente […].

Mentre questa consolazione piena d’amore inonda il cuore di Bernadette, i suoi occhi restano fissi sul viso della giovane signora, la quale da parte sua si è disposta in modo da offrire tutto il suo viso alla ragazza.
Per quanto resti immobile là nella nicchia, pare che si avvicini sempre più, come attratta dallo sguardo di Bernadette. Questa potrebbe contare i battiti delle ciglia che di quando in quando, ma molto raramente, velano il magnifico azzurro e bianco degli occhi della signora. La sua carnagione, benché immacolata, è così viva che le gote leggermente arrossate rivelano il rigore della giornata invernale. Le labbra non sono chiuse in un atteggiamento solenne ma un po’ socchiuse, quasi inconsciamente, e lasciano trasparire lo scintillante smalto giovanile dei denti. Bernadette però non rileva a una a una le particolarità di questa grazia, ma contempla l’insieme e torna a contemplarlo senza saziarsi.

Non le viene affatto l’idea di aver dinanzi una visione celeste. Bernadette non è inginocchiata nella semioscurità di una chiesa; sta seduta su un masso di pietra, allo sbocco del Savy nel Gave, in questa chiara e nuda giornata di febbraio, e regge la sua calza nella mano abbassata. Di una sola cosa è conscia: dell’inimmaginabile bellezza di questa figura di donna che la inebria insaziabilmente. […]
Come paralizzata dall’incanto, Bernadette avverte a un tratto che il suo comportamento non è quello di una ragazza ben educata. Ella sta seduta mentre la Signora è in piedi. Si sente anche a disagio perché ha un piede nudo e l’altro con la calza. Che deve fare? Conscia del suo torto, si alza in piedi e la Signora sorride, contenta. Questo sorriso è un nuovo illuminarsi della sua grazia.

La ragazza s’inchina allora nella goffa riverenza che fanno le scolare di Lourdes quando incontrano per la strada una delle suore della scuola o l’abbé Pomian o, nientedimeno, il signor parroco Peyramale. La Signora si affretta a rispondere a questo saluto, non con la distaccata superiorità di quelle autorevoli persone, ma con un gesto pieno di naturale cordialità. China il capo più volte e il suo sorriso si fa ancora più luminoso. Quel saluto crea un nuovo rapporto: si è intessuta la relazione. Tra la fortunata fanciulla e Colei che dà la fortuna, nasce e scorre come un flusso di limpida simpatia, di antica alleanza, si direbbe come la consapevolezza di un commovente legame.

Gesù e Maria, pensa Bernadette: ella sta in piedi e io pure! E perché tra il suo atteggiamento e quello della Signora vi sia una rispettosa differenza, si inginocchia sui sassi della riva, il viso fisso alla nicchia della grotta.

Per dimostrare che ha capito l’intenzione della ragazza, la Signora fa un passo avanti coi suoi piedi alabastrini sui quali risplendono le rose d’oro; esce dalla cornice di roccia e si porta sull’orlo estremo della rupe. Più in là non può e non vuole andare. Poi apre le braccia facendo il gesto di accogliere o sollevare.
Le mani sono minute e pallide come i piedi; sulle palme non si scorge neanche una sfumatura rosea.
Null’altro accade per un certo tempo. Pare che la giovane signora debba o voglia lasciare tutta l’iniziativa a Bernadette, ma questa non ha più alcuna trovata: rimane inginocchiata e contempla, contempla e rimane inginocchiata. Ne nasce un dolce imbarazzo che opprime un poco la fanciulla la quale, sentendosi tanto inferiore, vorrebbe con tutte le sue forze facilitare alla Signora l’incontro.
Ma intanto nello spirito di Bernadette, sinora rapito in estasi, cominciano a spuntare le punte aguzze della ponderazione che la spingono a stare in guardia.

Da dove è venuta la Signora? Può mai venir fuori del buono dalle viscere della Terra? Tutto ciò che è buono, celeste, vien dall’alto: si serve delle nuvole e dei raggi del sole per calare sulla Terra, come insegnano i quadri che si vedono in chiesa. Ma chiunque sia la giovane signora, da dovunque sia venuta sui suoi piedini nudi, che sia venuta in modo naturale o innaturale, una cosa sempre rimane inspiegabile: perché ha scelto proprio Massabielle, quel buco sporco nella roccia, quel punto inondato dalle piene, invaso dalle ossa spolpate, dalle pietre rotolate dal fiume, dai maiali, dai serpenti: un angolo del paese che tutti aborriscono?

Bernadette stessa non prende molto sul serio i suoi sospetti. La bellezza della Signora mette in giubilo tutto il suo essere. Nessuna vera bellezza è soltanto corporale: in ogni volto umano che noi chiamiamo bello, vediamo trasparire una luce che, per quanto legata alle forme fisiche, è di natura spirituale. La bellezza della Signora sembra essere meno corporale di ogni altra; è fatta di quella luce spirituale che è per noi la bellezza. Sbalordita da questa luce e un poco anche per accertarsi della vera essenza della Signora, Bernadette vuol farsi il segno della croce.
Il segno della croce è un mezzo eccellente contro le mille paure che opprimono l’anima di Bernadette sin dalla sua infanzia. […]

Bernadette, con lo sguardo fisso sui piedi esangui della Signora, vuole alzare la mano per farsi il segno della croce. Non le è possibile. Il braccio pende più pesante, paralizzato, come un peso estraneo. Non può muovere neppure un dito. Anche questa paralisi la conosce; è la stessa dei suoi sogni d’incubo, quando le falliscono i muscoli e la voce per chiedere l’ausilio di Gesù contro l’assalto di quei demòni. […]
E infatti, la Signora nella nicchia solleva ora in modo lentissimo, come se volesse insegnare, la mano destra dalle dita delicate e si segna ampiamente su tutto il volto: è un segno di croce largo, quasi splendente, come Bernadette non l’ha visto fare da nessuno. Sembra che questa croce resti sospesa nell’aria. Nel fare questo gesto il viso della Signora prende un’espressione molto seria, e dalla sua serietà s’irradia una nuova onda di quella soavità che fa arrestare il respiro alla ragazza.

Come tutti quanti, anche Bernadette, nel farsi il segno della croce, aveva finora portato la mano alla fronte e al petto con gesto impreciso, ma adesso sente afferrata la sua mano da una forza clemente che la guida come si guida la mano a un bambino che non sa scrivere. E questa forza clemente traccia con la mano gelida della ragazza, sul suo viso, lo stesso segno di croce ampio, indicibilmente nobile. E ora la Signora di nuovo annuisce e sorride, come se le fosse riuscito qualcosa di importante e di delizioso.
Dopo questo segno di croce c’è un nuovo intervallo, tutto pieno di estatica contemplazione e di amore. Bernadette vorrebbe dire qualche cosa, spiegarsi in parole o anche soltanto in suoni inarticolati, balbettando, con adorazione e tenerezza. Ma può ella osare di parlare prima che abbia parlato la Signora? Mette una mano nel suo sacchetto e tira fuori un rosario. Non avrebbe potuto fare di meglio…

Tutte le donne di Lourdes portano, dovunque vadano, il rosario con loro. È il fedele attrezzo della loro devozione. Le loro mani di donne povere, che lavorano duramente, non sanno fermarsi. Una preghiera a mani vuote non sarebbe preghiera, per loro. Il recitare il rosario è una specie di lavoro manuale celeste; un invisibile cucire o lavorare a maglia o ricamare, compiuto alacremente mediante le cinquanta avemarie della corona di perline.

Chi per anni e anni dice ogni giorno molti rosari, si crea un bel tessuto col quale un giorno la grande misericordia celeste potrà coprire una parte dei suoi peccati. Le labbra, invero, mormorano solo automaticamente le parole dell’angelo alla Vergine, ma l’anima tuttavia vaga per i pascoli della santità. Anche se i pensieri spesso vagano, allontanandosi dalle formule pie; anche se si manda qualche sospiro per il prezzo esagerato delle uova o se, recitando un’Ave, ci si appisola per qualche minuto, non è questa una disgrazia poiché si avverte un senso di sicurezza quale non si è mai provato. […]

Ora mostra alla Signora con viva ansia la sua misera corona di palline nere. Sembra che Ella attendesse già da tempo simile gesto. Di nuovo sorride e annuisce, come se l’idea lodevole della ragazza le desse un’intima gioia. Anche nella sua mano destra, leggermente sollevata, si vede un rosario […].

Bernadette è contenta di sentire la propria voce, sebbene le sembri ora una voce sconosciuta: «Ave Maria, piena di grazia…». Ella incomincia il primo verso dell’Ave, osservando attentamente la Signora per vedere se si unisce alla preghiera. Ma le Sue labbra restano immobili. Sembra come se non tocchi a Lei di dire il saluto dell’angelo; controlla soltanto, per così dire, il mormorio della ragazza con dolce abbandono.
A ogni Ave recitata, fa scivolare una perla tra l’indice e il pollice. Attende però sempre che sia prima Bernadette a spostare in avanti la sua pallina nera. Solo alla fine, al momento dell’invocazione: «Sia benedetto il nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», un profondo respiro passa attraverso la figura della Signora e la sua bocca articola, senza che ne esca alcun suono, quelle parole.

Mai prima d’ora Bernadette ha detto così lentamente il suo rosario. È certamente un mezzo sicuro per trattenere la Signora. E nulla è più importante. Teme che la Santissima, al cui viso ella si sente avvinta con tutte le forze della sua anima, possa sentirsi stanca, possa essere stufa di restare lì solo per far piacere a una ragazza della famiglia Soubirous; lì, in quello scomodo buco nella pietra, proprio sull’orlo di una roccia ripida, dalla quale è facile cadere. Le sarà certo molto fastidioso star così a lungo in quell’atteggiamento rigido, specialmente con questo tempo. “Oh, presto andrà via e mi lascerà sola…”.

Dopo la trentesima Ave anche questi pensieri ansiosi e queste ombre sentimentali svaniscono. Bernadette è tutta concentrata nel contemplare, eppure i suoi occhi non si stancano. La vita di tutti gli altri sensi si ritira: non avverte i sassi sui quali è inginocchiata, non avverte il gelo che è attorno a lei. Una calda, una felice sonnolenza l’avvolge. “Come sto bene! Oh, come sto bene…”.

[SM=g1740750] [SM=g1740752]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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