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Il Cardinale Billot sul LIBERALISMO di padre Henri Le Floch

Ultimo Aggiornamento: 11/10/2011 21:40
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Contributo alla comprensione del «pluralismo»
IL CARDINALE BILLOT SUL LIBERALISMO
di Padre Henri Le Floch C. S. Sp.
Tratto da Cristianità. n. 24, dell'Aprile 1977


Il dibattito religioso e politico corrente - sotto la spinta di concrete necessità, come quelle costituite, per esempio, dai problemi della "Chiesa conciliare", rimessi in luce dalla pendente revisione consensuale del Concordato - va riscoprendo, con una frequenza sempre maggiore, il termine liberalismo - e quindi liberalismo cattolico -, che comincia a essere usato come sinonimo di pluralismo, o almeno come a esso abbondantemente equivalente, quando pluralismo, da fatto e constatazione, diviene dottrina e programma. Per contribuire alla esplicatio terminorum, cioè a quel chiarimento dei termini che è già battaglia delle idee, pare opportuno fornire al lettore una sostanziosa esposizione e confutazione del liberalismo, dovuta alla dottrina del cardinale Louis Billot (1846-1931) - dal servo di Dio Raffaele Merry del Val definito "onore della Chiesa e della Francia" - e contenuta nel trattato De Ecclesia, tomo 11, pp. 19-63. L'insegnamento cattolico del cardinale Billot è magistralmente sunteggiato da p. Henri Le Floch, della Congregazione dello Spirito Santo, che fu superiore del seminario francese di Roma, ed è tradotto dal volume Le cardinal Billot, lumière de la théologie, senza indicazione di editore, 1932, pp. 43-61.


Riassunto della dottrina del cardinale Billot sull'errore del liberalismo e le sue diverse forme, secondo l'esposizione del trattato sulla Chiesa.


    Il liberalismo in materia di fede e di religione è una dottrina che pretende di emancipare l'uomo, più o meno, da Dio, dalla sua legge, e dalla sua rivelazione, e di emancipare anche la società civile da ogni dipendenza dalla società religiosa, dalla Chiesa, custode, interprete e maestra della legge rivelata da Dio.

     L'emancipazione da Dio, fine ultimo dell'uomo e della società, è quanto anzitutto persegue. E, per giungervi, fissa come principio primo che la libertà è il bene fondamentale dell'uomo, bene sacro e intangibile, che non è assolutamente permesso violare con qualsiasi coazione; perciò, questa libertà senza limiti deve essere la pietra immobile su cui si organizzeranno tutti gli elementi dei rapporti tra gli uomini, la norma immutabile secondo cui saranno giudicate tutte le cose dal punto di vista del diritto; quindi sarà equo, giusto e buono quanto, in una società, avrà come base il principio della libertà individuale inviolata; iniquo e perverso tutto il resto. Questo il pensiero degli autori della rivoluzione del 1789, rivoluzione di cui il mondo intero gusta ancora i frutti amari. Questo l'oggetto completo della Dichiarazione dei diritti dell'uomo, dalla prima riga all'ultima. Questo, per gli ideologi, il punto di partenza necessario per la riedificazione completa della società nel campo politico, nel campo economico, e soprattutto nel campo morale e religioso.

    Il trattato critica anzitutto il principio generale del liberalismo, considerato in sé stesso e nelle sue molteplici applicazioni. Poi tratta del liberalismo religioso e delle sue diverse forme (pp. 19-20).

    In un magnifico preambolo, in cui si eleva alle altezze di sant'Agostino nel De Civitate Dei e di Bossuet nel Discours sur l'Histoire universelle, e che si concentra nella spiegazione e nella applicazione della profezia di Daniele a Nabucodonosor, p. Billot annuncia che seguirà, trattando del liberalismo, i potenti spiriti del secolo XIX che hanno lottato contro la perversità dei principi della Rivoluzione, J. de Maistre, de Bonald, Ketteler, Veuillot, Le Play, il cardinale Pie, Liberatore, ecc. E li cita nel corso della sua esposizione. E con loro cita Charles Maurras, di cui apprezzava la confutazione del liberalismo in campo filosofico, politico ed economico.

     I limiti che ci siamo fissati ci permettono, in questa sede, di presentare solo l'ossatura del ragionamento di questo studio, lasciando da parte tutto lo splendore dello svolgimento, che potrebbe essere fatto intravedere soltanto da una traduzione completa.

 

ARTICOLO I.

 

Enunciazione e critica del principio fondamentale del liberalismo (pp. 21-43)
 

    Il principio fondamentale del liberalismo è la libertà da ogni e qualsiasi coazione, non solo da quella esercitata con la violenza, e che riguarda soltanto gli atti esterni, ma anche dalla coazione che proviene dal timore delle leggi e delle pene, dalle dipendenze e dalle necessità sociali, in una parola, dai legami di ogni genere che impediscono all'uomo di agire secondo la sua inclinazione naturale. Per i liberali, questa libertà individuale è il bene per eccellenza, il bene fondamentale, inviolabile, al quale tutto deve cedere, a eccezione, forse, di quanto è richiesto dall'ordine puramente materiale della città; la libertà è il bene a cui tutto il resto è subordinato; è il fondamento necessario di ogni costruzione sociale conforme all'equità e al bene.

 

PARAGRAFO I.

Critica di questo principio in sé stesso
 

    Questo principio fondamentale del liberalismo è assurdo, contro natura e chimerico (pp. 22-30).

    1. Assurdo (Incipit ab absurdo), in quanto pretende che il bene principale dell'uomo stia nell'assenza di ogni legame capace di intralciare o limitare la sua libertà. Il bene dell'uomo, infatti, deve essere considerato o come un fine, o come un mezzo per pervenire a questo fine. Ora, la libertà non può essere un fine in sé e il fine sommo, perché non è altro che un potere o potenza operativa, perché ogni potere o potenza è in vista della operazione, e perché ogni operazione, in questa vita, consiste completamente nel perseguimento di un bene reale o apparente. Quindi, la libertà non può essere per l'uomo il suo bene considerato come fine. D'altra parte, essa non è neppure un bene considerato come mezzo per pervenire a un fine buono, se non a condizione di essere contenuta da certi freni, e questa è la rovina pura e semplice del principio del liberalismo ... a meno di ammettere o che la libertà, nella vita presente, è infallibile, oppure che bisogna sempre lasciarla fare, quali che siano i suoi difetti.

    2. Contro natura (in ea progreditur quae evidentiori naturae intentioni contraria sunt), in quanto pretende che tutto debba cedere il passo al bene della libertà individuale, che le necessità sociali hanno moltiplicato gli ostacoli a questa libertà, e che il regime ideale per l'uomo è quello in cui regni la legge dell'assoluto e perfetto individualismo; perché questo individualismo è assolutamente contrario alla natura umana. Infatti, se vi è una cosa evidente e manifesta, è che la condizione sociale è la legge della vita umana, come lo provano le necessità della sua esistenza anche corporale. «Agli altri animali, la natura ha preparato nutrimento, vestimento di pelo, mezzi di difesa, come i denti, le corna, le unghie, o almeno la rapidità nella fuga. L'uomo, invece, si è trovato creato senza che dalla natura gli sia stato fornito nulla di simile; ma, in cambio, è stato provvisto della ragione che lo mette in condizione di preparare tutte queste cose con le sue mani; e siccome un uomo da solo non basta a preparare tutto, e se fosse da solo non saprebbe assicurare neppure a sé stesso i beni che gli permettano di mantenersi in vita, ne segue che, per natura, l'uomo deve vivere in società. Inoltre, in tutti gli altri animali è imita una naturale capacità a discernere quanto è a essi utile o nocivo. Così, l'agnello sente istintivamente nel lupo un nemico. Per una capacità analoga certi animali sanno naturalmente distinguere le piante curative e anche quanto è loro necessario per vivere.

    «L'uomo, invece, conosce ciò di cui abbisogna per vivere, ma solo in generale. Così, con la sua ragione può pervenire, attraverso i principi universali, alla conoscenza delle cose particolari necessarie alla sua vita. Ma non è possibile a un uomo, da solo, attingere con la sua ragione tutte le cose di questo ordine. E quindi necessario che gli uomini vivano insieme, per aiutarsi a vicenda, per dedicarsi a ricerche diverse in rapporto con la diversità dei loro talenti: uno, per esempio, alla medicina, un altro a questo, un altro a quello. ( S . Tommaso, De regimine principum, libro I, cap. I).

    O insensati sophistae, scrive p. Billot, quis vos ita dementavit, ut ad naturam continuo appellantes, contra naturam talia et tam enormia peccetis?», «O sofisti dissennati, chi vi ha fatto tanto uscire di ragione, che, pur richiamandovi continuamente alla natura, peccate tanto e così grandemente contro la natura?».

    3. Chimerico,

    1° Perché non combina in nessun modo con la realtà:

    Suppone, all'origine della società, un patto iniziale. Dove l'ha visto?

    Suppone il libero ingresso di ciascuno nella società. E ancora più spinto.

    Suppone che tutti gli uomini siano ritagliati esattamente sullo stesso modello - assolutamente uguali -, l'uomo astratto riprodotto milioni di volte senza note individuanti. Dov'è? «Applicate il contratto sociale, se vi sembra buono, ma applicatelo solamente agii uomini per i quali è stato fabbricato. Sono uomini astratti che non appartengono a nessun tempo e a nessun paese, pure entità sbocciate dalla bacchetta metafisica» (Taine, La Révolution, tomo I, libro II, cap. II).

    2° perché tende a distruggere direttamente proprio ciò che vuole proteggere: la libertà individuale.

    Se la cosa è evidente nel caso delle minoranze, tiranneggiate dal numero, non è meno certa per le maggioranze, che si lasciano condurre, non dal «giudizio autonomo di ciascuno dei loro membri, ma da agitati, da violenti, da oligarchi nati dall’individualismo, che le soggiogano e che se ne servono come di uno strumento di dominio ai fini del loro interesse privato e della loro ambizione» (pp. 29-30).

 

PARAGRAFO II.

Critica del principio nelle sue applicazioni alle cose umane
 

    Bisogna notare che esso non è applicabile integralmente (il male integrale non esiste), ma che, nella misura in cui è applicato, comporta due conseguenze:

    1° La disgregazione e la dissoluzione di ogni organismo sociale, la soppressione di ogni società minore, naturale o connaturale, distinta dallo Stato o che non riceva da esso la sua legge, operante nel campo domestico, in quello economico e in quello politico.

 

    Questo si prova:

    a) A priori, l’individualismo liberale permette l’esistenza di una sola società: quella che è derivata dal contratto sociale.

    b) A posteriori, con la guerra fatta in primo luogo alla famiglia (è la «delenda Carthago» dei rivoluzionari), di cui si è distrutto progressivamente il fondamento, cioè il matrimonio (con l’istituzione del contratto civile, poi del divorzio, in attesa dell’unione libera), e nello stesso tempo l’autorità (con la soppressione della libertà testamentaria, della libertà di insegnamento e attraverso le leggi di successione); con la guerra fatta, in secondo luogo, e con un successo completo al primo colpo, alle corporazioni, con il pretesto di proteggere la libertà individuale. Questa «libertà del lavoratore genera la piaga della società moderna, il proletariato, cioè l’esistenza di una classe numerosa priva di ogni proprietà e che vive in un certo senso in uno stato di indigenza ereditaria» (Le Play, Réforme sociale, tomo I).

    2° La costituzione di uno Stato dispotico, assoluto, irresponsabile, che estingue tutte le libertà reali e assorbe tutti i diritti, senza che vi sia limite alcuno alla sua onnipotenza e al suo arbitrio.

    «Come gli organi del corpo fisico non sono le molecole e gli atomi, ma le articolazioni e le membra, allo stesso modo gli organi del corpo sociale non sono gli individui, ma la famiglia, la corporazione e la città. Se le supponiamo disorganizzate nel loro stesso organismo, ne deriva inevitabilmente che tutte le libertà reali svaniscono. La ragione di questo è evidente: su queste monadi dissociate dall'individualismo, rimane soltanto questo enorme colosso costituito dallo Stato onnivoro, che, essendo crollata sotto di esso ogni organizzazione e ogni autonomia, assorbe in sé ogni forza, ogni potenza, ogni diritto, ogni autorità e diventa l'unico amministratore, procuratore, istitutore, precettore, educatore e tutore, in attesa di diventare anche l’unico proprietario e possessore. E che cosa ne risulta, di grazia, se non una mostruosa schiavitù?» (pp. 35-36).

 

PARAGRAFO III.

Rispetto alla religione, il principio del

liberalismo essenzialmente antireligioso (pp. 38-43)

 

    Esso si erge direttamente contro Dio. Persegue completamente la distruzione del culto di Dio, della religione di Dio, della legge di Dio, e anche della nozione di Dio, con il pretesto di salvaguardare la libertà in campo politico ed economico.

     1. Prova a posteriori: la storia della Rivoluzione francese, la cui caratteristica è quella di essere «satanica nella sua essenza» (de Maistre, Du Pape, Discorso preliminare). Il liberalismo è il grande principio della Rivoluzione francese.

     2. Prova a priori: Dio e Nostro Signore Gesù Cristo costituiscono il grande ostacolo e alla libertà rivoluzionaria e al dispotismo dello Stato, suo corollario. A tale punto che la distruzione di Dio, del suo culto, della sua religione, della sua legge, del suo nome e del suo concetto, è non soltanto un articolo del programma, ma il programma stesso e il fine al quale tutto il resto è ordinato come mezzo. «Il pretesto è la libertà, il codice è il contratto sociale, il mezzo è la demagogia; ma la ragione ultima è la costituzione di uno Stato ateo ed enorme, arbitro supremo di tutti i diritti, dittatore onnipotente del giusto e dell’ingiusto, del lecito e del vietato, grazie al quale siano aboliti per sempre il nome e il culto infame di Dio. E' ciò a cui tutto è diretto, a cui tutto il resto è ordinato come mezzo: e la distruzione della famiglia, e la distruzione della corporazione, e la distruzione delle libertà tanto comunali quanto provinciali, di modo che, infine, resti in piedi soltanto la potenza dello Stato empio, fuori da cui nessuno potrà, su tutta la terra, muovere una mano o un piede» (pp. 41-42). «Noi vogliamo organizzare una umanità che possa fare a meno d i Dio» (Jules Ferry). «Dalla Rivoluzione siamo in rivolta contro l’autorità divina e umana, con la quale, con un solo colpo, abbiamo regolato un terribile conto il 21 gennaio 1793» (Clemenceau).

 


ARTICOLO II.

Le diverse forme del liberalismo in materia religiosa (pp. 44-63)

 

    Con p. Liberatore (cfr. La Chiesa e lo Stato), si possono ricondurre a tre: il liberalismo assoluto, il liberalismo moderato e il liberalismo che si potrebbe chiamare il liberalismo dei cattolici liberali. Le tre forme hanno in comune il volere emancipare l’ordine civile dall’ordine religioso, cioè lo Stato dalla Chiesa. Ma la prima forma vuole il dominio dello Stato sulla Chiesa; la seconda, la piena indipendenza dello Stato rispetto alla Chiesa, e della Chiesa rispetto allo Stato; quanto alla terza, anch‘essa ricerca questa indipendenza, non come una verità di diritto, ma come, in pratica, la migliore condizione di esistenza e di vita.

 

PARAGRAFO I.

Liberalismo assoluto
 

    La prima forma del liberalismo, il liberalismo assoluto, riporta al materialismo e all’ateismo (pp. 44-48).

    Concepisce lo Stato come la potenza più elevata alla quale è dato all’umanità di poter salire nel suo progresso sociale. Non solo lo Stato non ha nulla al di sopra di sé, ma non ha nulla che a esso sia uguale o che a esso non sia sottomesso. E la potenza suprema e universale, alla quale nulla può resistere, alla quale tutto deve ubbidire.

    Questa è la teoria che regge, più o meno, le costituzioni moderne dell’Europa, nate dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Non solo la Chiesa vi ha perso ogni preminenza rispetto allo Stato, essa non vi ha neppure più il suo carattere di società perfetta e indipendente.

    Ora, questa è la negazione implicita della spiritualità e dell’immortalità dell’anima; in ultima analisi, è materialismo. Lo Stato, infatti, può essere concepito come potenza suprema solamente a condizione di ricondurre tutto il destino dell’uomo alla sua vita organica e materiale.

    Inoltre, vi è la negazione di Dio; infatti, se Dio esiste, bisogna riconoscere assolutamente che è il padrone supremo e il legislatore universale; bisogna riconoscere che la regola suprema dell’azione, sia nella vita privata che in quella pubblica, sono i principi immutabili della morale impressi da Dio nell’anima umana, e non lo Stato, né l’opinione pubblica; bisogna riconoscere, infine, che i poteri più elevati hanno solo un diritto subordinato di comandare, così che governano i popoli secondo la volontà di Dio, alla quale sono per primi sottomessi.

 

PARAGRAFO II.

Liberalismo moderato
 

    Il liberalismo moderato vuole l’emancipazione dell’ordine civile rispetto all’ordine religioso, dello Stato rispetto alla Chiesa, così che il dominio dello Stato e quello della Chiesa sono considerati completamente separati e separabili, e la Chiesa e lo Stato sono considerati nel loro rispettivo dominio come pienamente indipendenti.

    Un tale sistema, già abbondantemente incoerente, è:

    a) praticamente irrealizzabile;

    b) teoricamente assurdo. Si riduce, se non a un ateismo formale, almeno a un manicheismo certo, a un dualismo assurdo, sia considerando l‘uomo stesso che considerando il principio e il fine dell’uomo.

    1) Considerando il principio e il fine dell’uomo: infatti, se vi sono per l’uomo un solo principio e un solo fine, questo principio e questo fine sono: o lo Stato (e ricadiamo nel liberalismo assoluto), o Dio (ed eccoci nel cattolicesimo)

    2) Considerando l’uomo: infatti, questa separazione assoluta del civile e del religioso suppone in lui due anime, due spiriti, due coscienze. Se vi sono solo un’anima, uno spirito, una coscienza, vi è necessariamente subordinazione del civile al religioso o del religioso al civile.

    Libera Chiesa in libero Stato, è la formula del liberalismo moderato. «Più nessuna alleanza tra la Chiesa e lo Stato: la Chiesa non abbia più niente in comune con i governi, i governi non abbiano più niente in comune con la religione, non si immischino più negli affari rispettivi. Il singolo professa a suo modo il culto che sceglie secondo il suo gradimento; come membro dello Stato non ha un culto proprio. Lo Stato riconosce tutti i culti, assicura a tutti una uguale protezione, garantisce a essi una uguale libertà; questo è il regime della tolleranza; ed è conveniente che lo proclamiamo buono, eccellente, salutare, che lo conserviamo a tutti i costi, che lo offriamo costantemente». Questo è quanto Louis Veuillot ha chiamato l’illusione liberale.

    Ma volere che il fine della città e il fine della religione siano divergenti, volere che i poteri incaricati di regolare il perseguimento dell’uno e dell’altro fine siano separati, significa, implicitamente, negare l’unità del principio primo del mondo e affermare che vi sono un creatore delle cose spirituali e un creatore delle cose temporali; che esiste un dio che dirige l’uomo verso la vita civile, e un dio che lo dirige alla vita religiosa; in una parola, che bisogna ammettere, con i manichei, due principi, opposti l’uno all’altro.

    D’altra parte, il liberalismo moderato, separando l’ordine civile dall’ordine religioso, separa il cittadino dal cristiano, il filosofo dal credente, l’uomo pubblico dall’uomo privato, il politico dal fedele, e li separa, non come due belligeranti di cui l’uno vuole la morte dell’altro, ma come due vicini, di cui ciascuno segue la propria via, di cui ciascuno, nello stesso tempo e regolarmente, compie il suo dovere, come se fossero mossi tutti e due per cose divergenti e contrarie da motori separati. Chi non vede che tale concezione è possibile soltanto a condizione di supporre in un solo e stesso uomo due anime, un duplice spirito, due coscienze realmente distinte ira di loro, l’una atea, l’altra religiosa, l’una credente, l’altra miscredente, l’una attenta alle cose temporali senza rapporto alcuno con le cose spirituali; l’altra intenta alle cose spirituali e come esistente fuori da questo mondo, nel mondo della luna; l’una che serve Cesare e l’altra che serve Dio?

    Infine, comunque si concepisca questa indipendenza reciproca dei due poteri, o questa finzione della libera Chiesa in libero Stato, si cade in un nuovo manicheismo che, assurdo dal punto di vista teorico, è in pratica impossibile. Come immaginare che due motori possano essere normalmente applicati a un solo e medesimo mobile, senza che vi sia tra di essi qualche subordinazione? Solo la subordinazione permette di evitare i movimenti contrari e di mantenere la necessaria unità di direzione. I liberali moderati se ne sono ben resi conto, e si sono visti costretti ad ammettere o la subordinazione dello Stato alla Chiesa, o la subordinazione della Chiesa allo Stato; ora, non hanno potuto accettare la subordinazione dello Stato alla Chiesa, perché avrebbe significato rinunciare al principio essenziale e primo del liberalismo; costretti dalla necessità, e non potendo mantenersi in questo equilibrio di indipendenza reciproca, hanno dunque, come il liberalismo assoluto, posto la Chiesa sotto la dipendenza e il potere dello Stato, tutte le volte che, a giudizio di questo stesso Stato, un fine politico o un interesse temporale sembrano esigerlo. «La società religiosa, diceva Portalis (Discours et travaux inédits), ha dovuto riconoscere nella società civile, più antica, più potente, e di cui veniva a fare parte, l’autorità necessaria per assicurare l’unione, e il sovrano è rimasto padrone di fare prevalere l’interesse dello Stato in tutti i punti disciplinari in cui si trova immischiato».

 

PARAGRAFO III.

Liberalismo dei «cattolici liberali»

 

    Consiste nella emancipazione dell’ordine civile rispetto all’ordine religioso, dello Stato rispetto alla Chiesa, considerata non come una verità di diritto, ma come offerta, in pratica, di un eccellente «modus vivendi».

    Il liberalismo dei cattolici liberali sfugge a ogni classificazione, e ha una sola nota distintiva e caratterizzante, quella di una perfetta e assoluta incoerenza (pp. 55-63).

    a) Questa incoerenza è evidente nel termine stesso «cattolico liberale», dal momento che liberale implica «emancipazione», cattolico implica «sottomissione».

    b) E' non meno evidente nella opposizione che i suoi partigiani pongono tra principi e pratica (i principi, che pretendono di accettare, sono solamente regole pratiche d'azione, che rifiutano precisamente di ammettere). Lo stesso accade dell’opposizione tra convenienza di diritto e utilità di fatto, per esempio della collaborazione della Chiesa e dello Stato, di cui ammettono di diritto la convenienza e di cui negano di fatto l’utilità.

    Con l’incoerenza, si può dare come nota del cattolicesimo liberale la mania delle confusioni, per esempio tra tolleranza e approvazione.

    La prova di questa affermazione si può trarre anzitutto dal nome stesso di cattolico liberale. Il cattolico, infatti, professa che l’uomo è stato creato per questo fine: lodare il Signore, onorarlo, servirlo secondo la volontà divina, e così salvare la propria anima; che tutto in questo mondo non ha altra ragione d’essere che quella di aiutarlo a realizzare questo fine; che, di conseguenza, bisogna mettere da parte la prosperità della vita presente, se la si può ottenere, soltanto con la perdita della propria anima; bisogna fare della vita presente una preparazione della vita futura; bisogna subordinare i beni temporali ai beni eterni; bisogna, quindi, che il potere che presiede alle cose temporali sia sottomesso al potere superiore incaricato da Dio, con la promessa di un’assistenza perpetua, di procurare il fine eterno. Ora, il liberale è attaccato agli immortali principi del 1789, e il principio rivoluzionario per eccellenza, dice Louis Veuillot (cfr. Illusion libérale, par. 33), «è ciò che l’educazione rivoluzionaria dei conservatori del 1848 chiama la secolarizzazione della società; è ciò che la franchezza rivoluzionaria del Siècle, dei Solidaires e del signor Quinet, chiama brutalmente l’espulsione del principio teocratico; è la rottura con la Chiesa, con Gesù Cristo, con Dio, con ogni riconoscimento, con ogni ingerenza, e con ogni comparsa dell’idea di Dio nella società umana».

     Questa affermazione è confermata anche dall’esame delle ragioni addotte dai cattolici liberali.

      Costoro distinguono tra i principi astratti e la loro applicazione: riconoscono, certamente, l’unione e la subordinazione necessarie tra i poteri; ma, dicono, altro è l’oggetto della speculazione, altro quanto si realizza in concreto, così diverso dalle condizioni della teoria. In questo modo, pensano di avere soddisfatta la verità, relegandola nel mondo delle astrazioni. Ma questi principi, detti astratti, riguardano o no la morale, costituiscono la norma degli atti umani e la regola dell’operazione buona, cioè dell’operazione che, in una società umana, è diretta secondo le esigenze del fine? E, se sono norme pratiche, non è il massimo dell’incoerenza ammetterle senza volere che vengano applicate? Dal fatto che l’ordine concreto delle cose differisce dalle condizioni ideali della teoria, ne segue che le cose concrete non avranno mai la perfezione dell’ideale, ma non ne segue niente di più. Con il modo di argomentare dei cattolici liberali, si proverebbe ugualmente bene che i precetti relativi alle virtù devono restare sul terreno puramente speculativo, perché la condizione umana non li può realizzare perfettamente. Si potrebbe anche dimostrare che le scienze matematiche non possono e non devono assolutamente essere applicate alle arti, con il pretesto che il triangolo ideale, esatto, geometrico, non esiste in concreto, oppure perché la prova sperimentale contraddice sempre il rigore del calcolo.

    I liberali distinguono tra il diritto e il fatto, tra ciò che dovrebbe essere di diritto, e ciò che è, di fatto, utile alla Chiesa. A sentire loro, il regime dell’unione è sempre stato, di fatto, dannoso alla Chiesa. La Chiesa non ha mai avuto tanti mali quanto al tempo dei vescovi con il foro esterno, dei principi protettori, come attestano le lotte ininterrotte con gli imperatori di Bisanzio, con i Cesari germanici, con i re di Francia, d’Inghilterra, di Spagna: «La Chiesa perisce per gli appoggi illegittimi che si è voluta dare. E venuto il momento, per essa, di cambiare principi: i suoi figli gliene devono far sentire la necessità. Bisogna che rinunci a ogni potere coercitivo sulle coscienze. Più nessuna alleanza tra la Chiesa e lo Stato» (Louis Veuillot, Illusion libérale, par. 14). I1 rimedio sarebbe dunque soltanto la libertà. Ma, in primo luogo, se principi a priori enunciano un ordine istituito e stabilito da Dio, è impossibile che sia più utile per la Chiesa trascurarlo. In secondo luogo, gli inconvenienti che vengono segnalati provano solo che l’uomo, per la sua perversità, spesso corrompe le istituzioni divine, ma non che queste devono, per tale ragione, essere respinte e messe da parte. In terzo luogo, l’argomento storico pecca per omissione: si limita a elencare i mali del regime di unione, senza dire anche i beni enormi che la Chiesa ha ricavato dalla protezione dei principi. In quarto luogo, non dice nulla dei mali tanto gravi quanto numerosi che derivano normalmente dallo stato di separazione, come ne può testimoniare l’esperienza attuale. In quinto luogo, niente mostra meglio l’incoerenza dell’argomentazione dei cattolici liberali, della loro conclusione ultima, che propone il ricorso alla libertà: la libertà, pronta al male, predisposta alla irreligione, è la causa di ogni male, ed essa viene presentata come rimedio.

     I liberali riprendono: indubbiamente l’unione e la subordinazione dei poteri sono auspicabili in sé, ma sono ormai impossibili, poiché sono ripugnanti per lo spirito moderno, ed è inutile urtarlo; la prudenza, dunque, comanda di accettare il nuovo stato di cose, sia per impedire un male più grande, sia per ottenere i migliori effetti possibili. Ma a questo punto si palesa una incoerenza ancora maggiore delle precedenti, perché tende a spostare il problema. Il problema tra i liberali e noi, infatti, non sta nel sapere se, data la malizia del secolo, bisogna sopportare con pazienza quanto non dipende da noi, e lavorare, nello stesso tempo, per evitare mali maggiori e per fare tutto il bene che è ancora possibile fare; ma il problema è proprio se conviene approvare questa condizione sociale a cui porta il liberalismo, decantare i principi che sono il fondamento di questo stato di cose, promuoverli con la parola, la dottrina e le opere, così come fanno i cattolici detti liberali.

 

+ HENRI LE FLOCH, C. S..Sp.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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Padre Luis Billot, venne ordinato prete il 22 maggio 1869, entrò pochi mesi dopo nella Compagnia di Gesù. Filosofo e teologo tomista insigne, fu docente in diverse università ecclesiastiche e scuole della Compagnia di Gesù. Collaborò alla stesura dell'enciclica Pascendi di Pio X che condannava il modernismo.
Papa Pio X, in deroga alla prassi della Compagnia di Gesù che rifugge di norma da cariche istituzionali nella Chiesa (con pochissime eccezioni, fra le più recenti delle quali, per esempio, il cardinal Carlo Maria Martini e il cardinal Henri de Lubac), lo elevò al rango di cardinale nel Concistoro del 27 novembre 1911.

Criticò aspramente la condotta di papa Pio XI nei riguardi dell'Action française, un'associazione cattolica tradizionalista fondata da Charles Maurras e condannata dalla Santa Sede nel 1926 (condanna rimossa da papa Pio XII nel 1939).
 L'Action française pubblicò un articolo di critica nei confronti della Chiesa cattolica, e il cardinale Billot inviò un messaggio di adesione.
L'alto prelato fu convocato in Vaticano il 13 settembre 1927, e ricevuto in udienza dal Papa. Segretari e monsignori della Curia conoscevano bene il carattere irascibile di Pio XI e la tendenza a trattare anche i cardinali, se sbagliavano qualcosa, con molta severità e si aspettavano di udire grida e parole di fuoco, attraverso la porta dello studio papale, ma l'udienza al cardinale Louis Billot, che fu definito da san Pio X e dal venerabile Merry Del Val, Segretario di Pio X: "Billot, onore della Chiesa e della Francia"....  fu stranamente breve e silenziosa.
Pochi minuti dopo il suo ingresso, Billot uscì dalla sala senza zucchetto, anello e croce pettorale: aveva rinunciato alla dignità cardinalizia perché indignato dalla dura presa di posizione del Pontefice e della Segreteria di Stato contro l'Action française. Le sue dimissioni furono accettate il 21 successivo dal Papa.

Morì come semplice sacerdote gesuita il 18 dicembre 1931 all'età di 85 anni nei pressi di Roma.

Billot dimostrò davvero come si patisce per la Chiesa, Pio XI ne uscì male da questa storia...

Faccio notare come, dalla penna abile di Cristina Siccardi dedicata a spiegare la figura di mons. Lefebvre , racconti di quello stesso periodo di un'altra VITTIMA eccellente, forse poco conosciuta, padre Henri Le Floch, Rettore del Seminario francese a Roma di santa Chiara...
egli venne subito allontanato dal Seminario proprio a seguito della condanna di Action Francaise... LA BATTAGLIA FRA TRADIZIONALISTI E MODERNISTI ERA COMINCIATA... e aveva fatto le prime due vittime illustri...

Anche nel caso di Le Floch c'è stata propaganda assassina che fecero convincere Pio XI della mala fede di Le Floch....sia Billot che Le Floch furono presentati al Papa, DA EMISSARI DEL GOVERNO FRANCESE come dei sovversivi FASCISTI....
in realtà essi avevano intravisto la lunga mano della Massoneria e dei modernisti avanzare spudoratamente...
ma Pio XI preferiva i compromessi alla ferrea fedeltà alla Tradizione dei due fra i più illustri Sacerdoti del suo tempo....

Senza dubbio Billot, non poteva fare il cardinale ad un Papa che aveva preferito credere ai NEMICI DELLA CHIESA....
Molti Vescovi che non vogliono facilitare l'applicazione del Summorum Pontificum di Benedetto XVI... o che lo criticano per la Riforma Liturgica, o che non vogliono che nelle Parrocchie si torni a celebrare come "Cristo" comanda, attraverso appunto il Suo Vicario.... ecco, dovrebbero imitare il gesto di Billot.... e consegnare le proprie dimissioni....


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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IL “LIBERALISMO SOCIALE” DI CHARLES MAURRAS

liberalisno sociale di charles maurras

DON CURZIO NITOGLIA


27 dicembre 2009



“La prudenza in rapporto al bene comune si chiama politica”


(S. Tommaso d’Aquino)


***


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Introduzione

È uscito nel mese di aprile un interessante libro di Yves Chiron e Èmile Poulat, Pourquoi Pie XI a-t-il condamné l’Action Française? (Niherne, Èditions BCM, 2009), in cui gli autori dimostrano che la condanna fu essenzialmente religiosa e non diplomatica, in quanto Pio XI non poteva tollerare la secolarizzazione della politica che morale sociale è oggetto della dottrina cattolica. Infatti, molti autori, e specialmente i maurrassiani, hanno sostenuto che Pio XI per diplomazia internazionale filo-germanica ha voluto indebolire la Francia di Aristide Briand e la sua politica, condannando un forte movimento di riscossa nazionale anti-tedesca come l’Action Française.


●Yves Chiron cita a pagina 8 del libro suscritto l’abbé V.A. Berto (Une opinion sur l’Action Française, in “Itineraires”, aprile, 1986, p. 77-92; rist. Niherne, Edizioni BCM, 2009), il quale aveva sostenuto che la condanna era stata apportata “per motivi direttamente e specificatamente religiosi” e sempre l’abbé Berto commentava che “Pio XI giudicava inaccettabile una riduzione della filosofia politica a mera empiriologia con rapporti solamente estrinseci con la fede, la teologia, la morale cattolica in e in piena autonomia intrinseca” (p. 8 e 9). Lo Chiron fa notare che religione e politica (non partitica o azione diplomatica nazionale/internazionale) non sono separabili secondo la dottrina cattolica, la quale in ciò si distingue nettamente dal liberalismo, che propugna la piena separazione tra Chiesa e Stato (“libera Chiesa in libero Stato”), religione e politica. Onde la dottrina maurrassiana, paradossalmente, pecca di un certo naturalismo o liberalismo sociale e politico, pur essendo monarchica, antidemocratica e autoritaria. Di fronte a questa tendenza soprattutto di Maurras, poiché l’élite cattolica dell’Action Française, nata attorno al 1890, era stata falciata dalla prima grande guerra del ‘15-‘18, il Papa nel 1926 volle “unificare l’azione sociale dei laici cattolici francesi, sotto la direzione dottrinale dell’episcopato” (p. 13), per evitare una deriva naturalista e liberale, ossia di separazione tra temporale e spirituale della morale sociale.


● Émile Poulat dal canto suo spiega che l’Action Française era nata a partire dall’affaire Dreyfus (1894) e fu animata nel dopo guerra soprattutto da Maurras (p. 15), che era agnostico se non ateo. L’Autore fa un interessante parallelo (p. 16) tra:


1°)


a) l’approvazione del Sillon di Marc Sagnier da parte di S. Pio X nel 1903, che lo definiva “figlio amato”;


b) quella di Maurras nel 1913, definito da papa Sarto come “difensore della fede”/ e


2°) la critica (p. 23) nel 1910 del Sillon di Sagnier sempre da parte di Pio X, il quale nella lettera Notre charge Apostolique chiedeva a Sagnier di sciogliere il Sillon, che nel frattempo era sempre più scivolato verso una forma aperta di modernismo sociale, e di farlo confluire nell’Azione Cattolica francese, sotto la direzione dell’episcopato di Francia. Sagnier ha sciolto il suo Sillon e lo ha lasciato nelle mani dei vescovi.


3°)


a) La decisione di Pio X, nel 1914, di non condannare in atto l’Action Française pur condannabile in potenza (“damnabilis, sed non damnanda”)/ e


b) il passaggio dalla potenza all’atto, nel 1926, da parte di Pio XI, il quale però, a differenza di Pio X/Sagnier, non chiedeva a Maurras di sciogliere la Lega dell’Action Française, ma ha soltanto messo all’Indice (riprendendo il dossier del 1914 di S. Pio X) sette opere di Maurras, la sua rivista ed ha proibito di leggere il quotidiano L’Action Française. Là si svolse il dramma, secondo il Poulat, dacché i fedeli cattolici e maurrassiani, che si ostinarono a leggere il “quotidiano proibito”, furono trattati come peccatori pubblici, privati dei sacramenti e della sepoltura ecclesiastica (p. 24), data la loro pubblica rivolta contro il Papa e la Chiesa.


Poulat spiega anche che né Pio X nel 1914 (quando firmò il Decreto del S. Uffizio sull’Action Française, ma non volle promulgarlo subito, essendo la Francia in guerra contro la Germania), né tanto meno Pio XI nel 1926 “pensarono di chiedere a Maurras di sciogliere la Lega dell’Action Française che, a differenza del Sillon, non dipendeva direttamente dall’episcopato francese” (p. 40). Se ai ‘sillonisti’ Pio X aveva chiesto di sottomettersi ai vescovi e diventare un ramo dell’Azione Cattolica di Francia, ai cattolici discepoli di Maurras Pio XI chiedeva soltanto di rinunciare a leggere il quotidiano de l’Action Française (p. 41).


Il Poulat (che è il maggior conoscitore della storia dell’integralismo cattolico sotto il pontificato di S. Pio X) discerne molto bene il programma dottrinale di Pio XI, che - come Leone XIII, Pio X e Pio XII - voleva la riconquista cristiana della società e non poteva lasciarla nelle mani dell’agnosticismo teologico professato dal Maurras, il quale portava immancabilmente alla separazione tra religione e politica, Chiesa e Stato (p. 25). Mentre Pio XI voleva “tutto il Vangelo in tutta la vita individuale e sociale”. La Legislazione laicista e il pensiero maurrassiano avevano un “vizio in comune: il principio di separazione” tra religione e politica, invece la dottrina cattolica si fonda sul principio di unione e di subordinazione del temporale allo spirituale (p. 27). Sempre secondo il Poulat, solo quando l’Action Française rispose col “non possumus” all’ingiunzione papale, Pio XI reagì, come era nel suo carattere battagliero ed antiliberale in teoria ed in pratica, con forza estrema. Inoltre vi è un fattore caratteriale o di mentalità: «Le autorità romane ei capi dell’Action Française sono due mondi estranei l’uno all’altro. […] Con difetto di comunicazione, incapacità di intendersi e in completa asimmetria» (pp. 27-28 e 44). Infine non mancarono cattolici laici integrali francesi, che criticarono l’Action Française in nome dell’intransigenza e dell’integralismo cattolico o cattolicesimo integrale “ultramontano”, non solo privato ma anche pubblico, sociale o politico. Per esempio i maurrassiani, specialmente i capi, furono definiti “cattolici al di fuori o in pubblico, ma eretici al di dentro o in privato” (p. 38). In breve l’Action Française mostra tutta “l’anomalia di un movimento composto da una massa di cattolici, ma diretto da intellettuali atei” (ivi). D’altronde sarebbe erroneo confondere il cattolicesimo integrale o controrivoluzionario francese, nato nel XVIII secolo con il padre de Clorivière, e proseguito nel XIX-XX con dom Guéranger, il card. Pie, L. Veuillot, mons. Gaume, don Morel, p. Barruel, Cretineau-Joly, mons. Ernest Jouin, mons. Delassus e molti altri, che erano attenti agli insegnamenti del Magistero romano, cosa del tutto estranea a Maurras (pp. 48-49). Se alcuni di essi “stimavano Maurras come persona, pensavano senza Maurras come ideologo” (p. 46).


***


Maurras ha voluto separare nettamente la religione dalla polìtica, facendo della prima un qualcosa di privato e della seconda una scienza pubblica. Invece già con i primi Padri ecclesiastici e i Pontefici dell’epoca costantiniana, e poi, in maniera compiuta e sistematizzata, con la filosofia perenne, prevale la tendenza a subordinare la politica alla religione, cioè il ben vivere in comune (politica o etica sociale) deve avere come princìpi quegli stessi che regolano il ben vivere del singolo (etica individuale). Il fine ultimo dell’uomo non è la polis, la civitas terrena, ma Dio e la Città celeste. Con S. Tommaso (De regimine principis; Commento alla Politica di Aristotele) abbiamo una vera e propria filosofia politica allo stato perfetto, essa ha un valore subordinato e relativo della polis al Bene assoluto che è Dio e il Regno dei Cieli.


La vita sociale


L’uomo è composto di anima e di corpo. Essendo la sua anima razionale, egli è fatto per vivere a contatto con gli altri; non è un animale silvestre e solìvago. S. Tommaso spiega che “agli animali la natura ha dato i peli, i denti, le corna, la velocità per fuggire. L’uomo, invece, dalla natura non è stato formato con nessuno di questi mezzi già pronti; ma al posto di quelli gli è stata data la ragione, per mezzo della quale può procurarsi tutte queste difese. Ma per far ciò non basta il lavoro di un solo uomo, perché il singolo non basta a sé per vivere. Perciò è naturale all’uomo vivere in società [...] affinché uno aiuti l’altro, e diversi uomini siano occupati nella ricerca di cognizioni diverse” ([1]). La società civile è l’unione morale e stabile di più famiglie, che tendono al benessere comune temporale subordinato a quello spirituale. Essa nasce dalla necessità per l’uomo di conseguire il fine ultimo, che non potrebbe conseguire se vivesse isolato.


La scienza politica tomistica


“La virtù morale della prudenza applicata alla vita sociale si chiama politica” (S. Tommaso d’Aquino)


S. Tommaso insegna che “la prudenza non s’interessa soltanto del bene privato di un singolo uomo, ma anche del bene di tutta la collettività […], così la prudenza in rapporto al bene comune si chiama politica”[2]. La prudenza è una virtù cardinale che ci aiuta a scegliere i mezzi migliori per ottenere il bene comune, ossia vivere virtuosamente, subordinatamente all’ordine soprannaturale. Come si vede la politica non ha nulla a che fare con la partitica. Il cristiano e l’essere umano non può non fare politica, poiché è un animale sociale per natura e deve occuparsi non solo del suo proprio bene, ma anche di quello comune. In primo luogo perché il bene proprio non può sussistere senza il bene comune della famiglia (chi avesse una famiglia disastrata, condurrebbe una vita disgraziata o perlomeno molto difficile), e a maggior ragione della città e dello Stato (chi dovesse vivere in una città ove regna l’anarchia o la tirannia, avrebbe una vita dura davanti a sé), poiché la famiglia (che è una società imperfetta) non può fornire a tutti i suoi membri, tutto il necessario per vivere bene naturalmente (salute, scienza, sicurezza, moralità) ed ha bisogno di unirsi ad altre famiglie che così formano una città e poi varie città unite formeranno uno Stato (società perfetta nell’ordine temporale). In secondo luogo perché l’uomo, essendo una parte della famiglia e dello Stato, nel valutare il proprio bene grazie alla virtù di prudenza, deve farlo subordinatamente al bene della comunità, infatti “una parte che non armonizza col tutto è deforme” ([3]), un piede slogato, non sta bene lui e non fa sentir bene tutta la persona. Nello stabilire la gerarchia della prudenza pubblica, l’Angelico distingue specificatamente tra loro e mette al primo posto “la politica, che è ordinata al bene comune dello Stato, Poi l’economia, che si occupa del bene comune della casa o della famiglia e quindi all’ultimo posto la monastica che si occupa del bene di una singola persona” ([4]). Nel Commento alla Politica di Aristotele, s. Tommaso approfondisce la questione ed insegna che la politica è una scienza necessaria, poiché scienza della città in quanto oggetto di riflessione filosofica, finalizzata a dare un’organizzazione agli uomini. Essa è una scienza morale o pratica (conoscere per agire bene) e non una tecnica empirica (come sosteneva Maurras); anzi essa ha un ruolo architettonico nei confronti delle altre scienze morali, poiché la città rappresenta la realtà più importante di tutte quelle che la ragione umana è in grado di produrre, perciò essa occupa il primo posto tra tutte le scienze pratiche (come l’architetto e il capomastro dirigono tutti gli altri operai) ([5]). Indi l’Aquinate , seguendo lo Stagirita, distingue l’economia o amministrazione della famiglia (ricavare le ricchezze necessarie per mantenere convenientemente un focolare domestico, ove i mezzi sono ordinati al fine, la ricchezza alla tranquillità temporale), dalla crematistica-pecuniativa (o finanziaria-affaristica), che consiste nel produrre e nell’accumulare il massimo di ricchezza possibile, senza porre limiti alla libera iniziativa. S. Tommaso la condanna in quanto scambia i mezzi (le condanna in quanto scambia i mezzi (le ricchezze) per il fine (il bene). ([6]).


***


Gli errori di Maurras


“La politica non è la morale” (Charles Maurras)


In un interessante studio, diretto da Jacques Maritain ed intitolato Pourqoi Rome a parlé, due insigni teologi domenicani, padre M.V. Bernardot, e padre E. Lajeunie, hanno esposto, secondo la dottrina polìtica tomista, gli errori di Maurras, in queste pagine riassumo quanto detto magistralmente dai due domenicani e lo porgo alla riflessione del lettore: “il pensiero di Maurras è agnostico, a-cristiano, il suo romanticismo è pagano; la sua dottrina polìtica è naturalista. [...] Il suo agnosticismo razional-positivista lo conduce ad un ateismo pratico. Egli ignora Dio, quindi la sua filosofia è indipendente da Lui. [...]. Ogni idea dell’infinito deve essere eliminata dalla filosofia positivista, che studia solo i fenomeni finiti, limitati, concreti, sperimentabili; quindi l’ordine politico sarà anch’esso senza Dio. Bisogna organizzare il pensiero, la città, senza Dio [...]. Perciò nessun cattolico può restare fedele discepolo di Maurras [...]. Maurras scivola verso il laicismo pratico. La molla del laicismo è l’ateismo o agnosticismo; la sua concezione naturalista della Chiesa, come società d’ordine e non Regno dei Cieli sulla terra, lo porta necessariamente al laicismo, anche se come reazionario e monarchico è un ‘clericale’, ma non un cristiano. Allora - si domandano i padri domenicani - Dio è sì o no, per un cattolico, il fondamento della città, la regola dei costumi, il fine ultimo dell’uomo? Ora nella città maurrassiana Dio non esiste, è nulla. Quindi un cattolico non può essere nello stesso tempo buon cristiano e buon maurrassiano! Inoltre, Gesù Cristo è sì o no Re delle Nazioni? Ebbene nella città di Maurras Gesù non solo non è nulla, ma è un pericoloso sovversivo, un anarcoide che turberebbe l’ordine della Francia monarchica. Maurras rimpiazza Dio con la nazione. La salus animarum suprèma lex, non lo riguarda, è agnostico, non crede alla salvezza dell’anima, non crede in Dio; anche se esplicitamente cerca di non negarlo o farlo passare per “agnosticismo”, per non scioccare i conservatori e i benpensanti, anche cattolici, che ingrossano le fila dell’Action Française. Secondo Maurras il bene pubblico della Francia sarà procurato dal Positivismo comtiano e dal cattolicismo, il primo per gli incréduli il secondo per i credenti. [...]. Ma la Chiesa dice che questa alleanza tra credenti e incréduli è pericolosa! [...]. Altra spiacevole conseguenza è che la polìtica di Maurras è a-morale, essendo agnostica, non riconosce la legge di Dio e quindi la politica deve essere indipendente dalla morale. La conclusione dei due domenicani è che la polìtica di Maurras è in contraddizione con i principi della polìtica cristiana. L’errore fondamentale di Maurras consiste a voler realizzare, non solo un incontro accidentale, per alcuni fatti politici determinati, tra credenti e non credenti; ma Maurras voleva una vera unità sostanziale e spirituale tra gli uomini di Cristo-Dio e gli atei, come se per l’unità sostanziale e spirituale tra uomini credenti e non, Dio e Cristo non contassero nulla” ([7]). Maurras stesso ha scritto: “La politica non è la morale”[8]. Ora, questa non è la dottrina aristotelico-tomistica, ma è quella di Machiavelli. S. Tommaso, seguendo Aristotele, insegna che “la virtù morale della prudenza applicata alla vita sociale si chiama politica” (Commento alla Politica di Aristotele). Mentre Machiavelli ha scisso nettamente la politica dall’etica o morale, per farne lo strumento della ragion di stato e non un mezzo utile (o virtù morale) per cogliere il benessere comune sociale temporale, subordinato a quello soprannaturale (fine). Il cattolicesimo, quindi, è totalmente estraneo alla concezione politica di Maurras come lo è a quella machiavellica.


Gli errori dottrinali e morali dell’Action Française


Sempre nello stesso libro, a cura di J. Maritain, l’Abbé D. Lallement, dimostra gli errori del movimento di Maurras, vediamoli: “L’Action Française si difendeva dicendo che il pensiero personale, non cristiano, di alcuni suoi dirigenti, non influiva sul loro insegnamento politico [...]. La Chiesa ha giudicato diversamente. [...] La dottrina cristiana sul fine ultimo dell’uomo insegna che esso non è solo il benessere temporale, ma la Beatitudine soprannaturale, e solo la Rivelazione ci può dire quale è il cammino per giungere alla Visione Beatifica. La città non è servita se Dio non è il primo ad essere servito. [...] Per l’Action Française, il fine ultimo è ‘La patria innanzitutto’, l’interesse nazionale prende così il posto del bene comune temporale subordinato a quello soprannaturale, il quale ultimo non può neppure essere preso in considerazione da un agnostico positivista quale è Maurras. Ora tale errore della scuola dell’Action Française, non può non rappresentare un pericolo per la gioventù cattolica, che segue l’Action Française [...], il Papa quindi è dovuto intervenire, per il bene delle anime a Lui confidate, e non per calcoli politici anti-francesi e filo-tedeschi. […] Inoltre che dei cattolici e degli atei s’intendano su un certo numero di verità parziali e naturali, di semplice constatazione dei fatti è possibile; ma ciò che è impossibile è che costituiscano una scuola polìtica e che si uniscano in una dottrina polìtica comune [...] poiché una dottrina implica unità di princìpi da cui si tirano logicamente determinate conclusioni, ora l’unità di princìpi tra cattolici e incréduli non c’è, e omettere da una dottrina le verità supreme da cui tutto dipende (la distinzione tra Creatore e creatura, tra finito e infinito) significa falsare questa dottrina.


Natura e grazia secondo Maurras


La polìtica di Maurras, non rispetta la subordinazione di Ordine Naturale e Soprannaturale; non ammette l’obbedienza, che sarebbe un’ingiuria alla ragione; non concepisce la polìtica come etica e morale; essa è solo fenomenica e fisicista o natural-positivista. La grazia non distrugge la natura ma la compie e la perfeziona (S. Tommaso), anzi guarisce le ferite causatele dal peccato originale. La natura è per la grazia ed è subordinata ad essa ([9]). Ma la polìtica dell’Action Française, essendo positivista si fonda sul postulato che le leggi politiche sono leggi fisiche, studiate dal fisico e non dal filosofo o peggio dal teologo, e che non hanno nulla a che vedere con la morale e con Dio; per Roma questo è naturalismo politico, e come tale è stato condannato.


Conclusione


●Pio XI è secondo il Poulat “il Papa teologo che ha spinto all’estremo l’integralismo della regalità sociale di Cristo (enciclica Quas primas, 1925) di fronte al laicismo e al comunismo. La dottrina della enciclica di Pio XI sarà estesa in forma giuridica nel 1936 dal futuro card. Alfredo Ottavini nelle Insitutiones Iuris Publici Ecclesiastici” (p. 54). In breve Pio XI ha voluto applicare, come tutti i Papi sino a Pio XII, “il dogma e la morale individuale alla vita pubblica” (p. 59). Quindi il programma di Maurras della “autonomia della politica davanti all’integralità della religione” (p. 64) cozzava non solo contro la dottrina di Pio XI, ma contro il Diritto Pubblico Ecclesiastico della Chiesa,contenuto in nuce nel Vangelo e sviluppato dai Papi e dai Padri ecclesiastici da Costantino sino a Pio XII. Quindi il Poulat conclude giustamente che: “Per rapporto al Magistero di Pio XI, l’Action Française e il pensiero maurrasiano fanno la figura di una cultura straniera: una cultura antidemocratica, ma inscriventesi nella genealogia del liberalismo, poiché il suo primo principio riposa sulla dissociazione della politica dalla religione” (p. 67). Quando si parla di autonomia della sfera politica dalla dottrina della Chiesa, si è in pieno liberalismo (“libera Chiesa in libero Stato”), pur essendo antidemocratici, antiegualitari, autoritari e monarchicissimi.


I due Autori succitati hanno visto bene il peccato originale del maurrassismo: la secolarizzazione della politica, che è per Maurras solo fenomenica e fisicista o natural-positivista, un certo naturalismo sociale, empirista e comtiana, la separazione tra religione e politica (che essendo “prudenza sociale”, dipende direttamente dal dogma, in quanto la prudenza est auriga omnium virtutum).


Finalmente anche i cattolici francesi cominciano a capire che la salvezza della Francia non verrà da Maurras ma da Roma, come diceva p.Vallet.


D. Curzio Nitoglia




27 dicembre 2009


liberalisno sociale di charles maurras

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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